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I cinque punti rossi
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E-book179 pagine2 ore

I cinque punti rossi

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Info su questo ebook

Giulio Rinaldi ha cinquantasette anni e fa il giornalista, e se dovesse contare tutti gli errori che ha commesso durante la sua vita non saprebbe da dove partire. Il suo carattere scontroso e il suo non voler scendere a compromessi con nessuno lo hanno portato a essere una persona solitaria e con molti problemi economici. Un giorno, a seguito di un incidente stradale, scopre di avere una malattia terminale. La diagnosi non lascia scampo: il tempo che gli resta è poco e, rassegnato, si trova costretto a dover accettare l’aiuto degli ultimi amici che gli sono rimasti. Prima che le sue condizioni si aggravino, capisce che ci sono alcune cose che vorrebbe mettere in ordine nella sua vita e un ultimo sogno da realizzare, un romanzo da portare a termine.
LinguaItaliano
EditoreBookRoad
Data di uscita29 mar 2024
ISBN9788833226910
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    Anteprima del libro

    I cinque punti rossi - Beppe Sermisoni

    frontespizio

    Beppe Sermisoni

    I cinque punti rossi

    ISBN 978-88-3322-691-0

    © 2024 BookRoad, Milano

    BookRoad è un marchio di proprietà di Leone Editore

    www.bookroad.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    A Elena

    «Non è vero che il destino si introduce alla cieca nella nostra vita: esso entra dalla porta che noi stessi gli abbiamo spalancato, facendoci da parte per invitarlo a entrare.»

    Sándor Márai – Le braci

    PROLOGO

    Quando m’informarono che Giulio era affetto da un male incurabile, non ci pensai nemmeno un secondo: misi qualche cambio di biancheria e un paio d’abiti nel borsone, chiusi la porta di casa, salii in macchina e partii a razzo per Brescia. Durante il viaggio, i pensieri e le riflessioni su quanto era successo si accumulavano mescolandosi disordinatamente nella mia testa, dandomi la sensazione di vivere un incubo a occhi aperti.

    Per quanto cercassi di essere razionale, non riuscivo a riordinarli, a dare un senso né una logica a ciò che gli era capitato nell’arco di pochi mesi. La notizia mi aveva completamente sconvolta. L’unica certezza che affiorava dal mio caos mentale era determinata dal desiderio insopprimibile di rivederlo, di riabbracciarlo e di potergli stare accanto per assisterlo, come meglio avrei potuto, stimolata non certo da un generico impulso di pietà ma, piuttosto, da un residuo e tenace sentimento d’amore che, nonostante tutto, ancora mi legava a lui.

    Sono stata la sua compagna di vita per più di tre anni. Un periodo abbastanza breve delle nostre esistenze, vissuto però intensamente. Verso la fine del nostro rapporto, già prima del sopraggiungere della malattia, avevo tentato in più occasioni, a volte riuscendoci, di ridestarlo dall’indifferenza e dal totale stato di apatia che mostrava nei confronti di tutto e di tutti. Era stato difficile vivergli accanto, ma quel periodo fu anche ricco di forti emozioni e di grandi esperienze; una fase della mia vita che non scorderò mai.

    Sì, perché nonostante il difficile e bizzarro carattere che lo contraddistingueva, e che a volte lo rendeva intollerabile, era un uomo dotato di una grande sensibilità d’animo, di una raffinata intelligenza e di una pungente ironia che, a volte, si trasformava in puro sarcasmo verso chi non gli andava a genio. Oltre al comune lavoro, con lui condividevo molti altri interessi. Le nostre lunghe e a volte polemiche conversazioni vertevano su ogni genere di argomento, non cadendo mai nella banalità. Al contrario! Mi arricchivano lo spirito e la mente, facendomi star bene come mai mi sono sentita in vita mia. Talmente bene che mi ero illusa d’aver finalmente incontrato l’uomo con il quale trascorrere il resto dei miei giorni.

    Poi, alla fine, tutto si era complicato. Negli ultimi tempi, le nostre lunghe e piacevoli conversazioni avevano lasciato posto a continue e logoranti discussioni che si trasformavano, sempre più di frequente, in furiosi litigi.

    Il suo carattere impossibile e la gelosia quasi patologica nei miei confronti, che non ha mai voluto ammettere, hanno alla fine prevalso. Così, pochi mesi prima che si ammalasse, dopo un’ennesima lite ci siamo lasciati, anche se, in cuor mio, ho continuato ad amarlo con la stessa intensità di quando era iniziata la nostra relazione. Da allora lui non mi aveva più cercata, e io, seppure con molta fatica, avevo fatto lo stesso.

    Arrivata a destinazione mi feci forza e premetti il tasto del citofono. Avevo ancora le chiavi di casa, ma preferii suonare.

    «Chi è?» domandò Giulio con distacco, come se fosse certo che chi aveva suonato fosse un seccatore pronto a piazzargli qualche prodotto commerciale.

    «Sono io» risposi.

    «Ah… sei tu. Sali, ti apro.»

    Quell’«Ah» più che a un’esclamazione di sorpresa mi fece pensare a un suo disappunto generato dalla mia improvvisa riapparizione nella sua vita.

    Entrai con il cuore in gola nello sgangherato ascensore e salii al terzo piano. Giulio mi stava aspettando sul pianerottolo. A parte i capelli rasati a zero, era tale e quale all’ultima volta che l’avevo visto. Un po’ dimagrito, tutt’al più; ma non dava certo l’impressione di essere gravemente malato. Quando lo vidi, avrei voluto gettargli le braccia al collo, ma lui mi gelò con un freddo: «Ciao, Cristina. Come stai?».

    Non mi lasciò nemmeno il tempo di rispondergli e proseguì: «So che qualcuno ti ha informata che non sto proprio alla grande. Guarda che non era necessario che tu venissi. Perché l’hai fatto?».

    Ero abituata a quel suo modo di fare, a volte scorbutico; sapevo quindi, conoscendolo alla perfezione, che quell’atteggiamento di apparente freddezza nei miei confronti nascondeva il disagio di doversi mostrare in un momento di grande debolezza fisica e d’instabilità emotiva. Ci fermammo per alcuni secondi nello spazio compreso tra l’ascensore e la porta di casa senza che lui dicesse nulla. A quel punto, fui io a rompere il ghiaccio.

    «Posso entrare o… preferisci che me ne torni a Milano?» dissi guardandolo fisso negli occhi.

    Ero sicura che quella domanda perentoria lo avrebbe costretto a uscire dall’impasse che lui stesso aveva creato. Se fossi stata remissiva e gli avessi detto «Scusa, non volevo disturbarti, torno a Milano», ero certa che, per una strana e contorta forma tipica del suo carattere, mi avrebbe lasciato andare; invece, come mi aspettavo, m’invitò a entrare.

    «Sì, accomodati… dopotutto è stata anche casa tua, no?» disse abbozzando un sorriso.

    Entrai in quell’appartamento con apprensione. In quel posto avevamo vissuto insieme per un lungo periodo ed ero ormai certa che non l’avrei più rivisto, anche se, di tanto in tanto, mi auguravo di poterci tornare, magari incoraggiata da una telefonata di Giulio che non arrivò mai.

    Anche se erano trascorsi solo pochi mesi dall’ultima volta che c’ero stata, mi sembrò che qualcosa fosse cambiato. La percezione di familiarità che avvertivo ogni volta che vi entravo, divenuta nel tempo una consuetudine, mi sembrò essere svanita all’improvviso, lasciando posto a una sorta d’indecifrabile disorientamento.

    Mi guardai intorno. Tutto era rimasto come l’avevo lasciato: il divano, le poltrone, i tappeti, i quadri, il tavolo rotondo con le quattro sedie rivestite di stoffa con fiorellini bianchi stilizzati disposti con regolarità geometrica su un fondo azzurro, i soprammobili, l’anatra di porcellana dipinta a mano e il quadro con il porto di Honfleur, comprati insieme da un rigattiere durante un viaggio nel Nord della Francia. Non c’era nessun evidente motivo per sentirmi così estranea a quel luogo, eppure era ciò che provavo.

    Giulio sembrò aver colto il mio disagio. Mi fece accomodare e sparì nella cucina, ritornando, un paio di minuti dopo, con una bottiglia di Lugana in una mano e due bicchieri nell’altra.

    «Spero che questo vino sia ancora tra i tuoi preferiti» disse dopo avermene versata una generosa quantità.

    «Sì, non c’è dubbio! Anche se è da mesi che non ne assaggio nemmeno un goccio» risposi con un sorriso che nascondeva la mia amarezza.

    Ebbi la certezza che si sentisse impacciato dalla mia presenza. Cercai quindi di condurre la conversazione su argomenti generici, evitando accuratamente di chiedergli della sua malattia. Lui sembrò apprezzare il mio approccio discreto e dopo un po’, forse per effetto del vino, entrambi riuscimmo a vincere le nostre rispettive inibizioni e diffidenze.

    Parlammo a lungo di noi, del nostro bellissimo ma tormentato rapporto, analizzando le cause che ne avevano decretato la fine. Per la prima volta lo sentii ammettere i suoi errori, e io non potei fare a meno di riconoscere i miei. Infine, affrontammo anche l’argomento della sua malattia. Lui non volle parlarne più di tanto, ma dal suo racconto emergeva che la solitudine e l’angoscia generata dal tempo che gli stava scivolando tra le mani – come la sabbia di una clessidra rotta – lo stavano annientando al pari della sua stessa infermità. A quel punto non potei fare a meno di manifestare, con estrema franchezza, il mio vero intento.

    «Senti, Giulio» dissi, senza affatto preoccuparmi della forma e delle sue prevedibili obiezioni «mi auguro che tu abbia compreso che la mia non è una semplice visita di cortesia. Sono qui perché desidero tornare a vivere con te, starti accanto e aiutarti fino a quando sarà necessario o… mettiamola pure così: fino alla fine dei tuoi giorni. Io ti amo ancora, brutto zuccone che non sei altro. Tu hai bisogno di me, quanto io ne ho di te. Approvi la mia idea?»

    Lui fissò il soffitto per qualche istante, incerto e pensieroso, come se stesse valutando l’opportunità e la praticabilità della mia sincera proposta. Dopo alcuni secondi di silenzio rispose.

    «Cristina… so che dovrei accettare e ringraziarti, ma non ne sono capace. Sai come sono fatto, no? Mi conosci alla perfezione. Tornerei di nuovo a guastarti la vita, anche se per un periodo che, è logico ipotizzare, sarà molto breve. Non so se ti rendi conto che tra qualche mese non sarò più lo stesso uomo di adesso… che non sarò più in grado di badare a me stesso, nemmeno per le cose essenziali! Che dovresti accudirmi come se fossi un bambino, anzi, no! Per l’esattezza: come un vecchio rincoglionito. Probabilmente non hai valutato che perderai la tua libertà, che per te è sempre stata un elemento essenziale.»

    Fece un sospiro e poi continuò: «No, Cristina, è meglio che tu mi lasci perdere. Ci sarà qualcun altro che si prenderà cura di me. Mi riferisco alle persone che ancora mi sono rimaste vicine, come Francesca, Alberto e i pochi altri amici con i quali ho mantenuto un rapporto d’affetto quasi fraterno; ben diverso da quello d’amore che, se non sbaglio, ho con te. Comprendi dove sta la differenza? E quando anche loro non dovessero più essere in grado di reggere la situazione, allora io li capirò e non m’incazzerò di certo se dovessero decidere di mettermi in qualche istituto o clinica del cazzo. Credimi, Cristina, è molto meglio così!». Mi fissò convinto che mi sarei arresa davanti alle sue – per certi versi incontrovertibili – argomentazioni, ma non avrei ceduto nemmeno di un millimetro.

    Ribattei punto per punto alle sue obiezioni, facendogli capire che, ciò che lui considerava un sacrificio da parte mia, per me non lo era affatto. Che l’amore, senza voler cadere in un mieloso sentimentalismo, era esattamente questo: prendersi cura di chi si ama, anche nelle peggiori condizioni che la vita ci impone di accettare. Alla fine la spuntai e riuscii a convincerlo.

    La nostra storia riprese, quasi esattamente, dal punto in cui si era interrotta, ma ora era sorretta da un nuovo impulso che la rafforzava. Nei giorni che seguirono, il suo umore iniziò a migliorare. Sentivo che in lui era tornata la volontà di non cedere alla dolorosa evidenza degli eventi. La mia presenza sembrava avergli ridato la forza e l’energia sufficienti per affrontare con maggior serenità il tempo che gli restava da vivere. Una sera, dopo essere tornata dalla presentazione del mio ultimo romanzo presso una libreria di Milano, lo trovai particolarmente sereno e motivato; quasi entusiasta.

    «Cristina, non te l’ho ancora detto, ma già prima che tu arrivassi ho iniziato a scrivere un nuovo romanzo. Niente di speciale… solo una specie di diario» m’informò, com’era sua consuetudine, con misurato entusiasmo. «È solo un bilancio della mia merdosa vita. Non m’importa nulla se sarà pubblicato o meno. Lo sto scrivendo perché avverto un bisogno irrinunciabile di raccontare qualcosa di me che resti, un ricordo per chi mi ha conosciuto» mi spiegò in sintesi, usando il suo abituale linguaggio da caserma.

    «Lo voglio dedicare a mio figlio, perché sappia che suo padre non era quel cialtrone, buono a nulla, che sua madre gli ha sempre dipinto. Non so se riuscirò a terminarlo, ma ci proverò. Spero che il tempo mi basti» continuò sicuro di sé, come da tempo non lo vedevo.

    Il rapporto conflittuale con il suo secondogenito era sempre stato per lui una spina nel fianco, un disagio e un dolore, a lungo patiti, che non era mai riuscito a placare. Gli chiesi se avesse già in mente una trama, una precisa storia da raccontare, ma non volle rivelarmi nulla.

    «Quando non ci sarò più lo leggerai, e se non dovessi essere in grado di terminarlo, all’ultima riga dell’ultimo capitolo che sarò riuscito a scrivere, troverai cinque punti rossi. Tu sai cosa significano e cosa fare, se vorrai».

    Quei cinque punti rossi erano un segnale che utilizzavamo durante la nostra convivenza. Li mettevamo al termine di una frase o di un periodo, quando ci aveva preso il ghiribizzo di scrivere brevi racconti a quattro mani. Stavano a indicare che uno dei due doveva continuare quanto scritto dall’altro. Per noi era come un gioco. A volte il risultato era sorprendente: sembrava che quei racconti fossero stati concepiti e scritti dalla mente di una sola persona.

    Gli ultimi due mesi li trascorse quasi sempre chiuso in casa, lavorando al suo romanzo. Nei primi tempi usciva di rado, solo per andare all’ospedale per la terapia sostando, al ritorno, in uno dei numerosi bar dov’era solito stazionare per ore prima del sopraggiungere della malattia.

    Quando Alberto, il suo più caro e forse unico vero amico, o sua moglie Francesca lo accompagnavano in macchina, restavo sola in casa. In un’occasione fui tentata di aprire il suo pc per dare una sbirciata a quello che stava scrivendo ma poi rinunciai, rendendomi conto che la mia sarebbe stata un’ignobile intrusione nel suo privato.

    Verso i primi giorni di ottobre le sue condizioni iniziarono a peggiorare sensibilmente. Sempre più spesso era assalito da forti emicranie associate a nausea. Allora spegneva il computer e si sdraiava sul letto fissando il soffitto. Dopo un po’, quando il dolore si era attenuato, lo riaccendeva e riprendeva a scrivere di buon grado. Io gli consigliavo di smettere, ma lui rispondeva che ormai era a buon punto e che quell’emicrania e tutto il resto erano sopportabili e non l’avrebbero di certo

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