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E-book560 pagine6 ore

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Info su questo ebook

Lui è un attore giovane e tormentato, il nuovo idolo di Hollywood, una star divisa tra scandali e dipendenze, in perenne lotta con i suoi demoni.
Lei è una madre single, circondata da un mondo che non la protegge da tutte quelle riviste di gossip che le ricordano ogni giorno il volto di quel noto bad boy che le dà il tormento.
Un uomo e una donna, due esistenze agli antipodi. Ma non è sempre stato così. Un tempo, erano soltanto un ragazzo e una ragazza, uniti dalla passione per i fumetti, follemente innamorati l’uno dell’altra.
Quando Kennedy Garfield ha conosciuto Jonathan Cunningham, al liceo, sapeva che lui possedeva tutte le caratteristiche dell’eroe tragico.
Aveva le stelle negli occhi, lei il cuore tra le mani, insieme sono fuggiti per rincorrere i loro sogni.
Ma i sogni, a volte, si trasformano in incubi.
Adesso, anni dopo, l’unica cosa che hanno in comune è la loro figlia. Ma Jonathan vuole disperatamente fare ammenda e, in cima alla sua lista, ci sono la donna che ha abbandonato ogni cosa per lui e la bambina che non ha mai conosciuto.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ott 2022
ISBN9788855314633
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Autore

J.M. Darhower

J.M. Darhower lives in a tiny town in the Carolinas with her family.

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    Anteprima del libro

    Ghosted - J.M. Darhower

    PROLOGO

    Un anno prima

    Plin. Plin. Plin.

    La pioggia cadeva a raffiche sporadiche dal cielo coperto di nuvole: secchiate rapide di acqua seguite da momenti di nulla. Le previsioni del tempo sul canale sei avevano predetto una giornata di sole, ma la donna sapeva che si erano sbagliati. C’era una tempesta in arrivo. E non c’era modo di evitarla.

    Tum. Tum. Tum.

    Il suo cuore batteva freneticamente, il sangue le scorreva nelle vene, insieme a tanta di quell’adrenalina da farle aggrovigliare lo stomaco. Avrebbe dovuto essere preoccupata di sentirsi male e vomitare, se solo ci fosse rimasto qualcosa in lei, invece no… era svuotata. Seppellire sua madre l’aveva prosciugata di tutto. Questo, più di ogni altra cosa, era stato troppo da sopportare per lei.

    Bum. Bum. Bum.

    Kennedy Garfield se ne stava in piedi, sulla veranda della villetta bianca a due piani, e fissava il giardino, mentre un tuono rimbombava in lontananza. Un fulmine illuminò il cielo plumbeo pomeridiano, permettendole di avere una visuale più chiara di lui. Il suo visitatore non richiesto a meno di mezzo metro di distanza, vestito con un abito che costava molto di più di quanto lei guadagnasse in un anno. Eppure aveva ancora, in qualche modo, la capacità di apparire trasandato: la cravatta nera allentata intorno al collo, la camicia bianca inzuppata d’acqua e incollata alla pelle cerea.

    «Perché sei qui?» chiese lei, incapace di sopportare il suo silenzio o la sua improvvisa presenza. Tanto velocemente quanto era scoppiata la tempesta, altrettanto velocemente lei aveva bisogno che smettesse.

    «Lo sai perché sono qui» rispose lui, piano. Nonostante il tono dimesso, di sicuro aveva dovuto trovare un sacco di coraggio per presentarsi di persona. Anche in lontananza, lei poteva vedere che era ubriaco: aveva gli occhi iniettati di sangue e vitrei.

    «Non dovresti essere qui» disse lei. «Non ora. Non così.»

    Lui non replicò nulla per un momento lunghissimo, passandosi le dita tra i folti capelli biondi dalle punte arricciate per la pioggia. Era fradicio, sebbene piovesse ormai con meno intensità. Si chiese per quanto tempo fosse rimasto lì fuori prima che lei lo notasse. Prima che lei percepisse la sua presenza.

    Supponeva da un bel po’, considerate le condizioni in cui era.

    Biiip. Biiip. Biiip.

    Dal taxi giallo accostato al marciapiede rimbombò il suono del clacson, il tassista di mezza età stava diventando impaziente. Kennedy per poco non scoppiò a ridere. Immaginava che prendere un taxi fosse di sicuro al di sotto di quanto potesse permettersi ormai. Erano più al suo livello limousine e macchine a noleggio con autisti e guardie del corpo.

    O così aveva sentito, comunque.

    Lui si voltò per lanciare un’occhiata di rabbia malcelata al tassista, poi tornò a guardare lei. La sua espressione si addolcì nel momento in cui i loro occhi si incrociarono.

    «Mi dispiace» si scusò. «Ho saputo di tua madre e io… volevo esserci.»

    Crack. Crack. Crack.

    Era il rumore del suo cuore che si spezzava un’altra volta.

    «Non saresti dovuto venire» ribatté. Un’ondata di lacrime le pizzicava gli occhi, ma lei si rifiutava di lasciarne cadere anche una sola. Non mentre lui era lì. Non mentre la stava fissando. Erano passati un sacco di anni e lui aveva ancora quell’effetto su di lei. «Lo sapevi. Stai solo rendendo le cose molto più difficili.»

    «Lo so, ma...» Si fermò, gli occhi azzurri la imploravano. «Speravo di poter… cioè, mi chiedevo se sarebbe stato possibile…»

    «No» rispose, sapendo perfettamente cosa stesse per chiederle, ma era impossibile che accadesse. Non in quel momento e, di certo, non nello stato in cui era. Sapeva che non avrebbe neanche dovuto chiedere.

    «Ma...»

    «Ho detto no

    Sospirò, mentre il tassista suonava il clacson una seconda volta. Le rivolse uno sguardo guardingo e mosse un passo indietro, poi un altro, prima di voltarsi e andarsene senza nemmeno dire addio.

    Si erano detti così tanti addii da bastare per una vita intera.

    Thump. Thump. Thump.

    Kennedy si irrigidì, mentre i passi che riecheggiavano in casa, alle sue spalle, si facevano sempre più vicini, frettolosi, impazienti di arrivare da lei. La porta d’ingresso si spalancò e un piccolo essere umano apparve al suo fianco, ondeggiando nel suo vestitino nero vaporoso e con i suoi codini. Nonostante l’atmosfera cupa che circondava la bambina, lei era tutta fiocchi e raggi di sole, innocenza e felicità, e Kennedy avrebbe fatto qualsiasi cosa per fare in modo che restasse così. Non doveva conoscere altra desolazione. Era troppo piccola per sopportare un dolore del genere.

    Troppo piccola per avere il cuore spezzato da Jonathan Cunningham.

    «Chi era quello, mami?» chiese la bambina, osservando il taxi sparire nella tempesta. «Sono venuti per il nonno? Erano amici della nonnina?»

    «Non era nessuno di cui devi preoccuparti, tesoro» rispose Kennedy, abbassando lo sguardo su un paio di splendenti occhi azzurri – una caratteristica che la sua piccolina aveva ereditato da lui. «Quell’uomo si era perso, ma io gli ho indicato la strada.»

    CAPITOLO UNO

    Kennedy

    Il bip del lettore di codici a barre è monotono, un ronzio noioso che ormai sento a malapena e che oggi si confonde con Hold On di Wilson Phillips che risuona dagli altoparlanti. Sempre le stesse canzoni, un giorno sì e l’altro pure. Lo stesso costante segnale acustico. Lo stesso di tutto.

    Stessi clienti che entrano ed escono dal negozio, che comprano sempre le stesse cose già comprate in precedenza.

    La mia vita è diventata un loop infinito e prevedibile, una versione reale di Ricomincio da capo che io non ho alcuna intenzione di provare a cambiare. Sono la personificazione di un finale alternativo in cui Phil accetta di continuare ad ascoltare Sonny & Cher ogni mattina fino alla fine dei suoi giorni.

    Se mi aveste chiesto anni fa se questo sarebbe stato il mio futuro, sarei scoppiata a ridervi in faccia. Io? Kennedy Reagan Garfield? Ero destinata a grandi cose.

    Mi hanno chiamato con il nome di due Presidenti iconici. Mia madre, la liberale idealista, e mio padre, il rigido conservatore, non la pensavano allo stesso modo su niente… tranne che su di me. Non hanno mai concordato su assistenza sanitaria o tasse, ma erano entrambi convinti che la loro piccola bimba fuori programma sarebbe diventata qualcuno.

    Ed eccomi qui, qualcuno lo sono di sicuro: l’assistente manager nel supermercato Piggly Q Grocery in una cittadina sperduta e di passaggio da qualche parte a nord dello Stato di New York. Tredici dollari l’ora, quarantacinque ore a settimana, con un pacchetto di benefit tra cui vacanze (non pagate) incluse.

    Non per essere ingrata. Me la cavo meglio di molte persone. Riesco a pagare l’affitto ogni mese. Non mi hanno staccato l’elettricità. Ho anche la super-cara tv via cavo! Ma, nel profondo di me, so che non è questo il tipo di grandezza che i miei genitori avevano figurato per me.

    «Assistenza alla cassa tre!»

    La voce acuta e squillante riecheggia dagli altoparlanti, interrompendo la musica. Con lo sguardo controllo la zona della cassa, in attesa che risponda qualcun altro alla richiesta, ma non lo fa nessuno. Tocca sempre a me. Scuoto la testa e mi incammino verso la corsia tre, in direzione della giovane biondina, dietro il vecchio registratore di cassa, che sta battendo la spesa di una donna anziana.

    La cassiera, Bethany, mi guarda, sporgendo il labbro inferiore in modo melodrammatico, mentre mi agita una lattina di brodo di pollo davanti al viso. «Viene un dollaro e un quarto, ma la signora McKleski afferma che c’è scritto novantanove centesimi sullo scaffale.»

    Costa 1,25$. Ne sono certa. Anche la signora McKleski lo sa, probabilmente, e oggi vuole solo fare polemica. Tuttavia, sorrido e annullo l’operazione, dando alla donna il suo sconto.

    Mi allontano per lasciare che Bethany finisca di battere la spesa, mentre la signora McKleski domanda: «Come sta tuo padre?»

    Non ho bisogno di guardarla per sapere che sta parlando con me. Inizio a sistemare le caramelle nell’espositore accanto alla cassa. «Se la cava.»

    «Pensavo di preparargli una torta» annuncia. «Ce n’è una che preferisce? Torta di mele? Ciliegie? Pensavo a una torta di zucca, o magari una di noci pecan.»

    «Sono sicura che apprezzerà qualunque torta decida di preparagli,» rispondo «ma è più un tipo da torta al cioccolato.»

    «Cioccolato» mormora. «Avrei dovuto immaginarlo.»

    Alla radio adesso sta passando Stay di Lisa Loeb, ed è così che decreto chiusa la mia giornata. Mi dirigo verso l’ingresso del supermarket dove Marcus, il manager, si sta intrattenendo nell’ufficio ad angolo, dietro il desk del Servizio Clienti. Marcus è un uomo di colore, alto e magro, con capelli neri che iniziano a mostrare le prime tracce di grigio.

    «Vado a casa» gli comunico.

    «Adesso?» Controlla l’ora sul suo orologio. «È un po’ presto.»

    «Recupererò domani» riferisco, timbrando il cartellino.

    Marcus non protesta. Sa che di me si può fidare, motivo per cui mi ha fatto questa concessione.

    «In realtà, so come puoi recuperare» replica. «Ho bisogno che qualcuno copra un turno extra, se sei disposta a un doppio turno venerdì. Bethany mi ha chiesto la giornata libera, ma non c’è nessuno a sostituirla.»

    Vorrei rispondere di no, perché odio stare alla cassa, ma sono troppo gentile. Lo sappiamo entrambi.

    «Fammi un favore» dichiara. «Passa da Bethany, mentre esci, e dille che approvo la sua richiesta.»

    «Sarà fatto» rispondo, uscendo prima che possa chiedermi qualcos’altro. Percorro la corsia dei cereali e, mentre passo, afferro una scatola di Lucky Charms da uno scaffale. Bethany è in piedi vicino alla cassa e sta sfogliando una rivista che ha preso dallo stand accanto a lei.

    La guardo e alzo gli occhi al cielo.

    Hollywood Chronicles.

    La quintessenza del tabloid spazzatura.

    Appoggio i miei cereali sul nastro e tiro fuori un paio di dollari. Bethany chiude il giornale e lo posa sopra i sacchetti, poi mi batte il conto.

    «Marcus ha approvato la tua giornata libera» le riferisco.

    Strilla. «Davvero?»

    «Mi ha chiesto di dirtelo.»

    «Oh, mio Dio!» Infila i cereali in una busta di plastica. «Credevo che non ci fosse nessuno a coprire il mio turno.»

    «Sì, be’, lo straordinario può sempre farmi comodo.»

    Strilla di nuovo, gettandosi oltre il nastro, verso di me, per stritolarmi in un abbraccio. «Sei la migliore, Kennedy!»

    «Giorno speciale?» provo a indovinare, dopo essermi sottratta all’abbraccio. Le allungo il denaro, prima ancora che lei possa dirmi il totale del conto, con la speranza che prenda i soldi e non cerchi di abbracciarmi di nuovo. Alla radio sta passando Ironic di Alanis Morissette e se non esco subito di qui inizierò a dare di matto.

    «Sì… be’… una specie.» Arrossisce, mentre mi lancia un’occhiata. «È una cosa stupida, in realtà. Dovrebbero girare un film in città. Io e le mie amiche vorremmo farci un giro lì e magari, sai… vedere cosa riusciamo a vedere.»

    Le sorrido con dolcezza. «Non c’è niente di stupido in questo.»

    «Lo pensi davvero?»

    «Certo» rispondo. «Anche io sono stata su un set cinematografico una volta.»

    Lei spalanca gli occhi. «Sul serio? Tu

    Il modo in cui lo dice mi fa scoppiare a ridere, anche se, probabilmente, dovrei sentirmi offesa dal suo tono incredulo. Non sono mica una vecchia signora castigata. Non sono la signora McKleski. Ho solo un paio d’anni più di Bethany. «Sì, sul serio.»

    «Che film?»

    «Una di quelle commedie adolescenziali. I titoli sembrano sempre tutti uguali.»

    «Con chi era? Qualcuno che potrei conoscere?»

    Vuole sapere tutto. Lo capisco dall’espressione curiosa che le accende lo sguardo, ma io non ho alcuna intenzione di addentrarmi in quella storia, stasera. «È stato così tanto tempo fa che non me lo ricordo neanche.»

    Bethany conta il resto da darmi e, mentre prendo il mio sacchetto, lo sguardo mi cade sulla rivista che stava leggendo prima. Di colpo, ogni parte di me si paralizza, mi si gela il sangue, sento il freddo penetrarmi fin nelle ossa. Sulla copertina, fa bella mostra un viso che conosco. Anche con un cappellino nero, un paio di occhiali da sole scuri e il capo chino, è facilmente identificabile.

    Mi brucia lo stomaco, lo sento rivoltarsi e contorcersi e bleah, bleah, bleah

    È in piedi accanto a una donna dai capelli biondo platino. Mentre lui rifugge la fotocamera, lei fissa in modo aperto e diretto l’obiettivo, i suoi occhi verdi sono ben visibili nella foto. Il suo corpo da supermodella è coperto di pelle nera, e un rossetto rosso mette in risalto le labbra carnose. È molto abbronzata, come se vivesse perennemente su una spiaggia.

    Bleah, ho la nausea.

    Anche io devo riconoscere che è bellissima.

    Sotto la fotografia c’è un titolo bello grosso, scritto in grassetto:

    il matrimonio segreto di johnny e serena

    I miei occhi si soffermano su quelle parole.

    Penso che vomiterò.

    «Ci credi?» domanda Bethany.

    Sposto lo sguardo nel suo. «Credere cosa?»

    «Che Johnny Cunning e Serena Markson si sono sposati in segreto.»

    Non so cosa rispondere. Non so cosa credere. Non so nemmeno perché mi importi. Non so perché mi si è stretto il petto alla sola insinuazione che quel matrimonio potrebbe essere stato celebrato davvero, a un certo punto. Un matrimonio in cui lui era lo sposo, ma io non ero presente. Mi sento come una fangirl ossessionata e innamorata persa, convinta che il suo idolo debba essere solo suo, anche se non è così.

    «Credo che, quando c’è di mezzo Johnny Cunning, tutto sia possibile.»

    «Sì, hai ragione» replica Bethany, riprendendo in mano la rivista, mentre io mi incammino verso l’uscita. «Spero proprio di imbattermi in loro questo weekend.»

    Mi blocco sui miei passi. «Loro?»

    «Sì, il film che stanno girando? È il nuovo Breezeo

    Appena lo dice, succede qualcosa dentro di me, qualcosa che mi fa rimanere senza fiato. Wow. È una sensazione dirompente, che mi risucchia l’anima e che ha inizio nel profondo del mio petto, proprio dove di solito si trova il mio cuore. È riuscito a rintanarsi e, ora, si è segregato in una cassaforte di acciaio rinforzato, chiusa con un lucchetto e nascosta dove nessuno può raggiungerla senza il mio permesso. Il posto in cui prima batteva adesso è solo un buco nero che, dopo aver sentito quell’unica parola, prova a fagocitare ogni altra parte di me, a inghiottirmi.

    Breezeo.

    «Li fanno ancora?» chiedo, tentando di parlare con voce ferma. Anche io però riesco a sentire il mio cambio di tono. Patetica.

    «Certo!» Bethany scoppia a ridere. «Come fai a non saperlo? Pensavo fosse risaputo.»

    «Ho sentito solo notizie sporadiche qua e là» ammetto.

    Lei alza le braccia al cielo con fare melodrammatico, come se la mia fosse una risposta assurda. «Questa è… follia. Oh, mio Dio! Devi guardarli! Le storie sono fantastiche… così divertenti e così… non ci sono parole per descriverle! E Johnny Cunning… be’, quell’uomo è una delizia per gli occhi. Non sai cosa ti stai perdendo. Sono seria, devi per forza guardarli!»

    «Lo terrò a mente.»

    «Bene» commenta, sorridendo come se avesse vinto qualcosa. «Il primo film si intitola Transparent e il secondo è Shadow Dancer

    «E quello che stanno girando ora?»

    «Ghosted

    Distolgo lo sguardo, quando lo dice.

    «Be’, buona fortuna per questo weekend» mugugno. «Spero funzioni.»

    Bethany aggiunge qualcos’altro, ma non resto ad ascoltare. Prendo i miei Lucky Charms e mi precipito fuori, verso il parcheggio. L’asfalto è disseminato di pozzanghere, dal momento che ha piovuto tutto il giorno. Pare che piova sempre in occasioni come questa. Scanso le pozze d’acqua e mi dirigo alla mia auto.

    Casa di mio padre dista dal supermercato solo un paio di isolati. È una città piccolissima, è tutto a distanza di un paio di isolati soltanto. Entro con la mia vecchia Toyota nel suo vialetto e parcheggio, mentre sento uno stridore di freni per strada: il grosso pulmino giallo della scuola si è fermato davanti a casa. Tempismo perfetto. Lampeggiano le luci e si aprono le porte, poi un tornado di energia vola giù dal bus e corre verso di me. «Mammina!»

    Sorrido, mentre la guardo. Ha i capelli in disordine, anche se stamattina glieli ho raccolti in una treccia stretta e precisa. «Ehi, piccoletta.»

    Un metro e qualche centimetro d’altezza per diciotto chilogrammi di peso: perfettamente in media per una bambina di cinque anni, ma queste sono le uniche cose nella media di Maddie. È intelligente, dolce, creativa. Insiste per vestirsi da sola, il che significa che non c’è un capo coordinato con l’altro, ma lei fa in modo che il suo look funzioni. Non so come ci riesca.

    Tutto quello che faccio lo faccio per lei, qualsiasi cosa che serva a non farle mai perdere il sorriso, perché quel sorriso è la mia unica ragione di vita, il motivo per cui mi alzo al mattino. È quel sorriso che mi dice che me la sto cavando bene.

    In un mondo pieno di errori e passi falsi, è bello sapere che sto facendo qualcosa di buono.

    Mi avvolge le braccia intorno alla vita e mi stringe, mentre il pulmino si allontana. Sento la zanzariera della porta d’ingresso spalancarsi, mentre mio padre esce in veranda.

    «Nonno!» urla Maddie, eccitata, correndo da lui. «Ti ho fatto una cosa!»

    Si sfila lo zainetto, lasciandolo cadere sulle vecchie assi di legno, e ci scava dentro alla ricerca di un foglio di carta. Un disegno. Lei glielo passa e lui lo prende, con un’espressione seria sul viso. Si gratta il mento ispido e stringe gli occhi per studiarlo meglio. «Mmm…»

    Maddie è in piedi al centro della veranda, di fronte a lui, e ha gli occhi spalancati. Io trattengo una risata. Quante volte ho assistito a questa recita? Casa di mio padre è tappezzata di disegni di mia figlia. È la stessa scena, ogni santa volta. Lei aspetta con impazienza il suo giudizio, nervosa, e lui, come sempre, le dice che è il disegno più bello che lei abbia mai fatto e che lui abbia visto in vita sua.

    «Questo,» afferma, annuendo, «è il cucciolo più fantastico su cui mi sia mai capitato di posare gli occhi.»

    Maddie scoppia a ridere. «Non è un cucciolo!»

    «Ah, no?»

    «È una foca» chiarisce, abbassando il bordo superiore del foglio per dare un’occhiata. «Vedi? È tutta grigia e ha una palla!»

    «Oh, ma è quello che intendevo! Un cucciolo di foca è pur sempre un cucciolo.»

    «Nah.»

    «Sì, invece.»

    Maddie guarda me affinché faccia da arbitro. «Mammina?»

    «Sono chiamati cuccioli» confermo.

    Lei si volta di nuovo verso mio padre, sorridendo. «È un bel cucciolo?»

    «Il migliore» ribadisce.

    Lei lo abbraccia, poi si riprende il disegno e corre in casa per andare ad appenderlo.

    Io raggiungo mio padre in veranda. «Ti sei salvato in corner.»

    «Non me lo ricordare» esclama, scrutandomi per un momento. «Sei uscita prima, oggi.»

    «Sì, be’… era uno di quei giorni» replico. Uno di quei giorni in cui il passato ti ripiomba addosso. «Inoltre, ho un doppio turno domani, quindi mi sono meritata questa libertà oggi.»

    «Un doppio turno.» Sembra confuso. «Non avevi un impegno domani sera?»

    «Sì.» Mi fermo e mi correggo: «Be’, cioè, ce l’avevo.»

    Ho così poco tempo per la vita sociale che non l’avevo neanche tenuto in considerazione.

    «Ma un po’ di soldi in più potrebbero farmi comodo, e ne ho già dati in abbondanza alla babysitter» specifico, dando una pacca sulla spalla di mio padre. «Non mi sono potuta tirare indietro.»

    Scuotendo la testa, si siede sulla vecchia sedia a dondolo in veranda. Ha iniziato di nuovo a piovigginare, il cielo si è scurito. Mi appoggio alla balaustra e fisso l’orizzonte, mentre Maddie ritorna fuori e salta giù in giardino.

    Quella bambina ama gli acquazzoni.

    Non ricordo l’ultima volta in cui io ho giocato sotto la pioggia.

    Questo è quello che penso, mentre la osservo correre nel prato, lanciarsi nelle pozzanghere e pestare i piedi nel fango.

    Mi sono mai divertita così?

    Non me lo ricordo.

    Mi auguro che sia successo.

    «C’è qualcosa che ti tormenta» dichiara mio padre. «Si tratta di lui, non è vero?»

    Mi volto, mi appoggio di schiena alla ringhiera in legno, con le braccia incrociate al petto, e lo guardo. Si sta dondolando avanti e indietro e, accanto a lui, una sedia a dondolo identica alla sua è visibilmente vuota. Mia madre era solita sedersi lì ogni mattina a fargli compagnia, mentre bevevano il caffè prima che lui andasse al lavoro.

    L’abbiamo seppellita un anno fa.

    Sono passati dodici lunghi mesi, ma la ferita è ancora fresca, i ricordi di quel giorno ancora mi perseguitano. È stata anche l’ultima volta in cui l’ho visto, proprio qui su questa veranda. Se il titolo che ho intravisto prima è vero, ha avuto un anno piuttosto interessante.

    «Cosa ti fa pensare che sia qualcosa che abbia a che fare con lui?» domando, imponendomi di non avere reazioni, di far finta che non mi importi. Ma io non sono un’attrice.

    «Hai di nuovo quello sguardo» risponde mio padre. «Quello sguardo perso e vacuo. L’ho visto già altre volte, e lui c’entrava sempre.»

    «Che assurdità!»

    «Lo è davvero?»

    «Certo. Sto bene.»

    «Non ho detto che non stavi bene. Ho detto che sembravi sperduta, non che non conoscevi la strada.»

    Mi sta fissando con intensità. Non so se valga davvero la pena di continuare a mentire, dal momento che ho la verità scritta in faccia.

    E la verità è che mi sento persa.

    «Ho beccato un articolo su un giornale di gossip» ammetto. «C’era scritto che si è sposato.»

    «E tu ci credi?»

    Mi stringo nelle spalle. «Non lo so. Non ha poi così importanza, giusto? È la sua vita. Fa quello che vuole.»

    «Ma?»

    «Ma stanno girando un’altra volta a New York.»

    «E hai paura che si presenterà qui? Ti preoccupa che proverà di nuovo a vederla?»

    Mio padre indica un punto oltre le mie spalle, dove Maddie sta ancora correndo sotto la pioggia. Sorrido, con dolcezza, mentre lei continua a fare le sue piroette, ignara di essere l’argomento di conversazione.

    «Sei preoccupata che non lo farà?» continua. «Preoccupata che abbia rinunciato per sempre e sia andato avanti?»

    Forse, credo, ma non lo dico. Non so quale ipotesi tema di più. Sono terrorizzata all’idea che possa imporsi nella vita di Maddie e che, con la sua disperazione, le spezzi il cuore come in passato è successo con il mio. Allo stesso tempo, però, il pensiero che possa aver rinunciato a lei mi spaventa in egual modo, perché anche questa eventualità, un giorno, finirà comunque per ferirla.

    Mentre rimugino su questi pensieri, inizia a piovere con più forza. Maddie sta saltellando in cerchio intorno alle pozzanghere, ed è completamente fradicia. L’acqua le riga il volto come se avesse pianto, ma lei è felice, molto felice, e del tutto ignara delle mie paure.

    «Dovrei andare, ora» affermo. «Prima che il temporale peggiori ancora.»

    «Vai, allora,» ribatte mio padre «ma non credere che non abbia notato che non hai risposto alla mia domanda.»

    «Sì, be’, sai com’è» borbotto, chinandomi a dargli un bacio sulla guancia, prima di recuperare lo zainetto dal pavimento della veranda. «Maddie, è ora di andare a casa, tesoro!»

    Maddie raggiunge correndo la macchina e urla: «Ciao, nonno!»

    «Ciao, piccoletta» grida lui. «Ci vediamo domani.»

    Rivolgo un ultimo cenno di saluto a mio padre e la seguo. Si è già sistemata al suo posto quando salgo in auto.

    La controllo dallo specchietto retrovisore. Ciocche di capelli scuri le ricadono sul viso. Prova a soffiarle via, mentre i suoi occhi azzurri mi scrutano. Ha questo modo di guardarti che sembra ti stia scavando dentro, come se potesse vedere quello che provi realmente, tutte quelle emozioni che cerchi di non fare mai emergere. È snervante, a volte. Per essere così piccola, è molto intuitiva.

    Ed è questo il motivo per cui mi stampo in faccia un sorriso, anche se mi accorgo che non gliela do a bere.

    Casa nostra è un appartamento con due sole stanze da letto, a pochi isolati di distanza. Non è grande, ma per noi è più che sufficiente, ed è quanto posso permettermi, quindi non sentirete lamentele da parte mia. Apro la porta d’ingresso e Maddie schizza all’interno.

    «Dritta nella vasca da bagno!» urlo, chiudendo a chiave la porta alle mie spalle. Accendo le luci del corridoio e mi dirigo in bagno, passando davanti alla camera di Maddie. Lei sta frugando nella cassettiera in cerca del pigiama perfetto.

    È fieramente indipendente.

    Una qualità che ha preso da suo padre.

    «Sono pronta, sono pronta, sono pronta!» annuncia, precipitandosi in bagno, appena sente che ho aperto l’acqua. Infilandosi tra me e la vasca, afferra una bottiglia rosa di bagnoschiuma e la schiaccia sotto il rubinetto, ridacchiando quando iniziano a formarsi le bolle. «Ci penso io, mammina.»

    Muovo un passo indietro. «Ci pensi tu?»

    «A-ah» risponde, senza neanche guardarmi, concentrata sul compito di riempire la vasca. Appoggia il bagnoschiuma sul pavimento, accanto ai suoi piedi, poi chiude il rubinetto. «Ci penso io.»

    Come ho detto… indipendente.

    «Be’, okay, allora. Fa’ le tue cose.»

    Non chiudo la porta, ma le concedo un po’ di libertà, controllandola da fuori. Riesco a sentirla schizzare e giocare con l’acqua ancora un po’, come se la pioggia non fosse stata abbastanza. Io approfitto di questo momento per fare il bucato e cercare così di distrarmi, ma è inutile.

    La mia mente continua a tornare a lui.

    Impilo due settimane di vestiti sporchi sul pavimento della mia camera da letto. Ogni volta che mi fermo, lo sguardo corre al mio armadio, attratto dalla scatola vecchia e malmessa sulla mensola superiore. Non riesco a vederla da dove sono io, ma so che è lì.

    Non ci pensavo da un po’. Non ne avevo motivo. La vita ha i suoi modi per seppellire i ricordi.

    Nel mio caso, sono sepolti sotto una montagna di altre cianfrusaglie nell’armadio.

    Cerco di resistere, per un momento, ma il richiamo è troppo forte. Abbandono il bucato, punto dritta verso l’armadio e tiro giù la scatola.

    Appena la prendo, il cartone si rompe, aprendosi tra le mie mani. Il contenuto si sparpaglia sul pavimento. Una foto atterra ai miei piedi.

    La sollevo con attenzione.

    È lui.

    Ha addosso la sua uniforme scolastica… o quantomeno quel poco che decideva di indossare. Niente maglione né giacca e, ovvio, niente scarpe eleganti. La camicia è sbottonata e la cravatta gli penzola, sciolta, intorno al collo. Sotto la camicia, porta una T-shirt nera. Ha le mani in tasca e la testa piegata su una spalla. Sembra un modello, e la foto sembra venire fuori da una rivista.

    Mi si stringe un nodo nel petto. Mi manca l’aria. Riesco a sentire la rabbia e la tristezza crescere dentro me. Con il passare degli anni, sono diventate sempre più intense, sempre più profonde. Gli occhi mi si riempiono di lacrime e non vorrei piangere, ma vederlo mi ha riportata indietro.

    «Tutto fatto!»

    Sposto lo sguardo sulla porta, quando la vocina gioiosa riecheggia nella mia camera. Stringo forte la fotografia e la nascondo dietro la schiena. Si è infilata un pigiama rosso, ha le punte dei capelli bagnate e della schiuma intorno alle orecchie. La guancia destra è ancora sporca di fango.

    «Tutto fatto?» domando, sollevando le sopracciglia. «Ti sei lavata i capelli?»

    «No.»

    Ovviamente, no. Non ci riesce.

    «E che mi dici della faccia?» chiedo. «Inizio a pensare che tu abbia solo giocato con le bolle di sapone.»

    «E quindi? Dopo mi sporcherò ancora di più!»

    «E quindi?» esclamo inorridita. «Non puoi restare sporca. Domani hai scuola!»

    Lei si dimostra eccitata per la scuola tanto quanto me da piccola. Alza gli occhi al cielo e fa spallucce, come a dire: "E perché dovrebbe importarmene?"

    Prima di poter aggiungere qualcos’altro, la sua attenzione si sposta sulla confusione che c’è per terra e i suoi occhi si spalancano. «Breezeo!»

    Si lancia in avanti, afferrando il vecchio fumetto conservato in una custodia di plastica protettiva. Mi paralizzo. Non lo definirei vintage e non penso che valga più di qualche dollaro, ma non sono mai riuscita a separarmi da quel giornalino.

    Per me, ha un valore immenso.

    «Mammina, è Breezeo» esclama, con il viso acceso d’eccitazione. «Guarda!»

    «Lo vedo» ribatto, quando lei lo solleva per mostrarmelo.

    «Possiamo leggerlo? Per favore?»

    «Uh, certo» rispondo, allungando una delle mani che ho dietro la schiena verso di lei, per prendere il fumetto. «Prima, però, torna nella vasca.»

    Lei geme, facendo una smorfia.

    «Muoviti.» Con la testa, indico la porta. «Arrivo tra un minuto a lavarti i capelli.»

    Si volta e si trascina di nuovo fino al bagno. Aspetto finché non va via per posare il giornalino e smettere di nascondere la foto dietro la mia schiena. La guardo per un attimo e mi concedo il permesso di riprovare un’altra volta tutte quelle emozioni, poi la accartoccio e la getto sul pavimento, insieme al resto dei ricordi.

    Recupero il cellulare, scorro la rubrica e, mentre attraverso il corridoio, faccio partire una chiamata. Squilla un paio di volte, prima che scatti la segreteria.

    Sono Andrew. Non posso rispondere. Lasciate un messaggio e verrete richiamati.

    Bip.

    «Ehi, Drew. Sono io, ehm… Kennedy. Ascolta, devo disdire per domani. È capitato un imprevisto e, be’, sai com’è.»

    CAPITOLO DUE

    Jonathan

    La limousine rallenta man mano che si avvicina a Eighth Avenue, il traffico è intenso alle sette del mattino, subito dopo l’alba, mentre il mondo si dirige al lavoro. Venerdì. Sono certo che le deviazioni non aiutino le persone ad arrivare dove stanno andando, ma è New York, dovrebbero esserci abituati. Non c’è giorno in cui non accada qualcosa da queste parti. Sono il popolo con più capacità di adattamento sul pianeta, i newyorkesi, ma sono anche quelli più diretti e pragmatici. Non hanno tempo per le stronzate.

    E questa mattina sembra che ci siamo tutti dentro fino al collo.

    La gente è in fila per strada, mentre ci avviciniamo alle transenne di metallo. Forestieri, presumo, perché agli abitanti di New York non gliene frega un cazzo che venga girato un film nella loro città. Per loro, siamo più che altro un fastidio: blocchiamo le strade, chiudiamo interi isolati e intralciamo le loro vite. Da parte mia, non ho nulla a che fare con tutto questo, non scelgo io le location, mi limito a presentarmi all’orario che mi viene comunicato, ma più di una volta sono stato io a prendermene le colpe. Bastardo presuntuoso, chiudere mezza Midtown all’ora di punta, chi si crede di essere?

    «La notizia dev’essere trapelata» commenta una voce insolente dal sedile di fronte al mio. Impassibile come sempre. Clifford Caldwell, potente talent manager. Niente sembra scalfirlo. Credetemi, ho testato i suoi limiti, quindi posso affermarlo con certezza. Bene o male, l’importante è che se ne parli. Sta scrivendo qualcosa sul suo amato Blackberry, gli occhi incollati sullo schermo, ma so che sta parlando della folla che c’è per strada.

    «Credi?» borbotto, lanciando un’occhiata fuori dal finestrino, mentre avanziamo a passo di lumaca. Nonostante i vetri siano oscurati, impedendo a chiunque di poter vedere all’interno, tengo la testa china e un vecchio cappellino nero da baseball calcato sulla fronte, con la visiera ormai logora a schermarmi gli occhi.

    La produzione sta usando un nome falso per tenere lontano i curiosi, in modo che occhi indiscreti non spoilerino cose che possono vedere sul set, ma qualcuno deve aver fatto trapelare l’informazione, tanto che questa mattina, qui, si è presentata un sacco di gente.

    «Parlerò con loro per far aumentare la sicurezza intorno a te» dice Cliff. «Vediamo se riesco a organizzarmi con chi si occupa della location per cambiare un po’ i tuoi orari.»

    «Lascia stare» replico. «Tanto loro saranno sempre un passo avanti.»

    Cliff ride sotto i baffi. «Il tuo ottimismo è travolgente.»

    «Dillo a me» interviene una voce sinuosa dal posto accanto al mio. «C’è qualcosa in questo film che lo rende uno stronzo lunatico e scontroso.»

    Sposto lo sguardo su Serena, mentre lei si pettina con le mani i capelli appena tinti. Adesso sono castano scuro, invece del solito biondo. Doveva calarsi nel personaggio. Riesco a sentire i suoi occhi su di me, anche se indossa gli occhiali da sole. È un’occhiata ostile. Non le vado a genio, questa mattina. O tutte le mattine.

    Non è una persona mattiniera.

    Di fronte a lei, siede la sua assistente di lunga data, Amanda, che ci ignora completamente, mentre filtra le e-mail di Serena, come ogni giorno, per escludere qualsiasi messaggio che possa scatenare una scenata.

    «È la verità, Johnny?» domanda Cliff. «Perché, come tuo manager, voglio che tu sia felice e, come suo manager, è mio compito assicurarmi che la co-star della mia assistita non sia uno stronzo lunatico e scontroso.»

    «Sto bene» rispondo. «È stata solo una settimana pesante.»

    Una barricata di metallo viene spostata appena la limousine si avvicina e, superando una barriera di guardie di sicurezza, veniamo lasciati passare all’interno della zona transennata. C’è un po’ di trambusto fuori dall’area protetta e alcuni fan urlano, quando l’auto svolta in una via laterale. Nel momento in cui non siamo più visibili, la macchina si ferma, Cliff aiuta Serena a scendere, porgendole la mano, mentre io lascio che esca prima Amanda, poi abbandono la limousine.

    Serena non esita un minuto, passeggia fuori dal vicolo e si dirige dritta verso la folla con un sorriso finto sul viso. Ci sono altre urla, altri schiamazzi di fan impazziti.

    Non c’è più modo di nascondersi, adesso.

    Lascio tutto nelle sue mani. È la parte che ama con tutta se stessa, da cui trova compiacimento. Le luci della ribalta, i fan adoranti, i riflettori che la rimettono in pace con il mondo. Serena è sempre stata destinata a essere una star.

    Io? Io volevo essere un attore.

    Mi dirigo direttamente alla fila di roulotte sistemate lungo la parte posteriore del vicolo e che si aprono su un grosso magazzino. Oggi verranno girate molte scene in interno, insieme ad alcune riprese della strada, coordinate a una finta esplosione, almeno secondo quanto scritto sull’ordine del giorno che Cliff mi ha dato stamattina, prima di sparire… non so dove.

    I set sono sempre un casino.

    Sono accolto da un sorriso sincero nell’attimo esatto in cui metto piede nella prima roulotte. Trucco e Capelli. Jazz, con la sua pelle d’ebano e le labbra rosso fuoco è un piacere per gli occhi. Non è sempre facile trovare una faccia amica, a quest’ora, quando tutti sono concentrati su ciò che hanno da fare. Questa roulotte è la più trafficata, e una delle più grandi: ci sono una mezza dozzina di artisti seduti alle varie postazioni davanti agli specchi illuminati, ma io vado dritto da Jazz.

    «Ehi, superstar» mi saluta, dando un colpetto alla poltroncina davanti all’enorme specchio e facendomi così cenno di accomodarmi. «Sembra che oggi avrò il mio bel da fare.»

    «Come sempre» ribatto, mentre mi piazzo sulla sedia e mi tolgo il cappellino, passandomi le mani tra i capelli folti. È compito di Jazz farmi apparire al meglio, e non è sempre facile, soprattutto quando dormo di merda da una settimana e ho delle borse scure sotto gli occhi arrossati.

    Lei si mette al lavoro, operando le sue magie, mentre blatera qualcosa. Io la ascolto vagamente, la mia mente si sposta su pensieri molto più pericolosi che continuano ad assillarmi. Pensieri di una vita che avrei potuto avere, ma che, come un fottuto idiota, ho gettato via. Mi succede sempre quando capito a New York, c’è un richiamo magnetico che fatico a ignorare, ma a cui provo a resistere con tutto me stesso.

    Questa volta, però, è molto più difficile.

    Vengo ricatapultato nella realtà quando Jazz dice: «Allora, ho letto una cosa scandalosa l’altro giorno.»

    «Uno di quei libri hot con fruste e catene?»

    Scoppia a ridere. «Non questa volta. No, mi è capitata sottomano una copia di Hollywood Chronicles…»

    Appena lo dice, con un gemito, chiudo gli occhi, appoggio all’indietro la testa e mi copro il viso con entrambe le mani. Sto mandando a puttane qualsiasi progresso abbia fatto finora per ridarmi un aspetto nuovamente umano, ma preferirei staccarmi le palle e usarle per un numero da circo come una scimmia ammaestrata, piuttosto che riconoscere l’esistenza di quello schifo di rivista. È stata la rovina della mia vita per troppo tempo, tutte le innumerevoli volte in cui ha sbattuto la mia faccia in copertina.

    «Perché mi odi, Jazz?» mormoro. «Ti prego, non dirmi che getti via i tuoi soldi per quei coglioni.»

    «Cosa? Ma dai, ovvio che no» risponde con una risata, togliendomi le mani dal viso per tornare al lavoro. «Ho detto che mi è capitata sottomano, non che l’ho comprata. Ero in fila alla cassa del supermercato.»

    «Sì, be’, qualunque cosa ci fosse scritta, non voglio saperla.»

    «C’era scritto che tu e la signorina Markson vi siete sposati.»

    Gemo di nuovo. «Ti ho appena detto che non volevo saperlo.»

    «Be’, e io te l’ho riferito lo stesso» ribatte. «Quindi, che ne pensi?»

    «Penso che non dovresti sprecare le tue cellule cerebrali a leggere tabloid spazzatura. Faresti meglio a continuare con i romanzi erotici.»

    Lei mi lancia un’occhiataccia, ma lascia cadere l’argomento. So cosa vuole sapere. Fa delle piccole allusioni qua e là per cercare di farmi raccontare cosa c’è di nuovo nella mia vita e cos’è accaduto di interessante

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