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Sorridi e muori
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Sorridi e muori
E-book454 pagine6 ore

Sorridi e muori

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Info su questo ebook

Muori giovane
Hilde Swensen è una reginetta di bellezza con un viso splendido e un corpo magnifico. Ma quando la detective Claire Morgan la trova all’interno di un box doccia – in posa come una bambola con un sorriso grottesco – Hilde è tutto fuorché bella. È la vittima di un killer malato e squilibrato. E non sarà l’ultima…
Muori bella
Brianna Swenson è la sorella della reginetta di bellezza e fidanzata di Bud, il partner di Claire. La ragazza le spiega che Hilde aveva molti nemici, incluso uno stalker, un ex ragazzo violento e una sfilza di concorrenti gelose. Ma ciò che non dice è che loro condividevano un segreto oscuro e inquietante. Un segreto che si rifiuta di morire…
Muori sorridendo


Dai festini di una sinistra agenzia funebre al mondo sotterraneo delle vendette di mafia, Claire indaga insieme con il suo amante, Nicholas Black, uno psichiatra che a sua volta nasconde dei segreti. Ma è solo quando scopre le prove di indicibili atti di depravazione che Claire si rende conto di essere appena diventata l’obiettivo successivo di un killer diabolico…
LinguaItaliano
Data di uscita6 set 2019
ISBN9788893125338
Sorridi e muori

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    Anteprima del libro

    Sorridi e muori - Linda Ladd

    Sorridi e muori

    Sorridi e muori

    Serie Claire Morgan #3

    Linda Ladd

    Traduzione di

    Lucrezia Fiorelli

    Triskell Edizioni

    Triskell Edizioni S.A.S. di Cinelli Barbara & C.

    Via 2 Giugno, 9 - 25010 Montirone (BS)

    http://www.triskelledizioni.it/

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore. Ogni somiglianza a persone reali, vive o morte, imprese commerciali, eventi o località è puramente casuale.

    Sorridi e muori - Copyright © 2019

    Copyright © 2008 Die smiling di Linda Ladd pubblicato da Pinnacle Books

    Traduzione di Lucrezia Fiorelli

    Cover Art and Design di Barbara Cinelli

    Immagini di copertina: Sergey Kolesnikov /shutterstock.com

    Prodotto in Italia

    Prima edizione – agosto 2019

    Edizione Ebook 978-88-9312-533-8

    Edizione cartacea: 978-88-9312-535-2

    Indice

    Amore tra sorelle

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Amore tra sorelle

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Amore tra sorelle

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Amore tra sorelle

    Capitolo 7

    Amore tra sorelle

    Capitolo 8

    Amore tra sorelle

    Capitolo 9

    Amore tra sorelle

    Capitolo 10

    Amore tra sorelle

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Amore tra sorelle

    Capitolo 13

    Amore tra sorelle

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Amore tra sorelle

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Amore tra sorelle

    Capitolo 18

    Amore tra sorelle

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Epilogo

    L’autrice

    Notes

    Amore tra sorelle

    In una fredda mattina di dicembre, la sorella maggiore scoprì una volta per tutte che la madre non le voleva bene. Non aveva ancora compiuto undici anni quando aprì gli occhi quel giorno. La luce filtrava attraverso le tapparelle dell’abbaino che si trovava vicino a lei, grigia e cupa, leggera come uno spettro. In mattine come quelle, in soffitta si gelava; rabbrividì, costretta a rannicchiarsi sotto lo spesso piumone.

    Ignara che il giorno di Natale fosse finalmente sorto, sua sorella più piccola dormiva beata accanto a lei, russando piano per via del naso chiuso. Sissy aveva otto anni, e tutti concordavano sul fatto che fosse una creaturina davvero graziosa, di gran lunga più graziosa del fratello e della sorellastra maggiore. Beh, certo, la cara dolce Sissy era bella, ma la sorella maggiore era nauseata dal modo in cui gli altri concentravano tutte le loro energie su di lei, nemmeno fosse qualcosa di unico. Ovunque andasse con la mamma, che fosse Wal-Mart, McDonald’s o Pizza Hut, era sempre la stessa storia: chiunque voleva avvicinarsi e toccare i capelli di Sissy. La sorella maggiore odiava quegli stupidi capelli setosi gialli. Odiava tante altre cose di Sissy, certo, soprattutto quel delizioso sorriso innocente che tutto era tranne che innocente; nessuno sembrava essersene accorto, se non lei, e anche da tempo.

    La sorella maggiore si girò, dando le spalle a Sissy la perfetta, e si sollevò su un gomito. Afferrò la cordicella della tapparella, alzandola di qualche centimetro, e si mise ad ammirare sbalordita il paesaggio invernale. Osservò la neve che cadeva piano, ora a spirale, ora sbattuta dal vento in una sorta di vortice. Aveva guardato la neve scendere anche la sera precedente, prima di andare a letto, nel bagliore del lampioncino vicino al capanno degli attrezzi. C’erano momenti in cui non amava particolarmente il freddo, soprattutto quando le tornava in mente dove viveva prima con la mamma e il suo vero papà, dove faceva caldo tutto l’anno. Si erano trasferiti in quel posto gelido da quando sua madre si era risposata e aveva avuto altri due figli: Sissy e Bubby. Lì le persone non avevano un accento preciso come quello che aveva lei, ereditato dal papà che non era del luogo, e che spesso e volentieri era stato oggetto di derisione da parte dei fratelli, tanto che stava tentando di sbarazzarsene.

    Da quando la scuola era finita aveva nevicato quasi tutti i giorni, e la quantità di neve depositatasi faceva sembrare il giardino una torta di compleanno gigante ricoperta da una glassa alla vaniglia luccicante e soffice. Riusciva a malapena a vedere il pupazzo di neve che avevano fatto il giorno prima: aveva una carota per naso e due mele rosse per occhi, ancora visibili, ma il grembiule a quadri rosa della mamma legato intorno alla vita si era già imbiancato.

    Si era ammucchiata della neve perfino sul davanzale, mentre sui vetri della finestra si erano formati cristalli di ghiaccio simili al pizzo bianco con cui la mamma aveva avvolto la base del piccolo albero di Natale di Sissy. La sorella maggiore si voltò e guardò l’alberello sul comodino della minore. I bagliori candidi nella mattina cupa facevano brillare i glitter delle tiare appese ai rami come fossero diamanti. Sissy le aveva vinte ai concorsi di bellezza per bambini, erano undici in tutto, e la verità era che, a qualsiasi concorso partecipasse, arrivava sempre prima. Quando vinceva, riceveva veri e propri trofei, ma anche fasce colorate, in raso rosso, blu e giallo, anche se prevalentemente rosso. Il padre di Sissy aveva costruito appositi scaffali in soggiorno dove poter apprendere tutti i suoi premi. Era chiaro che lei fosse la sua preferita.

    Una volta, dopo che la sorella maggiore aveva trovato il coraggio necessario per chiedere alla mamma se avrebbe mai avuto un alberello, la donna le aveva risposto che avrebbe potuto guardare quello di Sissy e smetterla di piagnucolare, e forse, se avesse vinto qualche concorso quando era ancora una mocciosetta, avrebbe avuto qualche tiara da appenderci. Dopo una risposta simile, alla sorella maggiore non era rimasto che andarsene in silenzio nella veranda sul retro e mettersi a piangere per un po’, piano, per non essere sentita.

    In quel momento, pensare a quell’episodio la faceva arrabbiare come allora. Si mise accanto a Sissy con la fronte aggrottata, e le sussurrò a denti stretti: «Sei peggio di un veleno, essere inutile, odio il tuo stupido alberello e i tuoi capelli, e vorrei tu fossi brutta come me.»

    Sissy non si svegliò, ma sprofondò ancora di più nella trapunta patchwork rosso e verde che le aveva fatto sua nonna Violet due anni prima per Natale, prima che avesse un infarto e morisse. Alcune ciocche dei lunghi capelli biondi di Sissy si sparpagliarono sul cuscino; avevano lo stesso colore del sole d’estate. Con il pollice e l’indice la sorella maggiore prese un ricciolo e lo accarezzò, rendendosi conto di quanto fosse soffice. I suoi capelli erano troppo comuni e di un banale castano chiaro per essere belli, le ricordava sempre la mamma, e nessuno ovviamente le aveva mai chiesto se poteva accarezzarli.

    Nel profondo del suo cuore, dove si annidavano i pensieri spiacevoli, una rabbia ben nota le crebbe dentro ed esplose nera, irruente, furiosa. Afferrò una ciocca di quegli stupidi, lucenti capelli e li strattonò più forte che poteva. Sissy gridò dal dolore, mentre la sorella maggiore godeva nel vederla soffrire, poi si tolse violentemente le coperte di dosso e si alzò a sedere nel letto. La sorella maggiore si liberò dal piumone e disse: «Sissy, dai! Babbo Natale è stato qua!»

    Sissy saltò in piedi sul letto, infreddolita, accarezzandosi il punto dove le avevano tirato i capelli. Si guardò attorno; quei suoi occhi azzurri erano ancora assonnati, mentre la faccia a forma di cuore esprimeva perplessità. Sebbene fosse scarmigliata, rimaneva sempre bellissima. Cominciò a cercare la tiara glitterata vinta al concorso Little Miss Snowflake con cui aveva dormito la sera prima sotto le coperte; la trovò e la risistemò sopra la sua testolina.

    «Sissy, sbrigati! Andiamo a vedere cosa ci ha portato!»

    Sissy si dimenticò per un attimo della corona e saltò giù dal letto. Il parquet era gelido a contatto con i loro piedi nudi, eppure non ci fecero caso, tanto erano impegnate a bisticciarsi le soffici vestaglie di lana e le pantofole di Disney World. Dopodiché si precipitarono in corridoio. Scendendo le strette scale della soffitta, videro che il fratellino di tre anni era già in piedi. Il suo pannolino doveva essere zuppo, dal momento che era solito avere un sacco di spiacevoli incidenti la notte, ma alle sorelle più grandi non importava. La maggiore cominciò a bussare alla porta della camera della madre e del patrigno fino a quando non si alzarono ad aprire, ancora assonnati, entrambi indossando la stessa vestaglia rossa e blu.

    Si chiamava Russell, il patrigno; si diresse verso il fratello più piccolo, ma le due sorelle, evidentemente troppo emozionate, scesero comunque al piano di sotto. La frenetica discesa si interruppe sul pianerottolo delle scale, dal momento che entrambe rimasero affascinate da ciò che le aspettava in salotto. Il grande albero di Natale era tutto illuminato, toccava quasi il soffitto, pieno di lucine colorate e con un angelo di seta a fare da puntale. Nella sua incalzante eccitazione, la sorella maggiore poté vedere tutti i giocattoli che Babbo Natale aveva portato a lei e ai fratelli: due bambole (Barbie nuove ancora nelle scatole!), una bicicletta con le rotelline e una mazza e un guanto da baseball per Bubby, il tutto messo in fila sul divano marrone. E poi c’era lei, la Casa da Sogno di Barbie, che aveva voluto da quando l’aveva vista da Wal-Mart l’estate precedente, tutta già assemblata e messa vicino al camino!

    La sorella maggiore scese il resto delle scale, e Sissy la seguì senza indugiare. Entrambe non stavano più nella pelle dalla contentezza. Prima che lei potesse raggiungere la tanto agognata casa di Barbie, la mamma la prese per un braccio e la allontanò dal tesoro che la stava aspettando nel soggiorno. Udì chiaramente la contentezza di Sissy quando vide le Barbie, e il suo patrigno ridere mentre portava Bubby giù dalle scale. La sorella maggiore provò a liberarsi dalla stretta per vedere cosa stava accadendo, ma sua madre le teneva il braccio troppo stretto.

    «Adesso ascoltami bene.»

    Nell’udire quel sussurro così duro, la sorella maggiore alzò lo sguardo, ora pieno di una paura agghiacciante. Conosceva troppo bene quel tono di voce, quello di quando la mamma andava su di giri e i suoi occhi diventavano scuri e spaventosi; gli occhi di quando il suo patrigno non era nei paraggi per poter sentire.

    «Non ti ho potuto prendere niente quest’anno, e non ho voglia di sentire rispostacce per questo. Sai benissimo che quel disgraziato di tuo padre non mi manda un centesimo da quando è scappato via, e Russell mi ha detto che non avrebbe comprato niente per te, non quando il tuo vero padre è pieno di soldi.»

    La sorella maggiore era talmente scioccata che l’unica cosa che riusciva a fare era fissare la mamma.

    La donna si incupì. «Sai bene che è stato Russell a farmi lasciare il lavoro al Dollar Store. Non ho più i soldi che avevo prima per poterti comprare qualcosa. Ho solo quello che mi dà per cibo e vestiti. E dovresti essere già grata che ti dia da mangiare e ti compri gli stessi bei vestiti che compra per i suoi figli.» La mamma lanciò un’occhiata verso il salotto e abbassò la voce. «Non sarà così male, dai, puoi chiedere a Sissy e Bubby di farti giocare con i loro giocattoli. Adesso è così che stanno le cose. Devi accettarle per come sono. Non c’è niente che possiamo fare. La vita non è facile, devi impararlo prima o poi.»

    Le dita della mamma si strinsero ancora di più intorno all’avambraccio della figlia. «Dovrai chiederglielo gentilmente però, chiaro? E non farti sentire da Russell. Ed evita anche di piantare una di quelle scenate da bambina viziata. Ti avverto! Non sarà tollerato un simile atteggiamento, non a Natale! Non ce lo rovinerai, né a Russell né ai bambini.»

    «Ma io sono stata brava. Molto più di Sissy e Bubby! Sono loro che si comportano male!»

    «Il tuo papà non ti vuole bene, altrimenti mi avrebbe mandato i soldi che gli ho chiesto. Di certo non puoi incolpare me. Russell adora i suoi figli, ed è per questo che loro ricevono regali. Ed è anche colpa del tuo vero padre se non hai mai vinto un concorso di bellezza: sei uguale a lui. È un vero peccato tu abbia preso tutte quelle lentiggini da lui e niente da me. Dovresti essere grata anche solo per il fatto che Russell ti lascia vivere qua con noi. Di certo tuo padre non ti vorrebbe. Non ti è mai venuto a trovare una sola volta da quando se n’è andato con quella sciacquetta con cui adesso convive. Avranno dei figli insieme, ed è di loro che si prenderà cura. Quei marmocchi riceveranno un sacco di giocattoli per Natale, probabilmente anche i tuoi.»

    La sorella maggiore singhiozzò, e la mamma le tirò uno schiaffo. «Lo vedi quanto sei poco riconoscente? Sei già fortunata che Russell non ti abbia spedito in quella casa-famiglia nel Sud, come aveva minacciato di fare.»

    Poi la spinse verso le scale. «Se continui a piangere ti spedisco seduta stante in camera, mi hai sentito? Smettila, o non ti toccheranno nemmeno la torta di noci pecan e il pasticcio di pollo per cena.»

    Ma la sorella maggiore non riusciva a smettere di piangere, così corse su per le scale e si gettò sul letto. Si tirò le coperte fino sopra la testa, ma riusciva a sentire lo stesso le risa di gioia di Sissy. Dopo un po’, però, scese di nuovo per sbirciare dalla ringhiera.

    Sissy e Bubby stavano ancora scartando i regali. La mamma e Russell ridevano e abbracciavano i figli, mentre la sorella maggiore stringeva così forte le dita alla ringhiera da far diventare le nocche bianche. Fu allora che capì che li odiava tutti. Odiava Russell, odiava il suo vero padre e odiava sua madre. Ma soprattutto odiava Sissy, perché Sissy aveva ricevuto la Casa da Sogno di Barbie che voleva lei. Desiderava di poterla uccidere, ucciderla e gettarla nel fiume che scorreva tra i pascoli di bestiame, dove Russell e la mamma non l’avrebbero mai trovata.

    Poteva davvero farlo. Avrebbe potuto utilizzare un metodo come quello nel film che Russell aveva guardato la sera precedente. Si chiamava Nightmare – dal profondo della notte. Quella sera si sarebbe potuta acquattare sulle scale mentre lui era lì a godersi l’ultimo che aveva noleggiato, Venerdì 13, dal momento che lo aveva sentito dire alla mamma che era persino più pauroso e splatter di Nightmare. A quel punto avrebbe saputo come uccidere Sissy. Era più grande di lei, più forte e più alta. Ce l’avrebbe fatta. L’avrebbe potuta prendere e portare in un posto dove nessuno l’avrebbe vista, poi ucciderla in qualche modo e infine farne perdere le tracce per sempre. Non le era mai passato per la mente che si sarebbe potuta davvero sbarazzare di Sissy per sempre, e ciò la fece sorridere, dandole un senso di benessere, potere e felicità.

    Tornò di sopra e si distese sul letto, ma adesso era composta e pacata, e i suoi pensieri erano concentrati su come avrebbe potuto uccidere Sissy. Si voltò quando la sentì entrare in camera con Russell; il patrigno la teneva con un braccio e con l’altro trasportava la Casa da Sogno di Barbie. Diede una rapida occhiata alla sorella maggiore distesa sul letto, le sorrise, ma poi riprese a parlare con Sissy mentre era intento a sistemare la casa di Barbie vicino alla bocchetta d’areazione, così che la preziosa Sissy non prendesse freddo.

    Una sensazione di puro odio si fece strada nella gola della sorella maggiore. Aspettò che Russell uscisse e che fosse in fondo alle scale, poi si alzò dal letto e andò a chiudere la porta.

    «Sissy, vorrei giocare con la Casa da Sogno di Barbie; mi ci lascerai giocare, vero?» Diede una rapida occhiata alla porta per evitare che Russell o la mamma la sentissero. Doveva essere prudente. Sissy era la loro preferita, anche più di Bubby, che era senza dubbio il bambino più carino al mondo con quei suoi ricciolini biondi. Alla sorella maggiore piaceva Bubby; era l’unico che non avrebbe ucciso, dal momento che era la sola persona della famiglia con cui andava d’accordo. Molto probabilmente, una volta cresciuta e diventata più sveglia, avrebbe ucciso anche la mamma e Russell. Ma se avessero scoperto che aveva intenzione di uccidere Sissy, l’avrebbero spedita in quell’orribile casa-famiglia.

    La sua cara sorellina alzò lo sguardo; aveva occhi blu, così innocenti e graziosi. Nell’iride sembrava ci fossero disegnate delle piccole rose.

    «Papà mi ha detto che posso non farti giocare con le mie cose se non mi va. Mi hanno detto che hai rotto e perso giocattoli, proprio come l’orsacchiotto di Bubby.»

    «Io non ho perso niente! Sei tu che l’hai gettato nella pattumiera perché Bubby ti aveva rotto la matita color mandarino! Ti ho vista!» La sorella maggiore guardò nuovamente verso la porta, desiderando di mettere le mani attorno al collo di Sissy e stringere, stringere, sempre più forte. Ma non lo fece. Aveva serrato i denti così tanto che pensò di averli rotti, e si rese conto che anche i pugni erano contratti. «Per favore, Sissy, ti prego, solo per un po’.»

    Lo sguardo della bambina si concentrò per un attimo sulla sorella maggiore, poi la piccola fece sfoggio di quel sorrisino che il fotografo della Wal-Mart diceva la faceva assomigliare a un angioletto. «Ti farò giocare con la Casa di Barbie, ma in cambio dovrai lasciarti schiaffeggiare.»

    «Schiaffeggiare? Perché?»

    «Perché mi va di farlo, tutto qua. Voglio prenderti a schiaffi come fa la mamma.»

    La sorella maggiore guardò la Casa da Sogno di Barbie, con quelle tende a righe color lavanda e rosa, i tavoli e le sedie bianchi e la camera da letto, tutto in miniatura. Entrambe le Barbie erano andate a Sissy: una era vestita da principessa, con indosso un abito da sera rosa molto attillato e una piccolissima tiara di diamanti; l’altra era vestita come una top-model, con una minigonna di jeans e un top di raso rosso. Erano entrambe bellissime e avevano il viso a forma di cuore, proprio come quello della bambina. La sorella maggiore non aveva mai avuto una Barbie, ma una delle sue insegnanti, la gentile signora Dale, le permetteva di giocare con quelle che c’erano a scuola.

    «Quanto saranno forti gli schiaffi?»

    «Fortissimi. Non puoi piangere. Se lo fai, non conta.»

    «A mamma non piacerà sapere che mi prendi a schiaffi.»

    Sul volto di Sissy comparve di nuovo un sorriso angelico, stavolta però i suoi occhi non sorridevano. Anzi, erano decisamente cattivi. «La mamma mi lascia fare ciò che voglio e tu lo sai bene. Perché io sono bella e tu sei brutta. Me lo ha detto, sai, un sacco di volte. Ha detto che tutti mi vorranno bene per sempre perché io sono bella e bionda. Tu hai i capelli brutti e i denti storti, come quello scemo del tuo vero padre. E nessuno ti amerà mai come amano me e Bubby, ecco!»

    La maggiore sapeva bene che quanto l’altra diceva era vero. Una volta che la mamma si era arrabbiata tantissimo con lei, aveva preso lo specchio dorato dalla credenza e glielo aveva dato, costringendola a guardare il proprio riflesso e ammettere quanto fosse brutta. La mamma le aveva anche detto che si vergognava del suo aspetto, e che provava imbarazzo nel trascinarsela dietro insieme ai suoi due figli adorati.

    «D’accordo, puoi schiaffeggiarmi. Ma un giorno o l’altro la pagherai per questo. Aspetta e vedrai.» Prima o poi ti concerò per le feste. Allora sì che diventerai la star di un film della saga di Halloween.

    «Beh, sarà meglio di no. O ti spediranno in quella orrenda casa-famiglia dove il personale prende a botte i bambini e li costringe a mangiare cibo per gatti.»

    Sissy poggiò a terra la Barbie a cui aveva messo un bellissimo vestito da sposa di pizzo bianco. Con un sorriso, si sedette sui talloni. Sollevò il braccio e con il palmo colpì la guancia della sorella, tanto forte da farle perdere l’equilibrio. L’altra cadde sul fianco e subito si premette la mano sul viso dolorante. Riuscì a trattenere le lacrime.

    «Non stai piangendo, vero? Non puoi piangere, ricordi?»

    «No, non sto piangendo!»

    «D’accordo, puoi giocare con la mia Casa da Sogno di Barbie finché non ti ordino di ridarmela. E non ti azzardare a romperla.»

    Continuando a tenere la mano premuta contro la guancia arrossata, la maggiore gattonò fino alla casa e, facendo molta attenzione, prese uno dei divani in miniatura. Era di seta porpora e aveva delle piccole nappe nere sullo schienale. C’erano perfino due buffi cuscini neri alle estremità. La faccia le bruciava ancora come il fuoco, ma ne era valsa la pena. Odiava Sissy, che non si metteva mai nei guai. Perfino Bubby, a volte, veniva rimproverato e sculacciato. Ma solo perché non era Sissy. Un giorno avrebbe pagato per averla presa a schiaffi. Un giorno la mamma avrebbe pagato, come anche Russell. Ma soprattutto il suo vero papà avrebbe pagato, per non aver mandato alla mamma i soldi per comprarle i regali di Natale. Gliel’avrebbe fatta vedere. Li avrebbe uccisi tutti con dei coltelli affilati, proprio come quelli che Freddy Krueger ha sui guanti, quando uccide quegli adolescenti in Nightmare – Dal profondo della notte.

    1

    Girai la chiave, misi in moto la mia Ford Explorer e uscii in retromarcia dal mio posto auto al Dipartimento dello Sceriffo della Contea di Canton. Per quanto monotona e senza sorprese, era una bellissima giornata di inizio aprile al lago Ozarks, nel Missouri centrale, così io e il mio partner decidemmo di dare una scossa alle cose con una delle nostre famose gare di tiro al bersaglio. Ci dirigemmo così al poligono del dipartimento, nel bel mezzo del niente, a nord del lago. Sulla via del ritorno, il vincitore avrebbe offerto al perdente il panino più stravagante di tutto il menù McDrive. Questo perché siamo entrambi dei gran spendaccioni.

    Non che mi lamenti della totale assenza di brivido che c’è qua intorno. All’incirca quattro mesi fa, abbiamo seguito un caso uscito direttamente dall’inferno, alquanto spinoso, in cui era coinvolta una coppia di psicopatici con la fissa per le creature velenose più disparate. Bud ci ha quasi rimesso la pelle, mentre io mi sono ritrovata una bella cicatrice sulla gamba per colpa del morso di un ragno eremita marrone. Ho i brividi ancora oggi.

    Una ditta di disinfestazioni tiene regolarmente sotto controllo il mio appartamento, mentre la mia Explorer riceve visite regolari da parte di bombolette Raid ed è dallo scorso Natale che non ho a che fare con quelle striscianti creature spiacevoli. Non penso spesso nemmeno all’estate scorsa, quando un altro caso ha preso una brutta piega. O almeno, mi sforzo di non pensarci. Sfortunatamente, non sempre i miei sogni collaborano. Anzi, spesso e volentieri faccio degli incubi, e anche piuttosto brutti. E pensare che credevo che questa atmosfera di campagna mi avrebbe dato sollievo e tranquillità, dopo il periodo passato al Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Ah-ah. Che scema.

    «Di’ un po’, Morgan, com’è la calibro 38 che Harve ti ha dato? Bella, vero?»

    La domanda proveniva dal partner menzionato in precedenza, il Detective Budweiser D. Davis. Bud per tutti quelli che lo conoscono; o lo chiami così o rischi la vita. Sedeva stravaccato sul sedile del passeggero, con indosso una semplice maglietta nera del Dipartimento e dei Levi’s a zampa. Di solito era sempre in ghingheri, con completi firmati e camicie fresche e inamidate, stile Armani e roba del genere. Le maniche della sua maglietta avevano pieghe da ferro da stiro, perché, come ci si poteva aspettare, era un tipo piuttosto precisino. Gli lanciai uno sguardo mentre svoltavo a destra per imboccare l’autostrada 54, poi accelerai in direzione del ponte più vicino. Nato ad Atlanta, affascinante come Rhett Butler, dotato della parlata strascicata da infarto della Georgia e di un paio di intensi occhi grigi, Bud lasciava a bocca aperta signore e ragazzine. E ne era ben consapevole.

    «Spara bene,» risposi. «Non me la tolgo mai. L’ho imparato a mie spese.» Sentivo il peso della .38 assicurata alla caviglia destra, sotto i jeans a zampa, proprio sopra le mie fidate Nike alte, color nero e arancione.

    Vedete, è stato Harve Lester, il mio migliore amico nonché ex partner a Los Angeles, a darmi questa bellissima calibro 38 della Smith e Wesson per Natale, con tanto di fondina da polpaccio in pelle marrone che, in più di un’occasione, si è rivelata molto utile. In effetti, mi ha salvato la vita in un momento in cui ero particolarmente vulnerabile, in un luogo molto inquietante e buio. Quindi non me la tolgo più, tranne che per fare la doccia e dormire e, credetemi, anche allora, la tengo a portata di mano. Non mi separo mai nemmeno dalla mia Glock semiautomatica 9mm. È infilata nella fondina ascellare, sotto il mio braccio sinistro, sempre in attesa di qualche guaio. Quel giorno non dovette aspettare troppo.

    Il cellulare di Bud si animò, suonando una fastidiosa, squillante versione della Quinta sinfonia di Beethoven. A volte, il mio partner è davvero pretenzioso. Ma ero pronta a scommettere che l’avesse sostituita a quella precedente, Friends in Low Places (senz’altro migliore, secondo me), solo per far contenta la sua ragazza, Brianna Swensen. Lo vidi ripescare il cellulare dalla tasca della giacca a vento nera e controllare chi lo avesse chiamato; capii di chi si trattava dallo sdolcinato sorriso da pesce lesso che gli si formò in faccia.

    «Ah, pare proprio che Brianna senta la mia mancanza, povera ragazza.»

    Brianna era la sua nuova fiamma e insieme facevano davvero scintille, e la cosa andava avanti già da un bel po’. L’avevo ribattezzata Finn perché avrebbe potuto essere Miss Finlandia al concorso per Miss Universo. A dire la verità, avrebbe potuto vincere quel concorso galattico a mani basse. Conoscete il tipo: gambe lunghe e lisce come seta; fluenti capelli biondo naturale; il viso simile a quello di un manichino nelle vetrine di Rodeo Drive, modellato a immagine e somiglianza di una Jessica Simpson un po’ più alta e snella. Già, per la maggior parte del tempo, era come se Bud si aggirasse tra le stanze del Valhalla, sorridendo e battendosi il petto con entrambi i pugni.

    Rispose da vero caso perso: «Ciao, piccola, anche tu mi manchi.»

    Bleah. E ancora bleah. Mi concentrai sulla guida. In realtà sapevo come si sentiva. Intendo, sorrisi sciocchi e tutto il resto. Era da un po’ che anch’io sorridevo in modo ebete: fin da quando avevo rimorchiato Nicholas Black, bellissimo psichiatra delle stelle, che passava molto del suo tempo a soddisfarmi. Infatti, quando andavamo a letto insieme, mi sembrava di sentire il coro dell’Alleluia accelerato.

    Oltrepassai un ponte, ammirando la spettacolare vista del lago Ozarks alla mia sinistra. L’acqua scintillava e brillava, come una coperta di diamanti sotto il cielo azzurro e privo di nubi. Era una mattinata piacevole e soleggiata, faceva abbastanza caldo anche se l’aria era pungente. I fiori sbocciavano ovunque: azalee, giunchiglie, tulipani, alberi di corniolo. Mi facevano venire voglia di uscire a comprare una paletta da giardino. Ma era da Capodanno che nessuno veniva ucciso e noi due, gli autorevoli detective della Omicidi, ci sentivamo molto soddisfatti del nostro piccolo e disciplinato angolo di mondo. Armati fino ai denti come eravamo, ce la cavavamo benissimo con violenze domestiche, furti e taccheggi. No problem.

    Bud esclamò: «Cosa?»

    Il suo tono preoccupato mi spinse a voltarmi e lanciargli un’occhiata interrogativa. Aveva la fronte aggrottata. Oh-oh. Problemi in paradiso. Forse avevo parlato troppo presto.

    Poi disse: «Mi prendi in giro, vero?» Non che stessi origliando né niente… è che rise, per poi tornare serio piuttosto in fretta. «Okay, ho capito. Sono con Claire. Arriviamo subito. Tu cerca di far mantenere la calma.»

    «Che c’è?» domandai. Non mi piaceva perdere tempo a chiedermi cosa fosse successo, sperando nel profondo in un po’ di triviale eccitazione per tirarci su. «E cosa vuol dire cerca di far mantenere la calma

    «È accaduto un incidente al Mr. Race’s, il salone di bellezza, e Bri ci è finita proprio nel mezzo.»

    Gli lanciai uno sguardo, forse immaginate di che tipo. «Che succede laggiù? Qualcuno si è ritrovato con il colore di smalto sbagliato e ha cominciato a sparare a destra e a manca?»

    «Senti, Morgan, dacci un taglio, ti dispiace? La faccenda è seria. Bri mi è sembrata molto preoccupata.»

    «Se non sbaglio, è il salone per cui mi hai dato il buono regalo da dodici mesi il Natale scorso, giusto? Hai presente? Quello per farsi fare i capelli, trattamenti viso e pedicure e altra roba del genere?» Quello che avevo usato solo una volta. Non riuscivo a sopportare di venire chiamata tesoro quindici volte durante un taglio.

    «Si, quello. Il signor Race mi fa i capelli. È il meglio in città.»

    Sì, certo. Ricordavo molto bene quell’uomo. Il signor Race non è uno di cui ci si dimentica con facilità: un po’ effemminato, se capite ciò che intendo, capelli biondi a porcospino e camicia di seta nera orribilmente sbottonata sul petto. Ma Bud aveva gusti sofisticati e un aspetto impeccabile. Potrei imparare qualcosa da lui, se solo mi interessassi al mio aspetto fisico. «D’accordo, mi arrendo. Che sta succedendo?»

    «Ti metterai a ridere?»

    «No, non lo farò.»

    «Una cliente infuriata lo tiene in ostaggio e Brianna non sa cosa fare.»

    Sentii una risata profonda farmi il solletico alle budella, ma mi sforzai di trattenermi. Una promessa è una promessa. Per qualche secondo, provai un folle divertimento interiore. «Quindi lo smalto c’entra davvero qualcosa? Com’è andata? Qualcuno si è ritrovato un rosso Ferrari invece di uno zuppa di pomodoro e ha dato di matto?»

    Lui scosse la testa, mentre io imboccavo la più vicina strada asfaltata diretta al lago, facevo retromarcia e poi riprendevo la direzione da cui eravamo venuti. Ehi, una chiamata era pur sempre una chiamata. Eravamo stufi di tutto quel rispetto per la legge.

    «A quanto pare, questa tizia partecipa al concorso di bellezza Spring Dogwood, che Nick ospita al Cedar Bend Lodge, e il signor Race le ha bruciato i capelli con la sua nuova piastra. È nera di rabbia e sta piantando un casino non da poco.»

    «Oh, santo cielo. Non dici sul serio, vero Bud?»

    «Abbi pazienza, Claire. Deve tingere i capelli della sorella di Bri per le prove del concorso. Questa storia sta provocando un ritardo a tutte le altre clienti.»

    «Oh, adesso sì che capto la gravità della situazione. Sarà meglio chiamare rinforzi. Anche la SWAT di Kansas City, perché no. Per fortuna ho entrambe le pistole cariche e pronte.»

    «Davvero divertente.»

    Gesù, cosa non erano disposti a fare i detective maschi per fidanzate bellissime con gambe chilometriche, che sembravano piovute giù dalla Scandinavia. Valli a capire. Dovevo ammetterlo, però, la chiamata sembrava piuttosto interessante; più di qualunque cosa avessimo affrontato negli ultimi mesi. Se non si tratta di nidi di ragni o teste mozzate, io sono sempre pronta. Rabbrividii a quei pensieri cupi e poi scacciai le immagini orribili dalla mente.

    Puntai dritta verso il Riccioli Vincenti del Signor Race: Salone di Bellezza e SPA per Persone Sofisticate. Ebbene sì, il negozio si chiama davvero così. Già, è davvero ridicolo. Ma è anche il miglior salone di bellezza del lago, situato nella parte chic del centro di Camdenton, a meno di un edificio di distanza dall’ufficio dello Sceriffo. Mentre superavamo in auto il Dipartimento, mi augurai che i ragazzi non scoprissero dove eravamo diretti e perché. Quasi mi pareva di sentirli schiamazzare e vederli fingere di estrarre dei pettini dalle fondine.

    Entrammo nel parcheggio, che era strapieno di piccole e vistose auto sportive e di SUV grossi e luccicanti; la maggior parte di quelle vetture erano cariche di abiti da sera con lustrini sistemati ad arte sui sedili posteriori, e di tiare scintillanti appese agli specchietti retrovisori. Il signor Race doveva essersi guadagnato un angolo nel mercato di Ragazze con Coroncine Glitterate. Non c’era da stupirsi che a Bud piacesse farsi tagliare i capelli lì. Io ero una cliente abituale della Bottega da Barbiere per Uomini di Osage Beach. Cecil mi considerava una cliente onoraria, a dispetto del mio sesso. Quel pensiero mi ricordò che, se avevo i capelli abbastanza lunghi da poterli legare in una coda di cavallo, allora dovevo andare a tagliarli IPP, ovvero Il Prima Possibile. A Black non sarebbe piaciuto, ma non gli piacevano neanche le magliette e i jeans strappati alle ginocchia che spesso indossavo. Sembrava non avere intenzione di togliermi le mani di dosso, comunque.

    Riccioli Vincenti era un locale ultramoderno, con numerose tende di seta, in varie gradazioni di turchese, verde e blu cobalto, appese alle due gigantesche vetrine anteriori. All’interno, il signor Race aveva nascosto dei ventilatori mobili che tenevano le tende in continuo movimento, dando l’impressione di un paesaggio sottomarino. A completare l’illusione c’erano grandi acquari di pesci tropicali. La porta d’ingresso era fatta di mogano e vetro satinato, che rendeva la vista dell’interno sfocata. Quando la aprimmo, un forte ed effemminato stridio – e intendo forte da far venire il mal di testa e cadere in ginocchio con una smorfia – ci provocò la pelle d’oca. Attenti a voi, calici di cristallo. Tenetevi forte, timpani. Nemmeno Celine Dion sarebbe riuscita a raggiungere simili tonalità. In realtà, il frastuono proveniva dallo stesso signor Race. Sì, all’interno si stava svolgendo una scena uscita direttamente da l’Inferno di Dante, versione salone di bellezza.

    Bud prese in mano la situazione con il suo solito aplomb. «Ehi, Race, piantala con queste stronzate. Strilli peggio di un maiale sgozzato.»

    Gli stridii quasi femminei cessarono di colpo, seguiti da singhiozzi un po’ più mascolini, ma che non raggiunsero esattamente il livello macho. Decisi che quell’alterco era affare di Bud e che poteva cavarsela da solo. Io sarei rimasta nei paraggi e gli avrei fatto da rinforzo, pronta a impugnare entrambe le pistole se qualcuno avesse cominciato a lanciarci contro pennelli e brillantina.

    Il signor Race respirava in modo affannoso, il petto ansante sotto la camicia di raso nero che era il suo marchio di fabbrica e che sì, era sbottonata, e lasciava intravedere il torace virile. Non vedevo traccia di peluria là sopra, ma avrebbe benissimo potuto essere nascosta dietro il grosso medaglione d’argento che indossava, grande all’incirca quanto un pancake. Le labbra sottili gli tremavano all’impazzata. Io osservai e analizzai la situazione come mi era stato insegnato. Una cliente furiosa aveva legato Race alla sedia girevole della sua postazione di lavoro, drappeggiata di velluto rosso e simile a un trono. Era assicurato saldamente allo schienale da uno dei suoi camici in plastica nera personalizzati, su cui erano stampate le parole Mr. Race’s in argento, sotto forma di scarabocchio illeggibile. Sembrava davvero sollevato di vedere che i rappresentanti armati delle forze dell’ordine erano arrivati sul posto.

    «Bud, Bud, grazie al cielo, sei qui.

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