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Sangue agli Dèi
Sangue agli Dèi
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E-book227 pagine3 ore

Sangue agli Dèi

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Info su questo ebook

Hastiin Roanhorse è il tenente della polizia a Navajo Nation, la riserva Navaho. Da alcuni mesi, nei luoghi sacri della sua terra, un killer sta uccidendo delle ragazze con dei riti esecrabili. Roanhorse non ha i mezzi e nemmeno l’esperienza di investigare, così deve rivolgersi al dipartimento di polizia di Albuquerque. Il capitano Bently gli fornisce una squadra investigativa guidata dal detective di polizia Susan Nelson. Tra Hastiin Roanhorse e Susan Nelson c’è da subito uno scontro territoriale, ideologico ed etnico. La detective Susan Nelson non si lascia sopraffare dall’inospitalità del popolo Navajo, che non vede di buon occhio la squadra arrivata dalla città e non si fa intimorire dalla rudezza di Hastiin, il quale cerca in tutti i modi di renderle il lavoro ancora più difficile. L’assassino è sempre in agguato e si diverte a saggiare le capacità investigative della donna, tenendola sempre in tensione. La bravura dell’assassino e l’ottima conoscenza dei luoghi, dove commette gli omicidi, fanno capire a Susan che potrebbe essere uno del luogo. Questo pensiero è subito contrastato da Hastiin che difende la sua gente a spada tratta. Queste divergenze provocano un ulteriore allontanamento tra il tenente e la detective, che continua imperterrita la sua indagine
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2023
ISBN9791222431673
Sangue agli Dèi

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    Anteprima del libro

    Sangue agli Dèi - Stefania P. Nosnan

    Prologo

    Tra le gole del canyon nessuno avrebbe sentito le urla della ragazza che si riproducevano in un macabro eco. Lui si sarebbe divertito a vederla soffrire, perché aveva il potere di farla vivere o morire.

    La bellezza e la sacralità di quel luogo stavano per essere un’altra volta inondate di sangue. Un brivido di anticipazione gli percorse il corpo, ma lui non vi diede importanza; contemplò la Luna piena, era sua amica e ispiratrice. Il corpo giovane della donna era pronto per il sacrificio. Era steso a terra con le mani legate da un cordino di plastica picchettato in precedenza nel terreno. La vittima graffiava la polvere e le rocce, ma poteva fare poco altro: era in balia del suo aguzzino.

    Fremeva per agire, era più forte di lui. Gli piaceva sentire scivolare dentro di sé l’odore del sangue e le urla del dolore. Vedere spegnersi la fiamma della vita gli dava potere, quella sensazione scorreva dalla vittima a lui e questo lo faceva sentire sempre più potente, imbattibile e lo elevava tra gli Dei.

    Poteva definirli delitti perfetti, era più astuto e più preparato di tutti. In quella dannata riserva non c'era persona che avesse il suo cervello e la sua sottile arguzia. Poteva camminare tranquilla- mente per la strada della cittadina e nessuno avrebbe potuto immaginare le emozioni che ribollivano dentro il suo animo tormentato.

    Solo lui era il mezzo di congiunzione tra la sua gente e la natura, questo lo avrebbe avvicinato all’immortalità.

    Guardò la prigioniera che piangeva, il prossimo passo sarebbe stato la liberazione e la purificazione; doveva farlo, perché lui era il messaggero delle Sacre Persone. Si sentiva come il Vento Sacro, l’energia vitale che avrebbe portato speranza e trasformazione al suo popolo.

    Come tutte le altre vittime, anche questa era carina, giovane e nativa americana. Percepiva il suo terrore, lo fiutava nell’aria, questo odore lo esaltava e lo entusiasmava a compiere l’atto.

    «Dovresti essere felice di purificare questa terra con il tuo spirito» le sussurrò, facendola inorridire e urlare ancora di più. Non si era nemmeno preoccupato di nascondere il suo viso, perché la sua preda non avrebbe potuto dire niente a nessuno. La sua missione si sarebbe conclusa quando la Luna sarebbe stata sopra di lui.

    Quella poveretta aveva capito troppo tardi con chi avesse a che fare, si era fidata di lui senza immaginare che la propria esistenza fosse nelle sue mani, perché lui deteneva un potere supremo. Amava quella facoltà, era insita dentro il suo essere. Aveva goduto immensamente quando lo sguardo amichevole della vittima si era trasformato in sgomento e poi in terrore. Ora avrebbe fatto sua quella paura, assieme all’energia della giovinezza e alla purezza di donna, poi lei si sarebbe spenta per sempre e lui si sarebbe avvicinato ulteriormente ai Padri.

    Guardò l’orologio d’acciaio posato su una roccia rossa vicina; lui indossava di solito una tuta monouso bianca che gli lasciava esposto unicamente il viso. Tutto era sigillato all’interno dello scafandro, per evitare qualsiasi contaminazione con la vittima e il luogo.

    Sapeva benissimo che sarebbe bastato un capello e lo avrebbero rintracciato, ma lui era più furbo di tutti. Era come un ritornello che gli ballava nella mente; sua madre Ahiga glielo cantava sempre, quando lo metteva a dormire da bambino. La donna lo aveva adottato quando aveva due anni, ma i servizi sociali si erano disinteressati del tipo di vita che Ahiga conduceva. Era stato lasciato in balia degli eventi, della pazzia e della vita non morigerata che la madre faceva. La notte era il momento più difficile: quando Ahiga gli accarezzava i capelli e con quella voce a cantilena gli ripeteva quanto fosse intelligente e destinato a grandi imprese. Ogni sera la stessa ninna nanna, fino alla sera in cui la donna aveva trovato il suo ultimo uomo nel proprio letto con una prostituta. Ahiga si era avventata sulla puttana, l’aveva sgozzata davanti agli occhi del compagno e a quelli innocenti del figlio. Mentre moriva, lui aveva visto la vita abbandonare lentamente la giovane; poi nella notte aveva assistito alla sua segreta sepoltura. Invece di inorridire aveva goduto, perché da quel momento in poi non ci sarebbe più stata quella stupida canzoncina, ma solo un segreto tra i tre abitanti di quella casa e un’altra, nuova litania: «Tu sei bravo e non dirai mai niente di stanotte.»

    Prima di un omicidio si radeva molto bene, stando attento a non tagliarsi. Portava sempre via con sé dei guanti chirurgici che indossava, con meticolosità, ogni volta. Anche le scarpe erano particolari, avevano una suola liscia in modo da non lasciare impronte riconoscibili ed erano una misura più grande del suo piede.

    I movimenti disperati della giovane attirarono la sua attenzione. Quelle urla lo stavano annoiando e iniziava a essere stanco; tagliò un pezzo di nastro adesivo e lo applicò sulle labbra della vittima. Doveva concentrarsi solo sulle sensazioni che le leggeva negli occhi, non sui rumori che emetteva la bocca.

    Non sopportava i piagnistei e le chiacchiere delle donne, gli davano ai nervi, memore di quelli della prostituta che chiedeva di essere risparmiata; avrebbe voluto urlarle di smetterla che tanto nessuno l’avrebbe sentita e salvata, lei era in mano sua.

    Sicuramente uno psicologo avrebbe diagnosticato dei problemi risalenti agli anni traumatici vissuti con la madre. Ironia della sorte avrebbe avuto ragione. Che ne sanno quei dottorini della mia vita con mia madre? considerò poi, e nella sua mente esplose la ferocia. Nulla. Non hanno idea.

    Erano mesi che agiva indisturbato. La polizia della riserva brancolava nel buio più totale e lui se la rideva di gusto. Era a conoscenza di ogni eventuale passo verso la sua cattura; lui sapeva tutto di tutti. Si mimetizzava molto bene tra i Nativi americani, era uno di loro e aveva la fiducia di tutti.

    La vittima sotto di lui continuava a piangere e dibattersi; non poteva parlare a causa del nastro adesivo, ma emetteva dei rantoli che lo facevano sentire potente. Sentivano entrambi che l’attimo era arrivato. Mezzanotte, il suo momento ideale. L’ora perfetta per respirare nuova linfa e presentare alla Madre Terra il suo regalo. La Sacre Persone lo assistevano, doveva far vedere loro la sua lealtà.

    Respirò a fondo, prese il piccolo e affilato pugnale che gli aveva regalato suo nonno e, intonando un canto Navajo, affondò la lama con perfetta chirurgia nel collo della predestinata, recidendo il complesso giugulare carotideo. Poteva sentire, sotto di sé, il rantolo dalla morente, mentre le sue dita venivano riscaldate dal sangue sgorgante.

    Peccato che non posso sentirlo sulla pelle rifletté, godendo dell’attimo. Gli occhi della ragazza erano aperti e agonizzanti, poi piano piano persero la vita; la stava assorbendo tutta lui. La sentiva scivolare dentro, infiammarlo e fortificarlo. Sguardi giovani che si confondevano con quelli vecchi, ma lui era intelligente. Sua madre era una povera stupida e le avrebbe fatto vedere che era più furbo, un’altra volta ancora.

    Si sollevò da quel giovane corpo senza anima, non provava niente davanti a quello scempio, forse solo una leggera soddisfazione.

    «Vedi, mamma, sono stato bravo» disse con una voce da bambino. Si guardò le mani guantate sporche di sangue, coperte di un luccichio malvagio, poi si portò un dito alle labbra e saggiò il suo gusto ferroso.

    Era ora di vestirsi con abiti normali e di inviare le coordinate, ma prima di farlo si beò del panorama che lo circondava. Le rocce arenarie, illuminate dalla luce lunare, risaltavano come fuochi tra le ombre delle gole e della prateria. Con lo sguardo tornò sul cadavere e sorrise: quello era il suo gioco, quella era la sua terra e quella era la sua notte.

    L’assassino della Luna piena aveva ucciso ancora e nessuno lo avrebbe fermato. Il killer alzò le braccia verso il cielo e danzò al suono di una musica immaginaria.

    1

    Un altro omicidio sulla terra sacra dei Navajo. Era quello il pensiero fisso di Hastiin Roanhorse, tenente della polizia della riserva Navajo, mentre guidava. Non aveva i mezzi e nemmeno gli uomini per investigare più a fondo su quello che stava succedendo sulla sua amata terra. Erano cinque mesi che, allo scoccare della Luna piena, veniva commesso un omicidio.

    Il riturale era sempre lo stesso. Una bella ragazza, sui venticinque anni, con i capelli scuri veniva uccisa con un fendente alla giugulare; la poverina moriva dissanguata. Sul luogo del delitto la polizia non trovava mai nessun indizio, nemmeno sul corpo della donna. Chi commetteva quegli omicidi era un maledetto bastardo, che non lasciava nulla al caso.

    Ormai quello che stava succedendo alla riserva non era passato inosservato nemmeno alla stampa locale che aveva già soprannominato i crimini come gli omicidi della Luna piena.

    Quella mattina, Hastiin era stato tirato giù dal letto all’alba dal suo agente Henry Nez che lo aveva avvertito dell’ennesima tragedia. Il tono del collega aveva aumentato la sua preoccupazione e la sua frustrazione, ma al telefono Hastiin non era riuscito a scucirgli altro. Si era fiondato a farsi una doccia veloce, aveva preso l’auto e ora si stava dirigendo verso il luogo del rinvenimento del cadavere.

    Le sirene dell’auto gli perforavano i timpani mentre guidava veloce tra le strade della riserva, già popolate dai primi nativi che si preparavano ad andare a lavorare. Hastiin notò, con stupore, Niichaad Noshi salire sul suo pick-up. L’uomo era una guida turistica molto conosciuta nella riserva, che non aveva segreti per lui. Nella famiglia Noshi era uso tramandare di padre in figlio come percorrere i sentieri del Grand Canyon, in special modo dell’Antelope Canyoun, senza perdersi.

    Niichaad e Hastiin erano amici da tempo e avevano fatto assieme molte escursioni. Chissà che cosa fa già in piedi a quest’ora ponderò il tenente. La guida indiana, prima di avviare il veicolo, gli fece un cenno sconsolato con la testa; non era molto usuale vedere il tenente correre con le luci e sirene attivate e, quando succedeva, voleva solo dire che era successo qualcosa di grave.

    La riserva era sempre stata un luogo pacifico, gli unici arresti avvenivano il venerdì e il sabato sera quando qualcuno si ubriacava dopo una giornata di duro lavoro: solo allora le porte delle celle si aprivano.

    Per un attimo, Hastiin allontanò il pensiero di quello che avrebbe trovato una volta giunto sul luogo segnalato e si perse ad ammirare la vastità che si stagliava davanti a lui. Il rosso della roccia poteva ferire gli occhi se era baciato dal sole. Alcuni arbusti, verdi grazie all’acqua sotterranea, interrompevano quel colore acceso. Con un sospiro, Hastiin imboccò una strada sterrata, alzando dietro il suo passaggio una nube di polvere.

    Canyon de Chelly era una meta turistica molto famosa, ma solo pochi sapevano come raggiungerla. Le pareti rocciose rivelavano gli strati sedimentari di vario colore e poco più lontano c’era il famoso Spider Rock la doppia torre di arenaria alta duecentoquaranta metri. I turisti impazzivano per cercare di fotografarla tutta, così come amavano immortalare le antiche costruzioni degli Anasazi che si trovavano a poca distanza. Anche Hastiin era affascinato da quell’antico pueblo che aveva vissuto nelle kiva, i luoghi sacri a struttura circolare. A suo parere Canyon de Chelly non aveva nulla da invidiare a Monument Valley.

    I Navajo erano un gruppo etnico disceso secoli addietro dalle terre del nord, corrispondenti ai moderni stati dell’Alaska e del Canada, per stanziarsi sulle terre dell’Arizona, dello Utah, del Colorado e del New Mexico. Solo successivamente quei luoghi erano diventati la loro nazione. Il popolo di Hastiin non amava la guerra e si occupava principalmente di artigianato, allevamento e agricoltura. Aveva creato il proprio Stato all’interno della riserva, dove l’uomo bianco li aveva confinati decenni prima. Anche il loro credo era saldo da secoli: nella visione del mondo Navajo, la disarmonia esisteva quando le cose non erano come avrebbero dovuto essere e hozhooju era il loro processo di pacificazione. Ma da cinque mesi quella pace era stata messa a dura prova da degli efferati omicidi.

    Hastiin raggiunse Canyon de Chelly nello Stato dell’Arizona, vicino al confine con il New Mexico. Per lui non c’erano demarcazioni, era tutta la sua terra. Inoltre, Hastiin discendeva da genitori Navajo, il suo sangue era puro. Nessuna contaminazione con l’uomo bianco e ne andava fiero.

    Controllò le coordinate del GPS e regolò il navigatore; anche se conosceva quei luoghi come le sue tasche, data la loro immensità a volte aveva bisogno di avvalersi di un supporto tecnologico per raggiungere i punti che non gli era ancora mai capitato di scoprire. Poche ore addietro, quando l’agente Nez lo aveva svegliato, Hastiin era stato anche informato dell’arrivo di un’e-mail con la longitudine e la latitudine indicanti la posizione del cadavere di quella notte; anche il collega Alvin James si era messo in auto e lo aveva raggiunto. Hastiin ripensò a quelle odiate e-mail che erano diventate una prassi degli ultimi cinque mesi.

    La prima volta che avevano aperto la posta avevano pensato che fosse uno scherzo di pessimo gusto, ma erano andati a controllare per scrupolo. La scena che si era presentata loro davanti aveva fatto vomitare i due agenti, in servizio da molti anni. Hastiin era rimasto particolarmente scosso, anche perché conosceva molto bene la ragazza e la sua famiglia.

    Era stato lui ad avvertire i genitori dell’accaduto e li aveva sorretti nel riconoscimento ufficiale nella sala mortuaria, un momento intriso di dolore anche per un poliziotto ed ex militare com’era lui.

    Ora tutto questo si ripeteva nuovamente e Hastiin era stanco di combattere contro quegli omicidi e contro le carenze scientifiche e tecnologiche che il suo ufficio aveva e che gli impedivano di fare bene il suo lavoro.

    Quando giunse sul posto, vide le due auto di pattuglia che lo avevano preceduto. In lontananza si potevano già sentire le sirene dei soccorsi.

    «Non posso dirti buongiorno, capo» esordì Alvin James, raggiungendolo e indicandogli un punto preciso poco più in là, una roccia dietro alla quale spuntavano due gambe. Scosse la testa e fece un profondo respiro. «Non è un bello spettacolo, capo, ho dovuto mandare a casa le due reclute: hanno vomitato l’anima.»

    Hastiin conosceva già la risposta, ma ugualmente chiese: «Un’altra ragazza?»

    «Stesso modus operandi» lo informò brevemente il collega mentre lo seguiva verso il ritrovamento.

    «Maledetto! Dobbiamo fermarlo. È la quinta ragazza, il presidente vorrà le nostre teste.»

    «Hastiin… la faccenda è peggiore di quanto immagini» disse James in tono basso e addolorato mentre Nez si faceva da parte.

    Solo allora Hastiin notò bene il cadavere, e rimase di ghiaccio. «Oh mio Dio…»

    «Dovrai andare ad avvertirlo immediatamente, mi dispiace» gli disse James, battendogli una mano sulla spalla. «Quel bastardo non si ferma davanti a nessuno.»

    Il silenzio venne interrotto dall’arrivo dell’ambulanza, seguita dall’unità dei vigili del fuoco.

    «Ragazzi, dovete mantenere il più stretto riserbo su tutto quello che vedrete» ordinò sommessamente Hastiin, indicando loro di proseguire nel canyon. Quando raggiunsero il posto, rimasero tutti in silenzio.

    Riversa sulla roccia, c’era Carly Hoskie, la figlia del presidente della Navajo Nation.

    «Comandante Roanhorse, avverte lei i familiari?» chiese uno dei paramedici che si era avvicinato, ma teneva gli occhi lontani da quella figura immobile.

    Henry Nez intervenne: «Tenente, se vuole posso farlo io.»

    «No, tocca a me.» Hastiin strinse le mani a pugno. Quello era il momento che odiava maggiormente del suo lavoro, ma quel giorno si era rivelato il peggiore di tutti.

    Il presidente Hoskie era un uomo ben voluto da tutta la comunità dei nativi. La sua famiglia, come molte altre, viveva all’interno

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