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A gamba tesa
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E-book313 pagine4 ore

A gamba tesa

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Info su questo ebook

Nel paesino ligure di Crescobene la vita scorre serena, fino all’empio furto della preziosa icona bizantina raffigurante San Pantaleo, di cui chiesa e squadra di calcio locali portano il nome.  I sospetti cadono sul Mister, e a lui portano sconcertanti indizi. La notizia si diffonde in tutta la piccola comunità, che cade nello sconforto. Partono le indagini delle autorità inquirenti ma nessuno, in paese, può credere che quell’uomo, rispettato e amato, possa essere coinvolto in un reato tanto disonorevole.
Per questa ragione, nella generale incredulità di Crescobene, i più indignati non si arrendono alle evidenze e ognuno, a modo suo, si muove per organizzare la difesa del Mister che grida la propria innocenza. 
Ricerche e casualità arrivano a spostare l’attenzione su altri eventuali colpevoli: ma quali ragioni spingerebbero questi individui ad agire in maniera tanto subdola nei confronti dell’allenatore, facendo cadere su di lui la responsabilità del furto?  
La risposta emerge nel corso degli avvenimenti, che porteranno a far luce su una vicenda con radici profonde, dove onore e rivalsa, morte e vendetta, amore e odio gridano con forza le proprie ragioni.
LinguaItaliano
Data di uscita7 ago 2023
ISBN9791280100641
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    Anteprima del libro

    A gamba tesa - Annalisa Scaglione

    Il libro

    Nel paesino ligure di Crescobene la vita scorre serena, fino all’empio furto della preziosa icona bizantina raffigurante San Pantaleo, di cui chiesa e squadra di calcio locali portano il nome. I sospetti cadono sul Mister, e a lui portano sconcertanti indizi. La notizia si diffonde in tutta la piccola comunità, che cade nello sconforto. Partono le indagini delle autorità inquirenti ma nessuno, in paese, può credere che quell’uomo, rispettato e amato, possa essere coinvolto in un reato tanto disonorevole.

    Per questa ragione, nella generale incredulità di Crescobene, i più indignati non si arrendono alle evidenze e ognuno, a modo suo, si muove per organizzare la difesa del Mister che grida la propria innocenza.

    Ricerche e casualità arrivano a spostare l’attenzione su altri eventuali colpevoli: ma quali ragioni spingerebbero questi individui ad agire in maniera tanto subdola nei confronti dell’allenatore, facendo cadere su di lui la responsabilità del furto?

    La risposta emerge nel corso degli avvenimenti, che porteranno a far luce su una vicenda con radici profonde, dove onore e rivalsa, morte e vendetta, amore e odio gridano con forza le proprie ragioni.

    L’autrice

    Annalisa Scaglione nasce a Genova nel 1970.

    Dopo avere compiuto studi classici al Liceo D’Oria, si laurea in Giurisprudenza cum laude. Consegue un Master in Relazioni Pubbliche Europee a Roma e lavora in marketing e comunicazione a Milano, presso importanti società multinazionali. Decide di rientrare a Genova, dove diventa Tutor specializzata in disturbi specifici dell’apprendimento.

    Non ha mai abbandonato le sue passioni: dal teatro alla lettura fino a pervenire, nel 2020, alla pubblicazione del suo primo romanzo, La partita va giocata (Ed. Scatole Parlanti, Narrativa contemporanea).

    AltreStorie

    Annalisa Scaglione

    A gamba

    tesa

    Proprietà letteraria riservata

    ©2023 AltreVoci Edizioni srls

    Prima edizione digitale: agosto 2023

    ISBN: 9791280100641

    Copertina realizzata da Andrea Falsetti

    In prima di copertina: immagine di ©Karin Hiselius / Unsplash ed elaborazione da immagine di 123 RF

    In quarta di copertina: immagine di ©John Towner / Unsplash

    I fatti e i personaggi riportati in questo romanzo sono frutto della fantasia dell’autrice. Pertanto ogni somiglianza a persone reali e ogni riferimento a fatti accaduti sono da ritenersi puramente casuali.

    Alle mie nonne,

    Adriana e Anita

    e ai miei nonni,

    Carlo e Mario

    PARTE

    PRIMA

    La crisi

    Forse è davvero povera una vita che non sia stata spazzata via, almeno una volta, dal turbine di una crisi come questa, una vita il cui edificio non sia stato mai scosso da un terremoto, travolto da un tornado che fa volare le tegole dal tetto e, ululando, smuove per un attimo tutto ciò che la ragione e il carattere avevano tenuto in ordine.

    La donna giusta, SÁNDOR MÁRAI

    Prologo

    Nell’appartamento, nonno e nipote occupavano un divano a due posti, sul quale stava collocato un vecchio lenzuolo per coprire la seduta e i braccioli ormai lisi dal tempo. Non era il momento di comprarne un altro.

    Al bambino diceva che aveva freddo, intabarrato anche in casa, con il vecchio passamontagna a mostrare solo gli occhi venati di rabbia. La rosacea faceva ormai invidia ai fuochi d’artificio che aveva visto una volta arrivando con la nave a Genova, parecchi San Giovanni prima. Si faceva orrore, e lo schifo di fuori non era niente se paragonato con l’acidità di stomaco che lo tormentava. Da giorni con lo stesso completo addosso, si scopriva al mattino seduto sul letto, ruttando fiele, a guardare fisso il suo guardaroba alla moda appeso in ordine maniacale. Quell’armadio aperto gli restituiva l’immagine di uno sconosciuto. E allora sbatteva le ante e si trascinava in cucina per un caffè, e poi un altro, e un altro ancora.

    «Nonno, cosa c’è per merenda?»

    E gli arrivava puntuale, quella domanda, ma lui non sapeva nemmeno che giorno fosse, figuriamoci l’ora, figuriamoci se aveva fatto la spesa. Si limitava a indicare il vaso di terracotta, fermo sul tavolo impolverato, che faceva da svuotatasche. Aveva eliminato da tempo il finto cactus e quel refugium peccatorum si era trasformato in un salvadanaio. Con quelle monete il bambino poteva scendere e prendersi qualcosa.

    E poi?

    In quella vita sospesa, che da giorni aveva scelto, non c’era spazio per un bambino. Non c’era spazio per niente.

    Un mattino passò in rassegna gli abiti appesi nel vecchio armadio di sua nonna. Staccò una gruccia e stese sul letto il completo di velluto a coste color ruggine. Sfilò quello che aveva addosso da giorni e lo lasciò cadere per terra. Dalla camera poteva sentire l’acqua della doccia che scrosciava da dieci minuti buoni. Andò in bagno, a passi lenti, con i pantaloni e la giacca appallottolati fra le braccia. Il vapore, per fortuna, aveva appannato lo specchio e non poteva riconoscere il proprio viso stravolto. Buttò gli indumenti maleodoranti nella cesta e si spogliò del tutto. Sotto il getto bollente la faccia bruciava, unico segno dell’essere ancora vivo. Lavò via rabbia, solitudine, disonore, ma non bastò. Con il guanto di crini disfatti massaggiò con forza le sue guance malate, la bocca, il naso, fino a quando il piatto otturato della doccia si colorò di arancione. Colava sangue e lacrime già da un po’, quando esplose nel grido più bestiale di cui fosse capace.

    L’acqua diventò tiepida, e poi fredda – da quanto stava lì? Accucciato, stringeva le ginocchia appuntite con le braccia lunghe e scarne. Si rialzò, srotolandosi piano piano, con l’inutile appiglio delle piastrelle scivolose. Due pesciolini blu sulla tenda di plastica lo osservavano con gli occhi sbarrati, neri e sbavati di muffa. Li ignorò e si aprì un varco nella nebbia.

    Il nipote, al rientro da scuola, l’avrebbe trovato al meglio, che pareva addormentato sul tavolo, finalmente vestito di fresco, elegante e alla moda, come era sempre stato. Avrebbe sentito il profumo del bagnoschiuma al bergamotto che gli aveva regalato per Natale, il puzzo delle Nazionali senza filtro smorzato dalle note fresche e dolci di quel frutto, capace di coprire anche l’odore metallico dello sparo e del sangue che si confondeva fra le pieghe del velluto color ruggine.

    I

    Sette minuti e mezzo.

    Dal campo al luogo fissato per l’appuntamento era davvero una fesseria, anche su quello scooter scalcagnato. Con l’acceleratore tirato al massimo aveva iniziato la salita tutta curve e aveva rimpianto il vecchio giubbotto lasciato negli spogliatoi, alla fine degli allenamenti. Per quanto fosse quasi l’ora di pranzo, l’aria di tramontana si faceva sentire e la camicia non bastava più: una gran goduria, però, dopo un’estate infuocata che sembrava non finire mai. I pini rilasciavano ancora il loro profumo e appagavano in parte il desiderio di accendersi una sigaretta in corsa, come faceva da ragazzo sulla vecchia Vespa, pur sapendo che sarebbe andata sprecata.

    «Il mio letto è forte e tu pesi poco di più della gommapiuma tu», cantava a squarciagola.

    Dal meraviglioso evento, come lo chiamava lui, aveva recuperato le vecchie cassette di Umberto Tozzi, idolo mai tramontato. Negli anni in cui lei sembrava sparita per sempre, aveva congelato anche il suo amore per Tozzi, relegando nelle cantine di turno tutti gli album che si portava dietro a ogni trasloco e che non osava buttare, anche se non sapeva più dove fosse finito il vecchio registratore. Come se quelle canzoni, ancora sui nastri rimasti ingarbugliati, fossero l’àncora che lo teneva legato a Gloria, Glo-ri-a, manchi tu nell’aria, Glo-ri-a. E aveva fatto bene, perché lei era tornata nella sua vita e gli aveva regalato un registratore di nuova generazione collegabile via bluetooth all’amplificatore Bose. Non ce n’era più per nessuno, e negli ultimi mesi anche i figli della pakistana del piano di sopra riuscivano ad accompagnare il sempiterno Tozzi senza sbagliare una parola. Quelle canzoni gli ricordavano lui, bambino degli anni Settanta, d’estate, a San Vito Lo Capo, sua madre abbronzata, il padre sempre in acqua e il nonno, sulla sdraio di legno, che scrutava il mare in silenzio. Si alzava solo per mangiare la rianata, la speciale pizza trapanese che Carmelina del chiosco, a suo dire, sapeva fare perfetta, e poi davano insieme due calci al pallone sul bagnasciuga liscio. Da sotto l’ombrellone veniva la voce di quel cantante che ripeteva ti amo in continuazione e lui sbagliava i palleggi tutte le volte che le ragazzine in bikini passavano davanti, bisbigliandosi qualcosa nelle orecchie e ridendo forte.

    Alla fine del lecceto aveva rallentato, per poi girare intorno alla vecchia rocca e fermarsi in piano, di fronte ai magri resti dell’antico borgo nascosto dalla macchia mediterranea: un paio di case attaccate, dove da una vita vivevano una coppia di anziani contadini e un eremita olandese, alto due metri, che scendeva in paese sì e no una volta al mese e si occupava dei due vicini in cambio di uova e verdure.

    E poi c’era il rudere.

    Non quello storico, quello che testimoniava il passato feudale di Crescobene, quello che dominava il paese più sotto. Il rudere in questione, la ragione del suo appuntamento, era un casone in pietra abbandonato da almeno cinquant’anni. Della famiglia a cui era appartenuto rimaneva solo una nipote in carriera che, da Londra, sperava di disfarsene al più presto e ora, dopo due lustri di tentativi, era disposta a cederlo per una cifra irrisoria.

    L’idea di fuggire dall’appartamento al piano terra rialzato, che lo aveva ospitato per quattro anni, lo solleticava non poco: niente più affitto per due stanze umide, niente più squallidi mobili, né quell’impossibile tappezzeria psichedelica che lo faceva impazzire, così come il perenne odore di cucina pakistana che impregnava i muri dell’intero palazzone. Il rudere, nel quale avrebbe dovuto investire i risparmi fino all’ultimo centesimo per renderlo vicino a un’idea di casa, gli apriva una splendida opportunità di cambiamento. Oltre a quelle che, da circa sei mesi, gli avevano rivoluzionato la vita.

    Il Mister friggeva. Un po’ per il litro di tè freddo che cominciava a premere sulla vescica, un po’ perché Tecla Marini, l’agente immobiliare, cominciava a passare il limite. Non aveva fatto in tempo a togliersi il casco che gli si era precipitata addosso, in un saluto troppo caloroso; gli aveva preso la mano in una stretta esagerata, sorridendo di sbieco, la testa inclinata sulla spalla sinistra e le pupille dilatate fisse su di lui. Da dodici minuti cinguettava beata in un soliloquio senza capo né coda, giocando con la chiave del casone, una chiave lunga e arrugginita con l’etichetta bianca inserita in una cornice di plastica rossa e sopra un nome sbiadito che non si riusciva a decifrare. E lui cominciava a sperare di chiudere subito l’affare, senza aspettare, fuori l’assegno con la caparra, se non altro per togliersi di mezzo lei, i suoi occhi da gattamorta e quel suo odore di ormoni impazziti sotto un profumo da quattro soldi. Stava dondolando, tacco-punta-tacco, sulle scarpe da barca marroni che, dopo quattro anni di uso quasi ininterrotto, erano diventate comodissime. Lo faceva da sempre, senza accorgersene, e non era mai riuscito a correggere questo segno di impazienza. Il venticello era calato e le chiazze sotto le ascelle, di un blu scuro en pendant con i jeans, alteravano l’azzurro pallido della sua migliore camicia.

    Tecla Marini continuava a parlare.

    «Shh!», la azzittì in malo modo, con l’indice piantato dritto su naso e bocca. «Eccola!»

    Il motore della 2CV che arrancava sull’ultimo pezzo di salita era inconfondibile.

    Gloria, come al solito, arrivò trafelata, con il suo classico quarto d’ora di ritardo accademico, diede tre colpi di clacson e alzò il braccio fuori dalla capote spalancata. Il broncio del Mister virò all’istante in un largo sorriso e le andò incontro, mentre il motore si spegneva con un borbottio. Le aprì la portiera del passeggero – quella del guidatore era bloccata dall’ultimo incidente – e lei sgattaiolò fuori di sedere, di quello splendido sedere che lo aveva fatto impazzire a vent’anni e che adesso, a quarantacinque, finalmente aveva ritrovato. Gli uscì una lacrima di commozione davanti a quell’abbondanza e si asciugò veloce la fronte con la manica arrotolata sull’avambraccio.

    «Eccomi qui», trillò voltandosi, prima di stampargli sulle labbra un bacio umido. «Signora Tecla! Scusi il ritardo, è che proprio non ne voleva sapere di partire», disse dedicando alla 2CV – da sempre la Giallina – uno sguardo di falso rimprovero, «ma ora ci siamo, prontissimi e molto emozionati», aggiunse stringendosi a lui.

    Tecla Marini l’avrebbe strozzata. Ma non poteva. Era lì per lavoro e il suo istinto di immobiliarista le diceva che quella era la volta buona: il dannato casone sarebbe stato venduto. Buttò giù la stizza che la scuoteva da dentro – quelle con la coda di cavallo non le erano mai piaciute – e le diede un frettoloso benvenuto, cercando di evitare quegli occhi di giada incastonati nelle ciglia più lunghe che avesse mai visto.

    «Faccio strada», sussurrò a denti stretti.

    La chiave sembrava incastrata ma, con l’aiuto di una lieve spallata, la porta si aprì.

    Gloria rimase ferma alla fine dell’ultimo gradino, la mano destra appoggiata alla corta ringhiera di ferro battuto che accompagnava la breve discesa nel vano principale. Il sole che filtrava dalle piccole finestre giocava con la polvere sparsa in tutto l’ambiente, creando una girandola di luci. Due lunghe mensole di rovere grezzo percorrevano il lato più lungo della grande stanza, di fronte all’ingresso, e le bottiglie di vetro verde e bruno, lasciate lì sopra alla rinfusa, riflettevano i raggi, colorando pallini e pagliuzze in giro per l’aria.

    «Santo cielo! Amore, questa è pura magia. Questa è la nostra casa, me lo sentivo, io!»

    Tecla Marini attaccò con una serie di starnuti imbarazzanti e, bofonchiando qualcosa nel fazzoletto, aprì due finestrelle prima di uscire fuori per calmare l’attacco allergico. Gloria, senza nemmeno farci caso, avanzò lenta verso il centro della grande stanza rettangolare e girò su se stessa più volte, beandosi di ogni particolare: le pietre dei muri, le travi dell’alto soffitto, le assi che scricchiolavano sotto le scarpe. Il Mister, appoggiato al muretto che delimitava uno spazio a probabile uso cucina, la osservava compiaciuto: vederla lì, con lui, e per di più felice, gli fece uscire la seconda lacrima nel giro di dieci minuti.

    Quando finì di roteare la lunga gonna a disegni cachemire, Gloria fermò gli occhi spalancati in quelli del suo uomo e congiunse le mani sotto il mento.

    «Ti prego, sì.»

    Lui scoppiò a ridere, le si avvicinò a braccia aperte, solo per chiuderle bene intorno al corpo che amava.

    «E sia, amore, e sia.»

    Tecla Marini li trovò così, e per avere la loro attenzione non esitò a segnalare la sua presenza con l’ennesimo starnuto.

    «Posso mostrarvi il resto?»

    Dal lato corto del vano principale partiva una scala a chiocciola.

    «Ecco quella che potrebbe essere la camera da letto.»

    Il piccolo soppalco, non visibile da sotto, si affacciava sul lato del futuro cucinotto attraverso una finestrella; dalla parte opposta, invece, dava sull’esterno con una portafinestra che si apriva su un terrazzino, pieno di aghi del pino marittimo che gli faceva ombra da chissà quanto tempo. A Gloria scappò un gridolino di entusiasmo. Da lì il mare non si vedeva, ma l’incanto della vegetazione sapeva offrire una pace speciale. Fece un respiro profondo e la mente partì a immaginare come avrebbe trasformato quel casone da lì a poco.

    «Ora scendiamo, voglio vedere il mio laboratorio.»

    Gloria si era convinta da subito, appena aveva letto l’annuncio tre giorni prima sul giornalino di Crescobene: Antico casone in pietra, da ristrutturare, immerso nel verde, ampia metratura con annesso vano di quarantadue metri quadrati a uso magazzino, ingresso indipendente. Terreno circostante di proprietà da sistemare. Prezzo competitivo. Occasione irripetibile.

    Aveva chiamato immediatamente l’agenzia immobiliare, l’unica della zona, per fissare un appuntamento.

    Quando in aprile si era presentata in quel paesino dell’entroterra, dopo duecentocinquanta chilometri, quattro valigie e il terrario con Giorgina ancora stordita ma prossima al risveglio post letargo, aveva capito che non se ne sarebbe più andata. Il Mister la aspettava già da un’ora al bar della Rotonda, ingannando l’attesa snervante con un paio di birre e due chiacchiere con i ragazzi dello scopone scientifico – quattrocento anni in cinque. Le sigarette non le aveva nemmeno contate, tanto che non riusciva più a mandare giù i mozziconi nel portacenere vintage: schiacciava il pomolo in maniera ossessiva, ma la rondella non si apriva più, troppo pieno.

    Ciao.

    Gli era spuntata alle spalle, con quell’inconfondibile odore di miele che le usciva dalle labbra. Usava ancora lo stesso burro di cacao biologico? Si era alzato di scatto e, senza nemmeno il tempo di parole inutili, Gloria gli si era avvinghiata al collo.

    In un abbraccio lungo e stretto avevano sentito, dirompenti, i sentimenti di una vita: dopo ventidue anni di separazione, erano di nuovo insieme.

    Ventidue anni persi e ritrovati.

    Ventidue anni prima Gloria lo aveva mollato così, d’emblée, e di farle cambiare idea su di loro non c’era stato verso. Lui l’aveva inseguita come un matto, correndo nella notte; l’aveva supplicata, pregata di non buttare via il loro amore. Poi si era adattato a sopravvivere, senza mai smettere di pensarla, immaginandola chissà dove, con chissà chi. A un certo punto aveva giurato a se stesso di non fare più nulla per contattarla: basta lettere restituite al mittente, basta e-mail sparite nella rete.

    E, dopo ventidue anni di vita di merda, gli era arrivato così, d’emblée, un messaggio spiazzante come un gol all’incrocio dei pali, dove Gloria ammetteva che forse si era sbagliata, forse aveva ragione lui, forse era lui l’uomo della sua vita.

    Il Mister si era aggrappato a quel messaggio come un naufrago a un tronco di fortuna. E la fortuna era girata: ora Gloria era lì, con lui.

    Avevano passato i primi tre giorni di totale distacco dal resto del mondo, chiusi in quella camera da letto in compagnia di loro stessi e del quotidiano cartone di pizza a domicilio. Poi l’appartamento del Mister aveva cominciato a mostrarsi per quello che era: un bilocale squallido in un palazzo popolare, con certe pecche che anche lui aveva notato ma che aveva superato per via del suo stile di vita minimal, come diceva Gloria. Ma lei non lo avrebbe sopportato ancora per molto. Con la reciproca promessa di non lasciarsi mai più, la ricerca di una sistemazione decorosa si era fatta impellente e da quasi cinque mesi era scattata la caccia al tesoro. Gli allenamenti avevano tenuto il Mister occupato fino a giugno, ma poi, dopo il trionfo della squadra che lo aveva catapultato nell’estate più incredibile della sua vita, si era dato da fare anche lui. Le giornate ai Bagni Silvia, dove non si presentavano mai prima di mezzogiorno, erano trascorse tra autografi, bicchierate per festeggiamenti infiniti sotto lo striscione San Pantaleo F.C. in Lega Pro e l’attenta lettura di ogni annuncio che riguardasse soluzioni immobiliari nell’arco di dieci chilometri da Crescobene. Niente fino a quel casone, quando gli occhi di Gloria si erano illuminati.

    Tecla Marini tirò fuori dal mazzo una chiave più piccola di quella che apriva l’ingresso principale, ugualmente arrugginita. Mostrò il modo per riuscire ad aprire: «Prima si gira a sinistra di circa quarantacinque gradi, poi a destra di centottanta, quindi riportate la chiave in posizione di partenza, la ruotate di nuovo a destra di quarantacinque gradi e… voilà!».

    La serratura scattò e la porticina arcuata, a listoni di legno grezzo, venne spinta in avanti, strisciando la base con un rumore sordo.

    «Amore mio, guarda, è perfetto!», esclamò Gloria, saltellando.

    Il soffitto basso, diviso in due volte unite da una trave di ciliegio scuro, riportava la data di costruzione del casone su uno dei mattoni rossi: 1884, con l’ultimo numero scritto al contrario da un muratore analfabeta.

    «Voglio contattare subito la mia amica di Milano, quella che ha il padre che fa pavimenti in Toscana, ti ricordi? La chiamo oggi stesso, voglio quel parquet pregiato che producono loro. Ci vuole tempo per queste cose e io, amore, sono già in un ritardo folle.»

    «Beh, credo proprio che la signora non abbia dubbi», avanzò Tecla Marini, con lo sguardo sornione in direzione del Mister, che si beava dell’entusiasmo della sua Gloria.

    «In effetti sembra anche a me», le sorrise lui. «Se può andare bene, noi potremmo venire da lei, in ufficio, per bloccare l’immobile e portare avanti la pratica.»

    «Sì!», urlò Gloria a braccia spalancate verso l’alto.

    Prese la rincorsa, l’elastico che teneva la coda scivolò per terra, con cinque passi volò verso l’uomo della sua vita e lo travolse di baci e di capelli pieni di striature blu. Tecla Marini chiuse gli occhi di fronte a quella scena che per lei era uno schiaffo in faccia.

    II

    «Dobbiamo festeggiare.»

    «Non vuoi aspettare il preliminare?»

    «Quello è fra una settimana. Vuol dire che allora festeggeremo di più», gli rispose decisa strizzandogli l’occhio. Quando faceva così le si arricciava il naso e lui la trovava eccitante.

    «Gloria, guarda avanti, diamine!»

    Lei inchiodò all’istante al semaforo rosso.

    «Se mi viene un infarto, altro che festeggiamenti.»

    Terminato l’incontro nell’ufficio dell’immobiliare, aveva lasciato lo scooter da Toni di Fast end Furios – scritto così – per un rumorino strano che sentiva già da due giorni. Dopo il furto della macchina non poteva rischiare di rimanere a terra e per tornare a casa aveva dovuto vincere le sue resistenze e salire su quel macinino da caffè vecchio come il cucco. Auto storica, gli ripeteva Gloria, pluripremiata ai vari raduni annuali in giro per il Nord Italia; pericolosissima scatola di latta, ribatteva lui.

    «Rilassati amore, guido questa macchina da almeno vent’anni.»

    «Che cosa c’entra? Se non guardi avanti, ci schiantiamo. E poi mi

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