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Alice, non è il Paese delle Meraviglie
Alice, non è il Paese delle Meraviglie
Alice, non è il Paese delle Meraviglie
E-book509 pagine7 ore

Alice, non è il Paese delle Meraviglie

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Info su questo ebook

Non c’è assolutamente nulla che non vada in lei, eccetto che...

Alice non sa nulla del suo passato, tutto ciò che ha è un presente come cameriera nel pub dell’uomo che le ha fatto da padre negli ultimi cinque anni, un presunto vampirismo, un’amica stramba dai discutibili gusti musicali, un lupo mannaro che è per lei una specie di fidanzato in prova, e poi... lui.
Alistair St. Clare è il tipo d’uomo da cui ogni ragazza si dovrebbe tenere a distanza. Oscuro, ombroso e pericolosamente sexy.
In pratica, irresistibile.
Adagiata in una quotidianità salda ma effimera, Alice non sa che tutto sta per cambiare. Fin quando il castello di carta che le è stato costruito attorno non inizia a crollare, la giovane non immagina che il suo passato sta per reclamarla, modellando di conseguenza il suo futuro.
In un mondo che diventa, di giorno in giorno, sempre più strano, in cui nessuno è realmente quello che appare, Alice dovrà decidere da che parte stare. Divisa tra un amore a cui sembra impossibile opporsi e la scoperta di se stessa, apprende di possedere la capacità di ristabilire le sorti di un intero popolo, grazie al suo sangue. E se quel popolo non ne meritasse neppure una goccia?
LinguaItaliano
Data di uscita11 giu 2023
ISBN9788855316163
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    Anteprima del libro

    Alice, non è il Paese delle Meraviglie - Giuditta Ross

    Alistair St. Clare si trovava a diversi chilometri di distanza quando quel profumo conturbante gli colpì le narici. La traccia odorosa, portata dal vento, era un insieme voluttuoso di armonie floreali e mandorle amare.

    Intrigato, cercò la direzione da cui proveniva.

    Il suo cuore aveva cominciato a battere furiosamente ed era da più di un decennio che non gli capitava.

    Le pendici della montagna, a ovest della statale, erano coperte dal fitto di un bosco deciduo, mentre, più a valle, i fianchi erosi erano brulli e spogli. In quella stagione gli incendi erano una piaga continua, alimentati dalla siccità e dai venti che soffiavano dalla costa.

    Ma non in quella zona, lì l’influenza dei Sidhe dei Bassimonti era forte.

    Alistair allargò le narici e sentì l’aria pregna di quel profumo inondargli i sensi.

    Veniva dal folto del bosco.

    Giusto a un passo dal confine del regno Sidhe di Kouckma.

    Alistair espirò, deciso a liberarsi della tentazione di seguire quella traccia invitante. L’ultima cosa che doveva fare era cacciarsi di nuovo nei guai con le dannate fate. Quegli stronzi boriosi non vedevano l’ora di mettergli le mani addosso e affibbiargli la colpa di qualsiasi cosa fosse andata loro di traverso, così girò le spalle e tornò sui propri passi.

    Si diresse verso l’auto parcheggiata nella piazzola ma, appena avvicinò la mano allo sportello, la brezza appena salita lo avvolse di nuovo in quel profumo. Inspirò e i suoi sensi fremettero: un sentore metallico copriva quasi del tutto l’aroma dolce e delicato.

    Sangue, tantissimo sangue.

    Chiunque si portasse addosso quella fragranza che tanto lo turbava stava lottando con la morte.

    Qualche sorta d’istinto primordiale si fece beffa di lui e, a discapito di qualunque logica, Alistair si ritrovò ad arrancare nel sottobosco, tirato da un filo invisibile, con l’unico obiettivo di trovare la fonte di quel profumo celestiale.

    C’era movimento tra gli alberi quella sera: gruppi di fae battevano il sottobosco, forse alla ricerca di qualcuno. Altri fuggivano, cercando rifugio tra le ombre.

    Alistair ignorò entrambi.

    Nessuno di loro sembrava seguire la sua stessa pista e presto la macchia di alberi tornò silenziosa: dopotutto, la sua presenza rendeva cauta qualsiasi creatura, soprattutto quando era a caccia.

    Il richiamo del sangue era pressante, invitante, accendeva la sua fame oscura in un modo che non sperimentava da tanto, tantissimo tempo.

    Ambrosia.

    Era vicino e quel profumo lo avvolgeva in spire di voluttuosa anticipazione. Deglutì a vuoto, solo vagamente conscio di aver allentato un po’ il controllo granitico di cui si vantava, almeno con se stesso.

    S’immobilizzò, gli scarponi che affondavano nella terra morbida, una mano appoggiata su una gigantesca roccia che, come un monolite ancestrale, si ergeva tra i tronchi ricoperti di muschio. I suoi occhi sondarono il buio intrico del sottobosco, edera rossa e rovi di more gli s’impigliavano nei pantaloni quasi a trattenerlo, ma niente avrebbe potuto tenerlo lontano dal suo obiettivo. Ogni suo senso gli diceva che aveva centrato il bersaglio.

    Registrò il battito a singhiozzo di un cuore esausto, il rantolo disperato di chi ancora non può cedere alla morte.

    Abbassò lo sguardo sulla roccia, dove schizzi di sangue vermiglio venavano la superficie scabra. Alistair raccolse una goccia sul polpastrello per portarsela alle labbra.

    Ecco il suo premio.

    Non c’era assolutamente nulla che non andasse in lei. Certo, se si sorvolava sul fatto che era un vampiro, forse, e quindi… tecnicamente morta.

    O almeno quella era l’opinione comune sul vampirismo: morti viventi che si cibavano di sangue per mantenere una sorta di non-vita e bla bla bla.

    Alice non si sentiva per niente morta. Anzi, non era mai stata tanto in forma in vita sua, insomma… nella parte di vita che ricordava. Fissò la propria immagine per qualche istante ancora, poi si sorrise compiaciuta e riprese a strofinare lo specchio antico con rinnovato vigore. In realtà come vampira lasciava un po’ a desiderare; niente a che vedere con le icone supersexy che spopolavano nei romanzi o nelle serie tv.

    Non era esattamente il prototipo della femme fatale, ma poteva conviverci. Se solo non avesse avuto delle zanne tanto insignificanti. Danny non la smetteva di prenderla in giro per quello. Che diamine, non contano le dimensioni ma come le usi, si disse. E a lui piaceva quando le usava sulla sua pellaccia, il cretino.

    Anche il suo riflesso sembrò schernirla, ribadendo con la sua esistenza il suo essere insolita, la sua inadeguatezza. Che diavolo, quale vampiro che si rispetti si può specchiare?

    «Smetti di torturarti, bambolina, non sei strana, sei speciale.»

    Alice si voltò e sorrise a Noan, che si chiuse velocemente la porta alle spalle, poi zoppicò fino al camino per rinfocolare le fiamme e bandire quel po’ di freddo che era riuscito a entrare. Quando, cinque anni prima, l’aveva accolta nella sua casa, Alice, non sapeva nulla di sé: era un ammasso malconcio di lividi, ossa rotte e cervello in panne. Dopo tutto quel tempo, il suo corpo era guarito e lei aveva imparato un po’ di cose, ma di se stessa, ancora, non sapeva un bel niente.

    «Devi ammettere che è bizzarro, però.» Lanciò un’occhiata all’orologio, poi prese una pila di posacenere e prese a distribuirli sui tavoli della saletta: mancava poco all’apertura e Danny era in ritardo, come al solito.

    «Che ne puoi sapere tu di cosa è bizzarro?» le domandò il vecchio con una scrollata di spalle, poi andò a sistemarsi sulla sua poltrona, pronto a tenere tutti sotto controllo, almeno nel suo pub. Alice corse dietro al bancone e prese a spillare lentamente la scura nel boccale di ceramica preferito di Noan. Il vecchio teneva in modo particolare alla sua birra e deludere le sue aspettative in merito non era consigliabile, se si voleva preservare il suo umore da orso.

    «Non ho mai visto un altro vampiro, ok? Ma Danny me ne ha parlato e lui…»

    Noan piegò la bocca larga in un ghigno, poi puntò un dito nodoso verso di lei: «Quello si riconosce la coda solo perché ce l’ha attaccata al di dietro!» gracchiò. La guardò dritto negli occhi e scosse la testa di ispidi capelli grigi. «Sai cosa credo, bambina? Che quel cagnolino le stia provando tutte per farti credere di essere al tuo livello.»

    Alice sospirò e il vecchio sbuffò sonoramente. Non era la prima volta che facevano quel discorso. Noan tirò fuori la sua pipa dalla tasca interna della giacca di tweed, rattoppata e consunta, e aspirò una boccata. Alice si chiese per la millesima volta come diavolo facesse a restare perennemente accesa e a non dargli fuoco alla giacca. Corrugò le sopracciglia, sul punto di domandarglielo, come sempre, e per la millesima volta lasciò perdere. C’era qualcosa negli occhi del vecchio che chiedeva fiducia e basta, qualcosa che l’ammoniva sulle gattine curiose e sul fatto che ci lasciassero immancabilmente lo zampino. Un avvertimento che le suggeriva che non fosse ancora il momento. Alice mise il broncio e posò il boccale pieno fino all’orlo sotto il suo naso bulboso.

    «Sei duro con lui perché non ami la sua stirpe» argomentò, nel tentativo di difendere il ragazzo, anche se non riusciva a sentirsi davvero offesa per Danny.

    «Gradassi sovradimensionati! Ecco cosa sono» brontolò lui. «Lo tollererò finché ti darà ciò di cui hai bisogno.»

    Alice sollevò gli occhi al cielo e gli sorrise. Aveva venticinque anni, o almeno questo era quello che avevano stimato, e poteva uscire con chi voleva, ma doveva tutto al vecchio e per nulla al mondo avrebbe pestato i piedi come una ragazzina ingrata.

    Danny era un bravo ragazzo: la portava al cinema e le comprava pacchi giganti di pop-corn, andavano ai concerti e a mangiare la pizza. Di contro, sapeva che la sua gente non amava i succhiasangue e, ciononostante, lui lasciava che lo mordesse quando ne aveva bisogno. Era un bravo ragazzo. Anche se disprezzava i vampiri e lei era una di loro, o comunque qualcosa del genere.

    Si passò la lingua sui canini, piccoli ma appuntiti. Sì, a lui piaceva farsi mordere, eccome se gli piaceva.

    La prima volta era venuto nei pantaloni, come un bamboccio, e lei era rimasta deliziata da quella reazione: se poteva essere un’esperienza così bella, lui forse non l’avrebbe disprezzata troppo. Dopo l’euforia del momento, però, Danny si era dimostrato imbarazzato e distante; Alice aveva creduto che fosse per via di quell’orgasmo inaspettato, ma più ci pensava e più aveva il sospetto che ci fosse dell’altro. Per fortuna aveva bisogno di qualche sorso di sangue solo una volta al mese o giù di lì, e da quella prima volta lo facevano solo durante il sesso, così, giusto per fare economia di sensi di colpa e incertezze.

    Il campanello alla porta tintinnò e l’aria gelida dell’esterno le baciò la pelle lasciata scoperta dal suo nuovo taglio di capelli. Quel giorno aveva salutato con falso rammarico la sua lunga chioma bruna per un look più sbarazzino e ora esibiva un taglio morbido, corto sulla nuca e con i bei riccioli scuri che scendevano sul davanti fino al mento. Era molto fiera della sua decisione e, anche se a Noan era venuto un colpo guardandola, e aveva borbottato parole incomprensibili per un quarto d’ora, non vedeva l’ora di sapere cosa ne pensasse Danny.

    «Ma che cavolo…»

    Danny entrò scrollandosi di dosso il freddo e la pioggia, poi alzò gli occhi su di lei e fece una piccola smorfia. «Cosa hai fatto ai capelli, dolcezza?»

    «Non ti piace?»

    «Ah… certo. Sei uno schianto, come sempre.» Il suo sorriso poco convinto non bastò a sconfortarla.

    C’era qualcosa che covava in lei da qualche tempo. Qualcosa che somigliava alla ribellione ma che lei preferiva definire come un moto d’indipendenza. Un bisogno di puntare i piedi ed ergersi oltre la sua naturale propensione a compiacere gli altri. Noan lo credeva più uno slancio di adolescenza retroattivo ma, qualunque cosa fosse, la faceva stare bene assecondarlo almeno un po’.

    Il giovane le diede un buffetto sulla punta del naso poi la avvolse tra le braccia e la strinse a sé. Era alto e massiccio, con gli occhi castani più dolci che lei avesse mai visto. La sua morbida barba bionda le fece il solletico mentre le posava un sonoro bacio sul lato del collo.

    «Ehi, non sono niente male, piccola. Accesso facilitato.» Le sorrise, furbo, poi si staccò per andare a prendere un grembiule pulito e prepararsi per incominciare la serata lavorativa.

    «Ho acceso la griglia e tagliato il pane, è tutto pronto» gli disse, prima di colpirlo con un pugno sul torace muscoloso e sussurrare: «Smetti di fare tardi! Il vecchio non la smetteva più di brontolare.»

    Danny gonfiò le guance poi sbuffò. «Ero all’officina, il Ratto ha trovato il pezzo per la Monster, così…»

    «Non mi frega un accidente dei tuoi giocattoli, ragazzo! Per quale diavolo di motivo ti dovrei pagare se il tuo lavoro lo fa lei?» lo apostrofò il vecchio scrutandolo da sotto le sopracciglia cespugliose, dando prova, ancora una volta, di possedere un udito per nulla intaccato dall’età.

    Danny le strizzò l’occhio, poi guardò oltre la sua testa e fece un mezzo sorriso. «Questo fine settimana, la porto al mare con la mia paga, vecchio. Alla fine è tutto a posto, no?»

    «Andiamo al mare?» chiese Alice, colta alla sprovvista. Era dolce a farle una sorpresa, perché quella era una sorpresa, vero? Non un modo per manipolare Noan, giusto?

    «Sì, ti piace il mare, vero?» Alice lo guardò, era una domanda? Perché sembrava più un’affermazione e nei tre mesi in cui erano stati insieme non avevano mai parlato di gite al mare.

    Inspirò e si diede della stupida. Perché accidenti faceva tanto la difficile? Il suo ragazzo aveva detto che l’avrebbe portata al mare: era meraviglioso.

    «Certo! Non vedo l’ora!» Si alzò sulle punte dei piedi e gli scoccò un bacio sulla guancia. «Fila in cucina ora.»

    Danny s’infilò dietro il bancone fischiettando, seguito dai borbottii incessanti del vecchio: «Ne verrà fuori un bel casino, bambolina, un gran casino, te lo dico io. Vedrai se ne sarà contento. E che diavolo ci posso fare io?»

    Alice si voltò, Noan stava esagerando, come al solito, e lei non capiva proprio di cosa stesse parlando. Non c’era nessuno a cui importasse un accidente di lei: chi non sarebbe stato contento? La sua esistenza era tutta lì, con Noan, Danny e quella mezza matta di ’Dhu.

    La sua vita era cominciata il giorno in cui aveva aperto gli occhi sul volto rugoso del vecchio e da lì era ripartita. Era fortunata, anche se non sapeva chi o cosa fosse. Era fortunata ad avere loro.

    Il tintinnio della porta la richiamò e i primi clienti infreddoliti si riversarono nel locale. Avrebbe parlato col vecchio più tardi. Sfoderò il suo sorriso migliore e accompagnò i quattro ragazzi a un tavolo.

    «Il solito?» chiese e loro annuirono sbirciandola da sotto le ciglia, come facevano sempre. Sapevano tutti che era diversa, ma la trattavano con riguardo. Forse perché era la pupilla di Noan o magari perché era la ragazza di Danny. Qualcuno addirittura flirtava con lei, finché lui non usciva dalla cucina per guardare tutti storto, mostrando i denti.

    Vivere a un passo da una comunità di lupi mannari non era così male, anche se eri una vampira, o quasi.

    Era vicino, lei era lì dentro, solo a pochi passi. Quella volta aveva lasciato passare quasi quattro mesi, era stato bravo, si congratulò. Coglione, si disse, non avrebbe dovuto attirare l’attenzione su di lei: quei bastardi gli stavano addosso come mosche sul miele.

    Bravo, coglione.

    L’aveva nascosta in bella vista nell’ultimo posto al mondo dove avrebbero cercato una della loro razza. Era al sicuro, si ripeté per l’ennesima volta.

    Peccato che una voce dentro di lui stesse urlando da giorni il bisogno di esserle accanto e quella consapevolezza aveva cominciato a pulsare come un dannato nervo scoperto.

    Qualcosa non andava.

    Fissò per qualche istante l’insegna cigolante che dondolava accanto alla porta d’ingresso e, come tutte le volte, si sentì risucchiato indietro nel tempo. Che cazzo, lì sembrava di essere ancora nel medioevo. Il vecchio proprio non riusciva ad abituarsi allo scorrere dei secoli.

    La Locanda del Morto in piedi aveva subito ben pochi cambiamenti da quando era stata tirata su la prima pietra e così il suo proprietario. L’unico sospetto di modernità si aveva ascoltando il rombo delle poche auto che percorrevano la statale, a quasi un chilometro di distanza. Il piccolo parcheggio nascosto tra gli alberi non contribuiva affatto a scongiurare l’effetto di un salto temporale. Era un posto isolato e semisconosciuto, inoltre, la sua fama di covo di mannari lo rendeva perfetto per gli scopi di Alistair. Poco importava che quei quattro lupi fossero un misero branco di esiliati lasciati a coltivare una terra aspra e ingenerosa. Il suo legame antico col vecchio avrebbe giustificato le sue visite sporadiche e tutto il resto. Stava funzionando tutto alla perfezione, perché allora aveva la sensazione che il sangue si fosse fatto di ghiaccio nelle vene?

    I suoi sensi registrarono decine di minuscoli cuori palpitanti, l’odore aspro della paura emessa dalle piccole prede nascoste tra gli alberi. Erano rari i luoghi in cui fosse il benvenuto. Si passò una mano tra i capelli zuppi; era proprio un coglione, aveva vissuto un sacco di vite e ancora cedeva all’autocommiserazione.

    Aprì la porta con una spinta e il suo naso andò subito all’odore di lei. Il puzzo di cane copriva quasi ogni cosa, insieme a quello della birra e della carne morta, cotta sui ferri. Sotto tutto quello c’era lei. Come un premio insperato: vaniglia e mandorla amara, con un tocco di fiori e cacao. Il suo corpo rispose veloce, come sempre.

    Combatté l’istinto mentre la cercava con gli occhi, il desiderio feroce che gli scorreva nelle vene, il cuore che pulsava, la sua carne che bramava. Ogni volta era peggio, ogni volta sembrava che le briglie non avrebbero tenuto.

    Invece tenevano, dovevano tenere.

    Si levò il cappotto tenendo gli occhi bassi sul pavimento: doveva prendere tempo, abituarsi pian piano. Il suo proposito andò in frantumi quando il suono dolce della voce di lei lo spezzò.

    «Signor Alistair, lei è fradicio! Penso io al cappotto, venga vicino al fuoco.»

    Una manina pallida entrò nel suo campo visivo, le vene azzurrine sul polso affascinarono il suo sguardo troppo a lungo e dovette lottare con ferocia per non perdere il controllo e afferrarla.

    Forse, stare lontano tanto a lungo non era stata un’idea poi così brillante. Il suo bisogno si era accresciuto, gonfio come una bestia enorme, ferocissima.

    La giovane si schiarì la gola. «Signor Alistair? Va tutto bene?»

    «Certo, mi perdoni, Alice, ero distratto» si sentì rispondere. Per fortuna c’era qualche parte di lui ancora in grado di connettere.

    Facendo attenzione a non toccarla, le porse il cappotto e, cautamente, sollevò gli occhi su di lei.

    Che cazzo! Si era tagliata i capelli?

    Aveva passato ore a fantasticare di passare le dita tra i suoi boccoli scuri, a cercare di immaginare quanto soffici sarebbero stati mentre gli accarezzavano la pelle nuda, aveva sognato di affondarci il volto e respirarne tutta la notte il profumo. Era venuto un milione di volte solo pensando di attorcigliarseli tra le mani mentre affondava in lei.

    Cazzo!

    Lei gli sorrise, tutta lentiggini e fossette, guardandolo con quei grandi occhi dorati come se non sapesse cosa gli faceva. Assolutamente ignara di chi e cosa lui fosse.

    Doveva essere attratta da lui almeno un po’, era così che funzionava di solito. Ma forse no, non con una come lei. La vide arrossire e distogliere lo sguardo: l’aveva fissata troppo intensamente? Certo che sì, bel cazzone che era.

    «Le porto il solito?» gli chiese, quasi timida, mentre andava ad appendere il cappotto sollevandosi sulle punte dei piedi per raggiungere il gancio alla parete.

    Alistair annuì imponendosi di staccare gli occhi da lei per scandagliare il locale affollato. Una coppietta si stava scambiando effusioni al tavolo in cui si sedeva di solito, quello da cui poteva osservarla indisturbato. Si mise le mani in tasca, agganciò lo sguardo della ragazzina che stava seduta sulle ginocchia del suo bello e le impartì un ordine silenzioso. Immediatamente lei si alzò trascinando con sé il compagno interdetto; sempre tenendo gli occhi incollati a quelli di lui, sussurrò qualcosa all’orecchio del ragazzo che subito le prese la mano e la seguì verso l’uscita.

    «Oh guardi, si è appena liberato il suo tavolo preferito. Vado a sparecchiarlo così può accomodarsi» disse Alice osservandolo di sottecchi, poi gli passò accanto, abbastanza vicina da sfiorarlo, ubriacandolo con il suo profumo.

    Dal suo scranno sulla parete opposta il vecchio Noan gli fece un cenno, la sua faccia di cartapecora aveva un’espressione che non lasciava presagire nulla di buono: allora davvero qualcosa non andava. Fece per raggiungerlo, ma prima dovette sforzarsi di staccare gli occhi dal di dietro di Alice che gli era di nuovo passata accanto, con un vassoio carico nelle mani e il suo modo delizioso di camminare. La osservò scostare le porte da vecchio saloon della cucina con un movimento sinuoso dei fianchi, poi la sentì ridacchiare mentre due braccia robuste la sollevavano e qualcuno le stampava un sonoro bacio sulla bocca.

    Una nebbia rossa gli invase gli occhi mentre un furore mai provato s’impossessava di lui.

    Una rabbia purissima lo stordì al punto da congelarlo sul posto. Fu una fortuna, o non sapeva cosa avrebbe potuto fare. Quel pensiero razionale s’insinuò, ridimensionando il tutto e permettendo alla sua mente calcolatrice di preventivare le conseguenze delle proprie azioni.

    Oh, quel tipo sarebbe morto! Era un morto che camminava, talmente morto che… ma con tempi e modi tali da non essere un pericolo per la sua Alice.

    «Ragazzo!» sbraitò il vecchio che lo fronteggiava, torvo. Alistair gli rivolse uno sguardo capace di incenerire chiunque sul posto, chiunque, ma non quel vecchiaccio.

    Con uno sforzo immane riprese un minimo di controllo, schiacciò il furore dietro un muro di consapevolezza, agguantò Noan per la collottola e lo spinse fuori dalla porta.

    «Ora mi spieghi che cazzo succede!» ringhiò una volta all’esterno, guardandolo dritto in quei suoi occhietti da troll.

    «Cosa vuoi che ti spieghi? Che è giovane e bella? Che si sente sola? Che non sa nulla di sé e ha affondato i dentini nel primo bel gonzo che le ha fatto gli occhi dolci?»

    «Beve da lui?» Alistair era ben oltre la rabbia, il sentimento che lo consumava era prossimo alla disperazione. Lei beveva… lei… non doveva pensarci, doveva restare lucido.

    «Sì, ragazzo» confermò stancamente il vecchio. «Il sangue delle tue dannate sacche la fa sentire una miserabile. Farlo abbracciata a qualcuno lo rende meno strano. Parole sue.»

    Alistair non era preparato al dolore che quella rivelazione gli provocò. Cazzo! Aveva scartato il suo sangue per quello di un fottuto cane.

    Un cane che sarebbe morto presto, molto presto, ringhiò il mostro dentro di lui.

    «Lei non ha colpe, non sa quello che fa e stare con il moccioso peloso la fa sentire un po’ meno fuori posto» la difese Noan, ma non aveva bisogno di farlo.

    «Certo, non è sua la colpa. È mia» sussurrò infine Alistair lasciando la presa.

    «Fai quello che reputi il meglio per lei. Non sto a ripeterti che è un piano di merda e che fa acqua da tutte le parti, ma…»

    «Sta’ un po’ zitto, vecchio!» latrò, poi scosse la testa e strinse i pugni tanto da sentire male. «Non posso lasciarla andare» disse quasi a se stesso.

    «Questo sarebbe un piano ancora più di merda. Non funzionerebbe…» Noan s’interruppe e tirò su con il naso. «Sento puzza di…»

    «Fae» sibilò lui.

    Alistair scavò nella notte in cerca dei proprietari dell’odore salmastro che si era impadronito del suo naso, fino a scorgere due figure gemelle che avanzavano verso il pub. Prese il vecchio e con lui si schiacciò contro la parete, confondendo entrambi nell’ombra.

    «C’è una sola ragione che potrebbe portarli qui» gracchiò Noan.

    «Alice!»

    Alice uscì dalla cucina e cercò con lo sguardo l’uomo bruno che da sempre stuzzicava le sue fantasie. Era il genere d’uomo da cui una ragazza si sarebbe dovuta tenere alla larga, lo sapeva. Aveva tutti i tratti salienti del bello e dannato: come a dire, un gustoso piattino di crema per una gattina affamata.

    Impossibile resistere.

    Era ombroso e distaccato, dallo sguardo cupo, ma la sua era una durezza velata da una sorta di malinconia. Una fragilità latente che lo trasformava nell’emblema dell’eroe romantico.

    Assolutamente impensabile che non ne fosse attratta.

    Alice sentiva, ogni volta che lo vedeva – e non capitava spesso – il bisogno innato di consolare quel suo umore così nero. Per non parlare della necessità del tutto irrazionale e imbarazzante di toccarlo.

    Alistair, così aveva detto che poteva chiamarlo, scatenava in lei una sindrome da crocerossina in piena regola.

    Tuttavia, qualcosa in lui, mentre la attirava terribilmente, la teneva anche a distanza.

    Si sentiva come una corda elastica: vicina, quasi al punto di toccarlo, per poi rimbalzare lontanissima. Non che avesse avuto modo di frequentarlo spesso, era un cliente saltuario, ma per qualche ragione ogni volta che varcava quella porta il suo stupido cuore impazziva.

    Alice credeva che Alistair St. Clare viaggiasse molto per lavoro e che, di tanto in tanto, i suoi viaggi lo portassero da lei, ehm… da loro.

    Lui e Noan spesso si ritiravano per discutere di affari, così le aveva detto il vecchio, ma non aveva specificato quali e lei si era sentita troppo imbarazzata dal proprio interesse per chiedere.

    Nonostante i modi educati e impersonali dell’uomo, senza volerlo, lei cercava sempre di infrangere quella sorta di barriera. Chissà cosa avrebbe pensato se avesse saputo che era una… quasi vampira?

    Alice sospirò, non c’era modo di saperlo e di certo non sarebbe andata da lui per domandarglielo; poteva immaginare la scena: Ehi, signor Alistair, ecco il suo whiskey e… sa, sono una vampira. Forse. Cosa ne dice? Certo, come no?

    In quel pezzetto di mondo, nel cuore dell’Europa lanciata verso un futuro sempre più incerto, le varie razze vivevano a stretto contatto, ma si mescolavano di rado. Gli esseri umani, che erano la stragrande maggioranza, imponevano, quasi del tutto ignari, il loro peso sul pianeta.

    Noan le aveva detto che i governi umani erano a conoscenza dell’esistenza delle razze sovrannaturali, come le definivano, ma pareva non avessero ancora ben chiaro come muoversi.

    Tolleravano i loro insediamenti, contribuivano a favorire il loro inserimento tra gli umani, e, per la maggior parte, vigeva una sorta di collaborazione tra umani e non umani. Ma in molti Paesi non esisteva nessun equilibrio e i governi spazzavano via le minoranze sovrannaturali come parassiti.

    Da qualche tempo, la valle pullulava di rifugiati politici e profughi delle più disparate etnie.

    Alice sapeva che i mannari erano la maggioranza tra i sovrannaturali e che gli umani avevano stretto con loro una sorta di patto reciproco che garantiva ai branchi una certa tranquillità, purché rispettassero delle regole e, ovviamente, pagassero le tasse. Dal canto loro, i mannari prestavano le loro doti, di forza e resistenza superiori, in svariati ambiti. Molti lupi della valle avevano trovato nella carriera militare un perfetto sfogo alla loro natura non esattamente quieta, così come la loro resistenza era ampiamente sfruttata in campo minerario nelle attività di estrazione, nelle zone più estreme del pianeta.

    Alice si era chiesta spesso se Alistair St. Clare appartenesse a qualche razza soprannaturale. C’era in lui qualcosa di sfuggente: sinistro quasi. Di certo non era un lupo mannaro e neppure un fae. Ne aveva visti un paio solo in fotografia, ma era difficile credere che quell’uomo massiccio e oscuro facesse parte dei regni Sidhe.

    A ogni modo sembrava essersi volatilizzato, il tavolo che aveva preparato per lui era ancora vuoto e pure Noan sembrava sparito.

    Ancora affari, immaginò.

    Un ragazzo sollevò una mano per farsi portare un’altra caraffa di birra, lei gli sorrise e si affrettò ad accontentarlo. Mentre era allo spillatore, fecero il loro ingresso due delle persone più incredibili che avesse mai visto. A proposito di fate.

    Erano perfettamente identici: con gli stessi lineamenti delicati e allo stesso tempo mascolini.

    Gemelli.

    Solo che uno sembrava la copia in negativo dell’altro. Se il primo aveva i capelli neri come pece che scendevano lisci e appena umidi sulla schiena, l’altro li aveva bianchi come neve in contrasto con le sopracciglia scure e gli occhi di un nero luminoso e profondo. Le ciocche purissime della sua capigliatura sembravano avere la consistenza della tela di ragno, come la seta più pura. In quel momento, imperlati di pioggia, splendevano tanto da far male agli occhi.

    In perfetto contrasto, gli occhi del compagno erano di una sfumatura pallidissima di grigio ma, mentre quelli dell’altro sembravano quieti come una notte placida, i suoi splendevano di malizia.

    Avevano l’aria di una coppia di angeli scacciati dal cielo. Non abbastanza cattivi per l’inferno, ma troppo impertinenti per il paradiso… Alice sentì una corrente tiepida scorrerle sulla pelle mentre li scrutava da sotto le ciglia: la vista dei due aveva scosso qualcosa in profondità dentro di lei, ma che cosa?

    Alice sospirò affascinata, tuttavia l’insieme di eterea bellezza che emanavano era spezzato dalla linea ironica di due bocche sottili. Quei due sapevano bene che effetto avevano sugli altri e di certo fissarli imbambolata non aiutava. Scosse la testa per scrollarsi di dosso il torpore che l’aveva colta e sorrise ai due che la guardavano con interesse.

    «Volete sedervi?» chiese allegra. «Abbiamo la birra migliore di tutta la valle!»

    I due si lanciarono un’occhiata in tralice, poi annuirono restituendole un sorriso che le fece fremere un punto dietro l’ombelico. Roteò gli occhi e trattenne un sospiro.

    «Due mascalzoni al prezzo di uno» borbottò tra sé, poi individuò un tavolo libero e fece loro cenno di accomodarsi. «Torno tra un minuto» assicurò.

    I gemelli piegarono il capo in una sorta d’inchino, speculare e simultaneo, lasciandole il passo. Alice portò la caraffa di birra al tavolo in attesa, sentendosi gli occhi dei due addosso e le guance in fiamme. Si sorprese a chiedersi che sapore potesse avere il loro sangue.

    Quel pensiero tanto alieno si materializzò nella sua mente lasciandola interdetta, ma pure vagamente compiaciuta. Finalmente un istinto da vera vampira.

    Si avvicinò al tavolo dei gemelli con una certa trepidazione, occhieggiandoli con interesse, mentre prendeva dei menù dall’espositore e li metteva sotto il loro bel naso diritto.

    «Vi lascio il tempo di decidere.»

    «Sappiamo già quello che vogliamo» disse quello dagli occhi pallidi, fissi su di lei, mentre qualcosa, nel suo sguardo pieno di malizia, le faceva impigliare il fiato in gola.

    «Ah sì?» gracchiò confusa.

    L’altro gemello scosse la testa e le sorrise gentile. «Non fare caso a Nair, gli piace testare il suo fascino. Prendiamo una caraffa di sidro.»

    Alice si rilassò all’istante, la voce dell’uomo era confortante e la mise subito a proprio agio. Era come se lo conoscesse da tempo e i suoi occhi, di un nero vellutato e accogliente, le sembrarono d’improvviso familiari.

    Una sensazione che svanì in fretta, inafferrabile.

    Nair guardò il fratello, indignato. «Ehi! Sul mio fascino non si discute!» esclamò, poi tornò a sondarla con quei suoi occhi pazzeschi, una copia quasi identica di quelli del compagno, seppure all’opposto per molti versi. «Non è vero? Signorina…»

    «Alice.» La ragazza non prese in considerazione neppure per un istante la possibilità di fingersi infastidita, gli strizzò l’occhio e annuì decisa. Con una mano batté il solido piano del tavolo e fece roteare gli occhi come in estasi. «Sono fortunata che ci sia questo a sorreggermi o sarei già stramazzata al suolo» gli sussurrò con fare cospiratorio.

    «Ahah! Che ti avevo detto?» esultò Nair con un sorriso radioso, mentre il fratello le scoccava un’occhiata dubbiosa.

    «Sarebbe più saggio non assecondarlo» le disse con un sorriso mesto.

    «A Rain piace fare il guastafeste. Allora, non trovi che questo colore mi doni?» le chiese Nair passandosi una mano sul maglione verde scuro che gli fasciava il torace.

    «Ecco, io…» Il trillo della porta la salvò dall’esprimere qualsiasi opinione in merito. Anche se, sì, quel colore gli stava proprio bene. «Oh! Clienti, devo andare. Porto subito il vostro sidro.»

    Alice sorrise a entrambi, poi si voltò per accogliere i nuovi venuti. I suoi occhi si scontrarono invece con l’espressione truce sul volto di Alistair, fermo in mezzo al piccolo atrio.

    Doveva essere di nuovo uscito, senza cappotto per giunta, e in quel momento stava di fronte a lei con l’aria di aver voglia di compiere una strage. I capelli neri grondavano acqua sulle ampie spalle mentre, con occhi di fuoco, passava in rassegna il locale alla ricerca di qualcuno o qualcosa.

    Alice sperò ardentemente di non essere l’oggetto di tanta furia, perché la durezza sul suo volto era davvero spaventosa. Col cuore che le scalpitava in petto, gli andò incontro, ignorando il brivido che le correva lungo la schiena, incapace di resistere all’istinto schiacciante che la spingeva verso di lui. I suoi occhi, neri come pozzi, la trovarono e subito il gelo fu spazzato via in favore di qualche emozione potente ma difficile da decifrare. Sollievo, forse, e una specie di calore che sembrava tutto per lei.

    Con un gesto tanto inusuale da coglierla di sorpresa, la prese per un gomito e la attirò al suo fianco. In un istante il suo profumo fresco misto alla pioggia le invase i sensi. Colta dal solito bisogno bizzarro allungò la mano per spazzolare via le minuscole gocce d’acqua dal suo petto. La maglia a collo alto che indossava, pensò, non sembrava abbastanza pesante da tenerlo al caldo, anche se metteva meravigliosamente in risalto i muscoli sodi che stavano al di sotto. Una parte di lei era certa che il suo comportamento fosse socialmente inopportuno nei confronti di una persona che conosceva appena. Ma, per la stragrande maggioranza, il suo corpo stava esultando per quella vicinanza inaspettata. E, a conti fatti, neppure il distaccato Alistair pareva mostrare disagio; c’era invece qualcosa, nell’occhiata che le rivolse, che sembrava incoraggiarla.

    Il suo sguardo bruciava: un calore che la attirava sempre più a fondo, in un luogo che doveva essere fatto apposta per lei.

    Lo stridio di vetro in frantumi dalla cucina mandò d’un tratto all’aria quei sogni a occhi aperti. Con un sussulto si riscosse e, imbarazzata, si allontanò di un passo.

    Per un istante le parve che Alistair la volesse riportare vicino a sé; alla fine, però, dovette ripensarci, perché staccò finalmente gli occhi da lei per puntarli di nuovo sui fae gemelli. L’espressione truce tornò fulminea sul suo volto e, di nuovo, lui la stupì, strattonandola indietro e mettendo il suo corpo massiccio tra lei e i due, che osservavano con attenzione il loro bizzarro siparietto.

    Con gli occhi fissi sulla schiena dell’uomo, Alice tornò a poco a poco padrona di sé, tanto da domandarsi che diavolo stesse succedendo. Fece timidamente capolino per valutare la scena, ma tutto quello che vide fu un silenzioso scambio di sguardi per nulla amichevoli.

    Respirò la tensione che scaturiva dal corpo dell’uomo che le faceva da muro. I muscoli contratti, le mani strette a pugno: Alistair sembrava un predatore pronto a saltare alla gola dell’avversario.

    Alice non ci stava capendo un accidente, tanto per cambiare, e la solita vocina saputa nella sua testa aveva ripreso a redarguirla sulla stupidità nel ficcare il naso in cose più grandi di lei. Alice non le dava mai retta e di certo non avrebbe cominciato in quel momento. Fece un bel respiro poi gli posò la mano sul braccio. La manica era zuppa di pioggia e nessun calore si sprigionava dalla sua pelle: Alice si accigliò.

    «Alistair, venga con me. È fradicio come un pulcino caduto in un secchio. Deve asciugarsi o si prenderà un malanno» gli disse con dolcezza, ma le bastò un istante per darsi mentalmente dell’idiota: aveva davvero dato del pulcino bagnato a un uomo di trenta centimetri più alto di lei? Si coprì la bocca con la mano, come se quel gesto futile potesse avere un qualche valore retroattivo.

    Quando lui si voltò, i bei tratti rudi del suo viso rispecchiarono tutta la tensione e la stanchezza che doveva provare: gli occhi scuri e profondi la scrutarono per un istante infinito con qualcosa di molto simile alla tenerezza. Come se, al posto di una sciocca ragazza linguacciuta, forse affetta da una qualche forma di vampirismo, ci fosse un buffo animaletto che non valeva la pena di sbranare.

    L’uomo inspirò, in balia di qualche indecisione, evidentemente in disaccordo con se stesso: lo vide trattenere il fiato come se da quello dipendesse la sua stessa vita.

    Insomma, che mai poteva esserci di così complicato? Con la punta delle dita tracciò la linea del suo avambraccio fino a raggiungere la mano. «Lei è gelato» insistette. «Andiamo a cercare degli asciugamani.» Sorrise incoraggiante, poi lo tirò appena verso di sé.

    Ad Alice sembrò di cercare di smuovere una montagna, ma dopo un secondo, e un ultimo sguardo minaccioso al tavolo dei gemelli, Alistair la accontentò.

    «Sì, andiamo» disse con la sua voce cavernosa.

    Improvvisamente consapevole del contatto tra di loro, gli lasciò la mano e si ficcò la sua in tasca cercando di imbrigliare la tentazione di toccarlo ancora. Si diresse verso lo spogliatoio: il fatto che percepisse il suo sguardo bruciante sulla schiena era l’unica conferma che la stesse seguendo. La tensione nella sala si allentò fino a estinguersi, ma non fu sufficiente a calmare i battiti a singhiozzo che le rimbombavano tra le costole. Un’altra prova del fatto che non poteva essere una vampira fatta e finita, considerò avvilita.

    Il suo povero cuore quella sera non la smetteva di fare i salti mortali.

    Una vampira col cuore salterino, tze!

    Era una sciocca, l’avrebbero cacciata dall’albo dei vampiri seduta stante, già si immaginava la missiva in pomposi caratteri gotici su pergamena di pelle umana: "Siamo spiacenti, signorina Alice, lei è troppo emotiva per far parte della categoria, si cerchi un’altra specie." La firma in calce sarebbe stata uno spruzzo di sangue. Alice fece un respiro profondo e si impose di tenere a bada i pensieri imbecilli.

    Giunta nella stanzetta sul retro, accese la luce e indicò la panca imbottita all’uomo che stava entrando

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