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I delitti dell'alfabeto
I delitti dell'alfabeto
I delitti dell'alfabeto
E-book378 pagine4 ore

I delitti dell'alfabeto

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Info su questo ebook

Una strana serie di omicidi tiene sotto scacco la polizia spagnola. L’assassino sembra ammazzare le sue vittime ispirandosi al racconto del Marchese de Sade, Justine: si tratta sempre di una coppia di ragazze i cui nomi hanno la stessa iniziale.

Lo scalpore mediatico cresce sempre più e l’indagine sembra essere giunta a un vicolo cieco, almeno fino a quando l’ispettrice Arancha Arenzana e la giovane  ambiziosa agente Diana Dávila non prendono in mano il caso. Insieme cercheranno di catturare il colpevole per evitare che commetta altri omicidi, mettendo però in pericolo la loro stessa vita.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita11 mar 2024
ISBN9781667470931
I delitti dell'alfabeto

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    Anteprima del libro

    I delitti dell'alfabeto - Esteban Navarro Soriano

    1.  L’orologio luminoso della farmacia...

    L’orologio luminoso della farmacia di via Còrsega a Barcellona segnava le tre del mattino quando un uomo alto e robusto, vestito tutto di nero, passava davanti al negozio. La vetrina di Zara rifletteva la sua figura proprio mentre un'auto dei Mossos d'Esquadra¹ stava circolando lentamente lungo la strada. Gli agenti, due uomini dallo sguardo profondo, erano impegnati in una conversazione che riguardava la partita di calcio giocata poche ore prima. All'inizio della strada, il ragazzo dei giornali stava per cominciare la sua giornata. Si fermò davanti a un bar e fece scivolare alcune copie di giornali sotto la saracinesca, senza scendere dal motorino.

    L'uomo vestito di nero proseguì lungo la via Còrsega, fino all'angolo con la Diagonal. Lì si fermò e si accese una sigaretta. Il bagliore dello Zippo illuminò un cartello che pubblicizzava alcuni capi di biancheria femminile dei grandi magazzini. L'uomo guardò la fotografia della modella fissando il suo ventre marmoreo.

    —Se sapessi cosa ti farei, non sorrideresti tanto.

    Poi schioccò le labbra. Gli occhi della modella si rispecchiarono in quelli dell'uomo vestito di nero, tramite il riflesso della vetrina.

    L’uomo estrasse un cellulare dalla tasca della giacca. Fece scorrere il dito sullo schermo e aprì l’applicazione di Twitter. A quell’ora c’erano pochi messaggi da leggere. Due ragazze che, a quanto ne sapeva, avevano quindici anni, si scambiavano messaggi su un cantante in voga tra le adolescenti, che la settimana successiva si sarebbe esibito al Palazzetto di Barcellona, a Montjuïc. L’uomo rispose a uno di quei messaggi con un commento.

    «Potrete venire in prima fila » scrisse.

    Dopo soli trenta secondi, una delle ragazze, il cui nome in codice era @ninfomanaatroz, mise un Mi piace al tweet. L’uomo capì che aveva letto il suo commento.

    Gettò la sigaretta a terra e proseguì in direzione della Rambla de Catalunya, la sua ombra si allungò fino ad occupare quasi tutta la via. La Diagonal era piena di macchine, cosa normale in un sabato di giugno. Incrociò una comitiva di ventenni. I ragazzi stavano gridando slogan in favore del Barça, per cui l’uomo dedusse che la squadra catalana aveva finalmente vinto la partita.

    All’incrocio con la Rambla, estrasse nuovamente il cellulare e lesse la risposta di @ninfomanaatroz al suo precedente messaggio. La ragazza aveva scritto: «<3.»

    L’ emoticon significava un cuore.

    «Ci sarà anche la tua amica?» le chiese.

    Sulla sua pagina Twitter comparvero due tweet di due persone che l’uomo seguiva ma con cui non aveva mai comunicato.

    «Mi ha detto che ci sarà. Muore dalla voglia di vederti di persona. E anch’io;-).»

    L’uomo scrisse: «Non può dirmelo lei direttamente?».

    «Suppongo sia andata a dormire» rispose @ninfomanaatroz.

    La ragazza aveva mentito nel suo ultimo messaggio. La sua amica era con lei, ma le aveva chiesto di non dirglielo.

    «Questi non erano i patti. Ti mando un messaggio privato.»

    L’uomo estrasse un’altra sigaretta dalla tasca della camicia. La accese con lo Zippo e meditò su cosa scrivere nel messaggio privato. Digitò il simbolo della chiocciola in modo che Twitter identificasse l’utente @ninfomanaatroz.

    «Mi avevi assicurato che la tua amica sarebbe venuta, se l’è svignata?».

    «No. Sono sicura che verrà all’appuntamento. Sei davvero tu??».

    «Sì, lo capirai quando mi vedrai» rispose dopo qualche secondo.

    «Lei sostiene che tu sia un fake».

    L’uomo attese qualche secondo prima di rispondere. Doveva far credere alla sua interlocutrice che stava traducendo la conversazione. Si era fatto passare per Justin Bieber, che non conosceva lo spagnolo. Nei primi messaggi della settimana precedente, aveva scritto che voleva farsi due spagnole, ma dato che loro erano minorenni dovevano mantenere il segreto.

    «Dov’è?» scrisse in privato. In tal modo era sicuro che solo loro potessero leggere i messaggi.

    Nella schermata principale di Twitter apparve un messaggio di @carismatica97.

    «Sono qui @tinjusberbie.»

    «Siete insieme?»

    «Sìiiiiiiiii» rispose @ninfomanaatroz.

    «Aspetterò cinque minuti, non uno di più, e poi me ne andrò» scrisse menzionando @ninfomanaatroz e @carismatica97.

    «Aspetta, aspetta, aspetta...» scrisse @carismatica97.

    L’uomo vestito di nero tornò in via Còrsega. Arrivò fino al portone dove si era dato appuntamento con @ninfomanaatroz e @carismatica97. Si nascose nell’androne.

    «Tre minuti...» scrisse con un messaggio privato alle due ragazze.

    Le due quindicenni, Eva ed Erika, si trovavano al primo piano dello stabile in cui l’uomo vestito di nero si era nascosto. Tutte e due avevano aperto un account su Twitter due mesi prima. Eva era @ninfomanaatroz ed Erika @carismatica97.

    —Ehi... —disse Eva—. E se fosse davvero lui?

    —Mi sembra molto heavy —replicò Erika—. Justin può avere tutte le donne che vuole solo schioccando le dita. Perché dovrebbe voler andare a letto con due sconosciute di Barcellona?

    —Per vizio. Questi cantanti sono molto viziosi. Come ci ha detto, vuole farsi una storia di sesso con due di qui. Ti immagini? Ci faremo Justin Bieber! —strillò.

    —Non lo so, piccola. Mi sembra molto strano che si presenti qui, a casa tua, senza guardie del corpo, e che voglia scopare con noi.

    —Sa che i miei non ci sono—ribatté Eva—. Dai, avevamo già programmato tutto, no?

    —Per te è più facile. Lo sai che io...

    —Sì, sì, che sei vergine. Lo so. E quale miglior prima esperienza che con Justin. Vedrai quando lo racconteremo a scuola, rimarranno di sasso. Sarà fantastico, vedrai.

    —Non hai visto che faccia d’angelo ha? Quello non farebbe del male a una mosca.

    Una giovane coppia stava uscendo e l’uomo vestito di nero approfittò, prima che si chiudesse il portone, per accedere all’interno del condominio. La ragazza lo squadrò dal basso verso l’alto pensando che, per il suo aspetto e la sua altezza, fosse straniero.

    —Dove va? —gli chiese il ragazzo.

    —Vado al quinto piano—disse sicuro di sé e in perfetto castigliano. —. Ho un appuntamento con una persona che abita qui.

    L’uomo sembrava sincero. La coppia gli credette e i due uscirono senza voltarsi.

    —Io finché non lo vedo non ci credo, piccola. Digli di mettersi in mezzo alla strada in modo che possiamo vederlo. E se è lui, ..., beh, che salga. Però, te l’ho già detto: tutte e due insieme no perché mi vergogno.

    —Ma dai, è Justin Bieber! Vuoi che si metta in mezzo alla strada così tutti lo vedono? —disse Eva cercando di convincere la sua amica dell’incongruenza della sua richiesta—. Se lo scoprono non sarà servita a nulla tutta questa segretezza.

    Erika annuì rendendosi conto che la sua amica aveva ragione. Non potevano chiedere al cantante di farsi vedere da tutto il vicinato, mettendosi in mezzo alla strada. Capì che era una richiesta assurda.

    —Va bene, piccola —ammise Eva—. Aspetta che gli mando un messaggio privato e gli dico di mettersi sotto il lampione.

    —Non c’è bisogno—disse Erika. Ma Eva l’aveva già mandato.

    Justin Bieber rispose al messaggio.

    —E’ già qui? —disse Eva alzando la voce—. Dice che è già sotto casa.

    —Davvero?

    «Dove sei?» digitò Eva.

    L’uomo vestito di nero attese qualche secondo e rispose:

    «Dove avevamo detto;-). Io mantengo sempre le promesse.»

    —Oddio, guarda che è già sotto casa.

    « @carismatica97 dice di metterti sotto il lampione di fronte così ti vediamo».

    Erika scosse la testa.

    L’uomo vestito di nero sorrise, scoprendo un dente d’oro sotto il labbro superiore.

    «Non posso, sto salendo in ascensore» rispose in privato.

    —E’ qui, è qui—gridò Eva—. E’ già qui. Inizierai tu e poi io e poi di nuovo tu. Dobbiamo prosciugarlo.

    Risero entrambe nervose.

    —Ormai non possiamo più tirarci indietro. Ti rendi conto? Ci facciamo Justin Bieber. Mentre ti scopa, gli farò una foto —disse Eva forzando un sorriso.

    —A scuola non ci crederanno se si vedrà solo da dietro—obiettò Erika.

    —Sei una grande. Vedrai come ci divertiremo. E poi potremo stare in prima fila al concerto... —disse Eva, tirando fuori un pacchetto di preservativi che aveva nascosto tra i libri nello scaffale della sala da pranzo.

    Il campanello di casa suonò una sola volta, come avevano concordato la settimana prima, quando si erano dati appuntamento tramite messaggio privato.

    Le due amiche inspirarono profondamente. Tutte e due indossavano soltanto una canotta sottile e degli slip rosa Eva, e blu Erika. Sul tavolo della sala da pranzo avevano messo ordinatamente tre flûte accanto a un portaghiaccio.

    Eva appoggiò l’occhio destro allo spioncino.

    —E’ buio —disse.

    —Non aprire la porta—replicò subito Erika—. Non aprire fino a quando non accende la luce sul pianerottolo e possiamo vederlo in faccia. Non aprire fino a quando non sei sicura che sia davvero Justin Bieber.

    Eva mandò subito un altro messaggio privato: «Accendi la luce sul pianerottolo».

    Attesero qualche secondo. Non ci fu risposta.

    —Risponde? —chiese Erika.

    —No.

    —Vado ad aprire —disse Eva—. Vado ad aprire la porta. Non posso più aspettare. E’ qui. Se non apro adesso, se ne andrà.

    —Aspetta —disse Erika, quando ormai era troppo tardi. Eva aveva aperto la porta.

    2.  Diana Dávila sbadigliò assonnata...

    Diana Dávila sbadigliò assonnata, sedendosi sul letto. Quella notte non aveva dormito bene, un brutto sogno ricorrente l’aveva lasciata insonne fino a quasi le cinque del mattino. Sul comodino luccicava la canna della Glock 36 appena acquistata. Quando spense l’allarme della sveglia ne approfittò per accarezzare il calcio della pistola con il palmo della mano destra.

    —Merda —balbettò.

    Un sottile raggio di luce filtrava dalla tapparella. Sul comodino c’era un pacchetto di sigarette ancora intatto e accanto un altro pacchetto sgualcito. Il posacenere conteneva due sigarette, che aveva fumato prima di andare a dormire.

    Si alzò pigramente e si incamminò scalza fino in bagno. Nonostante avesse affittato  quell’appartamento da una settimana, non si era ancora abituata alla posizione degli interruttori della luce, dovette dare due manate prima di centrarlo. Le due lampadine sullo specchio si accesero. Diana vide il suo viso sciupato riflesso nello specchio.

    —Sei ridotta uno schifo—si disse.

    Si tolse gli slip e le calze bianche, che usava sempre per dormire, e aprì il rubinetto della doccia. Sapeva che il getto d’acqua sulla testa l’avrebbe svegliata. Mentre si insaponava, immaginò di poter entrare a far parte del reparto di Polizia Postale della Centrale di Canillas. Quando si era arruolata in polizia non c’erano posti per Barcellona, Huesca o Saragozza, che erano le città più vicine a dove viveva la madre. Alexia, Xía come l’aveva sempre chiamata, abitava a Canet de Mar, un piccolo comune situato nella provincia di Barcellona. La donna avrebbe sempre voluto avere vicino la figlia ma il commissariato più vicino era quello di Barcellona e, con il dispiegamento delle forze di polizia della comunità autonoma e le pretese indipendentiste della Catalogna, non c’erano più posti nella Polizia di Stato di Barcellona. Anche le città più vicine, come Saragozza o Huesca, non avevano posti vacanti, così Diana, quando si era arruolata, aveva dovuto accontentarsi di accettare il posto a Madrid. Nel commissariato di distretto, in cui lavorava da un mese, non si trovava benissimo. Il servizio di pattuglia non faceva per lei. Passare tutto il tempo in cui era in servizio guidando per la città era stancante e poco stimolante, per una donna ambiziosa come lei. Chi è appena entrato in polizia non ama il lavoro di routine della volante, i poliziotti giovani sognano sempre di poter entrare nei reparti di Polizia Giudiziaria.

    Quando uscì dalla doccia tornò nella stanza e indossò dei jeans aderenti, che aveva stirato la sera prima, e una camicia da uomo, a maniche lunghe, a quadri. Voleva apparire giovanile, ma allo stesso tempo posata. Diana sapeva che l’apparenza era la cosa più importante nel momento di aggiudicarsi un posto in polizia. Non sapeva chi l’avrebbe intervistata, ma immaginando che fosse un uomo, sicuramente un ispettore capo sulla cinquantina, non si mise il reggiseno. E la camicia la lasciò fuori dai pantaloni, le avrebbe conferito un aspetto più audace.

    —Come mi piace l’estate—disse guardandosi nello specchio del bagno.

    La camicia lasciava intravedere i capezzoli. Sapeva che, se l’intervistatore fosse stato un uomo, il suo aspetto avrebbe influito nell’assegnazione del posto.

    Aprì il primo cassetto del comò ed estrasse un bauletto di legno in cui custodiva i gioielli. Prese una catenina d’oro molto sottile.

    —Mmmh, da nonna —disse quando se la vide addosso.

    Ripeté l’operazione con una catenina d’argento.

    —Una cianfrusaglia.

    La scelta di un ciondolo di Swarovski, con l’iniziale del suo nome su una piastrina in acciaio, le sembrò più appropriata.

    —Perfetto.

    Mentre il caffè stava venendo su, prese la trousse con i trucchi e si passò la matita sugli occhi.

    —Ben truccata, ma senza sembrare un pappagallo—disse sorridendo.

    Per tutta la settimana aveva eseguito pattugliamenti pedonali in via Serrano e il sole di giugno le aveva arrossato le guance, per cui non aveva bisogno di mettersi il fard.

    Aveva avuto due colleghi e non aveva legato con nessuno dei due. Il primo perché era vecchio e iperprotettivo. Il secondo perché era troppo giovane, e talmente presuntuoso che ci aveva anche provato con lei. Però Diana non era dell’idea di legarsi sentimentalmente a dei colleghi di lavoro. Al massimo qualche mordi e fuggi. Da quel punto di vista, Diana aveva le idee molto chiare:

    « Evitare sempre le relazioni sul posto di lavoro».

    —Il caffè! —gridò improvvisamente.

    Corse in cucina. La caffettiera iniziava a fumare, il caffè era venuto su da qualche secondo e si stava surriscaldando. Diana prese un vecchio tostapane da uno degli armadietti e tirò fuori una fetta di pane dal congelatore. Mentre il pane si stava tostando, tornò in bagno per finire di truccarsi.

    —Coda o capelli sciolti? —si chiese.

    Una coda sarebbe stata molto eccitante nel caso l’intervistatore fosse stato un uomo anziano. Ma se fosse stato di mezz’età, sulla quarantina, avrebbe preferito i capelli sciolti. Doveva decidersi in fretta per scegliere gli orecchini adatti. Con la coda avrebbe messo gli orecchini a bottone; con i capelli sciolti quelli ad anello. I capelli sciolti le avrebbero dato un’aria accattivante, la coda un aspetto giovanile.  

    —Come sarà questo tizio? —si domandò.

    Diana pensò che sarebbe stato un vantaggio conoscere il suo intervistatore. Se avesse saputo che ad intervistarla sarebbe stato un ispettore capo in età avanzata, sulla sessantina, si sarebbe persino azzardata ad andare con due codini. La ragazza sapeva che niente piaceva di più a un vecchio bavoso che una verginella con le code.   

    —Vecchio bavoso—mormorò.

    Era da tempo che Diana non pensava a quell’aggettivo. I vecchi bavosi erano gli uomini di una certa età che andavano a letto con sua madre per vizio. Quegli uomini venivano a casa della fragile Xía con l’unico scopo di spassarsela nel suo letto. Non l’amavano, né ebbero mai un accenno di affetto verso sua madre. Arrivavano alla sera, bevevano un cocktail in sala da pranzo. Sorridevano. Dicevano alla bambina Diana quanto era bella, con aria libidinosa. Li tradivano le occhiate alle  ginocchia nude di Diana e ai suoi seni che si affacciavano alla pubertà. Alla notte, Diana li sentiva gemere e sbavare mentre le molle del letto di sua madre cigolavano sotto il peso di quegli uomini. Il mattino dopo, la madre aveva sempre le occhiaie. E nei suoi occhi si leggeva l’infelicità. Una boccetta di un profumo costoso, un ciondolo d’oro, una borsa o persino una bottiglia di liquore, erano il prezzo che quei vecchi pagavano per stare con sua madre.

    «Vecchi, vecchi, vecchi bavosi. Maledetti vecchi bavosi».

    Diana aveva battezzato con quell’aggettivo tutti gli uomini che andavano a letto con sua madre per divertimento. L’indifesa Xía, madre single, cercava in loro la protezione di un uomo. Con loro aveva l’impressione di essere al sicuro. Ma loro volevano solo portarsela a letto.

    «Tua figlia diventerà una donna bellissima», le aveva detto uno di loro mentre Diana faceva dondolare le gambe, seduta su uno degli sgabelli sgangherati, di pelle sintetica, che riempivano la sala da pranzo della casa di Canet de Mar.

    «Lascia stare mia figlia» gli aveva intimato Xía infuriata. «Mia figlia non devi nemmeno nominarla».

    Ritornò in cucina e imburrò un toast. Si riempì una tazza di caffè e aprì un pacchetto di sigarette. Con il toast in una mano, la tazza nell’altra e una sigaretta in bocca, si diresse di nuovo verso il bagno.

    —Va a finire che arriverò tardi—si disse.

    Erano già le otto del mattino e alle dieci in punto doveva essere al reparto di Polizia Postale della Centrale di Canillas, in via Julián González Segador a Madrid. Entrare in quel distretto sarebbe stato un salto di qualità nella sua carriera in polizia appena avviata. L’appassionava l’idea di indagare sui reati informatici. Sarebbe diventata un colletto bianco. Niente liti tra ubriachi in zone di intrattenimento. Niente scippi, né pattugliamenti per lunghe e interminabili notti. Mentre era assorta in quei pensieri, si ricordò del collega veterano che aveva conosciuto al commissariato di Huesca durante il tirocinio, l’affabile Andrés Hernández.

    —Devo chiamarlo uno di questi giorni—disse ad alta voce.

    Andrés era un uomo distinto. Non le aveva mai fatto delle avance, né l’aveva mai trattata come una donna oggetto. Il periodo che Diana aveva trascorso insieme a lui, al commissariato di Huesca, era stato il miglior inizio che una giovane allieva potesse augurarsi. Andrés le aveva spiegato com’era la Polizia di Stato in Spagna trent’anni prima, raccontandole del cambiamento che l’istituzione aveva subito con l’avvento della democrazia. Ma la cosa più importante che aveva imparato grazie a lui era che non tutti gli uomini sono uguali, che non tutti sono come quei bavosi che facevano visita a sua madre quando lei era piccola.

    Posò la tazza di caffè in cucina e andò in bagno. Davanti allo specchio si diede un’ultima occhiata. Con la mano destra sollevò leggermente la camicia all’altezza del ventre, scoprendo l’ombelico perforato da un luccicante piercing.

    —Andiamo —sussurrò uscendo di casa.

    3. Pensi che ci troviamo di fronte a un serial killer?

    —Pensi che ci troviamo di fronte a un serial killer? —domandò il commissario Celestino Rivero alla giovane ispettrice del reparto di Polizia Postale della Polizia di Stato.

    —Io non ho alcun dubbio—rispose immediatamente Arancha Arenzana.

    —Quelli dei Reati Informatici di Barcellona pensano che gli omicidi non abbiano alcun collegamento tra loro—obiettò Rivero.

    —Quelli di Barcellona non capiscono niente—affermò sprezzante l’ispettrice—. Il modello è molto simile e sono più che convinta che l’autore di tutti gli omicidi sia lo stesso.

    Il commissario faceva dondolare la gamba destra sul ginocchio sinistro, colpendo con il piede un cestino di metallo che si trovava accanto alla sua scrivania. Mentre parlava, picchiettava con l’indice e l’anulare della mano destra sulla scrivania di legno.

    —Hai visto le foto? —domandò all’ispettrice.

    Arancha annuì, un po’ infastidita; il capo avrebbe dovuto sapere che lei aveva visto le foto.

    —Sì, le ho viste ieri—rispose sedendosi davanti al commissario.

    Arancha aveva appena trentatré anni e si era già guadagnata una posizione importante nella Polizia di Stato. Scontrosa e arrogante, secondo i suoi colleghi, la sua mente analitica aveva risolto diverse intricate indagini relazionate con i reati informatici. Era stata quella la ragione che aveva spinto il commissario Rivero a metterla al comando di una squadra che si occupava di social network.

    —Un pazzo, vero?—chiese nuovamente il commissario.

    —Un assassino spietato che uccide per divertimento. E’ peggio di un pazzo. Dovremmo avere più psicologi in polizia per tracciare un profilo di questo tipo di svitati.

    —Un profilo non ci aiuterà a catturarlo—disse il commissario.

    —Però ci aiuterebbe a capire che tipo è e che cosa pensa. Magari potremmo anticipare il suo prossimo omicidio.

    —Il vice questore aggiunto vuole che si coordinino i reparti per svolgere la nostra indagine investigativa nel modo più operativo possibile. La questione non può sfuggirci di mano— ripeté il commissario, più lentamente.

    —Il problema è che il soggetto agisce e sparisce subito dopo e non torna ad agire se non dopo alcuni anni. In questo modo è difficile seguire una pista—disse l’ispettrice—. Ho raccolto tutte le informazioni e ci mancano ancora due omicidi da verificare. Due omicidi da attribuirgli—mormorò abbassando la voce.

    —Sì, sì, quello in Francia e quello di Malaga, no? —disse il commissario pacatamente.

    —Sono quasi certa, beh, senza il quasi—disse Arancha—che si tratti della stessa persona.

    —L’omicidio di Barcellona è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il vice questore dice che dobbiamo catturarlo al più presto. Come avrai notato, ogni volta va oltre.

    —Alla fine crollerà—disse l’ispettrice—. Il problema è quanto tempo impiegheremo prima di catturarlo.

    —Il problema —la interruppe il commissario— è che fino a quando non lo fermeremo, lui non smetterà di uccidere. Il vice questore non vuole che succeda come per il «Solitario», che, anche se l’abbiamo catturato, abbiamo impiegato talmente tanto tempo che l’opinione pubblica ci si è scatenata contro.

    —Sì, va bene Celestino —obiettò Arancha— ma i due casi non sono paragonabili. Il «Solitario» era un ladro e quello che ora abbiamo di fronte è un assassino.

    —Un ladro che uccideva—la corresse il commissario.

    —Sì. Però un ladro, alla fine dei conti—disse l’ispettrice—. Il movente del Solitario era il denaro mentre il movente di questo figlio di puttana è il sadismo.

    —Già, un terribile sadico —disse il commissario.

    —Alla fine non mi hai detto chi seguirà le indagini—chiese l’ispettrice Arancha.

    —Te lo sto dicendo ora —disse il commissario alzandosi in piedi e rimettendo a posto il cestino che aveva spostato a forza di pedate.

    Arancha lo fissò dritto negli occhi.

    —Non prendermi in giro, Celestino. Io?

    —Il questore lo sa già. Sono ordini dall’alto. Ti occuperai di coordinare le varie squadre.

    —Lo sai che mi piacerebbe catturare quel bastardo, ma non credo di essere pronta. Questo caso dovrebbe gestirlo la UDEV².

    —No. La UDEV si è disinteressata del caso. Il commissario dice che ci aiuterà, ma l’indagine compete alla tua squadra. Al tuo campo d’azione—aggiunse.

    —Adesso sono loro che decidono chi indaga cosa? —domandò l’ispettrice in tono sarcastico.

    —Sai che queste decisioni vengono prese dall’alto.

    —Lo sa Vázquez?

    —Vázquez? —rise il commissario—. E’ stato il primo a cui ho proposto il caso. Ed è stato lui a fare il tuo nome. E’ convinto che tu lo prenderai.

    —Non dirai seriamente? —chiese l'ispettrice.

    —Molto seriamente. Vázquez pensa che solo una mente analitica femminile possa riuscire a catturare quell’uomo.

    —Stronzo maschilista.

    —Lo so, lo so. Tu e Vázquez non siete mai andati d’accordo. Però è importante che il coordinamento delle squadre sia il più efficace possibile. Se mettessi Vázquez al comando, l’assassino se ne accorgerebbe e smetterebbe di uccidere. Probabilmente non lo prenderemmo mai.

    —C’è qualcosa che non mi stai raccontando? Vero?

    —Perché dici questo? —domandò il commissario.

    —Perché mi sembra che tu sappia più cose di quelle che racconti.

    —Vedi, ho fatto bene a scegliere te. Ho bisogno della tua magia. Ho bisogno della magia di Arancha. E non preoccuparti di Vázquez, lui è un professionista e ti aiuterà in tutto ciò che ti occorre, però questo caso è troppo importante, questo caso deve seguirlo qualcuno come te.

    —Mi racconterai tutto quello che sai?

    —Certo. Domani mattina iniziamo a lavorare. Vieni qui alle nove e ti racconto tutto quello che abbiamo finora sull’assassino di Twitter.

    —L’assassino di Twitter? —domandò Arancha—. Questa è una trovata di Vázquez, vero?

    —Certo. Il vecchio Vázquez lo ha già battezzato. Domani, domani ti racconto i dettagli.

    —Sì —disse l'ispettrice—, tra l’altro, ora ho un’intervista con dei candidati che vogliono entrare nella mia squadra.

    4.  Mentre il notebook si stava avviando ....

    Mentre il notebook si stava avviando, l’uomo vestito di nero approfittò per accendersi una sigaretta. Sulla scrivania della sua camera d’hotel, dove alloggiava, aveva sistemato ordinatamente una cartella contenente alcuni documenti, il telefono cellulare, gli occhiali da sole e due pacchetti di sigarette. La tapparella completamente abbassata era segno che si stava nascondendo.

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