Liù, il gatto che ruggiva
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Anteprima del libro
Liù, il gatto che ruggiva - Gioacchino Di Bella
1
Aaakkhrr, akkrhhrr, puahffhff, muaooooo, muuuaaaooooo!
«E tu cu si?»
Una presenza minacciosa, che procedeva a quattro zampe, si stagliò sull’uscio di casa, che concedeva una bella vista sull’uliveto di San Ciro. Tancredi, sbalordito, cercò di individuare quegli occhi che lo fissavano con famelica insistenza. Un soriano arruffato, con le zampe inzaccherate, si teneva a una certa distanza di sicurezza dall’umano. Era comparso dal nulla, ora comunicava nell’aria tersa gli spasmi dell’enorme fame, stratificata nei mesi passati chissà dove, che reclamava una risoluzione immediata.
Miauooooo, mauooooo! Il felino si era, finalmente, deciso ad avvicinarsi a quella casetta di campagna, anzi per meglio dire, aveva scelto, tra le tante, proprio quella.
«Ehi, quanta impazienza! Ho capito, ora ti do qualcosa.» rispose Tancredi al grido d’inedia del gattaccio e gli diede un’occhiata, apparentemente distratta, ma che tradiva l’insana voglia di indagare sul magnifico felino che, intanto, seguitava a soffiare in modo inquietante. Si ripropose di scrutarlo meglio la prossima volta. E nell’intima speranza di rivederlo l’indomani, andò in cucina, aprì il frigo, versò del latte in un pentolino, lo scaldò e lo porse al micio allupato che miagolava, pretendendo un po' di attenzione. Il gatto arretrò, sollevando una raffica di soffi e opponendo le orecchie abbassate, ostili, sulla difensiva. Poi, superando lo scoglio della diffidenza, si avvicinò quatto quatto e, senza indugi, si tuffò letteralmente nell’ampia ciotola a ingozzarsi del gustoso liquido bianco cremoso.
«Mai visto niente del genere!» disse tra sé e sé l’uomo. Rimase a parecchi passi dall’animale a riflettere su quello strano evento. Cercò di immaginare da dove fosse sbucato, si distrasse dietro a fantasiose ipotesi. Poi, neanche il tempo di rimuginare tutto ciò, volse di nuovo lo sguardo ma notò, con disappunto, la ciotola già vuota e ripulita: il micio era sparito.
2
«Buongiorno, amore mio!» disse Tancredi alla moglie Valeria che stava entrando, di buon mattino, nella saletta da pranzo, adiacente alla camera da letto del piano superiore. Infatti, era loro abitudine alzarsi presto, affacciarsi al balcone di quella minuscola cucina del primo piano e assaporare la brezza che spirava, a distanza di chilometri, dalla laguna marsalese delle isole dello Stagnone. Le Egadi, più in là, nel chiarore evanescente delle prime luci dell’alba, si presentavano alla loro vista in una prospettiva, a dir poco, mozzafiato: le isole di Favignana, Levanzo, Marettimo parevano sovrapporsi, si allineavano, si corteggiavano a vicenda amoreggiando con sensualità e, nella leggera foschia mattutina, si crogiolavano al sole del Mediterraneo, sublimi e incomparabili fin dal primo attimo del mondo.
Quell’equilibrio degli elementi naturali e quel senso immane di pace erano per i Maffei come ossigeno nelle vene. Ritenevano, a giusta ragione, di vivere in una terra sognante dove il nero misterioso dell’inganno s’infittiva mescolandosi indissolubilmente con il bianco veritiero della luce fulgente.
La Sicilia era un’isola che riusciva, ogni giorno, a meravigliarli, alimentando in loro l’insana voglia di non distaccarsi mai più da essa: favola e mito, cruda e nuda realtà, insperato riscatto da una triste fama di un cliché abusato, marginalità territoriale e storia con la esse maiuscola. Tutto faceva parte di un progetto ultraterreno che era stato assegnato a chi, come loro, era nato in questa gemma, scaraventata dai dispettosi dei dell’Olimpo, nel centro del Mare Nostrum.
I Maffei accettavano tutto della Sicilia, non si rassegnavano al fatalismo che cercava di inculcare nelle menti che questa parte d’Europa era immutabile, statica nelle maglie di un feudalesimo e che nulla poteva essere cambiato in meglio. Aborrivano, come sanno fare i veri siciliani, il fenomeno criminoso, turpe, cruento della mafia, anzi lo detestavano fino allo spasimo. Una minoranza – ritenevano lungimiranti – di delinquenti non poteva assolutamente incarnare la buona volontà o l’onestà di ogni siciliano. La Sicilia aveva bisogno di un nuovo volto, pulito e cristallino (e non di vecchie rughe e cancrene purulenti), al pari dell’acqua del Mediterraneo dove si specchiavano, stiracchiandosi sonnacchiosamente, le meravigliose