Oltre la periferia della pelle: Ripensare, ricostruire e rivendicare il corpo nel capitalismo contemporaneo
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In Oltre la periferia della pelle, Silvia Federici, attivista per tutta la vita e autrice di bestseller, esamina questi complessi processi, collocandoli nel contesto della storia della trasformazione capitalista del corpo in macchina-lavoro, ampliando uno dei temi principali del suo primo libro, Calibano e la strega. In questo processo affronta alcune delle questioni più importanti per i progetti politici radicali contemporanei. Cosa significa oggi “il corpo” come categoria di azione sociale/politica? Quali sono i processi, istituzionali o antisistemici, da cui è costituito? Come smantellare gli strumenti con cui i nostri corpi sono stati “chiusi” e rivendicare collettivamente la nostra capacità di governarli?
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Anteprima del libro
Oltre la periferia della pelle - Silvia Federici
Introduzione
Oltre i margini della pelle è stato concepito in risposta alle domande scaturite dalle tre lezioni tenute al California Institute of Integral Studies nell’inverno del 2015, aventi come soggetto il significato del corpo e le politiche del corpo all’interno del movimento femminista degli anni Settanta e nel mio lavoro. Le lezioni avevano diversi scopi: puntare l’attenzione sul contributo che il femminismo degli anni Settanta ha dato alla teoria del corpo, oggigiorno enormemente sottovalutato dalle nuove generazioni di femministe; riconoscere allo stesso tempo l’incapacità del movimento di ideare strategie in grado di portare cambiamenti rilevanti alla condizione delle donne; presentare la chiave di lettura che ho sviluppato in Calibano e la Strega (Federici, 2004), atta a esaminare le radici delle forme di sfruttamento a cui le donne sono soggette fin dagli albori della società capitalista.
Si può dire perciò che queste lezioni fossero una rielaborazione di quanto appreso in passato. Eppure, durante le discussioni che seguivano gli incontri venivano sollevati quesiti che andavano ben oltre quella chiave di lettura, e che mi hanno perciò convinta ad allargare l’orizzonte degli argomenti trattati, anche in questo libro. Questo volume pone quattro domande essenziali. Primo: quella di donne
è ancora una categoria necessaria alle politiche femministe se teniamo in considerazione la diversità di vissuto ed esperienze dei suoi membri o dovremmo disfarcene, come suggerito da Butler e altri poststrutturalisti? Secondo: più in generale, dovremmo rifiutare qualsiasi identità politica in quanto inevitabilmente fittizia e optare per due soli gruppi in opposizione tra loro? Terzo: come dovremmo valutare le nuove tecnologie di riproduzione che ci permettono di cambiare i nostri connotati e ricreare il nostro corpo in modo che siano più simili a come li desideriamo? Quarto: queste tecnologie aumentano il controllo che abbiamo sul corpo o lo trasformano in oggetto di sperimentazione e di profitto per i professionisti del settore medico e per il mercato capitalista?
A eccezione della Prima Parte, il libro si sviluppa intorno a queste domande. La Prima Parte è una sorta di preparazione ad affrontarle, essendo il mio obiettivo dimostrare che il movimento femminista degli anni Settanta debba essere valutato per le strategie che ha adottato, piuttosto che sul suo punto di vista improntato sul genere. Facendo questo, la posizione che sostengo differisce enormemente da quella dei teorici performativi, più propensi a criticare il movimento di liberazione delle donne degli anni Settanta a causa della sua presunta identità politica invece che per le strategie che ha portato avanti.
Le teorie post-strutturaliste postulanti l’assunto che i corpi e i generi siano il prodotto di pratiche discorsive e performative, sviluppate nei primi anni Novanta – in un periodo in cui il femminismo era in crisi profonda causata dall’acquisizione di rilievo a livello istituzionale, dall’entrata delle donne nei luoghi di lavoro dominati dagli uomini, in aggiunta a una ristrutturazione dell’economia che richiedeva una forza lavoro meno rigida nei confronti del genere di appartenenza – erano senza dubbio allettanti, e per molti continuano a esserlo. Ma deve essere chiaro che se il termine donne
è stato abbandonato per rappresentare una categoria analitica/politica, allora anche il termine femminismo
dovrebbe scomparire, dato che risulta difficile immaginare un movimento di opposizione emergere laddove manca un’esperienza comune di ingiustizia e abuso. I datori di lavoro, così come i tribunali, non hanno perso tempo e hanno sfruttato la rivendicazione femminista dell’irriducibile diversità tra le donne attraverso il rifiuto di unioni sindacali per le lavoratrici di aziende di cui denunciavano discriminazioni sessuali, forzandole invece a presentare esposti individuali [1]. È lecito considerare esperienze quali la maternità, l’accudimento dei figli e la subordinazione sociale nei confronti degli uomini come terreno di sofferenze comuni alle donne, sebbene da esso possano scaturire strategie contrastanti? Le altre identità di una donna, come quella gay, trans e queer sono davvero meno soggette alla frammentazione sulla base di classe, etnia ed età?
Scrivo dopo aver visto le straordinarie immagini delle strade di Buenos Aires e di altre parti dell’Argentina dove, nonostante le diversità e i frequenti disaccordi, da svariati anni le donne si riversano a centinaia di migliaia per lottare, protestare contro la violenza di genere, contro l’indebitamento femminile e per il diritto all’aborto, prendendo decisioni collettive che hanno trasformato quello che significa essere una donna. Cosa ne sarebbe di queste lotte senza il riconoscimento delle donne
come soggetto politico, come identità ben definita ma al contempo costantemente ridisegnata per creare la visione del mondo a cui aspiriamo?
Questo è l’argomento della seconda parte del libro, dove propongo che negare la possibilità di una qualsivoglia identificazione politica e sociale sia la via per la sconfitta. È un negare la solidarietà tra chi ancora vive e chi invece è morto, è un immaginare le persone senza passato. Rifletto anche su come ogni concetto venga costruito quando esistono differenze tanto grandi. Non possiamo parlare con più certezza dell’amore, dell’educazione e della morte di quanto non parliamo delle donne, degli uomini e delle persone trans, se consideriamo la diversità come un elemento inaccessibile. Per esempio, sappiamo che l’amore nell’antica Grecia e nell’antica Roma era decisamente diverso da come veniva vissuto durante il XX secolo in Europa o negli Stati Uniti, o ancora, dall’amore in un contesto di poligamia. Questo non ci preclude l’utilizzo del concetto e di altri concetti simili, altrimenti saremmo ridotti al silenzio.
Nella Seconda Parte esamino anche ciò che si può definire come il movimento del corpo nuovo o ricostruito, dove sia le innovazioni tecnologiche che l’intervento della medicina giocano un ruolo cruciale. Il mio obiettivo, in questo caso, è più quello di sottolineare cosa c’è in gioco e mettere in guardia contro i pericoli nascosti piuttosto che quello di criticare queste pratiche. I corpi possono essere ricostruiti in modi alquanto differenti, con la chirurgia plastica, con la maternità surrogata o con la riassegnazione di genere. Ciò che domina in ogni caso è il potere e il prestigio guadagnato dai medici grazie ai cambiamenti che promettono. Una tale dipendenza da un’istituzione, quella dei medici, che ha una lunga storia di collaborazione con il capitale e lo Stato, dovrebbe servire da monito. In questo contesto, la storia dovrebbe servirci da guida.
Nella Terza Parte ho incluso degli articoli in cui si discute il ruolo della medicina e della psicologia nell’organizzazione e nella disciplina dei lavoratori dell’industria e delle donne in quanto soggetti di lavoro di riproduzione. La Terza Parte fornisce anche delle riflessioni sulle discussioni, imperanti negli Stati Uniti durante il Raeganismo, a proposito del tipo di forza lavoro richiesta nei nuovi contesti tecnologici ed extraterrestri. Il sogno capitalista, rappresentato in Mormoni nello Spazio, di un lavoratore asceta in grado di conquistare l’inerzia di un corpo costruito nel corso di milioni di anni e di funzionare, per esempio, lassù nelle colonie, è oggi istruttivo da osservare data la richiesta di nuove competenze e un rimodellamento dei soggetti. A oggi, l’espressione di quel sogno è l’inserimento di microchip nel nostro cervello, che consentono a chi se lo può permettere di sviluppare le proprie capacità e di liberarsi dalle incombenze triviali di tutti i giorni, come ricordarsi passaporto e chiavi. Ma abbondano già scenari di tempi in cui pochi individui selezionati agiranno come mente pura, in grado di immagazzinare grandi quantità di dati e di pensare rapidamente, leggendo per esempio un libro in mezz’ora. Nel frattempo, gli esperimenti con lo smembramento e il ricombinamento dei nostri corpi procedono a passo spedito; il rimodellamento dei geni, il trasferimento di geni – già attuato sugli animali – sarà parte della formazione di qualsiasi medico/scienziato, presumibilmente permettendo al futuro mondo capitalista di produrre non più solamente oggetti inanimati, ma persino nuove forme di vita umana.
In questo contesto, riprendere possesso del nostro corpo, riprendere possesso della nostra capacità di decidere su ciò che riguarda la nostra realtà corporea, inizia affermando il potere e la saggezza del corpo come lo conosciamo, del corpo che ha impiegato molto tempo per formarsi così com’è ora, in perenne interazione con la formazione della terra, esposto a grandi rischi per la nostra salute. Elogio al corpo danzante, l’articolo posto a conclusione del volume, scritto dopo aver visto il balletto coreografato da Daria Fai sulla nascita della coscienza e del linguaggio, celebra questo potere e la saggezza che oggi il capitalismo vuole distruggere. La mia visione qui differisce dalla concezione bakhtiana del corpo pantagruelico immaginato da Rabelais nella Francia del XVI secolo, un corpo che si espande oltre i margini della pelle, ma per appropriazione, per ingerimento di tutto ciò che si può ingerire a questo mondo, in un’orgia di piacere sensuale e liberazione da ogni costrizione. Anche la mia concezione è di un corpo che si espande, ma in modo diverso, in quanto ciò che trova, andando oltre i margini della pelle, non è un paradiso culinario ma una continuità magica con gli altri organismi viventi che popolano la terra, i corpi degli esseri umani e non, gli alberi, i fiumi, il mare, le stelle. È l’immagine di un corpo che riunisce ciò che il capitalismo ha diviso, un corpo non più simile alla monade di Leibniz, senza finestre o porte, ma che al contrario si muove in armonia con il cosmo, in un mondo dove la diversità è un bene per tutti e una risorsa da condividere piuttosto che fonte di divisioni e antagonismi.
PRIMA PARTE
Prima lezione
Il corpo, il capitalismo e la riproduzione della forza lavoro
È indubbio che il corpo sia oggi al centro del discorso politico, in ambito disciplinare e scientifico, dove si tenta di ridefinirne le qualità e ciò che può fare. È la Sfinge da interrogare e su cui fondare le nostre azioni nella strada verso il cambiamento individuale e sociale. Tuttavia rimane quasi impossibile articolare una visione coerente del corpo sulla base delle teorie più accreditate in campo intellettuale e politico. Da una parte abbiamo le forme più estreme di determinismo biologico, basate sull’assunto del Dna come deus absconditus (Dio celato) presumibilmente in grado di determinare la nostra vita fisiologica e psicologica senza che ne siamo coscienti; dall ’altra, abbiamo le teorie (femministe e trans) che ci incoraggiano ad abbandonare qualsiasi fattore biologico in favore delle rappresentazioni performative o testuali del corpo e ad abbracciare come costitutiva del nostro essere la crescente assimilazione al mondo delle macchine.
Il punto in comune rimane comunque l’assenza di una posizione a partire dalla quale identificare le forze sociali che influenzano