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Attacco imminente
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E-book485 pagine7 ore

Attacco imminente

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Info su questo ebook

A settembre del 2017, tre terroristi, soprannominati rispettivamente il Sadico, il Macellaio e lo Spietato, attraversano la rotta dei Balcani occidentali dei migranti per incontrarsi. Una volta addentratisi nel territorio italiano e stabilitisi a Padova, i tre capitani costituiscono un’organizzazione reclutando sergenti e altri membri desiderosi di colpire gli occidentali, minandone le sicurezze. Dopo un viaggio a Napoli per l’approvvigionamento delle armi comprate dalla Camorra, l’organizzazione compie con successo il primo tremendo attentato nella città di Marostica, poi un secondo attacco a un bar della provincia di Treviso. Qui, a dar filo da torcere ai terroristi è l’imprevedibile intervento di Giulio, un giovane sergente maggiore della Folgore da poco rientrato nel paese nativo che si trovava al bar. Gli attentatori, danneggiati dalle azioni di Giulio, fuggono e pianificano di rintracciarlo per farlo fuori, ma anche il sergente ha in mente di fermarli definitivamente. Sceglie così di supportare la Global Sureness Agency, un’unità speciale non governativa che persegue il bene comune mondiale e la pace.
Claudio Cremasco traccia le personalità dei criminali e le tappe in cui strutturano la loro missione, raccontando gli orrori del terrorismo e della guerra in generale, svelando il lato più crudele e violento di certi uomini ma anche l’audacia di chi li combatte.

Claudio Cremasco: da sempre l’avventura lo accompagna nella sua vita. Il brivido della velocità, la ricerca dell’ignoto, i misteri del passato, i viaggi intrapresi alla scoperta del mondo ma anche l’amore per la sua terra natia, lo hanno foggiato nella vita e nel carattere. Nei suoi romanzi traspare con stile e forza questo suo modo di essere, capace di coinvolgere il lettore in una successione di eventi da lasciarlo senza fiato.
LinguaItaliano
Data di uscita17 ago 2022
ISBN9788830670075
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    Anteprima del libro

    Attacco imminente - Claudio Cremasco

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    Claudio Cremasco

    ATTACCO IMMINENTE

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - [email protected]

    ISBN 978-88-306-6225-4

    I edizione luglio 2022

    Finito di stampare nel mese di luglio 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    ATTACCO IMMINENTE

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    L’opera è frutto di fantasia dell’autore,

    ogni riferimento a cose e persone

    è puramente casuale

    Maggio 1917 – La montagna che esplode

    Il soldato Luigi Panigali non ne voleva più sapere della guerra, del freddo, dei miseri pasti e della costante paura di morire, amava l’Italia e si era arruolato come volontario nelle prime ore dell’entrata in guerra del suo paese nel primo conflitto mondiale, ma i patimenti vissuti e lo strazio per i tanti amici persi avevano lasciato un profondo sgomento anche nell’animo del soldato più indomito.

    Erano già trascorsi due freddi inverni dall’entrata in guerra dell’Italia da quel funesto 1915, di cui l’ultimo, quello del 1917, era stato il più freddo e nevoso di tutti i tempi. L’Alpino Luigi svolgeva con zelo il suo compito nelle Alpi orientali. L’impervia zona del Lagazuoi, posta in quella particolare zona delle Dolomiti, segnava il confine tra l’Impero Austro Ungarico e il Regno d’Italia. Luigi, come migliaia di altri soldati, faceva parte del reggimento truppe Alpine. Questo corpo militare fu fondato nel 1872 per preparare le truppe a difesa dei confini montani. Con lo scoppio del primo conflitto mondiale, il teatro dei combattimenti italiano fu il settore orientale e in particolare il settore montano delle Dolomiti. La sua morfologia caratterizzata da vette che andavano dai 2.000m di altezza fino ai quasi 3.400m, costellate da rocciosi varchi naturali impervi, lo faceva essere allo stesso tempo il più difendibile ma anche il più duro da conquistare, il tributo di vite che ogni giorno esigeva era elevatissimo.

    Gli austriaci, attestati sulla sommità del monte Lagazuoi e in possesso anche dell’adiacente Passo Valparola, si sentivano di fatto invulnerabili alle sortite italiane. Questo fino alla notte tra il 18 e 19 ottobre 1915, quando un paio di plotoni di Alpini comandati dal Capitano Martini, col vantaggio del buio e del silenzio riuscirono, con un’audace operazione, a occupare una sottile cengia che attraversava la parete rocciosa da ovest ed est posta a metà altezza del versante sud del Piccolo Lagazuoi denominata poco dopo Cengia Martini. Ora le posizioni italiane potevano monitorare e bersagliare quelle austro-ungariche collocate sul passo Valparola e il vantaggio austro-ungarico iniziale si era annullato.

    Il Lagazuoi, dai suoi ben 2835m di altezza composto quasi interamente da roccia viva e pareti a strapiombo, poteva osservare l’inesauribile lavoro dei due eserciti contrapposti dediti a conseguire un vantaggio tattico sul nemico. Si costruirono decine di profonde gallerie nella nuda roccia che furono adibite all’inizio da rifugio, vedetta e magazzino per le truppe alpine e successivamente per una nuova tipologia di guerra ovvero quella delle mine d’alta quota, sviluppate per far crollare le gallerie del nemico con relative perdite di vite umane e di armamenti e, da parte austriaca, con la speranza di far crollare l’avamposto della Cengia Martini che negli ultimi due anni si era dimostrato una vera spina nel fianco austriaco.

    Luigi decise di riprendere fiato dopo l’ennesima risalita con lo zaino pesante pieno di qualsiasi cosa potesse esser utile alla vita dell’alpino, che fossero armamenti o vettovaglie tutto doveva essere portato a spalla da fondovalle su per i ripidi sentieri della montagna. Le copiose nevicate, il freddo pungente e il tiro dei cecchini non miglioravano l’umore e gravavano ulteriormente il già drammatico fardello che la vita del soldato gli aveva riservato. Constatò che oramai si erano consumate le suole dei suoi stivaletti da montagna in dotazione a ogni alpino, tentò di calcolare quante volte avesse scalato quella montagna, quanti sacrifici gli fosse costato e quante imprecazioni avesse inveito contro i suoi superiori quando toccava a lui organizzare lo smontaggio dei pezzi di artiglieria con relativo fissaggio nel punto più alto del loro avamposto. Il freddo mordeva aspro il suo generoso cuore, solo il ricordo dei suoi cari a casa lo spronava ogni giorno a dare il massimo e si convinceva che era un giorno in meno alla vittoria finale con il conseguente ritorno a casa dalla sua famiglia. L’unica consolazione che aveva era la vista che si godeva dalle alte cime delle Alpi, le quali potevano rappresentare l’inferno in terra per le attuali condizioni di vita dei soldati ma i paesaggi e i relativi scorci che la natura gli offriva a ogni cambio di stagione continuavano a sorprenderlo, alleviando la pesante condizione a cui tutti loro erano sottoposti.

    Sembrava non ci potesse essere situazione peggiore a quelle già patite, pensava tra sé e sé Luigi, invece al peggio non c’era mai fine. Questa nuova tipologia di guerra di mine ad alta quota logorava sotto l’aspetto mentale anche l’alpino più audace e ferreo. Gallerie ne erano state costruite a decine da ambo gli schieramenti contrapposti, alcune di esse erano molto profonde e si addentravano nella viva montagna. Nella vita dei soldati tutti gli spostamenti e i momenti di riposo avvenivano in buona parte nelle gallerie e, oltre a non essere sempre facile addentrarsi in esse, andava aggiunta anche la costante paura di una deflagrazione di una mina avversaria. Quella paurosa attesa dell’ignoto rendeva la vita dei soldati snervante. Luigi ne aveva già vissute due di esplosioni di mine austriache sulla sua pelle, una di 300kg che fu solo un assaggio che portò a un piccolo scoramento delle linee alpine italiane e la seconda di ben 16.000kg che non provocò grandi danni o perdite alle truppe italiane, ma che creò una profonda spaccatura nella roccia e nell’animo dei soldati, i quali in cuor loro sapevano che prima o poi potevano trovarsi in mezzo e perderci la vita.

    Svolto il suo incarico odierno di mulo da soma, come Luigi usava definirsi, gli fu dato l’incarico di vedetta alla Cengia Martini. Quel giorno aveva il compito di ricognizione dei movimenti delle truppe nemiche. Luigi scaricò il suo pesante zaino, e con le sue callose mani fortificate da una vita di patimenti, imbracciò il suo fedele fucile modello ‘91. Prese con sé il suo pugnale personale, si assicurò di avere le munizioni necessarie, controllò che il resto dell’equipaggiamento fosse in ordine per affrontare il nemico, il freddo e la neve che lì fuori lo aspettavano. Quello che Luigi, e il suo manipolo composto da altri tre soldati, non potevano sapere era cosa realmente li stesse aspettando quel giorno lì fuori.

    Dal suo rudimentale mirino poteva vedere le truppe austriache ben trincerate nei loro caposaldi abbondantemente fuori dalla portata del suo fucile ‘91. Molte volte negli ultimi due anni aveva sparato e ucciso ragazzi che come lui difendevano i loro confini, convinti di battersi per una giusta causa.

    Quel giorno riconobbe alcuni visi di soldati austriaci, era convinto di averli già visti altre volte nel suo mirino. La sua mente, nonostante gli anni di guerra vissuti, era ancora lucida e gli fece soppesare una strana domanda «chissà se dopo la nostra vittoria potrò incontrarli questi austriaci e confrontarmi con loro narrandoci i nostri aneddoti di guerra?». Era così assorto nei suoi pensieri che quasi si era dimenticato di cosa stesse facendo lassù, ma bastò un boato spaventoso a farlo ritornare alla realtà. Luigi non sapeva, ma era appena scoppiata la terza mina austriaca composta da 30.400kg di esplosivo, un urto devastante sconquassò la montagna, 200.000 metri cubi di materiale roccioso si staccarono, investirono marginalmente la Cengia Martini e si abbatterono sulla pattuglia italiana, spezzando la vita di tutti e quattro quei poveri soldati, era il 22 maggio 1917.

    Marzo 1988 - Gas Sarin

    Pochi giorni erano trascorsi dal bombardamento chimico di Halabja da parte delle truppe irachene sulla martoriata minoranza etnica Curda, che nello scacchiere della guerra Iraq-Iran aveva la sfortuna di trovarsi a cuscinetto tra le due potenze in lotta tra di loro da oramai ben otto anni. L’attacco fu realizzato con gas al cianuro come rappresaglia contro la popolazione curda rea di lottare per la propria indipendenza e di aver conquistato con l’aiuto iraniano la medesima città di Halabja, e quindi di non aver frapposto resistenza al nemico iraniano. Il 16 marzo 1988 gli aerei del dittatore iracheno Saddam Hussein sorvolarono l’area per cinque ore, rilasciando una miscela di gas al cianuro, chiamato gas Sarin, i combattenti curdi si erano ritirati sulle montagne prima dell’arrivo dei bombardieri e quindi fu la popolazione inerme a farne le spese. Quando i combattenti curdi scesero dalle montagne ed entrarono in città non trovarono macerie ma cadaveri di bambini, donne e vecchi sparsi a terra ovunque. I morti furono 5.000 in quel solo bombardamento e vivide sono ancora le immagini della strage negli occhi di tutti, delle tre fazioni che si fronteggiavano e del mondo intero che ne era rimasto spettatore.

    Saddam Hussein non fu l’unico l’artefice della decisione di utilizzare il gas Sarin sulla popolazione curda. Molte furono le persone complici e una di queste fu il cugino del rais, il generale Ali Hassan al-Majid soprannominato Alì il chimico». Un uomo che neanche dopo la guerra e la condanna a morte a seguito del processo a cui fu sottoposto, si pentì dello spaventoso atto compiuto, tanto erano glaciali i suoi sentimenti e le decisioni che prendeva. Tuttavia, il Generale aveva compreso la gravità dell’atto compiuto, non sicuramente mosso a pietà per quanto fatto a degli indifesi, quanto per paura di rappresaglia da parte dell’ONU e quindi di una sua destituzione o limitazione decisionale. Da freddo calcolatore privo di scrupoli qual era, comprese di dover nascondere le armi chimiche in luoghi sicuri e non rintracciabili da nessun ente militare od organizzazione estera, in maniera da nascondere le malefatte e instillare nella mente dei vari governi esteri la velata minaccia che in caso di ingerenze nella politica del proprio Paese, si potessero compiere rappresaglie mediante l’utilizzo del gas Sarin.

    Dopo aver freddamente elucubrato il tutto, decise di incaricare il suo fido colonnello Ahmed Al-Bezza di formare un segreto e fidato gruppo di collaboratori con l’incarico di prelevare e nascondere in un luogo sicuro le scorte del Gas Sarin, così facendo ometteva le prove e al contempo si assicurava un’arma di distruzione di massa da usare come deterrente contro le potenze mondiali straniere.

    Escludendo la parte settentrionale e montuosa del Paese, corrispondente al Kurdistan, il resto dell’Iraq è pianeggiante e in gran parte desertico. A ovest si trova il deserto siriaco, mentre la zona meridionale è occupata da una parte del tavolato arabico; nel mezzo, grazie ai due famosi fiumi Tigre ed Eufrate, si trova una vasta area fertile che costituisce anche la zona storica più famosa dell’intero Iraq, la Mesopotamia. Mentre nella sua estremità sud-orientale si trovano una cinquantina di chilometri di coste che si affacciano sul Golfo Persico.

    Le montagne del Kurdistan, strategicamente importantissime in quante poste a Nord del Paese e quindi alle porte con i paesi Europei, arrivano a quote superiori ai 3.000metri. La vegetazione non è folta, sono ricche di canyon, di gole, di cascate e di grotte naturali di svariate grandezze. Queste ultime in particolare si prestavano alla perfezione allo sporco scopo che si era prefissato il colonnello Ahmed. Egli, infatti, sperava di nascondere il gas Sarin in uno dei tanti anfratti montuosi inaccessibili di quella zona montuosa, in particolare vicino alla città di Amadiya.

    Il colonnello Ahmed chiamò a rapporto i suoi tre capitani a lui fedelissimi. Il Capitano Mohamed Al-Tigrì anche chiamato Il Sadico, che in molte occasioni si divertiva a torturare a morte e per i più disparati motivi i soldati catturati come prigionieri di guerra e quindi tutelati dalla Convenzione di Ginevra. Il Capitano Jussef Bin Salem, conosciuto col soprannome Il Macellaio, che dopo aver conquistato le città nemiche attaccate, non si accontentava di sottometterle, ma ordinava ai sopravvissuti di combattere all’ultimo sangue fra di loro, chi vinceva aveva salva la vita mentre il perdente veniva fatto a pezzi. Il Capitano Khalil Al-Khadra chiamato da tutti lo Spietato, per lui vigeva una sola regola, niente prigionieri solo cadaveri.

    Il colonnello diede incarico ai tre Capitani di raggruppare una cinquantina di uomini a loro fedeli ma non indispensabili, e di organizzare in maniera segreta e discreta il trasporto di tutto l’armamento chimico in dotazione all’esercito iracheno presso un luogo sicuro. Il punto sulla mappa era stato individuato nei pressi delle montagne della città di Amadiya nel kurdistan iracheno, spettava a loro trovare il luogo sicuro per lo stoccaggio delle armi chimiche.

    Nel cuore della notte tre camion militari si muovevano furtivi all’interno della base segreta militare posta a nord della capitale Baghdad, facilmente erano entrati nella base grazie al lasciapassare rilasciato dal colonnello Ahmed. Il corpo di guardia non obbiettò neanche per un secondo e non fece nessuna domanda per quella strana intromissione a quell’ora tarda della notte in una base top secret dell’esercito, sapevano che i gradi andavano sempre rispettati e a volte non sapere e girarsi dall’altra parte era più sicuro dello svolgere con zelo il proprio lavoro. I camion si avvicinarono alla postazione semplicemente denominata postazione X. Gli occupanti scesero e indossarono le tute bianche anti-contaminazioni, le maschere e tutto il corredo necessario. Aprirono i portelloni posteriori dei tre camion, digitarono il codice di sei cifre nel tastierino numerico posto all’entrata della porta blindata e iniziarono a svolgere il loro incarico principale: caricare in segreto e in silenzio i contenitori di Gas Sarin lì stoccati. Erano stati in precedenza istruiti di non far parola con nessuno di quanto stavano compiendo e di essere rapidi. Fu un lavoro certosino e ben fatto, gli uomini sapevano che era un incarico che veniva dal colonnello Ahmed in persona e doveva essere svolto con la massima celerità, si aspettavano una bella gratifica alla fine dell’operazione sotto forma di un gruzzolo in denaro e di una licenza premio da passare con la propria famiglia.

    Dopo aver svuotato il magazzino, si assicurarono di aver chiuso per bene la porta blindata, risalirono sui camion, chiusero i portelloni e in silenzio come erano arrivati se ne andarono. Eccetto i tre capitani nessuno sapeva dove stessero andando ma a nessuno premeva saperlo, dovevano eseguire quello che a mano a mano gli dicevano e per loro era sufficiente così.

    Presero la polverosa strada in direzione Nord che collega la capitale Baghdad alla zona montuosa del Kurdistan iracheno, erano le 02:00 di notte e per strada incrociarono pochissime vetture e camion. Nessuno badava a loro, già da otto anni erano in guerra con l’Iran e di movimenti diurni e notturni di mezzi militari se ne vedevano di continuo, nessuno ci fece caso. Erano circa seicento i chilometri da percorrere in una strada decentemente asfaltata e risparmiata dai bombardamenti nemici, si lottava solo per star svegli e mangiare meno polvere possibile, tutto filò liscio fino alla città di Amadiya.

    Nascosta nella provincia di Duhok e arroccata su un piccolo altopiano si erge la gemma di una città chiamata Amadiya, è una delle più grandi città storiche, culturali e geografiche del Kurdistan iracheno. Per secoli, Amadiya ha ospitato cristiani, ebrei e musulmani, che hanno convissuto pacificamente. Amadiya è uno spettacolo geografico che si erge per oltre 1000 metri da una grande valle. La città è circondata da ripidi precipizi su tutti i lati. L’altezza della città offre una vista incredibile sul paesaggio circostante, una delle località più pittoresche del Kurdistan iracheno. La vita sull’altopiano di Amadiya risale almeno al 3000 a.C. grazie agli antichi Assiri. L’altopiano, oltre alla sua grande bellezza, ha offerto nei millenni un deciso valore strategico, ed è stata la dimora di innumerevoli sovrani, sacerdoti e persino di un messia.

    Arrivati nei pressi di Amadiya e della sua circonvallazione svoltarono a Nord verso Bere Sile, inerpicandosi per la strapazzata strada che porta al Parka Amedy. Dopo una serie di stretti tornanti in una strada in cui gli ammortizzatori dei tre camion erano stati messi a dura prova, il capo macchina del primo camion, il Capitano Khalil Al-Khadra, diede l’alt e tutti ne furono ben felici in quanto finalmente poterono scendere e sgranchirsi le gambe.

    Con stupore di tutti regnava una certa allegria in quel plotone messo su in velocità per un’azione militare che nessuno sapeva, tranne i tre Capitani, dove e a cosa stesse portando. Fu dato l’ordine di allestire un piccolo campo base e per combattere il freddo mattutino che pervadeva quelle montagne acconsentirono di accendere un fuoco, di scaldare del latte per tutti e distribuire il pane e la marmellata di pesche che avevano caricato all’inizio dell’operazione.

    Gli uomini presero delle pietre, le posero in cerchio, raccolsero delle sterpaglie e della legna essiccata e in pochi secondi accesero un fuoco dove poter scaldare del latte in un pentolone ben annerito dall’uso negli anni. Altri del plotone scaricarono dal terzo camion lo spartano mobilio in dotazione a tutti i camion, che consisteva di una malconcia tavola con le gambe pieghevoli e poche sedie anche queste pieghevoli.

    Il latte era pronto, sul tavolo fu tagliato il pane e distribuita la marmellata alla pesca, le sedie erano poche e rispettando il grado furono i capitani a utilizzarle, ai soldati andava bene così, erano in guerra da otto anni ed erano abituati agli stenti e al vivere spartano. In quel momento a loro bastava essere in pace con se stessi in quel piccolo angolo tranquillo di paradiso, si accomodarono sulle rocce sparse nel terreno e a loro sembrarono le poltrone più comode del mondo.

    Dopo una ventina di minuti il Capitano Mohamed Al-Tigrì imbracciò il suo fucile Kalashnikov AK-47, un fucile d’assalto sovietico a fuoco selettivo operato a gas per proiettili 7,62 x 39mm in dotazione a mezze forze armate mondiali. Un fucile la cui caratteristica principale era la totale impossibilità di incepparsi, che fosse pieno di sabbia, sporco di fango, appena uscito dall’acqua, l’AK-47 sparava. Ecco perché, considerato anche il suo basso costo, metà eserciti mondiali lo avevano adottato, non richiedeva una costosa manutenzione e anche il soldato più maldestro, imbracciandolo diventava letale. Il Capitano si incamminò verso una delle tante gole presenti nel Parka Amedy e sparì dalla vista del plotone.

    Il Capitano Mohamed Al-Tigrì sapeva bene dove stesse andando, gli ordini ricevuti dal Colonnello erano chiari «Inerpicati per una delle tante gole del Parka Amedy e trova una grotta o anfratto in cui si possano nascondere i contenitori con il gas Sarin». Al-Tigrì notò subito molti anfratti, ma non erano di grandi dimensioni, non si perse d’animo e continuò la sua ricerca. Dopo una trentina di minuti si fermò per urinare vicino a dei cespugli, come ci fosse bisogno di nascondersi vista la totale assenza di anima viva, tuttavia fu proprio da quella posizione che, alzando lo sguardo, notò a mezza altezza in una collinetta pietrosa un ammasso di vegetazione che solo parzialmente copriva l’accesso a una grotta naturale. Terminato quello che stava facendo si avviò per il luogo appena scoperto. Con gli anfibi ai piedi non gli fu difficile scalare i pochi metri richiesti per giungere all’acceso, ne fu confortato, sapeva che agli uomini serviva una strada percorribile per poter portare in tranquillità il gas Sarin, spostò di lato alcuni arbusti e si congratulò con la sua fortuna che sempre lo assisteva, capì subito che quella era il posto giusto. Il foro d’entrata, nascosto dalla vegetazione, era della misura sufficiente, e la grotta era più che capiente per quello che doveva contenere. Si avviò sui suoi passi fischiettando e dopo circa trenta minuti ritornò al campo base.

    Al-Tigrì si avvicinò agli altri due Capitani e, con un gesto inequivocabile del capo, informò loro di aver individuato il luogo che stavano cercando e che era ora di terminare l’operazione militare per la quale erano stati incaricati. I soldati si stavano ancora godendo quel dolce far niente fino a quando i Capitani li chiamarono a raccolta. Gli ordinarono di indossare l’equipaggiamento anti contaminazione, gli spiegarono che erano lì per nascondere in una grotta il materiale prelevato la sera prima e di prepararsi al trasbordo del medesimo via terra con una camminata di circa trenta minuti per la quale gli consigliarono di prendersi dell’acqua.

    I soldati iniziarono a eseguire gli ordini che gli erano stati impartiti. Aprirono i portelloni posteriori dei camion, un paio di essi salirono sul camion e iniziarono a passare a quelli a terra i contenitori del gas Sarin. Tutto venne eseguito con calma e alla perfezione, erano le 10:00 di mattina quando si incamminarono per la strada con in testa il Capitano Al-Tigrì e il suo fido Ak-47 a tracolla. Chiudevano la fila gli altri due capitani anch’essi con i loro Ak-47 a tracolla, più che una operazione militare sembrava una scampagnata domenicale considerato l’umore disteso di tutti i presenti che componevano quel plotone.

    Dopo circa quaranta minuti arrivarono al luogo precedentemente scoperto dal Capitano Al-Tigrì. Constatarono che era in posizione elevata e che il sole cominciava a scaldare la giornata facendo sudare i soldati. Il Capitano Al-Tigrì li dispose in fila indiana creando una catena umana per tutta la salita e ordinò di passarsi il materiale di mano in mano, così facendo ci sarebbe voluto più tempo ma tutto si sarebbe svolto in sicurezza. I soldati obbedirono e trasportarono tutto il materiale nei pressi dell’apertura della grotta. Appena tutti furono saliti con tutto il materiale, il Capitano ordinò di portarlo all’interno, di collocarlo alla fine della profonda grotta e di disporlo in file ordinate di cinque unità così da poterlo quantificare. Svolgendo il lavoro tutti assieme, ci impiegarono poco a sistemarlo e ne risultarono ben novanta contenitori di gas Sarin. Il capitano ordinò di riposarsi all’interno della grotta e di reidratarsi visto la sudata che avevano appena fatto. I soldati non se lo fecero comandare due volte, si sedettero all’ombra della grotta e cominciarono a discutere allegramente tra di loro e a bere l’acqua, nel frattempo il Capitano Al-Tigrì si avvicinò all’entrata e si pose al lato degli altri due Capitani.

    I tre confabularono tra di loro qualche secondo, terminato si scambiarono un cenno di assenso, imbracciarono i loro Ak-47, tolsero la sicura, posizionarono il selettore su fuoco automatico e rivolsero le canne dei propri fucili verso i soldati che si stavano riposando. I soldati non ebbero il tempo di capire cosa stesse succedendo e di chiedersi del perché i propri Capitani gli stessero puntando contro gli Ak-47, che i tre Capitani aprirono il fuoco sui propri uomini. Svuotarono velocemente il primo caricatore e con perizia acquisita in otto anni di guerra, lo espulsero e ne inserirono un secondo di nuovo, dopo averlo armato scaricarono anche questo sui propri uomini.

    All’interno della grotta il profumo della cordite nell’aria era intenso e con esso si potevano sentire anche i lamenti di qualche soldato che non era morto sul colpo. Il Capitano Jussef Bin Salem noto come Il Macellaio si incaricò di controllare e terminare eventuali sopravvissuti, fu un lavoro che svolse con piglio certosino e con un sorriso stampato sulle labbra, che fosse il nemico o che fossero i suoi uomini, la vista della morte e del sangue lo faceva sentire vivo quanto mai.

    Quando il Capitano Bin Salem ebbe finito il suo sporco lavoro, si avvicinò agli altri due Capitani posti all’entrata della grotta e disse «Gli ordini del Colonnello erano che, oltre a noi tre, non ci fossero testimoni che potessero conoscere l’ubicazione del nascondiglio e il suo contenuto. Posso confermare che tutti e cinquanta gli uomini sono morti, solo noi conosciamo l’ubicazione, ora non ci resta che sigillare quest’entrata con una piccola carica di esplosivo al plastico e poi far rientro dal Colonnello», gli altri due Capitani annuirono e si prepararono a scendere, nel frattempo Il Macellaio posizionò in alto sopra l’apertura della grotta un po’ di esplosivo al plastico. Fissò e regolò su di esso un dispositivo a tempo sui cinque minuti, azionò il timer e con calma scese dall’apertura. Si incamminò per un paio di minuti in direzione degli altri due capitani e si acquattò anche lui dietro la grande roccia scelta come riparo.

    Allo scoccare del quinto minuto la detonazione avvenne, i tre Capitani aspettarono alcuni minuti che si depositasse la polvere alzata a seguito dell’esplosione, si inerpicarono in direzione della grotta e constatarono che l’entrata era quasi del tutto ostruita. Collocarono alcune pietre a chiusura totale dell’apertura, notarono con piacere che la vegetazione nei pressi non si era rovinata a seguito dell’esplosione. Questa avrebbe ulteriormente coperto qualsiasi caduta in futuro di pietrisco che avrebbe messo a repentaglio la segretezza della grotta.

    Dopo aver indicato nella loro mappa con una X il posizionamento del luogo per poterla poi consegnare al Colonnello, si incamminarono di rientro ai tre camion lasciandosi dietro di loro la grotta, il gas Sarin e quei poveri cinquanta soldati disgraziati che non avrebbero più visto le loro famiglie, lasciando mogli, figli e genitori nello strazio più totale per non avere notizie dei propri cari o una tomba sulla quale piangerli.

    Settembre 2017 - L’Esodo

    Nel 2015 la rotta del Mediterraneo centrale che dalle coste del nord Africa porta in Italia attraverso il Canale di Sicilia ha smesso di essere la tratta più utilizzata dei migranti per entrare in Europa. Oggi la gran parte dei migranti che cerca di arrivare nell’Unione Europea lo fa tentando di attraversare i Balcani.

    La rotta dei Balcani occidentali comincia con lo sbarco nelle isole greche, come Kos, con imbarcazioni di fortuna partite dalle coste della Turchia, quest’ultima raggiunta nelle maniere più disparate da profughi Siriani, Iracheni, Pakistani e Afgani. I migranti si muovono poi verso il confine settentrionale della Grecia con la Macedonia, da qui, sui treni o pagando per ottenere passaggi a bordo dei camion, i migranti raggiungono la Serbia e infine l’Ungheria, il primo paese membro dell’Unione Europea che incontrano dopo aver lasciato la Grecia.

    Una volta arrivati in Ungheria molti migranti si fermano e fanno richiesta d’asilo, ma un numero sempre maggiore di persone sfrutta l’assenza di posti di confine previsti dagli accordi di Schengen per proseguire il viaggio verso tutti i paesi dell’Europa, in particolare per quelli del Nord Europa.

    Il Capitano Mohamed Al-Tigrì, detto Il Sadico, e il Capitano Jussef Bin Salem, chiamato Il Macellaio, percorsero anche loro la rotta Balcanica dei migranti e una volta giunti in Ungheria si guardarono compiaciuti. Era stata un’attraversata per nulla facile, dove la loro ruvidezza, forgiata in tanti anni di servizio militare per il loro Paese e in seguito per Il Califfo dello Stato Islamico, era stata d’aiuto e di conforto nel sopportare le ristrettezze e i patimenti vissuti. Camminare per migliaia di chilometri, dormire costantemente all’addiaccio per diversi mesi e nutrirsi di quello che trovavano mise a dura prova la loro determinazione. Si strinsero la mano con fare soddisfatto, si congratularono con loro stessi con delle pacche sulle spalle come fossero due vecchi amici coscienti di averla scampata ancora un’altra volta.

    Digrignarono i denti nel pensare al loro amico e terzo componente di questo ristretto gruppo di terroristi, il Capitano Khalil Al-Khadra detto lo Spietato. Egli aveva avuto la fortuna dalla sua scegliendo di raggiungere l’Italia nella maniera più utilizzata negli ultimi anni da parte di tutti gli immigrati irregolari, ovvero il trasbordo attraverso bagnarole dalla Libia fino all’isola di Lampedusa. In quest’isola, la più a Sud del continente Europeo ed effettiva porta d’entrata per l’Europa, avrebbe trovato l’accoglienza italiana e lo sbarco nel continente Europeo. Lo Spietato aveva raggiunto la Libia come loro avevano raggiunto la Turchia, ovvero comodamente trasportati sui pick-up Toyota.

    Questi mezzi erano onnipresenti in tutti i reparti combattenti dell’Africa e del Middle East, che fossero milizie governative, soldati regolari o terroristi tutti avevano in dotazione i pick-up Toyota, agili negli spostamenti, affidabili, caricabili all’inverosimile e facilmente armabili.

    Poi però, per il Macellaio e il Sadico iniziò un calvario lungo settimane, fatto di spostamenti continui a passo d’uomo attraverso lo sbarco in Grecia e poi a seguire per i paesi Ex-Jugoslavia fino all’Ungheria. Non erano ancora giunti all’agognata meta, ovvero l’Italia, ma sapevano che qualche giorno di viaggio e si sarebbero ricongiunti a lui, mentre lo Spietato pagando gli scafisti trovò subito il passaggio per l’Italia, dove l’aspettavano alcuni ex- foreign fighters con tutto il loro seguito di simpatizzanti.

    Entrambi pensarono a quante vicissitudini la sorte gli avesse riservato: erano capitani dell’Esercito Iracheno e ben posizionati nella gerarchia militare. Tuttavia una prima guerra del Golfo contro tutta la coalizione capeggiata dagli Stati Uniti e specialmente la seconda guerra del Golfo con la disfatta delle forze Irachene, avevano loro fatto crollare il mondo sotto i piedi tanto che vista la mala parata con l’instaurazione del Tribunale per i crimini di guerra con la successiva condanna a morte del Generale Ali Hassan al-Majid soprannominato Alì il chimico e l’arresto del loro amico il Colonnello Ahmed Al-Bezza, gli fecero capire che era tempo di salvarsi la vita lasciandosi alle spalle il nuovo Stato dell’Iraq sotto l’influenza americana e di arruolarsi presso le milizie di Al-Qaeda presenti in Iraq nel 2004 poi rinominata Stato Islamico dell’Iraq fondata da Abu Mus’ab al-Zarqawi, per combattere l’occupazione statunitense dell’Iraq e il governo iracheno sciita sostenuto dagli Stati Uniti dopo il rovesciamento di Saddam Hussein. Successivamente unificandosi con la branca siriana di al-Qaeda, la quale nel frattempo aveva conquistato una parte del territorio siriano nell’ambito della guerra civile in Siria contro il governo di Bassar al-Asad, per finire poi con l’annuncio della scelta di una propria capitale presso la città siriana di Raqqa e il cambio nome definitivo in Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, conosciuto come ISIS.

    L’Isis ampliò il proprio potere ponendo sotto il loro controllo la città irachena di Mosul e una parte dell’Iraq. Questa loro crescita attirò l’attenzione degli Stati Uniti e le loro preoccupazioni, spingendoli assieme ad altri Stati Occidentali e Arabi a intervenire militarmente contro l’Isis mediante bombardamenti aerei in Iraq e in Siria a partire dal 2014. Questo segnò il blocco espansionistico dell’Isis a livello territoriale nella regione dando vita però a un inasprimento delle loro azioni terroristiche fuori dai loro confini, in particolare nei Paesi Occidentali.

    Tutti e tre avevano raggiunto i vertici dell’Isis e potevano godere appieno dei privilegi derivanti da questo status. Di rapimenti e sgozzamenti di forze militari avversarie e privati cittadini esteri ne avevano fatto la loro missione e al contempo ne godevano appieno dato il loro sadismo, ma il potere di vita e di morte era forte quando il potere del denaro che gestivano. Riuscirono a incamerare denaro in valuta straniera pregiata grazie alle vendite al mercato nero di petrolio e gas. Le loro ricchezze personali e quelle dell’Isis erano cresciute a dismisura e nessun obbiettivo era a loro precluso. Potevano permettersi qualsiasi oggetto materiale sempre a patto di riuscirselo a procurare in quel territorio ostile conosciuto come il regno del terrore. Proprio da questa parziale impossibilità nell’avere tutto quello che desideravano, e contestualizzato con una frenata espansionistica dell’Isis, se non addirittura una retromarcia dai territori precedentemente conquistasti, che capirono fosse giunto il momento di spostarsi nella ricca Europa dove troppa libertà, democrazia e lussuria avevano reso quei popoli ai loro occhi deboli e quindi facilmente attaccabili. Mescolarsi in mezzo a loro non sarebbe stato difficile e avrebbero nello stesso tempo goduto dei lussi e privilegi concessi al mondo Occidentale. Prese corpo dentro le loro menti malvagie l’idea di compiere atti terroristici nella vicina Europa e di farla vivere nella costante ansia d’attacco. Di notizie e proposte dall’Europa su come attaccarli ne arrivavano a bizzeffe dai loro fratelli dormienti e dal web, tuttavia da persone oculate quali si ritenevano, capirono che spettava a loro raccogliere informazioni di prima mano e viverla appieno quell’esperienza, solo così non avrebbero corso rischi e i loro atti sarebbero stati eclatanti e ridondanti.

    Di comune accordo col Califfo al-Zarqawi il quale appose anche la sua personale benedizione i tre si organizzarono su come lasciare in sicurezza il territorio dell’Isis e giungere in Europa, ovviamente con grosse disponibilità liquide di denaro a loro disposizione per poter vivere come l’europeo e poterlo colpire nella maniera più feroce.

    Lo Spietato era seduto a prua della bagnarola che qualche ora prima aveva lasciato la Libia con destinazione Italia. Si stava godendo il dolce far niente e la leggera brezza che gli scompigliava i lunghi capelli e la barba che negli ultimi anni si era lasciato crescere perché quello era il look dei miliziani dell’ISIS. Strofinandosi la barba pensò che appena giunto in Italia se la sarebbe fatta radere completamente e accorciare la folta e lunga capigliatura brizzolata, così facendo sarebbe passato inosservato e fagocitato nella popolazione locale. Con sé stringeva una borsa pesante che tutti quelli presenti nella bagnarola avrebbero bramato: una borsa piena di denaro europeo. Si sentiva rilassato e a un passo dal primo traguardo, ovvero quello di raggiungere l’Europa. Il denaro gli dava la tranquillità di poter avere e compiere tutto quello che desiderava. Non si accorse nemmeno di essere approdato presso le coste Siciliane, non c’erano ovviamente comitati di benvenuto o organizzazioni umanitarie pronte a sostenerlo, era semplicemente uno dei tanti sbarchi fantasma.

    L’Italia con i suoi 7456km di coste e circondata per tre lati dal mare era una roccaforte indifendibile.

    Lo Spietato scelse di comune accordo con gli scafisti di puntare direttamente sull’isola di Sicilia, in quanto più grande e con maggior possibilità di successo anche se il viaggio era più lungo e rischioso, che puntare su Lampedusa con un viaggio più corto e sicuro, dove sarebbe stato accolto, schedato e parcheggiato in qualche squallido centro di accoglienza che gli avrebbe fatto perdere tempo e non godere dei privilegi materiali ai quali ambiva.

    Il Sadico e il Macellaio cominciarono a guardarsi attorno quando notarono il loro povero aspetto emaciato, decisero che andava sistemato il prima possibile e solamente poi proseguire per la destinazione finale: l’Italia. Si incamminarono di buona lena in cerca di un posto dove dormire, con un letto comodo, un bagno caldo e un tetto solido sotto il quale rinfrancare le loro stanche membra.

    Trovarono un bed & breakfast appena al di là del confine ungherese, il luogo non aveva molte pretese ma faceva al caso loro, c’erano poche stanze e gestite direttamente dal proprietario; quest’ultimo lì squadrò dalla testa ai piedi e stava quasi per sbottare e farli andar via quando i due capitani gli fecero scivolare di fronte due banconote da cento euro.

    Il proprietario le fissò incredulo per qualche istante poi le prese e le pose nel cassetto alla sua destra, non aveva un computer che gestiva lo stabile ma un semplice registro dove annotava le generalità dei viandanti, lo prese e con calma lo pose sopra al banco. Nella sua lingua disse «Mi servono i vostri dati per proseguire nella registrazione e darvi la camera», questi non capirono cosa gli fu chiesto ma vedendo il libro lo immaginarono. Non volevano correre rischi inutili divulgando le loro generalità, ovviamente non avrebbero fornito quelle vere ma una delle tante false che disponevano, tuttavia decisero di piazzare altre due banconote da cento euro sopra il banco, il proprietario guardò avidamente il denaro, lo prese e richiuse il libro. Il proprietario frugò nel cassetto fino a quando trovò quello che cercava, porse a loro una vecchia chiave in metallo recante semplicemente un portachiavi con scritto il numero tre, la presero delicatamente e prima di uscire dalla reception mimarono con le dita l’uso delle forbici nei loro capelli e barba. Il proprietario capì subito e rispose non a parole ma con un gesto che mimava il passare del denaro da un dito all’altro per essere contato, gli posero un’altra banconota da cento euro e si avviarono nella loro stanza. Il proprietario non ci poteva ancora credere che quella fortuna

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