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La vinaia
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E-book263 pagine3 ore

La vinaia

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Info su questo ebook

1957. Matteo, giovane laureato in psicologia, giunge a Faramonte, sull’appennino abruzzese, per lavorare come maestro di scuola. Zelinda in paese è arrivata due anni prima invece, dopo la morte di sua sorella, detta la Vinaia, proprio a Faramonte. Convinta che Turuccio, il giovane handicappato incolpato dell’omicidio, sia in realtà innocente, Zelinda convince Matteo ad aiutarla a indagare. Un’atmosfera ostile e soffocante avvolge però il paese, e ogni abitante sembra una caricatura grottesca di se stesso, con un segreto terribile da nascondere.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2017
ISBN9788863937824
La vinaia

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    Anteprima del libro

    La vinaia - Luigi Lazzaro

    MISTÉRIA

    Luigi Lazzaro

    La Vinaia

    ISBN 978-88-6393-782-4

    © 2017 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Prologo

    Anno 1955

    Tutti in paese la chiamavano la Vinaia. Anche Gerlando, il suo anziano marito, la chiamava così, sia in pubblico sia in privato, perfino quelle rare volte che, raccolte le povere forze dei suoi stanchi lombi, la possedeva e a ogni affondo invocava: «Vinaia, ahhh, Vinaiaaa!». Dopo la morte della prima moglie con cui aveva gestito la bottiglieria per oltre trent’anni, Gerlando si era affannato a continuare da solo il suo mestiere di vinaio, ma il contatto con la clientela lo disturbava e allora gli era venuta l’idea di riaccasarsi.

    Aveva conosciuto colei che sarebbe diventata la sua nuova moglie, la Vinaia, al casino di Pescara, dove Bambina Buongarzone – altrimenti detta FicadiFerro – faceva marchette con grande dedizione e in perfetta letizia.

    Si erano sposati in comune il trentuno dicembre del 1952, lui sessant’anni e lei trenta, e avevano trascorso la loro prima notte sul treno per Roma. Durata del viaggio di nozze: un giorno.

    Arrivati nella città eterna la mattina del primo gennaio, avevano visitato in tram il Colosseo e piazza San Pietro per poi pranzare in una latteria di via del Basilico: un uovo al tegamino con una fetta di pane e un bicchiere di latte ciascuno.

    Alle quindici in punto erano al cinema Barberini, al primo spettacolo di Luci della ribalta. Gerlando cadde subito addormentato e Bambina dovette varie volte dargli di gomito a causa del suo imbarazzante ronfare.

    Alle diciotto e trenta erano di nuovo in treno, e sei ore dopo erano a casa, a Faramonte, alle falde della Maiella.

    La mattina seguente, alle otto, la Vinaia faceva ufficialmente il suo ingresso nella bottiglieria di Gerlando.

    Il locale si trovava al piano terra di un solido edificio appartenente alla famiglia del marito. La bottiglieria, originariamente una rimessa di cavalli e carrozze, era un antro enorme con il soffitto a volta, buio e senza finestre, in cui da oltre sessant’anni l’odore di vino cattivo se la giocava con il tanfo di una pervicace umidità. L’appartamento degli sposi era al primo piano e alla bottiglieria si poteva accedere dalla strada oppure da una scala a chiocciola che partiva dall’abitazione.

    Gerlando era un ometto dall’età indefinibile, corto, secco e di colorito giallastro, con il ventre arrotondato da cui si dipartivano due gambette magre e ricurve, una delle quali accorciata da un’improvvida scheggia di granata. Aveva un testone ricoperto da un riporto di capelli radi e unti; due foltissime sopracciglia contrastavano con la quasi totale assenza di barba, come se la natura avesse voluto concentrare in esse tutta la villosità del corpo. Le mani, perennemente umide, erano nodose e grandi, sproporzionate.

    Le rare volte che camminava per strada insieme a sua moglie, il contrasto non poteva essere più comico. La Vinaia, infatti, era una bionda romagnola alta e robusta che, nonostante le vicissitudini trascorse, conservava un corpo pieno e ben definito. Il suo volto era illuminato da una spensieratezza innocente che ricordava la candida espressione di un vitello. L’oro dei suoi splendidi capelli incorniciava in modo semplice e distratto un viso dai lineamenti decisi ma proporzionati; l’incarnato, di un rosa leggero, aveva la trasparenza di una fine porcellana. Camminava a passi lunghi, falcate energiche di cui seni e glutei cercavano invano di seguire il tempo, con il risultato che quei trabalzi e sussulti offrivano alla vista dei maschi del paese un’ancestrale quanto sregolata danza carnale.

    Nelle giornate di clima mite, la Vinaia amava indossare ampie gonne di seta che il vento e il suo ampio passo facevano aderire alle natiche e al pube con grande delizia di Turuccio, un omone sulla trentina con la mente di un fanciullo, che abitava con la madre in una stamberga ai margini del paese.

    Turuccio era costantemente appostato davanti alla bottiglieria in attesa che la Vinaia uscisse, e quindi la seguiva a poca distanza, masturbandosi attraverso la tasca sfondata dei calzoni. Non che gli altri uomini del paese fossero immuni da tali tentazioni, ma almeno si sfogavano in modo meno plateale.

    La Vinaia attraversava imperturbata quel mare procelloso di desiderio con il candore e l’innocenza di una giumenta. Neanche Gerlando, nel corso delle poche volte in cui si accompagnava a sua moglie, sembrava accorgersi degli sguardi ambigui degli uomini e, tantomeno, del silenzio che calava, improvviso e fragoroso, quando entrava nello stantio odore di fumo e alcol dell’osteria di Compare Caddano per consegnare qualche damigiana di vino.

    La vita dei due coniugi scorreva sul binario dei piccoli eventi giornalieri; la loro conversazione si era ridotta al minimo, anzi, all’essenziale, dopo che Bambina, a malincuore e con rassegnazione, aveva accettato il mutismo del marito.

    Non erano passati molti mesi dal matrimonio che Gerlando iniziò a nutrire una sorta di cupo rancore nei confronti della moglie. La sua vigorosa bellezza era per lui un perpetuo memento della propria inadeguatezza sia fisica che spirituale: lei, creatura radiosa e spensierata; lui, un elfo astioso e risentito scaturito da un tetro recesso della terra.

    Dal momento in cui Bambina aveva fatto il suo ingresso in bottiglieria, gli affari avevano iniziato a prosperare. La Vinaia aveva sempre una parola allegra e gentile per le clienti, e una battuta salace e ammiccante per gli uomini. Lei riempiva bottiglie e damigiane dietro il banco di mescita nella parte anteriore del locale, mentre Gerlando, rintanato nella penombra del fondo, riscuoteva il denaro con sguardo torvo e malagrazia.

    Non era geloso nel senso consueto del termine, non poteva esserlo: se lo fosse stato, sarebbe impazzito nel giro di poche settimane. Lui era geloso di tutto quello che lei era e aveva. Una puttana era Bambina, in arte FicadiFerro. A lei, essere abbietto e inferiore, la natura aveva concesso tutto e ancora di più. Le aveva dato ciò di cui lui era stato deprivato e che rivendicava per sé come diritto naturale: la sua parte di bellezza, prestanza ed empatia.

    Non la odiava. Piuttosto, in un certo senso, la ammirava: avrebbe voluto essere come lei. Nutriva nei suoi confronti un profondo senso di risentimento, quello sì, come se fosse stata lei a togliergli tutto ciò che una natura matrigna non gli aveva dato.

    I loro scarsi rapporti sessuali erano freddi e meccanici. Lei, dall’alto della propria esperienza, accettava con pazienza gli stanchi approcci del marito, come avrebbe fatto con un timido quattordicenne; lo accoglieva nel suo morbido ventre mentre lui nascondeva il viso tra i seni rigogliosi. In più, sopportava di buon grado la sua scarsa igiene personale e gli odiosi epiteti che lui le rivolgeva dopo che, parole sue, «si era finalmente svuotato le palle».

    Un pomeriggio di un freddo giorno di febbraio, Zi’ Biagiuccio aveva deciso di approfittare di una pausa tra una nevicata e l’altra per andare in bottiglieria e riempire il suo fiasco con tre quarti di rosso e una gazzosa. Attraversava le stradine deserte del paese respirando con piacere l’aroma del fumo di legna che si alzava dai camini in lente volute. Le finestre illuminate, screziate di neve, riportavano alla mente del vecchio le capanne di corteccia che suo nonno costruiva per il presepio.

    Girato l’angolo di vicolo del Russo, Zi’ Biagiuccio vide Mastro Carabba a torso nudo nel cortiletto davanti casa: spaccava ceppi di legna con vigorosi colpi di accetta.

    «Zi’ Biagiu’, il solito rifornimento, eh? Neanche un metro di neve te po’ ferma’» disse l’uomo tergendosi il sudore dalla fronte.

    Ora che era fermo, appoggiato al manico dell’ascia, il suo torace villoso emanava un’ampia nuvola di vapore, conferendogli un’inquietante aria di creatura mitologica.

    Il vecchio si trattenne a stento dal farsi il segno della croce e rispose con un sorriso sdentato, affrettando il passo. Mastro Carabba rise con l’arroganza della gioventù, rovesciando la testa all’indietro, e riprese il suo lavoro; a ogni colpo che menava, due canne di vapore gli uscivano prepotenti dalle narici, mentre il ceppo si divideva in parti perfettamente uguali.

    Zi’ Biagiuccio svoltò in via Roma, evitò due cumuli di neve, percorse ancora pochi metri e giunse davanti alla bottiglieria. Lì si fermò, interdetto. La porta di vetro e metallo non era chiusa e, sapendo il vecchio quanto la Vinaia soffrisse il freddo e si affrettasse sempre a serrarla, si domandò chi potesse aver lasciato il battente semiaperto.

    Fuori dal locale, sulla neve, c’era una serie d’impronte che s’interrompevano davanti alla porta; alla luce della lampada, il vecchio notò del movimento all’interno. Si avvicinò, spalancò la porta e vide qualcosa che, a tutta prima, faticò a spiegarsi: in piedi davanti al banco di mescita, di spalle, c’era l’inconfondibile figura di Turuccio che muoveva il bacino ritmicamente avanti e indietro, mentre le sue mani erano appoggiate all’altezza dei fianchi, su qualcosa che si frapponeva tra lui e il bancone.

    Zi’ Biagiuccio avanzò di due passi, e disse: «Turu’, che sti ’ffa… che stai facendo?».

    Turuccio ebbe un violento sobbalzo e si allontanò di un paio di metri con l’espressione terrorizzata e le nocche della mano destra serrate tra i denti.

    Fu allora che il vecchio notò il membro ancora rigido dell’uomo e, appoggiato al bancone un corpo, nudo dalla cintola in giù, ripiegato prono. Le gambe, inerti e flesse, posavano a terra, mentre il busto era disteso sul ripiano.

    Zi’ Biagiuccio, allibito, ebbe appena il tempo di fare un passo in avanti che Turuccio gli passò a fianco di corsa e uscì dal locale, dileguandosi nel grigiore del crepuscolo. Singhiozzava come un bambino. Intanto, il vecchio si era avvicinato alla figura distesa sul banco e notò che il corpo immobile era quello di una donna. Fece un altro passo, si curvò in avanti e quello che vide lo fece urlare come un maiale al macello: appoggiata su un guanciale di capelli d’oro, il vecchio riconobbe la Vinaia. Un segno livido le circondava il collo; nel volto bluastro, sfigurato dal dolore, la lingua enorme, nera, spuntava dalle labbra ferite, mentre gli occhi erano usciti dalle orbite come due biglie di vetro. Le braccia erano tese in avanti e una corda pendeva da ciascun polso, perdendosi dietro il bancone.

    Le grida di Zi’ Biagiuccio avevano richiamato Mastro Carabba che arrivò di corsa a torso nudo brandendo l’ascia come un antico barbaro. Ciò che vide fu troppo anche per lui: uscì di corsa dal locale e vomitò anche l’anima.

    Ancora anno 1955

    A causa dell’abbondante nevicata, il sostituto procuratore Cambusa arrivò solo in piena notte. Nel frattempo una mano pietosa aveva ricoperto il corpo della Vinaia con un lenzuolo mentre il carabiniere semplice Fattenotte era rimasto nella bottiglieria a piantonare il cadavere. Il maresciallo Mollica e il carabiniere Di Blasio, intanto, perlustravano i dintorni alla ricerca di Turuccio: fu rintracciato il giorno successivo, terrorizzato e semiassiderato, nella boscaglia lungo il fiume.

    Per gli abitanti del circondario, che volevano al più presto dimenticare quell’orribile omicidio, la sua cattura chiuse la vicenda. Tutto quadrava: il povero Turuccio, che da anni spiava la Vinaia, avendola trovata sola in un giorno in cui tutto il paese era rintanato in casa per via della forte nevicata, era entrato nella bottiglieria e, rifiutato e forse anche deriso dalla donna, l’aveva strangolata con una corda. Poi, l’aveva legata per le braccia alla parte interna del bancone di modo che il corpo restasse ad angolo retto, e aveva avuto con il povero cadavere ripetuti rapporti sessuali.

    Fine della storia.

    Il maresciallo Mollica finì di scrivere a macchina, tirò fuori il foglio dal rullo, lo firmò, vi appose due timbri e lo consegnò al carabiniere semplice Rocco Fattenotte, un giovane molisano da poco arruolato.

    «Allora, Fatteno’, con questo foglio, insieme alla convalida dell’arresto di Ettore Lumaca, detto Turuccio, possiamo richiedere l’invio del cellulare per il trasferimento presso il carcere. Tie’… pensaci tu.»

    Il giovane prese il foglio e rimase fermo, in piedi davanti alla scrivania del maresciallo, senza parlare.

    «Che succede, Fatteno’, c’è qualcosa che non hai capito?» chiese Mollica.

    «No, no, tutto chiaro, marescia’… solo che, ecco…»

    «Avanti, Fatteno’, che hai da dire, c’è qualcosa che non va? Jamme, su, parla!»

    «Ecco, marescia’, con tutto il rispetto, la ricognizione cadaverica dice che la Vinaia è morta intorno alle due del pomeriggio.»

    «Sì, Fattenotte, questo lo sappiamo. E allora?»

    «La nevicata è iniziata alle quindici e trenta circa. Ora, maresciallo, le orme di Turuccio erano nella neve già alta, quindi Turuccio è entrato nella bottiglieria, diciamo… verso le quattro e mezzo.»

    «Eh, vabbe’» lo interruppe il maresciallo «magari l’ha uccisa alle due e mezzo, poi gli son venuti gli appetiti ed è tornato.»

    Il giovane carabiniere annuì dubbioso. Poi, imbarazzato, disse: «C’è anche il fatto delle corde, maresciallo».

    Mollica si alzò spazientito. «Fattenotte, ora capisco perché porti quel cognome. Qui si fa veramente notte a correre dietro alle tue… indagini, diciamo così.» Quindi sospirò, rassegnato, sedette e disse: «Allora, sentiamo: che hanno le corde? Ma facimm ampress, guaglio’, facciamo in fretta».

    «Sì, marescia’, certo. Allora: la fune che è servita a strangolare la Vinaia aveva… ha, alle estremità, delle maniglie abbastanza complicate, cosa che comporta la premeditazione. Poi, le due corde che sono state usate per legare i polsi della donna al bancone sono di uguale lunghezza e recise di netto con uno strumento affilatissimo…»

    «Eh, e allora?» interruppe il maresciallo.

    «Ecco, quello che voglio dire è che anche in questo caso siamo davanti a un atto premeditato» aggiunse il giovane carabiniere, che continuò: «Quante volte abbiamo controllato e perquisito Turuccio? Decine di volte e mai, dico mai, gli abbiamo trovato addosso qualcosa che potesse anche lontanamente far pensare a un coltello o a qualcosa di simile». Fattenotte tacque per qualche secondo, poi spostò il peso del corpo da una gamba all’altra e finì: «Gli orari che non quadrano, la presenza di premeditazione, l’uso delle corde, la ridotta capacità psichica del Lumaca, le impronte nella neve… sono tutti elementi che dovrebbero scagionare Turuccio, non crede?».

    Il maresciallo sospirò profondamente, si alzò e andò a chiudere la porta. Rimase in piedi davanti al giovane, lo guardò fisso negli occhi e disse: «Bravo, Fattenotte, bravo. Potresti anche aver ragione, ma tu credi che il sottoscritto e l’ufficio della procura non ci abbiano pensato? D’altro canto, giovanotto, il Lumaca era sul luogo del delitto». Giunse le mani come in preghiera, muovendole avanti e indietro. «Chill se stava a scopa’ ’o cadavere, ti rendi conto? Quindi, riepilogando: era presente sulla scena del crimine e, inoltre, da anni perseguitava la Buongarzone… è che lei non l’ha mai voluto denunciare per molestie, ma se avesse voluto, ce ne aveva da denunciare!»

    A quel punto, il maresciallo abbassò il tono della voce, prese Fattenotte per un gomito e lo guidò verso il fondo dell’ufficio, lontano dalla porta.

    «Pensaci giovanotto» disse. «L’arresto di Turuccio fa comodo a tutti: agli abitanti del paese, che, in fondo in fondo, hanno paura di questo mezzo pazzo; fa comodo a noi e alla procura, che chiudiamo questa brutta storia prima della visita pastorale del vescovo tra un mese; fa comodo a quella poverazza della madre, che non ce la fa più ad accudire quello squinternato; e poi, la persona a cui fa più comodo di tutti è proprio il signor Ettore Lumaca, detto Turuccio. Finalmente qualcuno si prenderà cura di lui in modo serio.» Il maresciallo guardò fisso il giovane carabiniere. «Capito, ragazzo? No, dico… hai capito quello che ho detto e, soprattutto, quello che non ho detto?»

    Fattenotte si grattò la testa, titubante. «Eh, credo di sì, marescia’.»

    «Bene, Fattenotte, allora puoi andare… va’!»

    Il giovane si avviò verso la porta, poi si voltò, incerto. «Sì, però ci potrebbe essere un assassino in giro.»

    Il maresciallo fece un gesto di congedo con gli occhi rivolti alle carte sulla scrivania e disse distrattamente: «Eh, Fatteno’, ce ne sta’ tanti d’assassini in giro… mò, proprio del presunto omicida di Faramonte ci avimma preoccupa’? Va’, guaglio’, va’».

    «Agli ordini, maresciallo, agli ordini.»

    Capitolo primo

    Due anni dopo, 1957

    L’uomo arrivò a Faramonte una sera di ottobre che pioveva. E pioveva. Sembrava che non dovesse più finire; erano tre giorni che veniva giù senza alcuna sosta. Le radici dei faggi che ricoprivano la parete scoscesa della montagna cominciavano a perdere la presa sul terreno. Molti alberi si erano già inclinati ad angoli preoccupanti e i vecchi, all’osteria, parlavano della terribile frana del 1922, precisamente il ventotto ottobre. Sì, proprio il giorno della marcia su Roma; giorno disgraziato quello, quando un ettaro di montagna franò su Faramonte trascinando via la vecchia chiesa di San Pietro (con annessi parroco, scaccino, perpetua e beghine) e la scuola con i suoi ventinove bambini, cancellando così un’intera generazione di faramontaioli.

    Il giorno in cui l’uomo giunse in paese era proprio il ventotto ottobre del 1957, il trentacinquesimo anniversario della marcia su Roma e della terribile frana.

    Erano esattamente le diciotto e dodici minuti quando, dopo aver parcheggiato nella piazza la sua Fiat 600 color sabbia, l’uomo entrò nell’osteria.

    L’osteria non aveva nome, era l’unica del paese e tutti conoscevano il proprietario: Compare Caddano. Che bisogno c’era di darle un nome?

    Il fatto che l’ingresso dell’uomo avvenisse alle diciotto e dodici viene ancora oggi ricordato. Ma non per via dell’improvvisa apparizione dello straniero, cosa di per sé già memorabile in un dimenticato paese dell’Appennino abruzzese dove chiunque non sia nato e cresciuto nel raggio di dieci chilometri è considerato con una diffidenza molto vicina all’intolleranza, ma perché il suo arrivo coincise con un’improvvisa quanto provvida tregua meteorologica. La pioggia smise di cadere da un secondo all’altro, cosa che servì non poco a mitigare l’istintiva ostilità dei faramontaioli nei confronti dello sconosciuto.

    L’osteria era affollata: d’altronde, l’insistente pioggia non invitava ad altre attività.

    Il locale era un enorme ambiente con il soffitto a volta, pregno del tanfo di vino e sigaro toscano. Non aveva finestre ma, in compenso, un’ampia vetrina d’ingresso forniva luce per illuminarne a sufficienza una metà. Oltre al banco di mescita c’erano una decina di tavoli di legno, ciascuno corredato di quattro sedie di paglia. Sul lato destro del bancone, una RadioMarelli era appollaiata su un alto trespolo. Sul fondo del locale, uno spazio delimitato da due mezze pareti in cartongesso racchiudeva due tavolini di formica celeste con sedie dello stesso materiale e gambe in metallo cromato.

    L’uomo era appena entrato, camminando sul pavimento ricoperto di segatura, quando una voce si levò con la solennità degli annunci prodigiosi: «Non piove più!».

    Si alzarono tutti, chi per uscire a guardare il cielo, chi per scrutare dalla vetrina; solo l’ottuagenario Compare Caddano rimase seduto sulla sua sedia di paglia a fianco del banco di mescita, con il cappello ben calzato e le mani appoggiate sul bastone che teneva sempre tra le gambe.

    Lo straniero indossava uno di quegli impermeabili leggeri con cinta e berrettino in tinta che

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