La verità sepolta
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Anteprima del libro
La verità sepolta - Albanese Luca
Luca Albanese
La verità sepolta
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Indice dei contenuti
Prologo
La gran madre
Vecchie conoscenze
L’hotel abbandonato
Un incontro fortuito
Una strana alleanza
La donna misteriosa
Agosto 1944
Un’altra vittima
Genova
Il rapimento
La reliquia
Le due sette
La tomba
Il dubbio
Il sarcofago
Caso chiuso
Ringraziamenti
Note
Luca Albanese
La verità sepolta
© 2023 by All Around srl
I edizione dicembre 2023
www.edizioniallaround.it
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, esistenti o esistite, è del tutto casuale.
Passare dai fantasmi della fede
agli spettri della ragione
è solamente un cambiare cella.
F. Pessoa
Che Dio ti perdoni per quello che hai fatto!
Padre, se Dio ha dei problemi
non sarà per quello che abbiamo fatto
ma per quello che stiamo per fare.
dal film Angeli e Demoni
Prologo
Torino
10 agosto 1960
Un sottile spicchio di luna tentava di illuminare le strade della città ancora addormentata e il fiume, impoverito dalle poche piogge, stava defluendo stanco lungo il suo percorso. Una campana fece tre rintocchi, alcuni piccioni si appoggiarono ai lampioni di Ponte Vittorio Emanuele, incuriositi da quello che stava succedendo a pochi metri: due individui trasportavano qualcosa che aveva le sembianze di un corpo. Lo adagiarono sul piastrellato, si alzarono le maniche e lo issarono lungo la cancellata della chiesa. Mentre uno lo teneva puntandosi saldamente a terra, l’altro gli legava il collo alla ringhiera con un filo di ferro. L’uomo privo di sensi respirava a fatica. Una volta bloccato, passarono alle braccia, le allargarono e le legarono, poi fu la volta delle caviglie. Finito il lavoro si allontanarono per ammirarlo nella sua interezza. Era un Cristo in croce. Mancava solo il tocco finale. Uno dei due si avvicinò e lo pugnalò sul costato, tenendolo stretto a sé in un ultimo abbraccio. Un urlo soffocato uscì dalla bocca della vittima che piegò la testa e spirò.
«Ora chi glielo dice a fratello Abelardo che non abbiamo trovato quello che cercavamo?», disse l’uomo con il coltello in mano.
«Questa volta ero certo fosse quello giusto. Intanto ne abbiamo eliminato un altro» rispose il secondo individuo asciugandosi il sudore.
«Non credo che il maestro si accontenti di questa risposta».
«Ci inventeremo qualcosa. Nel frattempo, taci!».
I due si guardarono, si strapparono i collarini ecclesiastici, li gettarono e sparirono ingoiati dal buio.
La gran madre
Torino
10 agosto 1960
La notte continuava ignara a percorrere il suo cammino accompagnata dallo scorrere del Po che, non curante, proseguiva la sua lunga corsa. Gli alberi ai lati, guardiani silenziosi, erano mossi dalla calda brezza estiva che faceva danzare le foglie aggrappate ai rami. Un tram assonnato attraversò piazza Gran Madre di Dio senza fermarsi, la città era ancora adagiata tra due guanciali. Da una panetteria nelle vicinanze usciva il profumo di pane appena sfornato, mentre un garzone stava fumando con gli occhi socchiusi una sigaretta stanca, appoggiato a un muro.
All’ultimo piano di un palazzo, a pochi chilometri di distanza, una finestra era spalancata nell’inutile tentativo di mitigare l’afa di quell’estate torrida. Il rumore delle macchine ancora insonnolite si alternava all’ostinato gracchiare del ventilatore nella stanza, facendo da colonna sonora all’uomo che, steso in mutande su di un letto matrimoniale, stava dormendo un sonno agitato. Una sveglia Kienzle con i numeri e le lancette luminescenti, appoggiata sul comodino, segnava le quattro e nove minuti, tra poco meno di due ore avrebbe suonato e il commissario Filippo Dupont, controvoglia, si sarebbe dovuto alzare. Lo squillo del telefono anticipò tutto.
L’uomo si destò di soprassalto, interrompendo l’incubo: un inseguimento claustrofobico attraverso le vie di una città senza cielo, dove lui era il fuggitivo.
Rispose e dall’altra parte della cornetta qualcuno lo informava di un efferato omicidio.
Mise giù il telefono, andò in bagno a pisciare, si lavò i denti e il viso per riprendersi. Il caldo era insopportabile, odiava l’estate, entrò nella doccia per levarsi la sensazione di essersi svegliato dentro a una serra.
Ad agosto Torino si svuotava ed era l’unica nota positiva. Sorrise al pensiero di avere poca gente intorno, avrebbe voluto vivere come Robinson Crusoe. Era cresciuto con una rabbia interiore che imputava all’assenza di un padre mai conosciuto e per questo motivo evitava, quando possibile, ogni contatto umano. Era un cinquantenne italo-francese, brizzolato, barba incolta che gli aveva procurato non pochi problemi con i suoi superiori. Gli occhi sottili, presi dalla madre, gli davano un’aria esotica che piaceva alle donne, mentre il naso testimoniava un passato da boxeur. Elena, la sua compagna, era maestra di scuola elementare, dieci anni più giovane di lui. Nessuno dei due aveva voluto sposarsi, non credevano al matrimonio e quello che era successo qualche giorno prima gli dava ragione.
Dupont aveva sempre lo sguardo accigliato e intimoriva ogni interlocutore, di questo ne andava fiero. Neppure nell’intimità di casa era un uomo affabile, difetto che la compagna aveva più volte rimarcato. Andò in cucina, prese la moka, la riempì d’acqua facendola traboccare, aprì la credenza dove teneva il caffè scoprendo il barattolo vuoto. Chiuse gli occhi e imprecò in silenzio. Guardò il lavandino pieno di piatti e fece una smorfia disgustata. Elena era andata qualche giorno dalla madre in Toscana e il disordine dentro casa regnava sovrano. Si diresse verso la finestra e l’aprì, di fronte, il Po scorreva lento. Il suo appartamento si affacciava su ponte Isabella e appena sveglio amava deliziarsi di un caffè guardando il panorama dal suo balcone all’ultimo piano.
La giornata era iniziata male. Si vestì, il caldo di quei giorni rallentava ogni movimento. Prima di uscire di casa controllò di aver preso le chiavi della 2CV. Diede un’ultima occhiata all’appartamento con la sensazione di essersi dimenticato qualcosa, infine chiuse la porta. Premette il tasto dell’ascensore che non diede segni di vita, di certo la signora Rosa del primo piano lo aveva spento come sempre. A suo dire, il rumore dell’ascensore di notte la disturbava e, dopo una certa ora, non era per lei di vitale importanza. Si potevano prendere le scale, diceva . Brutta stronza stai al primo piano tu
, pensò incamminandosi a piedi. Scese gli ultimi gradini, attraversò l’atrio e uscì dalla palazzina. La macchina era a pochi metri, entrò e partì.
Il Ponte Isabella era deserto, lo percorse e svoltò a sinistra. Dalla sponda opposta il Parco del Valentino emanava i profumi estivi che presto sarebbero stati coperti dallo smog. Inspirò a fondo mentre proseguiva per via Moncalieri cercando di farsi passare il nervoso. Le mani stringevano il volante e per un attimo pensò che fosse il collo della signora Rosa, premette così forte che gli sembrò di sentire la giugulare della vecchia ritmare gli ultimi battiti, sorrise inebriato a quel pensiero. Gli abbaglianti di una macchina proveniente dal senso opposto lo fecero riprendere dal suo istinto omicida, scrollò la testa pensando che avrebbe dovuto risolvere quella situazione al più presto.
Arrivato alla Gran Madre, parcheggiò davanti alla statua di Vittorio Emanuele, scese dalla macchina e si accese una sigaretta, guardò il monumento e dalla bocca gli uscì un borbottio incomprensibile. Chiamato da un poliziotto, si voltò con la Nazionale appesa alle labbra. Sul cancello della chiesa c’era un uomo legato con le braccia aperte.
Un morto davanti a una chiesa non era un buon modo per iniziare. I morti ammazzati avvaloravano la sua teoria che il mondo fosse un brutto posto dove passare l’intera esistenza. Il lavoro e varie delusioni lo avevano portato a credere che non valesse la pena prodigarsi per il prossimo. Sentì un bruciore alla bocca dello stomaco, buttò la sigaretta a terra, scartò una caramella e prese a masticarla
L’agente Fava era accanto al cadavere e faceva movimenti lenti mentre lo esaminava, quasi avesse paura di svegliarlo. Quell’involucro senza vita lo incupiva, il pensiero di non essere altro che creature di passaggio sul pianeta lo rendeva triste, soprattutto quando a morire erano persone innocenti che alla mattina si erano svegliate senza sapere che sarebbe stata l’ultima volta.
«Sappiamo chi è?» si avvicinò Dupont interrompendo i suoi pensieri.
«No commissario, non ha nessun documento addosso, presumiamo sia un clochard, visto gli indumenti e l’odore. È il terzo che troviamo ucciso nel giro di due settimane, sempre nella stessa posizione e hanno tutti in comune questo tatuaggio». L’uomo indicò la mano della vittima, tra il pollice e l’indice c’era il disegno di un pesce.
Il volto e le mani dell’uomo non avevano escoriazioni, la barba ingiallita e sporca dava al cadavere il senso del degrado in cui viveva. Si guardò intorno. L’agente Fava, perlustrando la zona, non aveva trovato nessun segno di colluttazione, nessuna macchia di sangue, come se il corpo si fosse materializzato in quel posto dal nulla. Il commissario si avvicinò al cancello chiuso con un lucchetto, cercò un punto di appiglio e lo scavalcò. Salì la scalinata, spinse il portone in legno ed entrò. L’ambiente era a malapena illuminato da alcune candele, nell’unica navata a pianta circolare, le ombre danzavano al ritmo delle fiammelle, mosse da una brezza innaturale in quell’afa estiva. Entrò in sacrestia, l’odore dell’incenso avvolgeva la stanza vuota. Provò a chiamare ma nessuno rispose, gli armadi di legno intarsiato erano guardiani inanimati di quel silenzio. Tornò indietro, si sedette su una panca, il luogo era fresco e ne approfittò per rifiatare della calura esterna. Era ancora intontito dal brusco risveglio e dall’assenza del suo caffè, si mise comodo, lasciò andare la testa indietro e chiuse gli occhi. Si sentì più leggero e scivolò in un sonno profondo.
«Perché cerchi tra i morti colui che è vivo?», disse in tono perentorio il crocifisso in marmo alla sua destra. Il commissario sobbalzò e si svegliò. Una forte emicrania gli premeva le tempie, scrollò il capo, si alzò guardandosi intorno per capire dove fosse, si sistemò la giacca e uscì.
«In chiesa non c’è nessuno, aspettate il medico legale, io vado in Commissariato», comunicò all’agente Fava. Salì in macchina e si diresse verso il primo bar aperto in cerca di un caffè, per poi andare all’edicola, tappa obbligatoria prima di entrare in ufficio.
«Commissario, che cosa sta leggendo ultimamente?», esordì Paolo, l’edicolante, mentre tirava su la serranda.
«Un libro di Pasolini».
«Lei fa sempre delle letture strane, commissario».
«Sono stanco dei soliti polizieschi, finiscono sempre allo stesso modo».
«E di cosa parla?».
«Lascia perdere, sono certo che non ti piace».
«Mi fido di lei, commissario. Prendiamo il solito caffè insieme?».
«No, l’ho appena preso al bar qua vicino, mi sono svegliato alle quattro».
«Accidenti! Cosa è successo?».
«Beh, lo leggerai domani sul giornale!», esclamò Dupont prendendo La Stampa.
Erano le sei di mattina e, malgrado l’ora, in questura c’era già agitazione. «Dupont, venga, il vicequestore Mariangeli le vuole parlare», gli disse un collega andandogli incontro.
Il vicequestore lo aspettava in piedi davanti alla finestra del suo ufficio. «Si accomodi, Dupont – disse Mariangeli senza voltarsi – Vede quella donna sul terrazzo che sta stendendo i panni?».
«Sì».
«Ecco, pensi quanto sta bene, vive nell’ignoranza. La quotidianità è un bene prezioso che spesso sottovalutiamo. Il non sapere regala serenità. Mi creda commissario, invidio quella donna. Lei è lì a stendere i panni ma il mondo là fuori fa schifo».
Il poliziotto guardò il suo superiore. Era filosofia da bar ma lo trovava d’accordo: il mondo là fuori faceva proprio schifo e ogni giorno ne aveva la conferma. Mise una mano in tasca e prese il pacchetto di sigarette, si accorse di averne solo una e lo rimise a posto. Aveva sonno e quella convocazione lo aveva innervosito, avrebbe voluto essere nel suo letto a fumare ma era lì a sorbirsi discorsi di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
Mariangeli cominciò a lamentarsi che gli operai non erano più quelli di un tempo, ora si erano messi in testa di essere rivoluzionari e prese a raccontare di quando suo padre andava in fabbrica senza lamentarsi.
Il commissario cercò di tagliare il discorso: «Si riferisce ai fatti di Genova? Torino mi sembra abbastanza tranquilla da quel punto di vista».
«Brace che arde sotto la cenere. Dobbiamo prepararci a qualcosa di grosso».
«Dovrei sapere qualcosa?».
«No, per ora no, volevo però allertarla».
Dupont avrebbe voluto mandarlo a quel paese ma si limitò ad annuire. Chiese a Mariangeli il permesso di andare, doveva redigere il rapporto sull’omicidio avvenuto nella notte.
«Ma se lo faccia fare dall’agente che stava sul posto!».
Dupont uscì dall’ufficio facendo spallucce. Si sedette su una panca del corridoio e si addormentò, noncurante del via vai.
Bordighera
14 agosto 1960
Cesare Giano, romanziere ottantenne di fama internazionale, si sedette a un tavolino del Bar Atù e ordinò una spuma Paoletti con l’aggiunta di tre cubetti di ghiaccio. La giornata era afosa e il vociare dei bambini che giocavano in spiaggia era a volte coperto dal passaggio del treno. Il cameriere gli servì la bibita e lui ne diede una sorsata, sospirando. Prese la lettera che aveva in tasca e l’aprì. Era Bonfante, suo editore e amico. Qualche tempo prima Cesare gli aveva mandato il suo ultimo manoscritto e attendeva la risposta. Aveva ricostruito alcuni fatti delittuosi avvenuti proprio a Bordighera dove, giovane e assetato di vita, aveva trovato posto come sguattero di cucina all’hotel Angst. In quel periodo aveva fatto diverse amicizie, ma tre gli erano rimaste nel cuore: Alice, amata fin dal primo momento, Rachele, che lo aveva ammaliato con il suo carattere impertinente e Cecilia, la figlia non vedente del proprietario dell’albergo. Queste tre donne, così diverse l’una dall’altra, erano alla base di tutti i personaggi femminili dei suoi scritti, le aveva portate con sé in ogni istante della vita.
Finì di leggere la missiva, la chiuse, se la mise in tasca sorridendo e continuò a bere perdendo lo sguardo pellegrino lungo l’orizzonte del mare, alla ricerca di una serenità ormai persa.
Forse è soltanto il vento , titolo dell’opera, era il giusto commiato dai suoi lettori. Il suo ultimo lavoro, il suo testamento letterario.
L’esame oncologico che aveva fatto a metà gennaio non gli dava speranze.
«Non più di un anno di vita», aveva pronosticato il professor Giannotti e fu in quel momento che Cesare Giano decise di rimettere insieme le idee, scrivere quella terribile storia e tornare a