Vennero a prendere ...
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Anteprima del libro
Vennero a prendere ... - Michele Gaeta
Prima di tutto vennero
a prendere gli zingari,
e fui contento,
perché rubacchiavano
1
Nel buio della stanza Louis Armstrong intonò What a wonderful world.
Ester con un colpo di reni si sedette sul letto, «Che cazzo è?».
Silvio rimase con la testa sul cuscino e, sorridendo, accarezzò la gamba della ragazza. «Non ti preoccupare è solo Louis Armstrong».
«Lo so bene che è quel fottuto di Louis, buonanima. Ma che ci fa qui a quest’ora?».
«È la mia sveglia. Suona alle sette ogni mattina e mi augura il buongiorno».
«Fanculo. Questa è la prima cosa che devi dire quando inviti una ragazza a passare la notte da te, qualcuna potrebbe restarci».
«Scusa, dai facciamo pace», e si allungò per darle un bacio sulla guancia, «vuoi un caffè?».
«Penso mi spetti, dopo questo spavento», e si risistemò sotto il piumone.
Andando in cucina Silvio accarezzò il termosifone del corridoio. Era un’azione che ripeteva ogni mattina per assicurarsi che si fosse acceso.
Non accese la luce perché gli piaceva l’effetto che la luce tenue della mattina produceva nella stanza. Non era una cucina molto grande, oltre ad una parete attrezzata e ad una credenza, un pezzo unico che aveva recuperato dalla casa di campagna della nonna, c’erano solo un tavolo e quattro sedie.
Più di quattro persone per volta non ci sarebbero potute stare, anche se era riuscito a trovare lo spazio per sistemare una poltroncina di fianco ad una piccola libreria che conteneva qualche libro di cucina e alcuni romanzi. Un piccolo televisore era appeso al muro in modo che potesse essere visto sia dal tavolo sia dalla poltrona.
Tutta la casa si sviluppava su sessanta metri quadrati, che per un single sono più che sufficienti e Silvio la amava molto perché rappresentava il suo accesso alla vita da adulto. L’aveva arredata con calma perché voleva potersi riconoscere in ogni suo angolo e per due anni si era guardato attorno senza la frenesia di voler completare l’opera per cercare qualcosa di cui non si sarebbe dovuto stancare troppo presto.
La camera da letto era rigorosamente bianca, appena si entrava sembrava una stanza vuota ma guardando meglio si potevano distinguere l’armadio creato in una nicchia della parete di fronte al letto, la cassettiera di fianco alla porta e al lato della finestra una piccola libreria in cui Silvio custodiva soprattutto libri di poesia. La finestra era senza tende perché gli piaceva guardare il cielo dal letto, e comunque nessuno poteva guardare dall’esterno perché l’appartamento era all’attico di un palazzo di sette piani, il più alto dei dintorni.
Nella stanza più grande aveva creato un salottino-studio, era riuscito a sistemare in un angolo un divanetto con delle poltrone un tavolinetto ed una piantana, nell’angolo opposto aveva montato una libreria che s’era fatto costruire da un artigiano nello stesso legno della scrivania che aveva sistemato in modo da tagliare l’angolo, non per guadagnare spazio ma perché alzando lo sguardo poteva guardare il terrazzino oltre la vetrata, accanto alla quale c’era un carrello con il televisore che poteva essere orientato opportunamente a seconda che fosse visto dalle poltrone o dalla scrivania.
Il terrazzino era il punto di forza di quella che, altrimenti, sarebbe stata una normale abitazione se non fosse stato possibile ammirare da un lato i tetti della città vecchia, fra i quali svettavano le cupole della cattedrale e della basilica, e dall’altro il lungomare con il porticciolo storico della città.
Fin dal primo momento aveva immaginato di arredare il terrazzino perché fosse un punto di riferimento dei suoi amici e la meta finale delle serate.
Il problema era che la vita sociale non era mai stata il suo punto forte perché negli anni del liceo l’obiettivo che si era posto era mantenere una media alta, e quello dell’università concludere nel più breve tempo possibile per conquistare la propria autonomia.
La conquistò due anni dopo il superamento del concorso a cattedra. Se fino a quel momento non aveva avuto il tempo di coltivare le amicizie, ora che di tempo ne aveva, non sapeva da dove iniziare. E quindi il terrazzo se lo godeva per lo più da solo.
E se con gli amici la questione era problematica, con le donne era addirittura preoccupante, perché non riusciva a conoscerne di nessun tipo, e anche le colleghe erano quasi tutte anziane o già sposate. Per questo era costretto a ripiegare verso le pubbliche mogli.
Era gennaio e dovette accontentarsi di guardare il panorama da dietro i vetri della cucina mentre il caffè bolliva. Apparecchiò con delle tovagliette e mise al centro del tavolo dei cestini contenenti vasetti di fette biscottate e confetture, frutta e brioches riscaldate nel microonde. Completò il tavolo con piatti di prosciutto e formaggio a fette.
Ester si affacciò con l’accappatoio di Silvio, non era tanto grande perché in fondo era poco più alto di lei, comunque le si apriva da tutte le parti facendo intravvedere il tanga ed il seno florido che distrasse il ragazzo, «Fa caldo qui».
«I termosifoni si accendono presto. Non sapendo con cosa fai colazione ho messo un po’ di tutto».
La ragazza guardò tutto quel bendidio, «Veramente io la mattina bevo solo un caffè, non riesco a prendere nient’altro. Comunque grazie, sei stato molto gentile e dolce. E non solo per la colazione, ma anche per la serata. È stato tutto molto bello, ma ora dovrei andare».
Il sorriso si spense sul volto di Silvio. «Ok, grazie, anch’io sono stato molto bene», ed andò in camera da letto mentre Ester mise due cucchiaini di zucchero nella tazzina.
Tornò aprendo il portafogli, «Allora, avevamo detto duecento euro?».
«Sì, duecento euro».
Ester si vestì ed andò via immediatamente. Scese le scale sperando di non incontrare nessuno e di passare inosservata visto che l’abbigliamento non avrebbe lasciato alcun dubbio circa la sua professione.
Rimasto solo, Silvio terminò la colazione e si fece una doccia.
Mentre strofinava i capelli con il cappuccio dell’accappatoio girò per le stanze per verificare che tutto fosse al proprio posto. Tornò in cucina, prese un cornetto alla crema ed andò a mangiarlo dietro i vetri. In questa stagione le grate di sostegno delle rampicanti potevano finalmente respirare, imprigionate solo da rami spogli che lasciavano intravvedere un cielo grigio ed uniforme.
2
Per raggiungere la scuola Silvio doveva percorrere a piedi qualche strada del centro. Quando non aveva fretta, come quella mattina, gli piaceva uscire un po’ prima e passeggiare come se avesse la mattinata libera. Si fermò davanti ad una boutique per controllare il prezzo di un giaccone che aveva puntato da tempo e che si era ripromesso di comprare appena fossero cominciati i saldi. Riflessi nella vetrina vide delle figure che lo accerchiavano. Si voltò giusto in tempo per bloccare dei piccoli zingari che, per richiamare la sua attenzione, stavano per tirargli la borsa.
«Ehi tu, tieni le mani a posto», gridò alla