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Occhi di Tempesta
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E-book391 pagine5 ore

Occhi di Tempesta

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Info su questo ebook

Jay
Quando combatti fin dall’infanzia per sopravvivere, lottare è istintivo come respirare. Per questo sono bravo nel wrestling, per questo è difficile battermi.
Lei ci è riuscita con un tocco.
Sento le sue emozioni scorrermi sulla pelle, i suoi occhi di tempesta bruciarmi l’anima.
Lei vuole me, nonostante ciò che sono, e quell’intensa attrazione che si scatena quando ci tocchiamo. Peccato che io sia il pericolo di cui non si è accorta, il lupo cattivo che tutti tengono all’angolo per paura di essere sbranati.
Vorrei solo riuscire a starle lontano. In un modo o nell’altro le farò del male e mi rifiuto di trascinarla all’inferno con me.

Lia
Siamo sopravvissuti, due anime spezzate.
Non volevo avere niente a che fare con uno come lui, ma adesso non riesco a lasciarlo andare.
Posso sentire il legame che ci unisce: è desiderio intrecciato al bisogno, attrazione calda e balsamo per le ferite che ci hanno segnato. È fame primitiva che accende ogni cellula del mio corpo.
Eppure, non posso permettergli di scoprire il mio segreto.
Accanto a lui però una parte di me si risveglia e vuole raggiungerlo, è una meta in mezzo alla tempesta.
Dovrei fermare questa follia, ma non so come arginarla e, ancora peggio, non so se sopravvivrò quando sarà finita.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2022
ISBN9791220702355
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    Anteprima del libro

    Occhi di Tempesta - Miranda Spencer

    1

    JAY

    Non so cosa ci faccio qui.

    Kyle mi ha trascinato in tre locali diversi stasera, prima di fermarsi al Blue Papaya. Sta cercando non so quale ragazza che ha incontrato ieri a lezione per cinque minuti, senza la quale pare non riesca più a vivere.

    La sta cercando da circa due ore, ventisette minuti e una quantità indegna della mia pazienza.

    Perché sono qui?

    Oh, sì. A quanto pare non ho una vita ed essere coinquilini e compagni di squadra lo autorizza a pensare che io sia interessato all’esito della sua ricerca ossessiva dell’anima gemella.

    In realtà, non me ne frega un cazzo se finisce col fare tre figli con la Strega dell’Ovest. Però io ho la macchina e lui no, quindi non c’era granché su cui negoziare: Kyle non guida la mia jeep. Punto.

    «Sei sicuro di trovarla qui?» gli domando appena la porta del locale si chiude alle mie spalle.

    Non sono molto ottimista di natura e, mentre osservo il mio amico sovreccitato, lo sono ancora meno. Se prendesse la scossa in questo momento sarebbe la presa a morire fulminata.

    Si guarda in giro, allungando il collo come se il suo metro e ottantatré non fosse abbastanza per sovrastare tutte le teste presenti. «Mi ha detto che sarebbe andata a cena con le amiche in un locale con la frutta nel nome, solo che non ricordo quale.»

    Sta scherzando. «Stai scherzando, vero?»

    «Non dovrebbe essere difficile. Ce ne sono solo quattro in città: Whisky&Apple, Fruit Sushi,» inizia a elencare sulle dita. «Ah, e l’Hot Grape. Però non sono sicuro che quest’ultimo sia un ristorante.»

    «Ma ti ascolti quando parli?»

    «Fidati, la troverò.»

    Certo, come no.

    «Può essere ovunque,» dico esasperato.

    La logica del mio commento non lo sfiora nemmeno. Avanza imperterrito tra i tavoli, fissando le persone sedute mentre mangiano. «Non essere pessimista. Ti dico che stavolta è destino.»

    Il destino colpisce Kyle almeno una volta a settimana, perciò non mi entusiasmo per la grande rivelazione. «Le hai parlato per cinque minuti. Cinque cazzo di minuti, Kyle. Abbiamo attraversato mezza città per una che non sai se vorrà rivederti. Non potevi chiederle il numero di telefono, come le persone normali?»

    «Non si può chiedere subito il numero a una ragazza, puzza di disperazione. Scopri troppo presto tutte le tue carte. Devi andarci piano, sorprenderla, farti desiderare,» mi spiega, neanche fossi lo sfigato della classe. La qual cosa stimola la mia ghiandola del sarcasmo più di quanto fa il mio malumore.

    Sì, ho una ghiandola del sarcasmo – e pure piuttosto sviluppata – che sfugge al mio controllo più spesso di quanto vorrei. Diciamo che per me è uguale allo sfiatatoio delle balene, funzionale per sopravvivere.

    «Ovviamente incontrarla di nuovo a lezione è troppo banale per te. Hai bisogno di farti desiderare per mezza città, quattro locali, e con me al seguito.»

    «Come sei polemico stasera.»

    «Sei un lottatore di wrestling, la tua faccia è appesa ovunque sui manifesti pubblicitari del campus. Le ragazze ti salterebbero addosso anche se fossi un serial killer. Perché dobbiamo inseguire proprio questa?»

    Mi guarda come se fossi io quello che ha perso il cervello. «Perché non sai mai dove il cuore ti conduce.»

    Mi ci gioco la palla destra che questa è una delle massime di Rosalind Morgan, detta da tutti Mama Ro, insegnante di yoga vegana e madre stravagante, che ha cresciuto questo gigante buono a pane e unicorni sin da quando era un bambino. Peccato che ora sia novanta chili di ormoni ambulanti.

    «Ma cosa sei, un biglietto di San Valentino? Non è il tuo cuore che stiamo seguendo, ma un organo decisamente più in basso.»

    Scuote la testa, il sorriso che fa impazzire le ragazze dagli spalti adesso è ridotto a una smorfia rassegnata. «Tu non capisci proprio nulla di donne.»

    «A quanto pare le capisci tu per tutti e due,» ringhio alla sua schiena che continua ad avanzare.

    Sbuffa, lui.

    Ora, chiariamo, Kyle Morgan non è un cattivo ragazzo. Vorrei ucciderlo più volte al giorno, ma non è un coglione totale, come tanti altri. Un po’ pervertito e fissato col sesso, ma chi non lo è a ventun anni? Se lo può permettere, tutto considerato; ha quell’aria da finto trasandato biondo, col sorriso da far invidia alla pubblicità dello sbiancante per i denti, gli occhi blu che piacciono tanto alle ragazze ed è pure simpatico.

    Ha solo un difetto: l’irritante tendenza al pensiero positivo, che lo porta a cercare di convertire un misantropo come me alle gioie della vita.

    «Quand’è stata l’ultima volta in cui hai portato una ragazza a un appuntamento?» insiste.

    Mai.

    Sa benissimo la risposta, perciò mi limito a guardarlo storto.

    Siamo atleti, forse non famosi come quelli del football, ma le ragazze ci aspettano fuori dagli stadi dopo gli incontri di wrestling, ci seguono in albergo, si buttando addosso a noi alle feste. Basta puntare il dito e scegliere.

    Il problema di Kyle è che io non punto il dito e non scelgo.

    Non più, almeno.

    Non mi ubriaco, non fumo, non ho una particolare predilezione per feste e sballo. O per le cacciatrici di atleti che cercano di accalappiarne uno. Sinceramente, di cosa dovrei parlare con qualcuna disposta a spogliarsi prima ancora di chiedermi il nome?

    Okay, non è che serva proprio parlare in certi momenti. E lo ammetto, quando sono arrivato qui, a diciotto anni, gli ormoni non mi sono stati d’aiuto per evitare di scoparmi un numero considerevole di ragazze disponibili. Ho fatto tutta la gavetta: festeggiare fino all’alba una vittoria, svegliarmi ubriaco sul pavimento del mio bagno, nudo in case sconosciute e vestito dentro la mia macchina a un’ora e mezza dal campus, senza sapere come sono finito lì; non ricordarmi il nome della tizia che ha la mano infilata nei miei pantaloni, né di tutte le altre che sono passate per i miei boxer.

    Mettiamola così, il mio brutto carattere e la mia capacità di dare spettacolo agli incontri hanno fatto credere a un sacco di ragazze che potessero addomesticarmi, salvarmi, o che cazzo ne so di come ragiona una ragazza.

    Mi sono addomesticato da solo.

    Ho dovuto, più che voluto, e ho iniziato a trovare tutta quell’eccessiva attenzione più squallida che eccitante.

    Kyle mi guarda con un sorrisetto storto. «Non troverai mai una ragazza facendo così,» dichiara zigzagando un indice sul mio naso come neanche Zorro riuscirebbe a fare.

    Vorrei staccargli il dito, ma mi limito a rispondergli tra i denti: «Io non faccio niente.»

    «Esatto. Se continui a comportarti come un eremita, finirai per morire zitellone e sbranato dai tuoi gatti.»

    «Fottiti.»

    «È sulla lista delle cose da fare appena la trovo.» Mi fa pure l’occhiolino, il fenomeno.

    Il mio umore peggiora quando Kyle si sbraccia per salutare due compagni di squadra, seduti a un tavolo in fondo. Li conosco, ovviamente, ma non li considero amici solo perché ho scambiato sì e no una dozzina di frasi in palestra: non sono un gran chiacchierone e neanche un fan delle cazzate sparate per stare al centro dell’attenzione. In realtà sono piuttosto anonimo e noioso, e mi piace così.

    La speranza di tornare velocemente a casa svanisce nel momento in cui vedo il mio coinquilino farsi strada per raggiungere Brooks e Powell.

    Lo afferro per un braccio, fermando la sua corsa da puledro felice. «Amico, voglio tornare a casa.»

    «Non fare il guastafeste. Ci fermiamo solo a salutare.»

    «Non dovremmo neanche essere fuori a quest’ora. Domattina alle sette dobbiamo essere agli allenamenti.» So già che non servirà a nulla ricordarglielo. Lo capisco dallo sguardo vacuo mentre riflette, impegnato in chissà quale calcolo.

    E infatti: «Rilassati, Stone. Dormiremo di più domani notte,» mi dice, dandomi una pacca sul pettorale sinistro.

    Lo giuro, non è finto, è nato proprio così.

    «Se tra mezz’ora non siamo fuori di qui, torni a piedi,» lo avverto, anche se sono abbastanza sicuro che non mi abbia sentito.

    Domattina la pagherò, ma sinceramente mi costa una fatica immane discutere con lui, un po’ come cercare di spiegare il calcolo differenziale a un dodo. Stasera non sono dell’umore per essere paziente con i dodo.

    Lo guardo distanziarmi con lunghe falcate. Immagino che se avesse cinque anni saltellerebbe per la sala, ma per mia fortuna li ha passati da un pezzo, perciò mi risparmia lo spettacolo. Non ho mai incontrato una persona felice come lui, senza un problema al mondo. È un essere strano e raro nel mio universo cupo. Forse è per questo che riusciamo a essere amici e…

    L’urto mi coglie impreparato.

    Riesco a restare in piedi solo per via del piccolo peso che impatta sul mio fianco sinistro e dell’abitudine connaturata a reagire durante un match. Bilancio le gambe e afferro per le spalle questo minuscolo bolide che è spuntato da dietro una colonna.

    Noto tre cose in rapida successione: ho tra le mani una ragazza che profuma di agrumi e cioccolato, un odore così buono che ha effetti devastanti sulla mia intelligenza, tanto che resto impalato più del dovuto; non avevo mai visto degli occhi grigi su una donna e questi hanno il mare in tempesta dentro, screziati di bianco e oro, sono stupendi; il bordo del vassoio, conficcato nelle mie costole, stimola l’unico neurone libero ad allontanare poco gentilmente la cameriera del locale.

    «Sta’ più attenta,» abbaio scontroso e irrequieto, superandola mentre dietro di me sento un: «Mi dispiace,» borbottato e di sicuro poco dispiaciuto.

    Stranamente devo forzare la testa a puntare avanti per non voltarmi a guardarla.

    Non è da me, non sono mai curioso, soprattutto con le ragazze che mi conficcano oggetti contundenti nelle costole, ma quel profumo a quanto pare crea dipendenza, perché giuro che potrei iniziare a salivare come il cane di Pavlov se dovessi annusarlo ancora.

    Quando arrivo al tavolo e faccio un cenno con la testa ai ragazzi, mi rendo conto di lasciare andare un respiro che non so di aver trattenuto. Costringo la mente, allenata da anni di esercizi sull’autocontrollo, a scacciare l’immagine di due occhi del colore dell’oceano d’inverno. Neanche a farlo apposta, la musica nel locale sembra prendermi per il culo con Trip Switch dei Nothing but Thieves.

    Questo chiaramente non è il mio giorno fortunato.

    Massaggio il collo, frustrato, e tiro giù il cappuccio della felpa. Mi rassegno a passare la serata qui, la gamba destra che balla nervosa sotto il tavolo.

    Nel giro di poco mi ritrovo con un caffè davanti e le voci dei ragazzi in sottofondo. Non seguo la conversazione su statistiche, ragazze, feste e roba di cui non mi importa. Ci metto poco a isolarmi con la mente.

    Siamo seduti nella zona in fondo, nella seconda sala, sui divanetti in vinile verde contro il muro, e abbiamo la vista sull’ingresso e i tavoli lungo la vetrina. Ho le mani dentro le tasche della felpa col logo della squadra, la testa poggiata al muro, mentre osservo la gente che entra e esce.

    È solo martedì, perciò non c’è la folla del fine settimana. Ragazzi e ragazze della nostra età restano poco, dato il mortorio intorno a noi; molti vengono per cenare con un panino e patatine, poi se ne vanno. Ci sono solo due famiglie con dei bambini piccoli, ma sono nella sala dal lato opposto e grazie a Dio non danno fastidio.

    Le cameriere sono tre stasera, il piccolo bolide dagli occhi di tempesta, una biondina dall’aria timida e una ragazza molto bella dai lunghi capelli neri. Devono avere la nostra età, più o meno, un sacco di studenti lavorano al college. Le borse di studio sono spesso parziali e non coprono le spese quotidiane di un normale studente, soprattutto se non è residente nello stato, perciò molti si arrangiano con occupazioni part time o lavori retribuiti presso l’università stessa.

    A volte penso che la borsa di studio da atleta sia stata la mia salvezza. Quella e l’aiuto della nonna mi hanno portato via da quel buco barocco che mia madre si ostinava a chiamare casa. Col bonus di andare via dallo stato, lontano da mio padre e con abbastanza indipendenza economica da non dover chiedere loro più nulla.

    La merda si pulisce in tanti modi, avere i soldi per andarsene è uno di questi.

    Pensare a dove sono cresciuto mi lascia sempre un sapore amaro, perciò evito di farlo.

    Sono diventato bravissimo a evitare tutto ciò che mi aggroviglia lo stomaco. Campione mondiale di salto in avanti, ho lasciato dietro di me tutto ciò che non voglio affrontare.

    Io non ne parlo, il passato non esiste. Nessuno ne sa niente, per quello che interessa agli altri potrei essere il figlio del giardiniere del campus, ma a me sta bene così.

    Per una volta voglio essere io a determinare chi sono: Jay Stone, studente al terzo anno, wrestler nella squadra universitaria e decido per me stesso da tre anni.

    Non lo fa mia madre.

    E cazzo no, non lo fa quello stronzo di mio padre.

    Per cui, per come la vedo io, adesso è il momento di evitare di pensare.

    2

    LIA

    Accidenti alla gente che non guarda dove mette i piedi.

    Sono passati sei anni dall’ultima volta in cui sono andata a sbattere contro un cliente. La mia media di incidenti sul lavoro adesso è rovinata.

    Quell’estate lavoravo nel ristorante italiano dei miei genitori ad Aurora, Scotty Robertson era su di giri per la cresima della nipote e la ventina di brindisi che aveva già fatto; ricordo che si muoveva a scatti come un Pac-Man ubriaco tra i tavoli, evitarlo fu impossibile: rovesciai sul pavimento sei porzioni di tiramisù e due di torta di mele, un inconveniente che le urla di mia madre resero memorabile.

    Per fortuna poco fa il vassoio era vuoto. Oggi non sono spiritualmente preparata per una figura di merda in grande stile nel locale dove lavoro da mesi, per quanto al momento sia mezzo vuoto.

    Comunque, in genere sono la regina delle cameriere. Sul serio, faccio questo lavoro da quando sono piccola: sono imbattibile in equilibrismo su vassoi, giocoleria coi piatti e ostentare una calma da fare invidia a un monaco zen.

    Non stasera, a quanto pare.

    La calma è andata a farsi benedire per colpa di un tizio con la testa per aria, un gigante fatto di granito su cui mi sono quasi divelta una spalla. Un gran bel pezzo di granito, a giudicare da quanto era piatto e duro il suo stomaco sotto il mio palmo in quei pochi istanti in cui ho cercato di riprendere l’equilibrio. Non che ne abbia avuto bisogno, mi ha maneggiata come se fossi fatta di piume e rimessa in piedi nel tempo di un respiro.

    Forte. Massiccio.

    Il calore delle sue mani grandi lo sento ancora sulle spalle, neanche avesse lasciato un’impronta sulla pelle. Cosa inquietante da pensare e stramba persino per me.

    L’ho guardato per circa tre secondi, ma il cappuccio della felpa mi ha fatto intravedere solo una barba nera, corta, da cui sporgeva il labbro inferiore ben disegnato, la punta di un naso dritto e oltre solo un’ombra vaga.

    Mentre avanzo verso un tavolo occupato da alcune studentesse, la parte ossessiva di me continua a cercare di completare il puzzle per mettere insieme il viso sotto il cappuccio, anche se è una pessima, pessima idea.

    Una felpa nera con cappuccio.

    Ma quale idiota presuntuoso se ne va in giro a capo coperto in un locale perfettamente illuminato, senza guardare dove mette i piedi? Chi si crede di essere, un ninja in incognito? Che poi, alto e con due spalle come quelle non è che passi proprio inosservato, come assassino prezzolato non sarebbe granché richiesto.

    Mentre segno l’ordine delle tre ragazze, controllo con la coda dell’occhio dove si è seduto il gigante con il suo amico biondo. Divanetti in fondo, zona servita da Helena, tavolo in cui già stazionava suo cugino Colin.

    Sento il disappunto piegarmi le labbra e cerco di fare in modo che la faccia non mi tradisca più del dovuto.

    Atleti in libera uscita e neanche di quelli innocui per la mia sanità mentale. No, proprio i lottatori della squadra di wrestling.

    Merda! L’universo mi odia.

    Tra tutte le persone con cui potevo scontrarmi, proprio un lottatore?

    Sento il cuore che inizia a battere contro le costole per sfuggire all’ansia, la testa ci mette un po’ a riconnettersi con questa realtà in cui non sono più nell’Illinois ma nell’Iowa, lui non è Thomas, e non è il momento di tirare fuori i ricordi.

    È solo uno stupido atleta del cavolo.

    Se c’è una cosa che mi dà sui nervi sono le persone stupide. La seconda in classifica invece è l’arroganza: nella sua voce bassa e graffiata ce n’era un bel po’, anche se il disappunto, più che un insulto, è sembrato una carezza ruvida.

    Imbecille d’un atleta.

    Ho ancora il cuore a mille. Non mi piace essere presa alla sprovvista, non da ragazzi grandi, grossi e maleducati: stasera a quanto pare ho sbancato.

    Mi sforzo di non pensarci e torno al mio lavoro. Segno altri due ordini dai tavoli davanti alla vetrina, la mia zona di competenza, poi mi assicuro che Mikey, il proprietario, non abbia bisogno di me al bancone.

    Sono dietro il separé che nasconde il corridoio per i bagni e la porta della cucina, quando la voce irritata di Helena mi raggiunge.

    «Quell’idiota di mio cugino sta ricevendo degli ospiti. Ci manca giusto che trasformi questo posto nella sua personale sala visite.»

    «Ti sta dando il tormento?» Trattengo un sorriso, mentre fa cadere il vassoio sul ripiano dello scaffale pieno di scorte.

    «È venuto al mondo solo per questo. Mia zia deve averlo cresciuto con l’obiettivo di renderlo una piaga per il genere femminile. Non ha alcun motivo di stare in un locale come questo, lo fa solo per farmi impazzire.»

    Helena Ramos-Payne e Colin Brooks sono cugini, ma potrebbero essere scambiati per fratelli tanto si somigliano: i geni latini delle loro madri si mescolano benissimo a quelli americani dei padri, dando vita a una bellezza vibrante che non passa inosservata. Il carattere estroverso di Helena e l’egocentrismo di Colin rendono la loro relazione piuttosto vivace e conflittuale, ma nella loro disfunzionalità si prendono cura l’uno dell’altro.

    «Forse ha semplicemente fame. O vuole assicurarsi che tu stia bene,» tiro a indovinare.

    Una smorfia le increspa le labbra. «Ma per favore. Colin è talmente innamorato di se stesso che la relazione più lunga che ha avuto è stata con la sua mano destra. Ma immagino che con la fila di ragazze che staziona di fronte alla sua porta, anche quella relazione profonda sia naufragata.»

    Tira via dal taccuino il foglietto con un ordine scribacchiato sopra e me lo porge. «È del tavolo di Colin,» spiega.

    «No.»

    Pausa. Ci fissiamo per diversi secondi senza che nessuna dica niente: è più uno scontro di sopracciglia sollevate e bocche imbronciate. Una cosa da ragazze.

    Non importa quanto mi guardi storto, questa cosa non succederà. Tengo le braccia incrociate senza accennare a prendere quel dannato foglietto.

    «Andiamo, solo per questa volta, Lia,» insiste.

    «Helena, non andrò al tuo posto a servire quel tavolo.» So cosa sta facendo, sono settimane che vuole accasarmi con suo cugino e sono settimane che le ripeto la stessa solfa. «Smettila di appiopparmi Colin.»

    Sbatte il foglietto sotto il mio naso, decisa. «Questa astinenza monacale deve finire. Sulla tua lapide ci sarà scritto: Suor Annalia Mason, morì vergine e martire, ricordata con affetto per essere testarda come un mulo.»

    «Per la verginità sei in ritardo di tre anni e i muli sono animali molto intelligenti, perciò grazie,» ribatto divertita. «Comunque non sono in astinenza, semplicemente non ho alcuna intenzione di uscire con tuo cugino.»

    «Va bene, nessun problema. Tra l’altro è un coglione, non ti perdi niente.» Scrolla le spalle, le mani sollevate.

    Non me la bevo neanche per un secondo. Infatti, prende fiato e prosegue: «Ci sono altri tre ragazzi a quel tavolo, scegli quello che vuoi e siamo a posto. Fammi contenta.»

    «Cosa sei, il responsabile marketing del dipartimento di atletica?» le domando seccata. Indico le mie labbra con l’indice: «Segui il labiale, Lena: neanche morta. Non esco con gli atleti, lo sai.»

    «Potresti infrangere quel tuo stupido voto, per una volta.»

    «Non è un voto, è una presa di coscienza.»

    «Dì alla tua coscienza di fare un’eccezione per stasera.»

    «Mi conosci: sono impulsiva, esigente ed emotivamente instabile. Ti sembra che abbia la pazienza per accarezzare l’ego di un bestione narcisista per tutto il tempo?»

    Mi guarda perplessa. «Sul serio? Con tutto quello che c’è da accarezzare, la prima cosa che ti viene in mente è l’ego?»

    Scoppio a ridere di fronte alla sua faccia delusa dal poco interesse che dimostro. Nel suo mondo è come rifiutare un invito a corte da parte della regina. La capisco, sono cresciuta nello stesso mondo, ma se sapesse che siamo così simili, penso darebbe di matto e mi trascinerebbe a quel tavolo per i capelli.

    «Mi appello al quinto emendamento, ma tu smettila di cercare di farmi uscire con palestrati e atleti, non sono il mio tipo.»

    «Adesso hai anche un tipo?» mi domanda scettica.

    «Certo. Alto, con gli occhiali, intelligente, spiritoso…»

    «Stai descrivendo Albus Silente o il tizio brufoloso della caffetteria all’angolo? Perché non uscirai con nessuno di quei due sfigati finché avrò vita.»

    «Non voglio uscire col tizio brufoloso,» protesto un po’ schifata. Picchietto il mento con l’indice, pensierosa: «Anche se Albus è affascinante, se ci pensi.»

    Alza al cielo i bellissimi occhi da gatta. «Tu non esci con nessuno. È questo il problema.»

    Io davvero non la capisco questa fissazione per farmi accoppiare con qualcuno, neanche fossi un panda albino in via d’estinzione. «Perché dovrebbe essere un problema?»

    «Hai vent’anni e non sei vedova, anche se fai di tutto per sembrarlo.»

    Il riferimento alla vedovanza mi fa sussultare, ma Helena è troppo presa dalla sua crociata per accorgersene. Afferro un vassoio e inizio a riempirlo di tovaglioli e posate confezionate da portare ai tavoli da apparecchiare, giusto per tenere le mani occupate.

    «Il nero mi dona e snellisce, lo sai,» cerco di scherzare con tono leggero, anche se per me è tutto tranne che un gioco. «E comunque sono andata a cena con Luis Morello due mesi fa.»

    Helena sbuffa così forte che le ciocche sulle mie tempie, sfuggite alla coda, mi si infilano negli occhi. «Era tutoraggio di statistica, non un appuntamento. Luis Morello è chiaramente un nerd.»

    «Beh, i nerd sono il nuovo figo, non lo sai?» ribatto facendole l’occhiolino.

    «Oh, per favore! Dai uno sguardo a quei ragazzi seduti con Colin e ripeti questa identica frase senza che ti cresca il naso o ti si accorcino le gambe.»

    «Non voglio guardare nessuno. Io non esco con gli atleti, non li frequento, non ci voglio avere niente a che fare. È così e basta.»

    «Perché?» Ora è esasperata. La capisco. Lo sarei anche io al posto suo, ma non cambierò idea.

    Siamo colleghe da mesi, abbiamo spesso il turno serale insieme visto che la mattina siamo a lezione; diventare amiche è stato abbastanza naturale. Siamo affiatate, mi fa ridere e la adoro.

    Il problema è che ho mentito.

    Non su tutto. Non di proposito.

    Non ero pronta quando ci siamo incontrate. Non lo sono adesso, anche se lei mi piace.

    Raccontare certe cose è difficile. Per me, almeno.

    A volte, parlare vuol dire aprire la propria pelle e far dare un’occhiata dentro di sé a degli estranei. A volte vuol dire ammettere che sanguiniamo ancora, anche se siamo bravi a nasconderlo.

    Non voglio sanguinare. Non di nuovo. Soprattutto non davanti ad Helena.

    Ho passato gli ultimi cinque anni a innalzare difese sulle crepe pericolanti che mi rendono fragile, così che nessuno potesse farmi male. Ho difeso il ventre molle di quella parte sognante ed emotiva, coprendola con battute al vetriolo e una sana distanza dagli altri. Forse mi giudicano testarda e rigida, ma non mi importa, finché riesco a tenere la mia vita sotto controllo.

    In ogni caso, non mi avvicinerò a quel tavolo. Questo significa che mentirò ancora una volta o almeno darò una versione distorta della verità.

    Fisso il pavimento, mi massaggio la fronte ed elaboro una risposta che possa far cessare questa sterile discussione. Quando inizio a parlare senza guardarla in faccia, la voce suona amara alle mie stesse orecchie: «Sono uscita con degli atleti. Non fare mai l’errore di credere di essere importante per uno di loro, perché niente vale quanto la squadra, la competizione o la vittoria. Sono dei narcisisti nel migliore dei casi, arroganti drogati di adrenalina nei giorni buoni e degli stronzi egoisti nel peggiore.»

    Quando sento il raschiare ritmico dello schiarirsi di una voce, sollevo la testa di scatto. Due occhi verde chiaro mi guardano da sopra la testa di Helena, freddi e alteri sotto le sopracciglia aggrottate.

    Riconosco l’altezza, la corporatura massiccia e la felpa con il logo della Northriver University Wrestling. So che è il gigante con cui mi sono scontrata poco fa, anche se ora il suo viso è scoperto e non fa nulla per nascondere l’espressione sprezzante.

    Mi sento gelare, le gambe due tronchi rigidi incollati al pavimento. Poi penso che ho il diritto di dire quelle cose, un diritto che mi sono arrogata con dolore e lacrime, e vaffanculo se Mister Arroganza non è soddisfatto.

    Raddrizzo la schiena e ricambio lo sguardo, sopracciglio inarcato, braccia incrociate e tutto il repertorio da stronza in bella mostra. Avanti, prova a dirmi qualcosa, bestione, penso, anche se non ho il coraggio di aprire bocca.

    Di fronte al mio piccolo atto d’orgoglio, il gigante si limita a scrutarmi con quei fanali verdi acqua pieni di ciglia nere, mentre un angolo della bocca si solleva in un ghigno. Ha un’espressione diabolica, vuole mettermi a disagio, soppesarmi e farmi sentire piccola. Lascia scorrere lo sguardo sul mio corpo con occhio clinico, risale lungo le gambe, i fianchi, fissa il seno, il collo e le labbra tenute strette, e infine incontra il mio sguardo arrabbiato.

    Dovrei sentirmi indignata, ma sono troppo presa a non far vedere quanto sono scossa, ogni briciolo di controllo a tenere a freno le emozioni. In questo momento non sono neanche sicura di quali siano, passato e presente si accavallano sino a confondere dolore, rabbia ed eccitazione. Sento il panico in arrivo insieme ai ricordi e distolgo lo sguardo per evitare di alimentare la tensione.

    Lui avanza verso di me e, davvero, vorrei restare imperturbabile, ma credo che il cuore esploderà da un momento all’altro. Però il gigante si limita a passarmi accanto, il viso indifferente come se fossi una nota a margine della sua vita; mi sfiora una spalla per via dello spazio ristretto ed entra nel bagno degli uomini senza dire una parola.

    La delusione e il sollievo si rincorrono nello stomaco. Riprendo a respirare, senza neanche aver registrato di aver trattenuto il fiato.

    «Cos’era quello?» domanda Helena, indicando me e la porta del bagno dove è sparito il gigante.

    «La prova che il loro ego è infrangibile.»

    «Credi abbia sentito?»

    Sì, ogni singola parola. «Non ha importanza, è quello che penso. Andiamo, prima

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