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Quei sorrisi noir: Sesta raccolta di racconti in memoria di Marco Frilli
Quei sorrisi noir: Sesta raccolta di racconti in memoria di Marco Frilli
Quei sorrisi noir: Sesta raccolta di racconti in memoria di Marco Frilli
E-book346 pagine4 ore

Quei sorrisi noir: Sesta raccolta di racconti in memoria di Marco Frilli

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Info su questo ebook

Prefazione di Dario Vergassola

Raramente, nei noir, la malvagità o la follia che portano a compiere azioni deprecabili inducono all’ilarità. Ma non c’è umorismo come quello cinico, spietato nel virare al comico gli istinti peggiori dell’uomo, che proprio perché cinico riesce a divertire il lettore che, spiazzato, talvolta si riconosce nella bizzarria di certi personaggi o rivive situazioni paradossalmente veritiere. Ecco il tema di questa carrellata allegramente (ma non sempre) feroce: il contrasto tra i toni leggeri dei racconti e le spietate azioni dei protagonisti danno all’insieme una visione della vita che, sfiorando il disprezzo per le convenzioni e i principi morali, rappresenta con scientifica crudeltà il lato comico di comportamenti mostruosi: avete presente la scena dove, al cimitero, il Sassaroli (Adolfo Celi) prende di mira il giovane vedovo (Alessandro Haber)? La cattiveria cara a Mario Monicelli risulta esilarante nella sua ferocia. Nei cinquantasei racconti di questa antologia gli autori rilanciano ed esagerano portando personaggi o frangenti a conseguenze estreme e, tirando fuori idee malate frutto degli istinti di aggressività o sopravvivenza più bassi, spesso usano un’insolita comicità farcita da un’impudenza spesso inedita ai loro romanzi: la quantità di ironia con cui il delitto è pensato e promosso raggiunge punte di satira tra il doloroso e il necessario. La grandezza della raccolta è tutta qui: ciò che è anomalo e bizzarro, oltre a essere vitale, è anche divertente. L’intento è dimostrare che la normalità è noiosa, ma soprattutto non esiste. Per finire: a Marco, che fa capolino qua e là tra le righe, questo zibaldone sarà piaciuto? Sì, senza alcun dubbio: se tendete bene le orecchie sentirete l’eco della sua roca risata.
(il curatore Armando d’Amaro)

Gli autori: M. Ansaldo, M. Bellini, M. Bellucci, E. Bezzon, M. Biagini, M. Bonini, F. Borgio, R. Casazza, R. Castelli, M.L. Chieffo, A. d’Amaro; S. De Bastiani-D. Cambiaso, E. Delmiglio, D. Domenici, E. Esposito, M. Fagnoni, M. Fellegara, L. Ferrari, C. Forlani, M. Gatti, A. Grandicelli, D. Ippolito, F. Livoti, S. Lombardo, E. Luceri, V. Lusetti, A. Maccapani, G. Maimone, F. Marchetti, N. Marchetti, P. Marengo, A. Marenzana, M. Masella, R. Mistretta, M. Monaco, S. Monleone, G. Morozzi, R. Negro, I. Nicora, A. Novelli, A. Orrù, G. Ottonello, M. Paini, E. Prestinari, M. R. Pugliese, A. Reali-L. Malusà, N. Retteghieri, G. Rizzo, B. Squassino, M. Sommacampagna, G. Trebeschi, M.T. Valle, P. Varalli, N. Verde, L. Veroni, G. Villavecchia.
 
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2022
ISBN9788869436512
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    Anteprima del libro

    Quei sorrisi noir - a cura di Armando d'Amaro

    Massimo Ansaldo

    Rock & Roll evergreen

    La serata finale del concorso di ballo Rock&Roll evergreen, riservato agli over 70, era stata rinviata più volte e la causa da imputare alla natura stessa della competizione. Non si riusciva a stilare un elenco preciso dei partecipanti, alla segreteria dell’organizzazione arrivavano decine di certificati medici che indicavano come i concorrenti non fossero neppure in grado di ascoltarlo il rock&roll, pensare che potessero volteggiare con passi di danza sulle sue note era pura follia. Eppure tre coppie erano riuscite a mantenersi in salute almeno per varcare la soglia del locale notturno dove si svolgeva la finale. Si chiamava Il Miglio Verde e nessuno degli organizzatori era preoccupato che l’onore reso al racconto di Stephen King potesse offendere i gagliardi anzianotti in procinto di deliziare con inusitati volteggi acrobatici.

    Miglio verde a chi? Sfangherò ancora per molto… vi seppellirò tutti…, urlò Fernando, il primo che aveva supervisionato la sala delle prove.

    La sua compagna era Felicietta. Vederli ballare insieme era come assistere alla confutazione delle più elementari leggi della fisica applicate ai calcoli spazio temporali. Due rinoceronti che saltellavano sulle punte degli zoccoli, con una rapidità che toglieva il respiro, soprattutto a quelli che malauguratamente si trovavano nelle prime file del pubblico. Una strage era sempre in procinto di verificarsi se Felicietta avesse pestato il callo del pollicione destro di Fernando. L’equilibrio assiale tra i due sarebbe saltato e, dopo un volo planato, avrebbero spiaccicato le prime file di spettatori senza che i malcapitati potessero rendersi conto di quanto stesse accadendo. Avrebbero trovato solo paia di occhi strabuzzati dal terrore, orfani dei corpi.

    Le altre due coppie non erano certo meno appariscenti.

    Quella composta da Luigi e Rina, avresti potuto confonderla con una coppia di manici di scopa che si muovevano in perfetta sincronia.

    Nel senso che sembrava veramente possibile che entrambi avessero ingoiato i manici, perché erano rigidi come bastoncini di merluzzo appena usciti dal surgelatore.

    Ma accadeva sempre un miracolo appena le note musicali cominciavano a saturare la sala.

    Luigi e Rina articolavano braccia e gambe come se non fossero attaccate ai manici di scopa. Il tronco rimaneva rigido, mentre gli arti si dimenavano, coordinandosi in maniera eccezionale. E le espressioni dei volti rimanevano immobili, come le facce tristi di cartapesta di un Carnevale ormai in disarmo.

    L’ultima coppia finalista presente sembrava capitata lì per caso. Michele e Rosetta si erano iscritti per ultimi, nessuno li conosceva, nessuno sapeva da dove fossero venuti, non avevano aperto bocca e fissavano le luci stroboscopiche come fossero attratti da ciondoli per l’ipnosi. Nessuno conosceva le loro capacità tecniche. Erano stati accettati sulla fiducia, anche perché senza di loro non si sarebbe disputata la finale: il numero minimo previsto dal regolamento era di almeno tre coppie.

    Il barista era anche l’organizzatore del concorso, aveva da tempo rinunciato a indossare occhiali con lenti a fondo di bottiglia, non avrebbe distinto la mano destra da quella sinistra neppure con un telescopio della Nasa. Lo chiamavano Vedotutto, nel senso che potevi star certo del contrario, a ottant’anni era famoso per i suoi cocktail al buio. Non potendo vedere che cosa miscelasse, il brivido dei clienti era quello di bere intrugli improbabili e quasi sempre indigesti. Ma la moda era la moda e su questo handicap Vedotutto aveva fondato la fortuna del Miglio Verde.

    Per la finale era stato ingaggiato il complesso degli Arzilli Forever, specializzati in pezzi rock&roll adatti alla categoria dei ballerini iscritti alla finale. Brani semplici e di immediata ricezione per orecchie malandate e compromesse, potenziate da apparecchi acustici quasi sempre scarichi o difettosi.

    Johnny Slowhand era il leader. Chitarrista con i fiocchi negli anni Settanta doveva il soprannome all’amore sviscerato che ancora nutriva per Eric Clapton.

    Cominciamo! Signore e Signori diamo inizio alla gara, la giuria è il pubblico presente in sala e pazienza che siete solo una decina, voterete al termine delle prove. Vai Johnny facci sognare con la tua chitarra!. Vedotutto aveva parlato dal bancone del bar, sarebbe stato troppo difficile raggiungere il palco senza inciamparsi e rovinare su qualche ottuagenaria intenta a sferruzzare con l’uncinetto.

    Il primo pezzo era You can never can tell di Chuck Berry, ballata nel film Pulp Fiction da Travolta e la Thurman.

    Era logico pensare che i paragoni fossero impietosi. Fernando e Felicietta si infilarono le dita negli occhi per imitare le movenze delle due star, mentre Luigi e Rina non erano riusciti a reggere il peso sulle punte delle dita dei piedi ed erano affondati pesantemente sui talloni. Solo la coppia sconosciuta abbozzava qualche passo accettabile.

    Mentre suonava, Johnny si era perso dentro la nostalgia che gli procuravano i riff di chitarra e ricordava i tempi in cui le ragazze, appena attaccava il pezzo, riversavano eccitate sul palco i propri reggiseni. Negli ultimi tempi, invece, con le uscite che era obbligato a fare per sbarcare il lunario temeva che, prima o poi, lo seppellissero di pannoloni e dentiere.

    Il pezzo stava per finire quando, all’improvviso, le luci in sala si spensero, lasciando il locale nel buio più assoluto.

    Vedotutto armeggiò, per alcuni minuti, nel pannello degli interruttori e riattivò la luce.

    La scena che si presentava sulla pedana da ballo era terribile. Uno dei sei ballerini era riverso per terra, gli occhi sbarrati, la lingua di traverso e un sottile segno rosso gli disegnava il collo da parte a parte.

    Era di Fernando il corpo a terra e Felicietta, dopo un attimo di smarrimento, aveva cominciato a tremolare tutta con la carne in sovrappeso che sbudellava dal vestito esageratamente aderente. In sala si percepì il terrore che potesse scoppiare da un momento all’altro, imprigionando i presenti dentro un buco nero di calorie in eccesso.

    Che succede?. Urlò Vedotutto.

    Qualcuno gli spiegò che cosa avrebbe potuto vedere, ascoltava con un padiglione auricolare infilato dentro una mano a coppa e annuiva.

    Che nessuno esca dalla sala! Portatemi sulla pista….

    Alcuni spettatori avevano provato a soccorrere Fernando, ma le condizioni sembravano disperate.

    Vedotutto cominciò a tastare il corpo e quando passò le mani intorno al collo sentì sotto le dita qualcosa di sottile e metallico.

    Che cos’è? Lo so! È una corda di chitarra… non vorrei sbagliare ma… è un Mi cantino… la corda più sottile… hanno provato a strangolarlo!.

    Tutti i presenti lanciarono una invocazione carica di spavento, sembravano un coro di voci bianche, che di bianco aveva solo i pochi capelli rimasti sulla testa dei coristi.

    Quante chitarre ci sono in sala?. Chiese Vedotutto, ormai lanciatosi a capofitto nella nuova carriera di investigatore ipovedente.

    Una sola!. Rispose Luigi, certo che nessuno lo avrebbe accusato di nascondere una chitarra nello stomaco.

    È la mia… e allora?.

    Tutti si voltarono verso Johnny Slowhand. Molte delle anziane presenti ridacchiavano tra loro maliziose. Non aveva perso fascino il loro Johnny, il passare del tempo non aveva intaccato quel sex appeal che le aveva portate a trastullarsi in pensieri erotici proibiti una volta tornate nelle loro camerette di adolescenti, dopo i concerti.

    Non penserete mica… e poi stavo suonando quando è saltata la luce, come avrei potuto togliere il mi cantino, scendere dal palco, aggredirlo, tornare su e sostituire la corda? Vedete, il Mi cantino è al suo posto….

    Vedotutto era ormai decollato, si sentiva Marlowe o Maigret, e uno valeva l’altro.

    Mi dispiace Johnny, ma devo confutare la tua tesi. Hai detto che suonavi quando è saltata la luce. Vero, il generatore della sala è autonomo rispetto alla alimentazione degli amplificatori… ma dimmi, hai sempre quel vizietto che da giovane ti ha salvato da rovinose brutte figure? Registrare i pezzi di chitarra più insidiosi per mandarli in play back? La chitarra suonava e tu avresti potuto… vuoi che continui? Fammi vedere le corde di riserva, non dirmi che non ne hai… scommetto che manca un Mi cantino.

    Johnny Slowhand in un attimo aveva perso fascino e sex appeal, gli erano rimasti la corporatura floscia e le spalle ingobbite.

    Ti ho riconosciuta! Appena sei entrata…. Tutti i presenti avevano guardato Felicietta, assorbita dallo sguardo di Johnny. Ricordi quel concerto quando sono stato sommerso dai reggiseni che le ragazze lanciavano sul palco? Nella concitazione ho incrociato il tuo sguardo. Guarda, ho ancora il tuo reggiseno…. Le ottuagenarie cominciarono a piagnucolare dalla commozione, ormai si aspettavano fuochi d’artificio, altro che serie televisive melense. Non ho potuto sopportare che ti accompagnassi con quel lardone flaccido e puzzolente… e allora ho deciso che solo io potevo averti, finalmente!.

    Senti chi parla! Lardone e puzzolente sarai tu!.

    Dal pavimento erano giunti lamenti e gorgoglii quasi incomprensibili.

    Fernando era vivo e vegeto, malconcio, ma in grado di alzarsi. Si stava preparando un duello all’ultimo sangue e il premio sarebbero stati gli incalcolabili chili di grasso di Felicietta che, commossa all’inverosimile, non era in grado di scegliere il suo cavaliere.

    Iniziò la zuffa, l’arbitro era Vedotutto. Un bel match…

    Michela Bellini

    Non c’è niente da ridere

    La risata risuonò sinistra nella notte. La vittima giaceva ai suoi piedi senza vita in una pozza fangosa. Neanche una goccia di sangue. Bellissimo nella morte, il suo viso bianco e pulito. Peccato, una vita sprecata così. Non avrà avuto neanche vent’anni il ragazzo.

    Doveva andarsene, qualcuno si era svegliato, luci si accendevano alle finestre. Prima però era necessario comporre il corpo, lo faceva sempre. Rapido lo dispose sulla schiena, con le mani giunte sul petto, le gambe rigorosamente parallele, gli ravviò i capelli con le dita. Fece un passo indietro per osservare la scena, attento a non uscire dal cono d’ombra inaccessibile alle telecamere dei negozi: poteva andare. Gli fece una foto per il suo archivio. A lui piacevano i lavori puliti, morte rapida e niente spargimento di sangue. Le iniezioni letali erano l’ideale. Rubava l’occorrente nell’infermeria del centro d’accoglienza dove lavorava: era facile. Rise ancora, forte! Nel silenzio delle prime ore del mattino, i suoi sghignazzi violenti e rauchi squarciavano il buio con fragore. Non poteva farci niente, erano irrefrenabili. Gli succedeva tutte le volte.

    Raccolse la siringa usata e affrettò il passo, stringendosi nel piumino. Aveva freddo. E fame.

    Arrivato a casa si lavò subito le mani con cura e mise gli abiti in lavatrice. Quando decideva di operare, indossava sempre una tuta sportiva scura, ma non nera, blu. Il nero non gli piaceva mentre il blu scuro era bellissimo, gli ricordava la notte. In pigiama si fece un panino con burro, acciuga e bevve un bicchiere di vino, poi filò a letto. Si sentiva stremato, gli succedeva ogni volta, chissà perché. Di lì a poco dormiva, soddisfatto.

    Il giorno dopo, come sempre, era al centro d’accoglienza della chiesa di Santa Marta, da anni riferimento per i poveri e gli immigrati, che al Giambellino non mancavano di certo. Molti si fermavano per poco e poi sparivano, spesso diretti in altri paesi più ricchi, altri trovavano una sistemazione di qualche tipo e rimanevano. Non tornavano spesso alla chiesa, quelli che si ripresentavano sempre erano i minori non accompagnati, che in Luigi trovavano un amico e una guida. Lui era il direttore, il lavoro gli piaceva, anche se provava una pena immensa per i ragazzini. Vederli così disorientati e soli gli faceva male, una sofferenza profonda, che si acuiva quando incontrava giovani benestanti, ordinati e puliti, con l’aria spavalda di chi si sente padrone del mondo e della propria vita. Ecco, gli arroganti, quelli proprio non li sopportava, lo facevano infuriare e non aveva nessuna pietà. Ragazzi fortunati che avevano tutto, ma sputavano su tutto. Gli ricordavano quei suoi compagni che lo avevano preso di mira da piccolo, che pensavano di essere migliori solo perché abitavano all’inizio di via Lorenteggio, nei palazzi belli. La situazione non era cambiata da allora, c’erano sempre i borghesi ben vestiti, che frequentavano i luoghi della movida e gli altri, quelli del Giambellino, quelli come lui. Era per questo che ogni tanto, sempre di venerdì, Luigi lasciava il suo quartiere diretto a quelli del divertimento: lì sceglieva le sue vittime. Quando le vedeva morire, gli piaceva guardarle negli occhi: in quel momento perdevano la loro aria sicura e sembravano ritornare bambini, innocenti. Ma era un attimo, poi il loro sguardo si spegneva per sempre. Dopo si sentiva meglio, sapeva di aver fatto qualcosa per rendere il mondo migliore, più giusto.

    Di solito lasciava passare più tempo possibile tra un’esecuzione e l’altra, ma adesso dall’ultima non era trascorso nemmeno un mese e l’impulso era già forte.

    Al centro era arrivato da poco Nabil, un ragazzo marocchino magro e solitario, con gli occhi pieni di paura. Luigi sapeva che non doveva affezionarsi a quei ragazzi, ma quello era diverso e lui non poteva farci niente. Gentile e disponibile, sempre ordinato e vestito al meglio, anche con gli abiti usati che gli davano. Un giorno l’aveva sorpreso a fissare una felpa in una vetrina così intensamente che gliel’aveva regalata. Era stato bello vederlo felice per un istante!

    Il ragazzo gli aveva raccontato la sua storia, uguale a quella di tanti altri che erano passati di lì, ma Nabil aveva una dignità – anche nel descrivere gli episodi peggiori – sorprendente in una persona così giovane. Le sue sofferenze lo avevano colpito al cuore. L’avrebbe vendicato, era giusto così, era necessario.

    Aveva deciso per il venerdì successivo. Come al solito sarebbe andato nei quartieri alla moda, che pullulavano di ragazzi benestanti convinti di avere il mondo ai piedi e, di nuovo, ne avrebbe condannato uno.

    Questa volta voleva cambiare zona, l’episodio precedente era troppo vicino e Luigi temeva che qualcuno li collegasse.

    In qualche modo il mercoledì e il giovedì passarono, mentre l’urgenza di entrare in azione gli rovinava le giornate e anche i momenti con Nabil. Temeva di tradirsi, era un fascio di nervi.

    Arrivata la sera stabilita si cambiò, indossò la rituale tuta blu scuro, il piumino e si diresse verso Porta Venezia. Quella che anni fa chiamavano la Casbah, dietro piazza Oberdan, passando per via Tadino e via Lecco, ora era piena di locali dove impazzava la movida milanese. Gli immigrati in realtà c’erano ancora e non erano neanche pochi, ma si mescolavano ai ragazzi che andavano lì a divertirsi.

    Era la prima volta che cacciava in quella zona, che pure conosceva benissimo. Si guardò intorno soddisfatto: i vicoli pieni di gente erano il luogo ideale per passare inosservati. Girò un po’, poi si fermò vicino a un portone e si appoggiò al muro. Osservava la gente, in cerca del tipo adatto. Il momento della scelta era il più eccitante. Individuò un giovane a un tavolo: aveva l’aria da figlio di papà, abbronzato e sicuro di sé. Spiccava in mezzo agli altri per il giaccone di marca di un insolito color senape. Il candidato ideale: decise che andava bene. In quel momento il ragazzo si alzò ed entrò nel locale. Luigi, seccato, si dispose a cercare un’altra preda. Ma, dopo qualche minuto, con la coda dell’occhio notò il senape del giaccone: il giovane era uscito dal bar e si dirigeva a passo svelto verso via Lecco. D’impulso lo seguì. Quello si passò una mano tra i riccioli scuri e affrettò il passo.

    Improvvisamente si sentì gente che urlava. È lui, è lui!, e ancora: Prendiamolo!. Il ragazzo s’infilò in un vicoletto buio e stretto. E Luigi dietro. La preda se ne accorse e cominciò a correre. Continuò senza voltarsi. Luigi perdeva terreno, si girò rapido e vide che non c’era nessuno. Avrebbe fatto meglio a desistere, le voci si avvicinavano, ma detestava mollare un lavoro a metà. Era eccitato, non poteva lasciar perdere ora! Accelerò, cercando di raggiungere la sua vittima, ma l’altro era veloce. Sentì ancora le voci: È andato di lì, no a destra!.

    Luigi era quasi senza fiato. In quel momento il ragazzo inciampò e rovinò a terra. Subito Luigi gli fu sopra e gli conficcò la siringa nel collo. Finalmente!

    Il giovane si afflosciò come un sacco vuoto. Luigi lo rigirò per cogliere nei suoi occhi l’attimo della morte, ma sbiancò e cadde sulle ginocchia mentre scopriva lo sguardo già vuoto di Nabil!

    Paralizzato, fissava il suo bel viso ambrato che spiccava sul giaccone elegante. Maledisse la sua passione per i bei vestiti. D’impulso lo scosse, ma sapeva che era inutile.

    Disperato, si rialzò e compose il corpo nella posa rituale. Stava per scattare la solita foto, quando sentì di nuovo gente urlare in lontananza: Ladro! Il mio giaccone! Ridammi il giaccone!.

    Si girò e si allontanò in silenzio. Stavolta non c’era proprio niente da ridere.

    Maria Bellucci

    Esci dall’uscio

    Ogni mattina Astolfo si guardava nello specchio del vecchio armadio e vedeva la sua figura gracile, un metro e settanta di ossa che si muovevano in maniera disorganizzata e una montagna di capelli rossi e ricci che non riusciva a controllare in nessun modo.

    E ogni mattina sentiva la voce di sua madre incalzarlo: Esci dall’uscio! È tardi, arriverai di nuovo in ritardo al lavoro: prima o poi ti cacceranno!.

    Era sempre così: le urla della madre e lui che si trascinava con quell’aria indolente verso l’officina dove si occupava degli ingranaggi per gli orologi da campanile.

    Era stanco della solita routine: vivere a Uscio, lavorare e sognare il mare; quella sera aveva deciso di fare un giro a Genova. Aveva voglia di fare qualcosa di esaltante.

    Dopo il turno avrebbe passato la notte in città, in giro tra i caruggi e il porto; gli piaceva l’aria che vi si respirava, gli odori della gente e le voci che provenivano da ogni dove, mescolando bestemmie a grasse risate dietro le puttane che cercavano di fare giornata.

    Il turno sembrava non finire e mentre fresava gli ingranaggi e limava le piccole sbavature pregustava il dopo.

    Si era portato dietro il suo coltello, non si sa mai cosa può capitarti quando giri da solo di notte. La sera era calata senza far troppo rumore e Astolfo, dopo aver mangiato di fretta in un’osteria, si era incamminato verso i moli; respirava foschia e buio e non vedeva l’ora d’incontrare una donna, aveva voglia di fare sesso.

    Se la immaginava dai lunghi capelli neri, gli occhi tondi e una bocca grande che incuteva timore perché poteva inghiottirti in un sol colpo; una sorta di puledra pronta a essere domata.

    E, all’improvviso, gli comparve davanti… non credeva ai suoi occhi, esattamente come l’aveva desiderata: un corpetto stretto dal quale si intravedevano i seni, le labbra turgide disegnate con un rossetto color sangue e la gonna lunga tirata su da un lato a lasciar intuire la giarrettiera e le calze a rete.

    Mentre si dirigeva verso la preda le sue mani si agitavano nelle tasche; in una i soldi per pagare il servizio, nell’altra il coltello.

    Buonasera bellezza, quanto vuoi?.

    Due lire, alzando ancora di più la gonna.

    Il giovane la guardò sorridendo e si avvicinò cercando di cavar fuori il denaro dalla saccoccia, ma inciampò e cadde rovinosamente sulla ragazza; il coltello, strappata la tasca, si infilò profondamente, spinto dal peso di Astolfo, nel petto della puttana lasciandola a terra nel suo sangue.

    E adesso?.

    Non aveva immaginato quell’epilogo – voleva tutt’altro – ma mentre si allontanava si rese conto che ne era compiaciuto.

    Ritornò verso il centro nel silenzio della notte: non c’erano più trasporti a quell’ora, quindi decise di trovare una stanza e tornare direttamente in officina la mattina dopo; a casa sua madre non si sarebbe dispiaciuta della sua mancanza.

    Il giorno successivo si sentiva ancora eccitato, il giornale che parlava del ritrovamento di una ragazza uccisa su un molo e delle vane ricerche da parte della polizia gli provocò un piacere sottile. Così, mentre preparava gli ingranaggi per la prossima consegna, si ripeteva sottovoce che da quel momento avrebbe fatto sul serio.

    Comunicò alla madre che aveva trovato lavoro a Genova come cameriere: voleva andare via di casa e lasciare l’officina. Agnese aveva borbottato qualcosa, ma in fondo era contenta di togliersi di torno quel figlio ingombrante e così maldestro.

    Astolfo non conosceva Genova; aveva sentito parlare dell’Acquasola, un parco che sorgeva su mura cinquecentesche. Si diresse là per dare un buon inizio alla sua nuova vita.

    Camminava fischiettando, e mentre l’umidità che iniziava a calare gli faceva capitolare i ricci, giocava con il coltello facendolo saltare in alto, da una mano all’altra.

    Non si era accorto dell’anziano signore che, venendo verso di lui aiutandosi con un bastone, imprecava verso il cielo contro una serie di santi che a suo dire lo avevano preso di mira; lo vide solo all’ultimo momento, cercò di riprendere al volo il coltello che volteggiava in aria e si tagliò il palmo destro, mentre il vecchio gli passava accanto sghignazzando e scuotendo la testa in segno di disapprovazione.

    Si accasciò a terra con la mano insanguinata maledicendo la sua goffaggine e l’occasione persa. Eppure non doveva essere complicato; che ci voleva a colpire? Lo aveva fatto tante volte quando sua madre gli chiedeva di ammazzare un pollo per cena.

    La prossima volta sarebbe stata quella giusta, se lo sentiva; intanto continuava a seguire sul Secolo XIX le vicende della polizia che non riusciva a trovare nessun indizio per l’assassino della ragazza al molo; avevano trovato solo un po’ di limatura di ferro accanto al corpo, ma non avevano nessuna idea da dove provenisse e perché fosse stata lasciata lì.

    Astolfo si ricordò tutte le volte che sua madre si era lamentata del fatto che non si preoccupava neanche di pulirsi bene prima di uscire dal lavoro: riportava sempre a casa quella maledetta polvere che non riusciva a togliere, specialmente dalle tasche.

    Continuò cercando di trovare altri posti dove potersi muovere senza essere scoperto, ma alla fine era ritornato al porto perché più di ogni altro luogo che aveva percorso in quei giorni era giusto per trovare le sue vittime.

    Pioveva quella sera e Astolfo, chiuso nella sua mantella nera, si muoveva lentamente lungo la darsena; non aveva voglia di nulla se non di far parte di quell’oscurità, di quell’aria così pesante; teneva il coltello in mano più per difendersi che per cercare sangue.

    Era scoraggiato; le braccia lunghe e quelle leve che avevano sempre un passo in più rispetto al suo lo avevano fatto miseramente fallire. L’ultima vittima era stata il cane di un barbone; mentre alzava il braccio per colpire l’uomo al petto le sue gambe avevano inciampato in una panchina di ferro e, facendogli perdere l’equilibrio, trafiggere l’animale al posto del clochard.

    Poi lo vide, da lontano: un ragazzo appena sbarcato da una nave, non avrà avuto più di sedici anni, la zazzera bionda e il passo affrettato di chi vuole godersi i pochi giorni di riposo prima di salpare di nuovo.

    Non doveva sbagliare stavolta; si avvicinò tenendo ben saldo nella mano destra il coltello e, giunto alla giusta distanza, sferrò un fendente… nello stesso istante il ragazzo, richiamato da una voce, si girò: il colpo finì diritto nel suo fagotto di indumenti legati alla bell’e meglio, perdendosi tra quei quattro stracci.

    Astolfo si accasciò a terra iniziando a inveire contro la sua mala sorte, senza rendersi conto che nel frattempo un gruppo di marinai accorsi in aiuto del mozzo lo aveva circondato.

    Non fece in tempo a rialzarsi che venne investito da pugni e calci che lo lasciarono senza il fiato che gli sarebbe stato necessario quando, tra gli insulti e le risate di quegli uomini, si perse nel freddo delle acque scure.

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