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Mi saluti l'Italia
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E-book120 pagine1 ora

Mi saluti l'Italia

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Info su questo ebook

Un errore giudiziario, purtroppo uno dei tanti. Una famiglia stravolta da un omicidio efferato. Affetti messi a dura prova. Legami lacerati. Una giornalista inviata dal suo direttore ad intervistare la vittima di quell’errore, che, lontano dall’Italia, ha riacquistato almeno un po’ di serenità se non la pace. Ma è un’intervista scomoda e complicata per chi si era schierato fra i colpevolisti ad ogni costo e, forse, oltre ogni logica ed ogni prova evidente. In aggiunta, resta ancora un carico di rabbia inespressa per un errore di valutazione mai riconosciuto ed ammesso.
Vite che si intersecano poco a nord del Tropico del Cancro, dove il tepore del sole anche in inverno, il colore del mare, il soffio dell’aliseo, la cordialità della gente, la sensualità delle situazioni, riescono a mitigare tensioni e contrapposizioni, sino a scioglierle del tutto. E si finisce per dover fare i conti con quella parte del corpo che si chiama cuore, che, inspiegabilmente, si sente attratto da chi era stato creduto un mostro. E il cuore comincia a trascinare con sé il corpo, a far accettare chi si era sempre rifiutato, a far vedere le cose da una prospettiva nuova e sicuramente inaspettata.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mar 2023
ISBN9791222088440
Mi saluti l'Italia

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    Anteprima del libro

    Mi saluti l'Italia - Adriano Galli

    ADRIANO GALLI

    MI SALUTI L’ITALIA

    © Adriano Galli 2023.

    Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione non autorizzata.

    Foto copertina: © Tullio Riva 2016.

    Poi, quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.

    (Haruki Murakami: Kafka sulla spiaggia)

    Avvertenza

    I fatti, i personaggi e le vicende narrate in questo scritto sono frutto di fantasia, ogni riferimento a casi accaduti nella realtà è da ritenersi puramente casuale.

    È evidente che la vicenda narrata ha avuto degli incipit dall’attualità, ma non da un solo caso e comunque il mio primo obiettivo era mantenerla a sé stante. Poi ritardi dovuti a situazioni di salute a livello di familiari e di temporanei momenti di riposo della cosiddetta vena poetica, hanno portato un po’ alle lunghe. La vicenda, così come l’ho immaginata, vuole coinvolgere tutto un modo di fare giustizia, con l’iniziale minuscola, in Italia.

    Credo nella Giustizia, con l’iniziale maiuscola, non credo nel giustizialismo che sembra caratterizzare le vicende giudiziarie italiane, soprattutto dal 1992 in avanti. Non mi piacciono le paginate e le interviste sui grandi quotidiani, le maratone televisive dove esperti in discipline semi-sconosciute fingono di accapigliarsi in continuo, i particolari personali, assolutamente al di fuori del contesto del caso, resi noti attraverso la pubblicazione di intercettazioni, che dovrebbero rimanere segrete e segrete non rimangono mai, non si sa per colpa di chi. Non mi piacciono le amicizie troppo strette tra magistrati e giornalisti, con relativo scambio di favori. Non mi piace la spettacolarizzazione della Giustizia, che ha come unico obiettivo il mettere al centro dell’attenzione il magistrato di turno e mettere in cattiva luce un imputato. Non mi piace il modello di riferimento attuale di indagine giudiziaria: individuiamo un colpevole e poi vediamo di trovare le prove che lo incastrino.

    Credo nella Giustizia. Credo nel lavoro di chi, commissario o maresciallo o agente, consuma i tacchi delle scarpe e i pacchetti di sigarette nell’indagine, nella raccolta di elementi, nell’interrogatorio di testimoni o di semplici cittadini, nell’ascolto di intercettazioni che non vengono divulgate e trasforma il tutto in una massa di informazioni. Credo nel lavoro di chi, magistrato, quella massa di informazioni deve leggere, riordinare, intersecare, completare e trasformare in un fascicolo giudiziario. Credo nel lavoro di chi, giudice, quel fascicolo deve leggere, sviscerare, analizzare, completare e, dopo aver sentito le ragioni delle parti in causa, trasformare in una sentenza.

    Credo nella Giustizia che condanna il colpevole, ritenuto tale oltre ogni ragionevole dubbio. Credo nella Giustizia che condanna alla pena, non alla pena meno un terzo perché si è scelto un certo tipo di rito processuale, meno 45 giorni ogni 6 mesi di carcere se ci si comporta bene. La buona condotta deve essere la regola in carcere, non è fonte di premio, è la cattiva condotta che va sanzionata. Abbiamo rovesciato tutti i modelli di riferimento ed il risultato è la situazione attuale.

    Sono un illuso? Molto probabile. O forse, molto più semplicemente, sono un innamorato di questo mio Paese e m’infurio contro chiunque lo calpesti, lo brutalizzi, lo violenti, lo deprima, lo regredisca, lo sfrutti, lo rovini. E poi va a lavarsi la coscienza, postando su Facebook i discorsi di Fine Anno di Sandro Pertini, le massime del Dalai Lama o le foto in bianco e nero delle nostre città negli anni cinquanta.

    Approccio sbagliato

    Che palle! È il primo pensiero che mi passa per la testa. Sono solo dieci minuti che voliamo, ne abbiamo per altre quattro ore e oltre e sono già all’esasperazione. La testa mi scoppia, ma non vedo rimedi possibili. È lunedì. Volo Ryanair da Bergamo a Gran Canaria. Pieno di turisti. Bimbi che strillano, madri che urlano, risate sguaiate, rumore di fondo che supera gli ottanta decibel. L’eccitazione delle vacanze. Ma non per me. Io ci vado per lavoro. C’è poco da ridere, ci vado proprio per lavoro. Mi chiamo Alessandra Giori, compirò trentasette anni venerdì prossimo quando è programmato il mio rientro in Italia. Sono alta un metro e settantatré per poco meno di cinquanta chili, longilinea, atletica grazie a tre sedute in palestra ogni settimana, capelli castano chiari tinti sul biondo, occhi azzurri. Sono leggermente miope, porto indifferentemente lenti a contatto o occhiali da vista con montatura piuttosto vistosa. Oggi ho gli occhiali a causa della sveglia tragica per potermi imbarcare su un volo in partenza alle sette del mattino. Abitando a Milano, sono in piedi dalle quattro meno dieci. Lungo il tragitto da casa all’aeroporto, ho litigato un paio di volte con il cambio dell’auto e ho puntato molto duramente il parcheggiatore che si è messo a fare lo spiritoso quando gli ho dato la destinazione del mio volo. Sono single, ho una storiella da circa due anni con Gianni, un collega molto egocentrico, ma è una storiella che non si decide a decollare, forse siamo troppo abituati entrambi a vivere soli per poter pensare di condividere casa e vita con l’altro. Faccio la giornalista in un grande quotidiano di Milano.

    Ecco appunto. A causa della professione che con tanto entusiasmo mi sono scelta circa una dozzina d’anni fa, ora sono qui, sprofondata in un sedile scomodo all’inverosimile, con lo schienale del sedile davanti all’altezza del mio mento e l’idiota seduto dietro che continua a puntare le sue dannate ginocchia alla mia schiena. Il tizio in questione si agita come un invasato e tenta disperatamente di essere spiritoso con una ragazza spagnola, alla quale è capitata la disgrazia di avere assegnato, o scelto, il posto vicino a lui. Nel sedile di fianco a me c’è un bimbo che, da quando è stato liberato dalla cintura di sicurezza, si siede e si rimette in piedi, sale con i piedi sul sedile, salta sul pavimento, ride, straccia giornalini, mangia caramelle e strepita alla madre, seduta sull’ultimo sedile verso il corridoio, se distoglie l’attenzione da lui. Per distrarmi guardo dal finestrino, ma sono dalla parte del mare, quindi vedo solo una noiosissima distesa di azzurro, ogni tanto intravedo qualche pezzo di costa ligure e poi francese. Dicevo del mio lavoro, la giornalista, a causa del quale mi trovo qui. Il Direttore mi ha dato un incarico. Il mio Direttore: un essere umano duro, implacabile, intransigente, crudele e cinico. Il prototipo di uomo da non sposare mai, anzi, grazie a uomini come lui, la scelta di restare single è non solo doverosa ma obbligatoria per tutto il genere femminile. Alto oltre il metro e ottanta, attorno ai sessantacinque anni, magro, occhi di ghiaccio, occhiali da miope con montatura scura, barba leggermente lunga ma mai trasandata, capelli quasi completamente bianchi e piuttosto lunghi dietro. È sempre molto elegante, di un’eleganza ricercata ma mai evidenziata o pacchiana, abiti scuri o spezzati sportivi, a volte jeans, ovviamente di marca, e blazer, camicie preferibilmente con collo button-down spesso aperto, qualche volta con cravatta o ascot. Ha contribuito in maniera importante alla mia formazione professionale, sono e mi sento, dal punto di vista giornalistico, una figlia sua e gliene sono molto grata, ma l’ha sempre fatto in modo distaccato e freddo e comunque facendomi lavorare come una pazza. Diciamo che non posso definirlo un padre. Da un paio d’anni a questa parte, abbiamo iniziato a scontrarci, ultimamente con più frequenza ed in modo anche abbastanza duro. Ho cominciato a soprannominarlo Torquemada, ma lo sa solo Gianni, non posso fidarmi di altri colleghi. Ho

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