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Robot 100
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E-book342 pagine4 ore

Robot 100

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Fantascienza - rivista (240 pagine) - Versione digitale di Robot 100 con racconti di Robert A. Heinlein, Bruce Sterling e Paul Di Filippo, Daniela Piegai, Franci Conforti, Davide Del Popolo Riolo, Silvia Treves, saggi su Lingua madre e sf delle donne, Mondi inconsci e possibili, Robert A. Heinlein, La fantascienza di domani, Bodies

Ci sono racconti che sono classici della fantascienza così famosi che è quasi un obbligo ripubblicarli ogni tanto, per permettere alle nuove generazioni di conoscerli, ma anche per offrire il piacere alle meno giovani di rileggerli. Tra questi c’è senza dubbio La casa nuova di Robert A. Heinlein, che per la prima volta esce su Robot in una nuova traduzione e con titolo più vicino all’originale, ...E costruì una casa tutta storta. Ma se la statura di Heinlein è difficilmente eguagliabile, questo numero di Robot è una vera sfilata di grandi autori. Dalle due leggende americane qui alleate per raccontare una storia di una Terra futura dove l’umanità è agli sgoccioli, Bruce Sterling e Paul Di Filippo, alla bravissima Daniela Piegai, con un racconto tutto nuovo, ad alcuni dei migliori nomi della fantascienza italiana di questi anni, Franci Conforti, Davide Del Popolo Riolo (tre premi Urania e tre premi Odissea tra tutti e due) e Silvia Treves. Il reparto saggistico ospita interventi di grande rilievo di Laura Coci, Viola Ferrari, Alessandro Vietti, Antonino Fazio, Domenico Gallo e Walter Catalano. E sì, con questo siamo a cento.

Fondata da Vittorio Curtoni, Robot è una delle riviste di fantascienza italiane più prestigiose, vincitrice di un premio Europa e numerosi premi Italia. Dal 2011 è curata da Silvio Sosio.
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2024
ISBN9788825428629
Robot 100

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    Anteprima del libro

    Robot 100 - Silvio Sosio

    Editoriale

    Centopunk!

    Silvio Sosio

    Recentemente Urania ha pubblicato un romanzo (una novella, in realtà) di Becky Chambers, Un salmo per il robot (A Psalm for the Wild-Built), vincitore del Premio Hugo nel 2022. L’opera è stata presentata un po’ come bandiera di un nuovo filone, una fantascienza morbida, armoniosa, senza cattivi, senza pericoli o problemi da risolvere, una fantascienza che racconta situazioni belle, pacifiche, tranquillizzanti. Questo filone è stato battezzato cosypunk, o in versione più americana Cozypunk.

    Punk? Ma che c’entra il punk? Che è stato un fenomeno di ribellione, espressa nei modi più scioccanti possibile, dai capelli a punta alla musica forte, violenta e aggressiva, con qualcosa di cosy, tranquillo, morbidoso, pucci pucci miao? Niente! Ma allora punk vuol dire semplicemente fantascienza? E da quando?

    Il mio primo pensiero è stato è tutta colpa di Bruce Sterling, andiamo a picchiarlo. Che è una reazione abbastanza punk, a occhio. Poi mi sono calmato, ho considerato che non è colpa di Bruce e che comunque se provassi a picchiarlo probabilmente ne verrei fuori pesto (dopo tutto il texano è lui), e ho pensato di sfogarmi scrivendo un editoriale.

    Affrontiamo la cosa in modo serio allora. E cominciamo a chiederci da dove è saltata fuori questa cosa del punk. Facile: dal cyberpunk. Ma perché? A chi chiederlo se non proprio a Sterling, che il cyberpunk l’ha creato?

    «Beh, l’aspetto migliore di cyber-punk è che è un ossimoro, proprio come fantascienza o fanta-scienza» mi ha risposto. «Questi concetti non dovrebbero mai combinarsi. Sono contraddizioni in termini. La scienza non può essere fantasia, e anche la fantasia non può essere scienza. È questo aspetto ossimorico che conferisce alla fantascienza il suo potere creativo. Se stai fantasticando sulla scienza, stai entrando in uno spazio di contraddizione metafisica in cui le regole e i presupposti consueti non possono essere applicati. Il termine cyber-punk ha una portata molto più ristretta rispetto alla fantascienza, perché si applicava solo a una situazione generazionale in cui le industrie informatiche cibernetiche erano significative e il punk era un aspetto vivo della cultura. Ecco perché il cyberpunk era solo un movimento, invece di essere abbastanza ampio da diventare un genere a sé stante.»

    E però l’idea ha avuto successo, e il cyberpunk ha figliato. O ha metastasizzato, decidete voi come vedere la cosa.

    Dal cyberpunk è nato il biopunk, un cyberpunk focalizzato sulla bioingegneria, l’ingegneria genetica e cose del genere; pensate a Il pasto nudo, o Gattaca. Poi il nanopunk, sulle nanotecnologie, i naniti e altri microaggeggi. Poi il postcyberpunk che portava all’estremo il postumanesimo, la human augmentation; avete presente gli esperimenti di Elon Musk che collega il cervello umano al computer? Quello.

    Ora attenzione, perché a un tratto arriva K.W. Jeter, il quale, recensendo un romanzo di Tim Powers, si inventa di definirlo steampunk, cioè una variante di cyberpunk con la tecnologia basata sul vapore. Da lì è letteralmente un’esplosione di varianti di punk a seconda della fonte di energia: dieselpunk, atompunk, e quando ci si sposta in epoca romana sandalpunk. E se la fonte di energia è il sole siamo nel solarpunk, e qui magari un po’ di ribellione ci starebbe anche; ma se diventa meno luminoso può sfociare nel lunarpunk.

    Se nell’opera in questione si mostra una certa nostalgia per gli anni Settanta e Ottanta, l’epoca delle cassette – audio, video o quelle dei videogiochi – scatta il cassette futurism o cassettepunk, detto anche formicapunk (dal materiale, non dagli insetti).

    C’è un punk urban fantasy chiamato elfpunk, e uno che ribalta il folklore in modo sovversivo chiamato mythpunk. E quello che mi affascina più di tutti, principalmente perché non sono riuscito a capire bene cosa sia, il raypunk.

    Qualcuno di questi generi o filoni o movimenti ha effettivamente qualcosa a che fare con la ribellione, si merita quindi il suo suffisso punk in qualche misura; altri lo usano come una sorta di cognome. Mi chiamo Punk perché mio padre si chiama Punk, Steam Punk.

    Ma tutto ciò ha un senso?

    Mica tanto, secondo Bruce Sterling. «Per rispondere alla tua domanda, il problema con la roba punk all’infinito è che pensa troppo in piccolo» mi dice. «È isolato e troppo fandomico, è solo chiacchiere interne, è mero gergo di genere. Al giorno d’oggi, dire punk nella fantascienza significa solo un piccolo cambiamento nell’argomento o nel tono. Non rimprovero le persone per l’uso continuo di -punk, in realtà lo trovo divertente e tendo a sorridere ogni volta che lo vedo, ma, francamente, non mostra abbastanza ambizione creativa. È come mettere dei magneti souvenir sul frigorifero, quando ci si dovrebbe confrontare con il frigorifero stesso, e anche con la sua fabbrica, e con quello che c’è dentro quel frigorifero, e da dove viene tutta quella roba, e dove sta andando. Prendiamo ad esempio Primo Levi. Se stai leggendo la fantascienza di Primo Levi e sei un critico, non diresti "oh, ribattezziamo l’opera di Levi centaurpunk. Potresti farlo, ma è troppo vincolante e anche sciocco. Ostacola una comprensione genuina di ciò che Levi stava realizzando. Quindi, se non è adatto a Levi e pensi che gli scrittori moderni dovrebbero aspirare a eguagliare quelli come lui, allora non dovresti volere o aver bisogno di alcuna etichetta punk" nel 2024. Dovresti essere più ambizioso e montare in sella il vecchio centauro Levi; non unirti a qualche mini-genere, fai qualcosa di impossibile, come essere un industriale chimico torinese e uno scrittore di fama mondiale allo stesso tempo.»

    Ma se la punkizzazione del fantastico ha avuto luogo, come mi sembra, soprattutto con l’arrivo dello steampunk, cosa ne pensa l’autore che ha utilizzato questo termine proprio come titolo di un suo libro, La trilogia steampunk – e poi l’ha rifatto con l’antologia Dieselpunk uscita pochi mesi fa, ovvero Paul Di Filippo?

    «Come membro di prima generazione del cyberpunk, santificato dall’inclusione nel volume Mirrorshades di Bruce Sterling, mi stavo già stancando del suffisso punk mentre il movimento stava ancora crescendo!» (ecco, c’è sintonia, lo sapevo!) «Mi piaceva l’idea di fondere un prefisso scientifico (cyber) con un suffisso di derivazione musicale (punk), perché rappresentava una fusione di arte e scienza, che in fondo è l’essenza della fantascienza. Ma il mio problema era che non mi piaceva molto la musica punk! Anche se mi piacevano alcuni gruppi – i Ramones, i Jam, i Clash – ero convinto che il punk godesse di un’ispirazione poco sofisticata e limitata. Così, quando è arrivato il momento di postulare il mio nuovo genere di fantascienza bioingegneristica, ho scelto una modalità pop molto più gradevole: il funk. Da qui il mio soprannome ribofunk. Sfortunatamente, il mondo non era d’accordo con me e ha deciso di usare il termine biopunk. Da allora, ovviamente, abbiamo avuto circa una dozzina di diversi sottogeneri punk. Ma pensate a come sarebbe stata diversa la storia della fantascienza se avessimo avuto, diciamo, dieselfunk invece di dieselpunk!»

    Mah. Non così tanto, forse, Paul. Però ringrazio di cuore Bruce Sterling e Paul Di Filippo, che per me sono insieme leggende e amici, non solo per il contributo a questo editoriale ma anche per il racconto che hanno offerto per questo numero cento di Robot. Un numero speciale per ragioni abbastanza casuali (se ci fossimo evoluti dai maiali non conteremmo in base dieci e questo sarebbe un banale numero ١٤٤, oink) ma comunque l’occasione per guardare quanta strada abbiamo fatto. E ringraziare chi ci ha portati fin qui, come Francesco Lato in redazione, Luca Vergerio, Alessandro Semeghini e Matteo Di Gregorio per le illustrazioni, i collaboratori della parte saggistica, e traduttori, autori, stampatori, lettori e chi promuove questa rivista anche dicendo a chi è nostalgico della vecchia Robot ehi ma guarda che esce ancora!. Grazie a tutti! R

    Illustrazione di Luca Vergerio

    Illustrazione di Luca Vergerio

    Narrativa

    …E costruì una casa tutta storta

    Robert A. Heinlein

    Traduzione di Laura Abisso

    Foto Robert A. Heinlein … And He Built a Crooked House, uscito originariamente su Astounding nel 1941, è uno dei racconti più celebri di tutta la storia della fantascienza e, pur essendo essenzialmente un divertissement, incarna lo spirito più genuino della sf, in particolare quello della Golden Age (gli anni Quaranta del ’900), ovvero: partire da un assunto rigorosamente scientifico per sviluppare un’opera di fantasia (be’, è pur sempre fiction) dallo svolgimento narrativo altrettanto rigoroso. Il tutto condito da uno stile brillante e lineare – oggi diremmo minimalista – quasi alla Hemingway, di un Robert A. Heinlein (1907-1988) poco più che trentenne, ancora libero dalle prolissità e dalle ridondanze di cui è stato spesso accusato riferendosi ai lavori più tardi.

    Pubblicato per la prima volta in Italia nella storica antologia Le meraviglie del possibile (1959), con il titolo semplice e geniale, ma infedele, La casa nuova, ha avuto da allora almeno una dozzina di ristampe e traduzioni. (FL)

    Gli americani sono considerati pazzi in tutto il mondo.

    Di solito ammettono che l’accusa non è infondata, ma indicano la California come origine del problema. I californiani sostengono fermamente che la loro cattiva reputazione deriva esclusivamente dalle azioni degli abitanti della contea di Los Angeles. Gli abitanti di Los Angeles, se sollecitati, ammettono l’accusa ma spiegano frettolosamente: È Hollywood. Non è colpa nostra, non l’abbiamo voluta noi; Hollywood è cresciuta da sola.

    Alla gente di Hollywood non interessa, anzi se ne gloriano. Se sei interessato, ti porteranno nel Laurel Canyon dove, dicono, teniamo i casi violenti. Gli abitanti del Canyon – le donne con le gambe marroni, gli uomini con i bauli costantemente impegnati a costruire e ricostruire le loro case incompiute – guardano con un leggero disprezzo le noiose creature che vivono negli appartamenti e custodiscono nel loro cuore la segreta consapevolezza che loro, e solo loro, sanno come vivere.

    Lookout Mountain Avenue è il nome di un canyon laterale che sale dal Laurel Canyon. Gli altri Canyoniti non amano che venga menzionato; dopotutto, bisogna pur tracciare un confine da qualche parte!

    In cima alla Lookout Mountain, al numero 8775, di fronte all’Eremita – l’Eremita originale di Hollywood – viveva Quintus Teal, architetto laureato.

    Anche l’architettura della California meridionale è diversa. Gli hot dog vengono venduti da una struttura costruita come The Pup. I coni gelato provengono da un gigantesco cono gelato in stucco e i neon proclamano Prendi il vizio del Chili Bowl! dai tetti di edifici che sono indiscutibilmente delle ciotole di chili. Benzina, olio e mappe stradali gratuite vengono distribuite sotto le ali degli aerei da trasporto trimotore, mentre i bagni certificati, ispezionati ogni ora per garantire il tuo comfort, si trovano nella cabina dell’aereo stesso. Queste cose possono sorprendere o divertire il turista, ma i residenti locali, che camminano senza cappello sotto il famoso sole del mezzogiorno californiano, le prendono come una cosa ovvia.

    Quintus Teal considerava gli sforzi dei suoi colleghi architetti come deboli di cuore, incerti e timidi.

    – Cos’è una casa? – Teal chiese al suo amico Homer Bailey.

    – Be’… – Bailey ammise con cautela: – Parlando in termini generali, ho sempre considerato una casa come un aggeggio per ripararsi dalla pioggia.

    – Che noia! Sei scarso come tutti gli altri.

    – Non ho detto che la definizione è completa…

    – Completa! Non è nemmeno nella direzione giusta. Da questo punto di vista potremmo benissimo accomodarci nelle caverne. Ma non ti biasimo – proseguì Teal, magnanimo. – Non sei peggiore di quei babbei che praticano l’architettura. Anche i moderni… hanno solo abbandonato la scuola delle torte nuziali a favore della scuola delle stazioni di servizio, hanno buttato via il pan di zenzero e hanno messo un po’ di cromo, ma in fondo sono conservatori e tradizionalisti come un tribunale di contea. Neutra! Schindler! Che cos’hanno fatto quei pezzenti? Cos’ha Frank Lloyd Wright che io non ho?

    – Clienti – rispose il suo amico in modo conciso.

    – Eh? Cosa hai detto? – Teal inciampò leggermente nel suo flusso di parole, fece una leggera giravolta e si riprese. – Clienti. Esatto. E perché? Perché non penso a una casa come a una caverna imbottita; la vedo come una macchina per vivere, un processo vitale, una cosa viva e dinamica, che cambia con l’umore di chi la abita, non una bara morta, statica e sovradimensionata. Perché dovremmo essere bloccati dai concetti congelati dei nostri antenati? Qualsiasi sciocco con una piccola infarinatura di geometria descrittiva può progettare una casa in modo ordinario. La geometria statica di Euclide è l’unica matematica? Dobbiamo ignorare completamente la teoria di Picard-Vessiot? Che ne dici del sistema modulare? Per non parlare dei ricchi suggerimenti di stereochimica. Non c’è forse un posto nell’architettura per la trasformazione, per l’omomorfologia, per le strutture d’azione?

    – Che io sappia – rispose Bailey. – Potresti anche parlare della quarta dimensione, per quanto mi riguarda.

    – E perché no? Perché dovremmo limitarci a… – Si interruppe e fissò le distanze. – Homer, credo che tu abbia davvero avuto un’idea. Dopotutto, perché no? Pensa all’infinita ricchezza di articolazioni e relazioni in quattro dimensioni. Che casa, che casa… – Rimase immobile, con gli occhi chiari e sporgenti che sbattevano pensierosi.

    Bailey si avvicinò e gli scosse il braccio. – Ehi, riprenditi. Di cosa diavolo stai parlando, di quattro dimensioni? Il tempo è la quarta dimensione; non puoi piantarci dei chiodi.

    Teal lo scrollò di dosso. – Certo, certo. Il tempo è una quarta dimensione, ma io sto pensando a una quarta dimensione spaziale, come la lunghezza, la larghezza e la profondità. Per quanto riguarda l’economia dei materiali e la comodità di sistemazione, non c’è niente di meglio. Per non parlare del risparmio di spazio: potresti mettere una casa di otto stanze sul terreno ora occupato da una casa di una stanza. Come un tesseratto.

    – Che cos’è un tesseratto?

    – Non sei andato a scuola? Un tesseratto è un ipercubo, una figura quadrata con quattro dimensioni, come un cubo ne ha tre e un quadrato due. Ecco, te lo mostro. – Teal si precipitò nella cucina del suo appartamento e tornò con una scatola di stuzzicadenti che rovesciò sul tavolo tra loro, spostando di lato con noncuranza i bicchieri e una bottiglia di gin Holland quasi vuota. – Mi servirà della plastilina. Ne avevo un po’ qui intorno la settimana scorsa. – Frugò in un cassetto della scrivania in disordine che affollava un angolo della sala da pranzo e ne uscì con un grumo di argilla oleosa per scultori. – Eccone un po’.

    – Cosa hai intenzione di fare?

    – Ti faccio vedere. – Teal staccò rapidamente piccole masse di argilla e le arrotolò in palline della grandezza di un pisello. Infilò degli stuzzicadenti in quattro di queste e le unì in un quadrato. – Ecco! Questo è un quadrato.

    – Ovviamente.

    – Un altro simile, altri quattro stuzzicadenti e facciamo un cubo. – Gli stuzzicadenti erano ora disposti a formare una scatola quadrata, un cubo, con le palline di argilla che tenevano insieme gli angoli. – Ora facciamo un altro cubo come il primo e i due saranno i due lati del tesseratto.

    Bailey iniziò ad aiutarlo a rotolare le palline di argilla per il secondo cubo, ma fu distratto dalla sensazione sensuale della docile argilla e iniziò a lavorarla e modellarla con le dita.

    – Guarda – disse, alzando il prodotto del suo sforzo creativo, una piccola statuetta. – Gypsy Rose Lee.

    – Sembra più Gargantua; dovrebbe farti causa. Ora fai attenzione. Apri un angolo del primo cubo, incastra il secondo cubo nell’angolo e poi chiudi l’angolo. Poi prendi altri otto stuzzicadenti e unisci il fondo del primo cubo al fondo del secondo, in obliquo, e la cima del primo alla cima del secondo, allo stesso modo. – Questo lo fece rapidamente, mentre parlava.

    – Cosa dovrebbe essere? – Bailey chiese con sospetto.

    – È un tesseratto, otto cubi che formano i lati di un ipercubo in quattro dimensioni.

    – A me sembra più una culla per gatti. In ogni caso ci sono solo due cubi. Dove sono gli altri sei?

    – Usa la tua immaginazione, amico. Considera la sommità del primo cubo in relazione alla sommità del secondo; questo è il cubo numero tre. Poi i due quadrati inferiori, poi le facce frontali di ogni cubo, le facce posteriori, il lato destro, il lato sinistro… otto cubi. – Li indicò.

    – Sì, li vedo. Ma non sono cubi, sono dei prismi. Non sono quadrati, sono inclinati.

    – È solo il modo in cui lo vedi, in prospettiva. Se disegnassi la figura di un cubo su un foglio di carta, i quadrati laterali sarebbero inclinati, non è vero? Questa è la prospettiva. Quando guardi una figura quadridimensionale in tre dimensioni, naturalmente sembra storta. Ma questi sono tutti cubi come gli altri due.

    – Forse per te lo sono, fratello, ma a me sembrano ancora storti.

    Teal ignorò le obiezioni e continuò. – Ora considera questa struttura come l’ossatura di una stanza da otto locali. C’è una stanza al piano terra, che serve per i servizi, le utenze e il garage. Al piano successivo si aprono sei stanze: soggiorno, sala da pranzo, bagno, camere da letto e così via. E in cima, completamente chiuso e con finestre su quattro lati, c’è lo studio. Ecco! Ti piace?

    – Mi sembra che la vasca da bagno penda dal soffitto del soggiorno. Queste stanze sono intrecciate come una piovra.

    – Solo in prospettiva, solo in prospettiva. Ecco, lo farò in un altro modo, così potrai vederlo. Questa volta Teal fece un cubo di stuzzicadenti, poi ne fece un secondo a metà e lo posizionò esattamente al centro del primo attaccando gli angoli del cubo piccolo al cubo grande con degli stuzzicadenti di lunghezza ridotta.

    – Ora, il cubo grande è il piano terra, il cubo piccolo all’interno è lo studio all’ultimo piano. I sei cubi che li uniscono sono i soggiorni. Vedi?

    Bailey studiò la figura, poi scosse la testa. – Continuo a vedere solo due cubi, uno grande e uno piccolo. Le altre sei cose, questa volta sembrano piramidi invece che prismi, ma non sono ancora cubi.

    – Certamente, certamente, li stai vedendo in una prospettiva diversa. Non lo vedi?

    – Be’, forse. Ma quella stanza all’interno, lì. È completamente circondata da quei cosi lì. Pensavo avessi detto che aveva finestre su quattro lati.

    – Ha… sembra proprio che sia stata circondata. Questa è la grande caratteristica di una casa a tessere, l’esposizione completa all’esterno per ogni stanza, ma ogni muro serve due stanze e una casa di otto stanze richiede solo le fondamenta di una stanza. È rivoluzionario.

    – Questo è un eufemismo. Sei pazzo, amico; non puoi costruire una casa così. La stanza interna è all’interno e lì rimane.

    Teal guardò il suo amico con esasperazione controllata. – Sono quelli come te che mantengono l’architettura ai suoi albori. Quanti lati quadrati ha un cubo?

    – Sei.

    – Quanti di loro sono dentro?

    – Nessuno. Sono tutti all’esterno.

    – Bene. Ora ascolta: un tesseratto ha otto lati cubici, tutti all’esterno. Ora guardami. Aprirò questo tesseratto come si apre una scatola cubica di cartone, fino a renderlo piatto. In questo modo potrai vedere tutti e otto i cubi. – Lavorando molto rapidamente, costruì quattro cubi, impilandoli uno sull’altro in una torre instabile. Poi costruì altri quattro cubi dalle quattro facce esposte del secondo cubo della pila. La struttura ondeggiava un po’ sotto l’accoppiamento lasco delle palline di argilla, ma stava in piedi, otto cubi in una croce rovesciata, una doppia croce, mentre i quattro cubi aggiuntivi sporgevano in quattro direzioni. – Lo vedi ora? Si trova nella stanza al piano terra, i sei cubi successivi sono i salotti e in cima c’è il tuo studio.

    Bailey lo guardò con più approvazione di quanto avesse fatto con le altre figure. – Almeno posso capirlo. Dici che anche questo è un tesseratto?

    – Questo è un tesseratto dispiegato in tre dimensioni. Per ricomporlo devi infilare il cubo superiore sul cubo inferiore, piegare i cubi laterali fino a farli incontrare con il cubo superiore ed ecco fatto. Tutto questo piegamento avviene ovviamente attraverso una quarta dimensione; non distorci nessuno dei cubi, né li pieghi l’uno nell’altro.

    Bailey studiò ulteriormente la struttura traballante. – Senti un po’ – disse infine, – perché non lasci perdere l’idea di piegare questa cosa attraverso una quarta dimensione – tanto non puoi farlo – e non costruisci una casa come questa?

    – Come sarebbe a dire che non posso? È un semplice problema matematico…

    – Calma, figliolo. Può essere semplice in matematica, ma non riusciresti mai a far approvare i tuoi progetti per la costruzione. Non esiste la quarta dimensione, scordatelo. Ma questo tipo di casa potrebbe avere dei vantaggi.

    Con calma, Teal studiò il modello. – Forse hai avuto una buona idea. Potremmo avere lo stesso numero di stanze e risparmiare la stessa quantità di spazio sul terreno. Sì, e potremmo posizionare il piano centrale a forma di croce a nord-est, sud-ovest e così via, in modo che ogni stanza riceva la

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