La giudice: Una donna in magistratura
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Info su questo ebook
“Un libro temerario, la narrazione di un percorso insieme intellettuale e collettivo, che ci consegna numerosi spunti di riflessione. Un’occasione da non lasciar cadere, che riguarda tutti noi e il mondo nel quale vogliamo abitare.” MELANIA G. MAZZUCCO
Racconto questa storia, la mia e quella di altre, non perché la ritenga particolarmente significativa, ma perché mi ha insegnato che esserci, come donne, nei luoghi decisionali, non basta affatto. Bisogna esserci con il coraggio e la consapevolezza del proprio diverso punto di vista.
Avvocato, giudice, magistrato. Tre mestieri nobili, ambiti. Tre parole di uso comune. Tre sostantivi maschili per cui il corrispettivo femminile non è nemmeno contemplato dalla maggioranza delle persone, come se non fossero professioni cui una donna può dedicarsi, posizioni che una donna può sperare di occupare. Paola Di Nicola Travaglini, giudice di grande esperienza, ha subito per una vita intera i pregiudizi di un sistema intrinsecamente maschilista. Gli sguardi di disprezzo, sufficienza o diffidenza dell’intero contesto giudiziario, i pregiudizi insiti nel linguaggio e nella mentalità comune, la difficile combinazione di vita professionale e personale quando si diventa madri: essere giudice, una giudice, è stata una vera sfida.
Questo libro racconta la progressiva, sofferta presa di coscienza di una donna che è nata e cresciuta in un sistema patriarcale. La sua esperienza personale si unisce a documenti e statistiche che testimoniano come la donna fosse, fino a pochi anni fa, ritenuta inadatta perché troppo, e questa è solo una selezione degli aggettivi usati di volta in volta, “fatua, leggera, superficiale, impulsiva”. E questi luoghi comuni mantengono delle radici che, pur meno salde, devono ancora essere pienamente estirpate.
Perché ciò accada è necessario esporsi, affrontare quelle che sono, ancora oggi, delle ingiuste discriminazioni. La giudice, in questo senso, è un potentissimo strumento di lotta, una testimonianza della esperienza quotidiana di una donna coraggiosa e forte: un racconto di passione, ostinazione e successo.
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Anteprima del libro
La giudice - Paola Di Nicola Travaglini
I
Prima di essere un giudice
e un detenuto eravamo
una donna e un uomo
Prima di essere un giudice e un detenuto eravamo una donna e un uomo che si misuravano in un duello di sguardi. Io sapevo tutto di lui, mentre lui non conosceva nulla di me, a parte il mio cognome.
Dalle intercettazioni telefoniche avevo scoperto ogni cosa della sua vita: il figlio aveva avuto la febbre e la moglie ne era preoccupata; l’azienda andava a rotoli; i rifiuti li gettava senza limiti e ritegno in una piana meravigliosa, per ricoprirli in tutta fretta sotto terra; aveva un nome in codice cattivissimo; non era in grado di articolare una frase che fosse composta da più di cinque parole. Avevo conosciuto tutte le sue debolezze, i suoi modi di dire, le sue astuzie, il suo disprezzo per le regole e per le istituzioni, ma nulla sapevo del tono della sua voce, del colore dei suoi occhi.
Prima dell’interrogatorio avevo cercato di immaginarlo: un uomo a tratti bruno e alto, poi all’improvviso piccolo e ossuto, poi robusto con la carnagione chiara. Il punto è che avevo una grande curiosità di dare un volto a quel nome che si rincorreva, per pagine e pagine, nella mia ordinanza di custodia cautelare in carcere
, dove compariva come uno dei maggiori trafficanti di rifiuti che aveva distrutto, senza scrupoli, la Campania.
Era la prima volta che andavo a Poggioreale. Clang, clang, clang. Questo era il suono sinistro con cui le porte di ferro si aprivano e si chiudevano, l’una dopo l’altra, sotto lo sguardo immobile di una Madonna di gesso. A ogni clang sentivo dentro di me un sobbalzo e l’impulso irrefrenabile di tornare indietro.
Ero io la giudice. Eppure, tra una porta di ferro e l’altra, ero sempre più senza toga, piena di paure, ansie, dubbi. Avevo messo la firma sotto centinaia di pagine fitte di numeri, nomi, date, quintali di rifiuti, ma in quel momento non ricordavo più niente di ciò che avrei dovuto chiedere all’uomo che mi aspettava.
Dentro di me tuonava il suono sinistro dello sferragliare di decine di chiavi e di infinite cancellate che si chiudevano con una pesantezza insostenibile.
Si udiva, nel corridoio tirato a lucido, solo il rumore dei miei tacchi che strideva con quelle mura altissime e i neon accesi anche di giorno. Volevo sparire insieme alle mie scarpe femminili e insulse. E pensare che non le avevo mai messe prima. Come mi era venuto in mente di farlo proprio oggi?
Mi sentivo osservata da tutti, perché mi sentivo fuori posto, fuori contesto, con quella camicetta con i fiorellini piccoli che mi aveva regalato mia sorella Elisa e la collana di perle di zia Luciana. Amuleti dei giorni difficili che lì dentro, però, stonavano in modo inopportuno con le divise blu scuro della polizia penitenziaria.
Nel carcere non potevano esserci colori vivaci, occhi azzurri ridenti e capelli biondi leggermente spettinati, figurarsi frivoli ticchettii sul pavimento. Percepivo che con quel modo di apparire, di camminare, di riempire i corridoi avrei rischiato di non essere presa sul serio, per quello che ero e che istituzionalmente rappresentavo. Il contrasto tra me e quel tetro contorno che stavo attraversando era troppo profondo, mi faceva male, mi procurava un disagio fortissimo. Ma ormai c’ero, con tutti quei pezzi di me che mi pesavano come macigni. In quel momento avrei desiderato avere un completo scuro con cravatta intonata e sobria, una barba grigia ben curata a incorniciare un viso serio e impenetrabile. Se fossi stata così, se mi fossi presentata così, certamente non mi sarei sentita fuori contesto e inadeguata rispetto al carcere, rispetto ai poliziotti, rispetto a Gennaro.
Intanto, insieme al mio giovane e compìto assistente ci avevano fatti accomodare nella sala interrogatori, che mi ricordava tanto il monastero di Camaldoli, vicino Arezzo.
Piccola, raccolta, pulita, spoglia, priva di qualsiasi umanità e superfluità. Era in quella sorta di confessionale laico che dovevo aspettare il mio detenuto
.
Durante l’attesa cercavo di riordinare le idee, di rileggere le parti dell’ordinanza che tenevano quell’uomo in carcere e le domande da porgli, diligentemente scritte, l’una dietro l’altra, in un foglio a parte che, adesso, non trovavo nella mia borsa da Mary Poppins.
Una valigetta ventiquattrore rigida, di colore marrone, con le chiusure automatiche in oro, sarebbe stata più adatta a conservare gli appunti; non avrebbe spiegazzato i fogli e mi avrebbe assicurato un tono più professionale. Ma io le ventiquattrore le ho sempre talmente detestate da arrivare persino ad accettare di perdermi nella mia vecchia borsa blu piena di sorprese degli ovetti Kinder, scontrini appallottolati, chiavi dimenticate, penne senza cappuccio.
Tutto si ammassava confusamente nella mia testa e non mi sentivo pronta ad affrontare questo maledetto interrogatorio. Credevo di essermi preparata molto bene, per avere tutto sotto controllo avevo persino passato la notte in bianco.
Quel carcere, con tutte le sue chiavi, mi aveva chiusa dentro me stessa.
Quando, finalmente, avevano annunciato l’ingresso di Gennaro e del suo avvocato, il mio cuore aveva iniziato a battere all’impazzata. Mi ero aggiustata i capelli con il solito gesto di raccoglierli mettendo l’indice dietro l’orecchio e mi ero ripetuta, inutilmente, decine di volte: Io sono il giudice, io sono il giudice, respira, respira, cercando un po’ di contegno, di autocontrollo.
Forse Gennaro, senza saperlo, aveva capito tutto quello che si muoveva dentro di me prima di varcare la soglia, perché quando c’eravamo trovati l’una davanti all’altro lui si era mostrato sfrontato, forte, sicuro. Il suo sguardo arrogante mi aveva avvolta tutta; non gli era sfuggito nessun particolare della mia persona, i suoi occhi furbi continuavano a percorrermi. Certamente per mettermi alla prova. Era iniziato il nostro duello: Gennaro voleva vincere a tutti i costi, facendo prevalere il mio essere donna e il suo essere uomo sul mio essere giudice e lui il mio detenuto
, come se questo avesse potuto fargli guadagnare la vittoria e quindi la libertà.
Sentivo che il mio sguardo si stava per abbassare. No, non lo potevo consentire in alcun modo. Ancora qualche secondo e sarei crollata, sentendo solo il peso della mia collana di perle e della mia prepotente femminilità e non la loro evidente e insopprimibile diversità.
L’orgoglio e il coraggio di essere una donna alla fine avevano preso il sopravvento. Gennaro credeva che la sua virilità lo collocasse un gradino sopra di me, una montagna sopra di me, una storia millenaria sopra di me. Nel nostro duello, fatto di sguardi e sensazioni, con il quale si era aperto l’interrogatorio, lui stava vincendo perché io ero preoccupata solo di nascondere goffamente quello che mi rendeva insicura e imbarazzata, cioè l’essere prima di ogni altra cosa una donna.
Come se potesse non vedersi, come se fosse una vergogna, come se esserlo mi rendesse inevitabilmente debole, incapace, arrendevole ai suoi occhi. Alla sua cultura. Alla sua subcultura. Dietro quello stato d’animo si muovevano le ombre delle donne venute prima di me, schiacciate dal peso della loro inadeguatezza indotta. Sentivo il rumore delle onde che, giorno dopo giorno, avevano lavato il loro cervello e la loro coscienza: incapaci, inadatte, insicure, fragili. Nei secoli le loro intelligenze, i loro talenti, le loro competenze, il loro fuoco creativo erano stati derubati; come il loro spazio e il loro tempo, a causa di quel corpo che non poteva vivere di vita propria, ma stare e restare al servizio degli altri. Accudire e prendersi cura degli altri, nell’ombra. Anzi, nel buio. Lo stesso buio che immagino sia crollato addosso a mia madre, volitiva, intelligente, bellissima con la sua treccia lunga abbandonata sulla spalla, piena di vita, illuminata da un sorriso carico di progetti e di entusiasmo, quando si sentì negare da mio nonno l’iscrizione alla scuola d’arte perché frequentata da uomini. A mia madre è stato vietato di coltivare le sue capacità perché di lei valeva solo il corpo desiderabile da nascondere. Per preservarla dagli uomini un altro uomo, suo padre, le aveva spezzato i sogni.
Lei non aveva potuto decidere nulla.
Oggi io, davanti a Gennaro, invece decidevo, per me e per lui.
Di fronte a quell’uomo sentivo di essere l’ultimo anello di questa storia familiare, comune a tante altre che l’avevano preceduta. Proprio adesso mi sentivo, più che mai, la figlia di mia madre e di tutte le donne inghiottite dal buio. Su questa strada potevo solo perdere il nostro duello e far perdere l’universo femminile, oltre che l’istituzione che in quel momento rappresentavo. La posta era troppo alta. In una manciata di secondi avevo tenuto fermo il mio sguardo, che era diventato luminoso e fiero, sui suoi occhi neri arroganti; avevo percepito l’orgoglio dei miei capelli a mezza lunghezza e leggermente spettinati, della collana di mia zia, dei fiorellini colorati della camicetta di mia sorella e dei tacchi che purtroppo ora, sotto il tavolo, non apparivano più nella loro frivolezza. Adesso non volevo nascondere quello che ero e che, mio malgrado, si vedeva: chiunque vedeva. Avevo capito che solo vivendo il coraggio della mia diversità rispetto a quell’uomo tarchiato avrei potuto condurre un interrogatorio professionale e sentirmi finalmente un giudice. Anzi, una giudice.
Io mi ero presentata davanti a Gennaro preparata, sistemata, truccata e ben vestita per rispetto del mio ruolo, ma più ancora del suo. Invece Gennaro no. Era trasandato, senza cravatta, con la barba incolta e, soprattutto, senza rispetto e senza paure.
Adesso che mi sentivo sicura, libera da convenevoli, poteva iniziare l’interrogatorio.
«Buongiorno, sono la dottoressa Di Nicola.»
Il tono della mia voce era cambiato, sembrava venisse da un’altra persona. Era cupo, serissimo, profondo, gentile, gelido. Distante. Veniva da quella trasformazione fisica e caratteriale che mi si impone, con prepotenza, quando devo reagire a un sopruso, quando sono piena di rabbia con qualcuno, quando devo affrontare una situazione difficile. È strano per me che accada, anche quando vesto i panni di un’istituzione seria e credibile. Forse dentro, in un luogo profondo del mio essere, per apparire tale, devo fare la voce inquisitoria di mio padre.
Ecco quindi l’altro modo di difendermi.
Se la vista richiedeva uno sforzo fisico e intellettivo per riprendermi e ritrovarmi, la voce era riuscita a fare di più e meglio. Si era impostata su una corda che credevo di non avere e che apparteneva a una parte di me nascosta, che avevo introiettato senza accorgermene: il mio modello di magistrato. Quello non lo vedevo. Lo avevo vissuto, bevuto, mangiato e, a questo punto, digerito, forse da sempre.
Mio padre, la mia guida ingombrante, era un uomo.
I suoi amici, che avevano frequentato la nostra casa e gustato il timballo di scrippelle di mia madre, che erano finiti sotto il piombo per rendere la nostra una democrazia compiuta – Giovanni Falcone, Girolamo Minervini, Mario Amato e Gian Giacomo Ciaccio Montalto – erano uomini.
I pubblici ministeri del pool di Mani pulite, che avevano azzerato una classe politica corrotta restituendo credibilità e dignità alla politica e alla gestione della cosa pubblica, erano magistrati. Gian Carlo Caselli, Marcello Maddalena, Pietro Calogero, che ho conosciuto quando portavo le treccine e oggi mi onoro di chiamare colleghi, che hanno dato lustro alla magistratura per la lotta alla mafia, al terrorismo e alla criminalità economico-politica, erano uomini.
Anche i miei affidatari, cioè i colleghi assegnatimi per apprendere questo lavoro che mi hanno lasciato un’impronta decisa sul modo