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La prima donna
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E-book183 pagine2 ore

La prima donna

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La lieta giornata d’aprile moriva: la dolcezza di quel lungo e tiepido bagno di sole, profumato dall’aria odorante di zágara, esalava lentamente. Ma prima di ritirarsi là, dietro il profilo roseo dei monti, il disco luminoso si stemperava in una densa pioggia di pulviscoli d’oro, ed era come una nebulosa immateriale e trasparente sospesa nell’aria, che s’allargava e si stendeva sempre più su tutte le forme della natura e delle cose.
Contro l’onda dorata e dilagante adesso, le gelosie della finestra dietro a cui Filippo Torreforte stava chino sui suoi libri e le sue carte, e che avevano impedito tutto il giorno ai raggi vivi del sole d’irrompere nella stanza, non offrivano più riparo. Ma il giovane non si difendeva più. Dieci ore quasi ininterrotte di lavoro erano passate sulla sua testa curva sopra la scrivania, dieci ore scorse nell’arido studio di un processo, nella consultazione del codice e dei classici del Diritto. E durante il lungo tempo, malgrado i suoi ventisei anni, malgrado il suo ricco e caldo sangue, avea saputo restare sordo e tetragono al languido invito della natura in festa, efficace ad esaltare le carni più pigre, i sensi più tardi, non s’era lasciato sedurre da quella carezza di sole che metteva una voglia acuta di stendervisi sotto, da quell’alito ineffabile di primavera che voleva essere avidamente bevuto — tanto era l’ardore che l’animava, tanta la volontà che lo sorreggeva!
LinguaItaliano
Data di uscita25 mag 2024
ISBN9782385746513
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    La prima donna - Ferdinando Di Giorgi

    LA PRIMA DONNA.

    FERDINANDO DI GIORGI

    La Prima Donna

    © 2024 Librorium Editions

    ISBN : 9782385746513

    LA PRIMA DONNA

    I.

    La lieta giornata d’aprile moriva: la dolcezza di quel lungo e tiepido bagno di sole, profumato dall’aria odorante di zágara, esalava lentamente. Ma prima di ritirarsi là, dietro il profilo roseo dei monti, il disco luminoso si stemperava in una densa pioggia di pulviscoli d’oro, ed era come una nebulosa immateriale e trasparente sospesa nell’aria, che s’allargava e si stendeva sempre più su tutte le forme della natura e delle cose.

    Contro l’onda dorata e dilagante adesso, le gelosie della finestra dietro a cui Filippo Torreforte stava chino sui suoi libri e le sue carte, e che avevano impedito tutto il giorno ai raggi vivi del sole d’irrompere nella stanza, non offrivano più riparo. Ma il giovane non si difendeva più. Dieci ore quasi ininterrotte di lavoro erano passate sulla sua testa curva sopra la scrivania, dieci ore scorse nell’arido studio di un processo, nella consultazione del codice e dei classici del Diritto. E durante il lungo tempo, malgrado i suoi ventisei anni, malgrado il suo ricco e caldo sangue, avea saputo restare sordo e tetragono al languido invito della natura in festa, efficace ad esaltare le carni più pigre, i sensi più tardi, non s’era lasciato sedurre da quella carezza di sole che metteva una voglia acuta di stendervisi sotto, da quell’alito ineffabile di primavera che voleva essere avidamente bevuto — tanto era l’ardore che l’animava, tanta la volontà che lo sorreggeva!

    Il tramonto veniva a sorprenderlo giusto a lavoro compiuto, e la gradita voce della propria coscienza soddisfatta, levandosi in lui insieme alla dolcezza particolare dell’ora, lo metteva in una disposizione beata di spirito. Appoggiato al davanzale della finestra di cui aveva spalancate con impeto gaio le persiane, egli contemplava l’orizzonte luminoso con gli occhi socchiusi, sorridendo dietro a certe sue liete fantasie; attraverso quella pioggia d’oro fuso, vestita dei suoi riflessi, la prospettiva del proprio avvenire gli appariva più che mai lieta e promettente. Vedeva la ristretta, ma sicura clientela che già aveva saputo formarsi dopo qualche anno di professione col suo talento, e sopratutto con la sua attività instancabile, allargarsi rapidamente, diventare sempre più numerosa e produttiva, procurargli le risorse necessarie per liberare la proprietà della sua casa dai tentacoli di piovra delle ipoteche e dei pesi d’ogni natura che la gravavano, isterilendola, divorandosela.... Ritrovava per lui e per la sua famiglia là, nella vecchia e lontana cittadina natale, la posizione d’un tempo, il primato goduto senza contrasto per tradizione quasi secolare e mutato adesso in una condizione penosa ed umiliante.... Vedeva sua madre, non più malata di tristezza e d’avvilimento, rialzare nella gioia della prosperità riconquistata la personcina magra e curva dal peso dei dolori, le sue due sorelle accasate e bene, ricostruito infine l’edificio che la prodigalità del padre, negli ultimi anni della sua vita, e una serie di speculazioni l’una più disastrosa dell’altra avevano quasi distrutto....

    Un’acuta tenerezza lo invase al pensiero della madre lontana. Gli riappariva dinanzi agli occhi della memoria al momento del commiato, l’ultima volta ch’era stato laggiù. Ella aveva voluto accompagnarlo, insieme alle figlie, ancora un tratto lungo la via maestra, seguendo la carrozza che doveva portarlo alla vicina stazione. Andava adagio, appoggiandosi tutta al suo braccio con un abbandono pieno di dolcezza, mentre le ragazze precedevano, bisticciandosi tra di loro come sempre, sfogando al solito così l’acre malinconia degli anni passati a sognare e ad aspettare invano un marito che forse non si sarebbe presentato mai con la povera dote tutta gravata d’ipoteche che avevano. Il giovane le parlava dell’avvenire, dei suoi progetti, delle sue rosee speranze, le mostrava l’orizzonte sereno e lieto ch’egli si vedeva schiudere dinanzi, ed ella gli sorrideva, approvando con la piccola e fine testa già tutta grigia, accarezzandolo con lo sguardo amoroso.... Ad un tratto, una nuvola di polvere e uno scalpitìo di cavalli s’erano levati vicino a loro, e s’erano dovuti trarre da parte per lasciar passare il phaëton di Luciano Mascali, colui che aveva aiutata la rovina di casa Torreforte. Sopra quella rovina egli avea edificato la miglior parte della sua fortuna, prestando ogni momento al capo della famiglia larghe somme, prendendone in affitto le terre a vilissimo prezzo, lapidandole a furia d’iscrizioni creditorie; ed ora metteva delle arie insolenti di signorotto feudale, sopratutto di fronte alle sue vittime, affettando verso di loro un disprezzo da villano arricchito, gridando che volevano rubarlo, perchè il giorno d’impadronirsi della loro proprietà non era ancora giunto e mai come da quando Filippo s’era messo alla testa della famiglia pareva meno vicino. E come se la mala grazia voluta con cui aveva rovesciato la sua pomposa carrozza quasi addosso a loro non fosse bastata, egli aveva sentito il bisogno, incontrandoli in quel punto, di aggiungervi l’insolenza del saluto evitato con ostentazione, torcendo lo sguardo dall’altra parte.

    Istintivamente gli occhi di Filippo e di sua madre s’erano incontrati: quelli della vecchia signora avevano un’espressione durissima e il torbido riflesso del suo orgoglio in rivolta, l’orgoglio della propria famiglia ch’era tra le più nobili della provincia e quello dei Torreforte svegliati insieme. Il suo volto era diventato pallidissimo, e le tremavano persino le labbra ed il mento per la collera e la vergogna dell’umiliazione patita.... Poi, lentamente, come certo dentro di lei spasimava più forte dell’orgoglio ferito il suo amore di madre, e l’assaliva il pensiero delle sue creature, l’angoscia di saperle alla mercè di quell’arpìa rapace, delle lacrime si misero a rigarle le guancie sottili.... Allora egli le avea cinta col braccio la vita, come ad un’amica benamata, e se l’era stretta contro il petto, invaso da un tumulto di appassionata tenerezza, mentre le diceva con la voce concitata e insieme solenne:

    — Vedrai, mamma!... Dammi ancora cinque o sei anni di tempo e poi vedrai se non vi riscatterò io da colui! Te lo prometto per la memoria di mio padre! Vedrai mamma, vedrai!...

    D’allora non era passato che poco tempo, eppure quanto cammino verso la mèta che formava la sua ambizione ed il suo sogno! Non aveva egli già dei clienti che non avrebbero barattata l’opera sua per quella di un avvocato principe, tanta fiducia s’era guadagnata in loro con la sua intelligenza e col suo zelo? Il suo bilancio di quell’inverno s’era chiuso così felicemente che non soltanto non era costato nulla ai suoi, ma anzi avea potuto provvedere del proprio a delle scadenze di frutti maturati. E intanto che avanzava ogni giorno dippiù verso la conquista del suo bel sogno, badava ad amministrare con tutto l’impegno della sua doppia qualità d’interessato e d’uomo di legge l’intricata successione paterna e a difenderla dalle insidie del Mascali. Dippiù non sarebbe stato possibile fare, la sua coscienza non gli rimproverava neppure un minuto di distrazione o di stanchezza; avea quasi scordato d’esser giovane e ricco di vita, pareva che non fosse vissuto mai altrimenti se non a quel modo misurato e modesto, quando il ricordo dell’esistenza spendereccia, del fastoso lusso di provincia a casa sua, era invece tanto recente in lui.

    Così, in quel momento, ripassando mentalmente i suoi propositi, la sua condotta, gli occhi gli ridevano di soddisfazione e di piacere. Lo vinceva una gaiezza irrequieta, da scolare all’uscita di classe. Pensava al desinare che l’aspettava nella modesta pensione dov’egli era assiduo, con una piccola e comica smorfia interiore, sicuro di trovarlo troppo magro per l’eccellente appetito che sentiva svegliarsi. Si domandava che impiego avrebbe fatto della sua serata; voleva ben regalarsi qualche ora di distrazione! Ma non sapeva proprio come, poichè non aveva relazioni di società e poichè giusto quella sera, con tutta la sua buona volontà di fare un piccolo strappo al sistema di vita che s’era imposto, l’unico teatro aperto taceva. Allora si ricordò d’aver ricevuto il giorno avanti la carta da visita d’una artista che doveva cantare in quella stagione al Massimo, insieme ad una lettera d’introduzione e di raccomandazione da parte di un vecchio suo amico d’infanzia che s’era poi trapiantato a Milano, giornalista e critico influente. Certo questi aveva creduto renderle un favore importante dandole una commendatizia per lui, perchè aveva veduto il suo nome fra i redattori della Sera. Filippo Torreforte infatti, era intinto un po’ di giornalismo, ma superficialmente, senza appartenere alla corporazione, e solo per quel tanto che riguardava la sua professione e gli giovava a mettere meglio in vista il nome suo.

    Perciò, non avea fatto quasi alcun caso della lettera ricevuta il giorno prima in mezzo al tran-tran dei suoi affari. Ricordandosene allora, gli parve un’insperata risorsa, e risolse di dedicare la serata ad Alice Rossati, accademica di Santa Cecilia e cantante di camera della regina di Portogallo — come diceva il suo biglietto da visita, profumato di corylopsis così acutamente che dava al capo.

    II.

    L’attesa, nel salottino dell’albergo, cominciava a parere un po’ lunga a Filippo Torreforte. Finalmente s’udì un fruscìo, e la cantante comparve, avanzandosi con la mano stesa e il passo lungo e in cadenza che tradiva l’abitudine della scena. Le sue prime parole furono per farsi perdonare l’attesa e, malgrado le proteste del giovane, ella insisteva su questo, spiegandogli con un’intenzione di confidenza nel sorriso e nella voce come fosse stata trattenuta al piano dal maestro per concertare certi tagli e certe cadenze nell’opera in cui doveva presentarsi al pubblico, troppo irta di note acute per il mezzo-soprano che, poverina, non disponeva più di grandi mezzi vocali. Però, che cantante di scuola e che possesso di scena!... Ella s’affrettava a soggiungere ciò, premurosamente, indugiandosi a mettere in rilievo il talento artistico della sua compagna d’arte, lasciando intendere, in mezzo alle espressioni laudative, ch’era la sola risorsa che le restasse. Successe quindi nella conversazione una pausa imbarazzante. La cantante s’aspettava forse a questo punto che l’altro le agitasse sotto le narici il turibolo dell’incenso a cui era abituata, le dicesse del bel nome fattosi nel mondo lirico, del successo che l’attendeva, dell’impazienza sua d’udirla. Invece Filippo restava a guardarla e taceva, non sapendo che dire, come se la vena della bella eloquenza ch’era così ricca in lui si fosse inaridita.

    Per la prima volta egli, già per natura ed abito di vita tanto schivo da contatti femminili in genere, si trovava di fronte ad una donna di teatro. Ne avea vedute soltanto dalla platea, attraverso l’illusione scenica e il melodrammatico convenzionalismo lirico; il fondo ingenuo di provinciale che restava in lui malgrado l’acclimatamento cittadino gliele faceva apparire come delle creature quasi di un altro mondo, al quale si sentiva completamente estraneo. Aveva quindi, in quel momento, il sentimento di subire una specie di iniziazione e ne rimaneva naturalmente un po’ sorpreso e interdetto. Ma non era ciò soltanto: lo paralizzava pure in certo modo l’impressione che la cantante gli avea prodotto entrando. Sorpreso improvvisamente dalla sua comparsa, in mezzo all’uggia dell’attesa che già degenerava in un principio di malumore per essersi lasciato determinare da un momento d’irrequieta gaiezza giovanile ad una tale visita troppo al difuori del suo sistema d’esistenza, egli s’era come sentito trasportare in una sala d’opera, avea quasi provato la rapida emozione che desta nel pubblico, in certe scene capitali del dramma, l’apparire in iscena della protagonista o di un altro importante personaggio muliebre, se l’artista che ne rappresenta la parte ha quelle particolari attitudini fisiche che il palcoscenico di preferenza richiede. Ora Alice Rossati possedeva una figura meravigliosamente fatta per la scena. Grandiosa, ma ben proporzionata di linee, ella aveva un busto e delle braccia superbe; i tratti del viso non peccavano per soverchia finezza, si potevano anzi dire comuni, sopratutto considerando la curva del naso pronunziata oltre misura, la larga bocca dalle labbra grosse, ma pallide, e il mento troppo forte. Ma per compenso, la sua testa, così modellata, era piena di carattere, aveva un’energia di contorno che s’imponeva all’occhio di chi la guardava.

    Ciò che però colpiva dippiù in lei erano gli occhi, degli occhi straordinariamente grandi e neri che avevano una singolare intensità d’espressione, una fissità esaltante, e che parevano covare perpetuamente il fuoco lirico della scena, riverberare la melodrammatica luce della ribalta. Ora, perchè gli occhi le splendessero a quel modo, perchè il suo sguardo facesse pensare a questo, necessariamente ella doveva mantenersi sempre nell’illusione e nell’attitudine di avere dinanzi a sè il pubblico, di non calpestare che delle tavole di palcoscenico. Così era appunto; anche fuori del teatro, anche nell’ambiente meno propizio, nel campo limitato d’una conversazione senza intimità, ella non lasciava di essere la prima donna. E sotto la particolare suggestione dei suoi occhi, della sua figura, di certi atteggiamenti, di certi gesti, davanti al suo incedere lento e in cadenza, tutta una folla di vaghi fantasmi lirici si levava confusamente nell’immaginazione così colpita: ella era Norma, ella era Valentina degli Ugonotti, Eleonora del Trovatore, la Gioconda, Lucrezia Borgia — tutta la galleria di creature appassionate e patetiche che formavano il suo esteso repertorio di soprano drammatico....

    Tale era l’impressione che Filippo Torreforte aveva provato e che lo faceva restare tuttavia assorto, senza troppo saper che dire. Ma poichè il silenzio diventava imbarazzante alla lunga, la cantante riprese a fare le spese della conversazione, avviandola sopra un terreno positivo e sottomettendo l’altro ad un breve interrogatorio.

    — Dunque, lei è tra i redattori della Sera? — gli domandò.

    Torreforte, poichè non gli pareva il caso di diffondersi in particolari a proposito della parte limitatissima e personale ch’egli avea nel giornale, disse di sì senz’altro. Alice Rossati domandò ancora:

    — Ed è molto intimo col suo collega della parte teatrale?

    — Abbastanza. — Egli rispose, indugiandosi a fare il ritratto del collega in questione, il quale era un giovane gran signore che faceva del giornalismo per puro e passeggero dilettantesimo, così com’era passato successivamente attraverso la scienza, la politica, lo sport.

    Allora, la cantante gli confidò le sue pene. Le aveano riferito che Luca di Santo Stefano, il critico teatrale appunto della Sera, era stato l’amante della prima donna che avea cantato prima di lei al Massimo, e che in seguito al

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