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L'arcano della papessa: Intrigo alla corte dei Borgia
L'arcano della papessa: Intrigo alla corte dei Borgia
L'arcano della papessa: Intrigo alla corte dei Borgia
E-book153 pagine2 ore

L'arcano della papessa: Intrigo alla corte dei Borgia

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Info su questo ebook

14 dicembre 1499, Roma. Secondo alcuni la fine del mondo è questione di giorni. L’Anticristo sarebbe già sulla terra, nella persona di papa Alessandro VI Borgia.

Uno dei suoi più eminenti cardinali, Alessandro Farnese, incarica il proprio medico di fiducia Tiberio di far luce sulla morte del suo segretario, don Lucio, trovato cadavere nei pressi del Tevere. Ciò che poteva ridursi a un semplice esame autoptico si rivela in realtà il primo passo di un irto e concitato percorso d’indagine. Messo sulla pista giusta da un’ancella di Lucrezia Borgia, prima che costei muoia avvelenata, Tiberio si trova a investigare su una misteriosa setta neopagana, i cui adepti si accingono a sacrificare una vittima innocente.

Bisogna fermarli. Entro il solstizio d’inverno.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mag 2017
ISBN9788863937046
L'arcano della papessa: Intrigo alla corte dei Borgia

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    Anteprima del libro

    L'arcano della papessa - Luca Filippi

    Prologo

    La donna era vestita di nero. Sollevò il calice, e il cristallo scintillò alla luce del fuoco. Poi si mosse come scivolando, e si accostò al giovane uomo.

    «Bevi» disse lei, le labbra scosse da un fremito, nell’oscurità. Aveva un tono che non ammetteva repliche.

    L’uomo prese il calice e inalò le esalazioni del liquido ambrato. Bevve. Sentì un calore diffondersi attraverso la pelle e salire su, fino al collo, a strozzargli il respiro.

    Ebbe appena il tempo di vedere gli occhi di lei. Asciutti, senza un velo di lacrime.

    Poi, il buio.

    Post mortem

    Roma, 14 dicembre anno Domini 1499, mattino

    Gigli azzurri in campo oro.

    Dalla finestra riconobbi lo stemma sulla fiancata della carrozza. Il vecchio domestico del cardinale era venuto a consegnarmi una lettera. Poche parole, vergate con grafia elegante: Sua Eminenza mi convocava presso il suo palazzo romano. Non mi stupii: spesso ricorreva a me per piccoli consulti.

    Il mio nome è Tiberio di Castro, e sono un medico. Sono nato e cresciuto in un piccolo paese alle porte di Viterbo, la città dei papi. Ho lasciato la mia terra per apprendere l’arte e la scienza della medicina. Ho avuto il privilegio di studiare con maestri illuminati e anche con gli infedeli, i mori, tra i quali si noverano eruditi dalle sorprendenti conoscenze nel campo della fisica e dell’astronomia.

    Giunto a Roma, cuore pulsante della cristianità, grazie a qualche piccolo successo diagnostico mi sono guadagnato la stima di alcuni potenti, che mi chiamano in caso di bisogno.

    Montai sulla carrozza, il tragitto non sarebbe stato lungo. La giornata era fosca e minacciava pioggia. Tirai la tenda e rimasi nell’ombra. Chiusi gli occhi, cercando di riposare.

    Prima dell’alba, il mio sonno era stato interrotto da un incubo. Ricorreva da molte notti ormai: vedevo una donna vestita di nero che porgeva un calice a un giovane uomo. Un sorso dalla coppa, poi l’uomo crollava a terra. Esanime.

    Tra un sobbalzo e l’altro della carrozza rievocai il sogno, interrogandomi sul suo possibile significato. Ben presto scacciai il pensiero, cercando di immaginare il motivo della mia convocazione: un consulto medico, pensavo, su qualche affezione del cardinale o di un suo parente.

    Ma mi sbagliavo.

    La dimora di Alessandro Farnese dominava un quartiere di Roma, vicino al Tevere, famoso per la sabbia che il fiume, ritirandosi con indolenza, depositava sul suo greto.

    A soli venticinque anni, Alessandro era stato nominato cardinale di Santa Romana Chiesa. E tutti, nell’Urbe, sapevano il perché.

    Sebbene la famiglia Farnese avesse accumulato nel tempo notevoli ricchezze e privilegi, questi non sarebbero bastati a garantire la porpora cardinalizia tanto rapidamente. Il merito dell’elevazione di Alessandro a principe della Chiesa era da ricercarsi in un turpe baratto. Da brava mezzana, sua madre Giovannella aveva complottato perché la figlia Giulia finisse preda della bramosia di Rodrigo Borgia.

    All’epoca, Rodrigo era un uomo maturo: aveva già passato la cinquantina e generato una vasta schiera di figli illegittimi, frutto di relazioni con diverse donne. Soprattutto, era un cardinale potente, nonché nipote di papa Callisto iii. Giulia Farnese aveva appena quattordici anni. Rodrigo le aveva procurato un marito, Orso Orsini, uomo sgraziato e orbo di un occhio.

    Alcuni anni dopo l’inizio della relazione adulterina con Giulia, il Borgia venne elevato al soglio pontificio con il nome di Alessandro vi e la famiglia Farnese ottenne per Alessandro l’acquisizione del rango cardinalizio.

    Il popolo di Roma non amava né Giulia, né i Farnese. Se da una parte la bella fanciulla era definita cucubina papae, suo fratello Alessandro veniva chiamato, senza alcuna pietà, «il cardinale della gonnella».

    Volevo bene ad Alessandro, nonostante fosse il frutto di un casato tanto crudelmente calcolatore. La mia famiglia era fedele ai Farnese da molti anni.

    «Tiberio, mio caro amico!» Alessandro mi accolse con calore, abbracciandomi, il portamento fiero, i lineamenti duri, come intagliati nel legno, e gli occhi nerissimi. Eravamo quasi coetanei.

    «Venite, sedetevi accanto al fuoco» il mio ospite mi indicò uno scranno di legno scolpito, rivestito di broccato blu. «Vedete, Tiberio, vi ho convocato per una faccenda riservata. E confido nella vostra discrezione» abbassò il tono della voce. «Roma è agitata da mille cospirazioni. E Sua Santità non è più così potente come un tempo. Ormai, come molti dicono, è totalmente prono alla perfida ambizione del Valentino.»

    Il Valentino… Don Cesare Borgia, figlio del papa e cardinale spretato. Una volta dimessa la tonaca si era sposato con una nipote del re di Francia, divenendo duca del Valentinois. In quei giorni era impegnato ad annegare nel sangue le aspirazioni di alcuni nobili romagnoli poco rispettosi dell’autorità pontificia.

    «Dal canto mio, cerco di tenermi al margine di questi intrighi. Aspetto che i tempi siano maturi per capire chi succederà al Borgia come vicario di Cristo» proseguì Alessandro.

    Mi guardò negli occhi. «Ho bisogno della vostra scienza, Tiberio, e del vostro acume. Sapete quanto io mi fidi di voi.»

    «Eminenza, sono al vostro servizio» risposi.

    Alcuni anni prima, Alessandro e i suoi fratelli erano stati colpiti da una violenta febbre. I medici chiamati a casa Farnese avevano prescritto rimedi inefficaci e Angelo, il primo dei fratelli, era morto. Alla fine, disperata, Giovannella fece chiamare me, giovane e quasi sconosciuto. Visitai Alessandro e diagnosticai un’affezione polmonare. Invece dei salassi, prescrissi riposo assoluto, un tonico per controllare la febbre e dei suffumigi per dilatare le vie respiratorie. Il giovane Farnese si ristabilì ottimamente e io ottenni una certa considerazione.

    «Un giovane prelato è stato trovato morto, Tiberio» mi confidò Sua Eminenza, le sopracciglia inarcate in un’espressione preoccupata. «Il corpo è stato rinvenuto questa mattina, vicino al greto del Tevere. Sono certo che si tratti di una morte violenta. Il sacerdote era uno dei miei uomini di fiducia, a cui confidavo molte cose riservate.» Poi aggiunse: «Devo dare giustizia a quella povera anima».

    «Forse è stato derubato, eminenza» suggerii. Sospettavo, tuttavia, che l’ipotesi dell’aggressione a scopo di rapina fosse stata già scartata, altrimenti il cardinale non si sarebbe scomodato a chiamarmi. Infatti, mi informò che sul cadavere erano stati rinvenuti dieci ducati, una somma considerevole.

    «Avrò bisogno che mi vengano chiarite le circostanze del ritrovamento del corpo» precisai. «E, ovviamente, devo sapere di più sul conto della vittima.»

    Dovevo avanzare ad Alessandro una richiesta che temevo mi avrebbe rifiutato.

    «Voi sapete che i miei metodi non sono ortodossi» allusi.

    Il cardinale annuì, senza rispondere.

    «Devo esaminare il cadavere.»

    «Io sono a favore della scienza e del progresso. Per questo ho scelto voi» affermò il mio ospite. «Immaginavo avreste avanzato questa richiesta. Le donne non hanno ancora preparato il povero corpo per le esequie. Ero anche certo che avreste voluto ricevere più informazioni sul morto. Vi accontenterò» mi porse un anello. «Come ogni uomo di chiesa, il mio segretario aveva uno stemma e qui è inciso l’emblema di don Lucio, la vittima.»

    Era un anello d’oro; sul castone c’era un simbolo che conoscevo bene: un castello sulla cima di tre monti. Lo stemma della mia famiglia: di Castro, castrum, castello.

    «Ma non è possibile!» esclamai. «Questo… è…»

    «È il simbolo della vostra famiglia» disse Alessandro. «Don Lucio è, anzi era, vostro fratello. Fratellastro, per la precisione.»

    Rimasi in silenzio, incapace di dare voce alle mie emozioni.

    «So che siete sorpreso» aggiunse il cardinale. Poi mi indicò un quadro in un angolo della stanza. «In quel ritratto troverete un gruppo di giovani prelati: l’ultimo a sinistra è il povero Lucio.»

    Mi avvicinai al dipinto. Scrutai cercando il volto del fratello che non sapevo di avere.

    Finalmente lo individuai.

    Un brivido mi percorse la schiena. Non era un volto nuovo. Era il volto dell’uomo che, nel mio incubo, vedevo morire ogni notte.

    Alessandro mi raccontò che il mio fratellastro era il frutto di una relazione adulterina tra mio padre e una donna del popolo, morta nel dare alla luce la sua creatura. Lucio era stato riconosciuto come figlio naturale illegittimo, e affidato alle cure di alcuni frati del convento di Capodimonte, lo stesso luogo in cui sorge la rocca ottagonale dei Farnese.

    Col tempo il destino di Alessandro e del mio fratellastro si erano incrociati. Il cardinale aveva sviluppato ben presto un’istintiva simpatia per Lucio. Entrambi, infatti, erano vittime dei disegni e dei progetti dei propri genitori e per tutti e due la scelta della tonaca era stata un obbligo, non una vocazione.

    Mio padre aveva provveduto agli studi e al mantenimento del figlio. Per evitare imbarazzi sia a mia madre che a me, aveva disposto che fossimo tenuti all’oscuro dell’esistenza del frutto del suo peccato giovanile.

    I miei genitori erano morti. Non mi rimaneva quasi più nessuno al mondo e ora, troppo tardi, apprendevo di avere avuto un fratello.

    Don Lucio era il segretario particolare del Farnese e, come tale, doveva essere sempre a disposizione e dimorare a palazzo. Due giorni prima della sua scomparsa aveva chiesto un permesso, dicendo soltanto che doveva sbrigare alcuni impegni fuori Roma e che sarebbe tornato al più presto.

    «Pensai subito a una faccenda di donne» mi informò il cardinale. «Non chiesi a Lucio che cosa dovesse fare. Tra noi vigeva la più assoluta discrezione. Ma quando non si è fatto vivo questa mattina ho cominciato a preoccuparmi.»

    La rivelazione del cardinale non mi scandalizzò. La Chiesa di Roma esigeva che i preti rispettassero il celibato, ritenendo che il matrimonio fosse incompatibile con il ministero sacerdotale. Le relazioni amorose, più o meno licenziose, venivano guardate dalla Curia con lieve disapprovazione − sexus semper gravis −, ma erano comunque tollerate. A Roma, c’erano forse più cortigiane che preti. E non era affatto infrequente che soprattutto i prelati di alto rango avessero un’amante.

    Alessandro volse lo sguardo verso la grande finestra.

    «Alcune ore fa il corpo di Lucio è stato trovato sulla riva del Tevere, non lontano da qui» mi ripeté. «Poveretto, è stato dilaniato dalle ferite.»

    Non mi sembrava ci fosse altro da aggiungere al momento, così rinnovai la mia richiesta di poter esaminare il corpo.

    «E sia, andiamo pure a vedere le spoglie mortali di vostro fratello» concluse Sua Eminenza, alzandosi dallo scranno.

    Si era levato il vento freddo di dicembre. Prima di uscire dalla stanza gettai uno sguardo in giardino e, dalla finestra, vidi le fronde scure degli alberi fremere, come scosse da un brivido.

    Alessandro aveva disposto che il feretro di Lucio fosse conservato nelle segrete del palazzo, su un tavolo di marmo, in attesa del mio arrivo.

    Entrando nella stanza, illuminata dalla luce incerta delle fiaccole, fui investito da un odore dolce e allo stesso tempo nauseabondo, a me piuttosto familiare.

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