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Laghi e Delitti 4: Racconti finalisti del Concorso Letterario Internazionale Ceresio in Giallo 2023
Laghi e Delitti 4: Racconti finalisti del Concorso Letterario Internazionale Ceresio in Giallo 2023
Laghi e Delitti 4: Racconti finalisti del Concorso Letterario Internazionale Ceresio in Giallo 2023
E-book310 pagine4 ore

Laghi e Delitti 4: Racconti finalisti del Concorso Letterario Internazionale Ceresio in Giallo 2023

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Info su questo ebook

Ogni lago, sotto l’apparente quiete delle sue acque, cela inimmaginabili segreti, storie di morti e di delitti e ricordi di violente passioni. Ma poi si sa... il lago mormora e racconta... Il contrasto tra il fascino delle atmosfere lacustri e i tragici eventi di cui sono testimoni è il “fil rouge” che lega tra loro i racconti finalisti del Concorso Letterario Internazionale Ceresio in Giallo, contenuti nell’Antologia Laghi e Delitti 4.

Autori:
Corrado Antani, Roberta Avallone, Davide Bacchilega, Carlo Battaglini, Davide Benedetto, Elena Bezzutti, Cristina Biolcati, Paolo Botti, Michele Brusati, Vincenzo Cipriani, Martina Cucchi, Maena Delrio, Monica Gorret, Pasquale Granato, Erica Lamprecht, Paolo Pinna Parpaglia, Mauro Poma, Ugo Quartaroli, Annamaria Scala, Alice Tasselli, Dario Tedesco, Dominga Zarrella, Cecilia Zonta.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mag 2024
ISBN9788869437601
Laghi e Delitti 4: Racconti finalisti del Concorso Letterario Internazionale Ceresio in Giallo 2023

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    Anteprima del libro

    Laghi e Delitti 4 - A.A.V.V.

    CORRADO ANTANI

    SPIAGGIA NERA

    Il cadavere della donna giaceva a testa in giù, con la mano destra sotto il viso. Un osservatore distratto avrebbe potuto pensare che stesse dormendo. Peccato che il corpo sul bagnasciuga di ciottoli scuri, semi immerso nell’acqua gelida, lasciasse pochi dubbi: era morta.

    Né giovane né vecchia, capelli più grigi che biondi, non troppo alta. Vestiti di buona fattura, senza scarpe, collanina d’oro con un ciondolo in ambra e una piuma all’interno.

    Uber Morelli registrava mentalmente tutti i particolari. Non gli era mai capitato di arrivare sulla scena di un evento di cronaca prima della Polizia. Il reportage sulle spiagge del Lago Maggiore, che tanto detestava, gli stava riservando una sorpresa. Si trovava a Ronco delle Monache, immerso in un parco di salici, carpini e platani, a pochi chilometri dal confine con la Svizzera. Stava facendo delle foto, quando aveva visto alcuni ragazzi a bordo lago, davanti al corpo della donna. Avevano chiamato i soccorsi con il cellulare e poi erano scappati, forse per la paura di restare soli con un cadavere. Uno sciame di sirene si stava avvicinando. Rimanere in quel punto non era una buona idea e Uber andò a nascondersi in un boschetto poco lontano. Nel frattempo, avrebbe cominciato a pensare alla bozza dell’articolo per la Gazzetta Prealpina, il giornale per cui lavorava. Dopo una vita a cercare una notizia degna di questo nome, finalmente ne aveva una per le mani.

    In poco tempo la spiaggia fu invasa di poliziotti, Vigili del Fuoco e paramedici, ma lo sguardo di Uber cadde su una donna alta, con la coda di cavallo e il giubbino di pelle: l’ispettore Grazia Fiammeri. Trentacinque anni, fama da dura, radio scarpa raccontava che fosse finita a Varese dopo aver spaccato il naso a un questore, qualche anno prima. Il giornalista uscì dal boschetto e si avvicinò, tenendosi a distanza. Vide la poliziotta superare il nastro bianco e rosso, messo dalla Scientifica, e accovacciarsi vicino al cadavere, incurante dell’acqua che le bagnava gli anfibi.

    «Ci sono dei segni rossi sul collo. Qualcuno ha cercato di strangolarla e forse ci è riuscito» le sentì dire a un collega.

    Uber si arrestò e tornò sui propri passi, inebriato. Prese la litoranea per tornare al parcheggio senza dare nell’occhio. L’articolo non poteva più aspettare.

    Zoya Romanenko, 47 anni, Ucraina, di professione badante. L’indomani, la Polizia aveva provveduto a comunicare le generalità della vittima, parlando di morte per annegamento, forse suicidio. Non avevano menzionato i segni sul collo. Uber se lo aspettava, e nemmeno lui ne aveva parlato nel suo articolo intitolato: Morte misteriosa sul Lago Maggiore. Sapeva per esperienza che gli inquirenti avevano bisogno di tempo, ma una come Grazia Fiammeri sarebbe andata fino in fondo. E lui non sarebbe stato da meno.

    Fece una rapida ricerca su internet e trovò il profilo Facebook di Zoya. Nelle foto, una bella donna dai lineamenti delicati, sorrideva, ignara del proprio destino. Le informazioni erano scritte in cirillico. Negli ultimi post appariva spesso insieme a un uomo anziano con il cappello da alpino e in sedia a rotelle. Sotto una foto c’era scritto in italiano: Io e Gianni.

    Una badante, scappata dall’Ucraina per un futuro migliore. Peccato che questo futuro sia coinciso con una spiaggia nera del Lago Maggiore.

    I pensieri si accavallavano rapidi nella testa di Uber. Passò in rassegna altre foto e ne trovò una di Zoya e Gianni davanti a un cancello con un cartello. Zoomando lesse: Accademia Musicale Bertani. La conosceva, si trovava a Luino, non troppo lontano. Valeva la pena fare un tentativo.

    A Luino non fu facile. Prima di trovare qualcuno che conoscesse Gianni dovette passare almeno tre bar e offrire una mezza dozzina di bianchetti ai vecchi del posto. Da quelle parti era l’unico modo per abbassare la diffidenza verso i foresti. Alla fine, un barista del Bar Mario sulla centralissima piazza Garibaldi gli disse: «Ma è Gianni l’alpino con quella logia della sua badante».

    Logia significa vacca in varesotto.

    «Quando era ancora in grado di badare a se stesso veniva a farsi un bicerin di tanto in tanto. Poi, da quando è finito nelle grinfie di questa, più visto».

    Uber sorrise e chiese: «Saprebbe dirmi dove abita Gianni?».

    Seguendo le indicazioni di quell’uomo, Uber parcheggiò davanti a un’elegante villetta a due piani, non molto lontano dal lago. Sul campanello, prima di suonare, lesse il cognome SARTORI. Le tende si mossero e dopo un tempo che gli parve infinito, una voce di donna disse al citofono: «Non compriamo niente, se ne vada».

    «Sono un giornalista della Gazzetta Prealpina. So che Zoya Romanenko, la donna che è stata trovata morta in riva al lago, lavorava da voi come badante».

    Il silenzio durò alcuni secondi, poi la stessa voce: «Non so di cosa sta parlando, adesso chiamo le forze dell’ordine».

    Morelli sospirò. Odiava ricorrere alle maniere forti. «Abbiamo il fondato sospetto che non sia un suicidio. Domani parlerò di voi e finirete in prima pagina. Ditemi come ci volete andare?» sibilò.

    Un minuto più tardi era nell’elegante salotto di casa Sartori, introdotto da un uomo alto sulla cinquantina e con lo sguardo torvo, presentatosi come Ludovico Sartori. Sedute a un tavolo c’erano altre due persone: un prete in clergyman e una donna.

    «Dania Sartori, moglie di Ludovico» disse quest’ultima, porgendogli la mano. La stessa voce del citofono.

    Occhi gonfi, ha pianto molto. Aria giovanile, vestiti di marca, gioielli costosi, ha dato il cognome del marito.

    «Don Alessandro, parroco di San Giuseppe» disse il prete.

    Collarino fiammante, parrocchia di un quartiere di Varese, lineamenti simili a quelli dell’uomo più giovane, forse il fratello.

    «Vi chiedo scusa per questa visita improvvisa, volevo solo farvi alcune domande» attaccò Uber, ma Ludovico lo interruppe con fare brusco.

    «Non sappiamo niente di Zoya. Era la badante di nostro padre Gianni e siamo sconvolti».

    «Lo scusi» si intromise don Alessandro. «Mio fratello sta cercando di proteggere nostro padre che è anziano e malato e sta riposando al piano di sopra. Non sa niente di quello che è successo. Era molto legato a quella donna e non vorremmo ne fosse turbato».

    Uber annuì. «A che ora è uscita ieri Zoya?» domandò.

    Questa volta fu Dania a parlare. «Zoya non lavora più da noi da almeno due settimane».

    Nel parlare accarezzò nervosamente un orecchino d’ambra all’orecchio. Il giornalista notò che era a forma di piuma.

    «Mi sta dicendo che l’avete licenziata?».

    Ludovico si schiarì la voce e disse: «Si è licenziata lei, nonostante fosse con nostro padre da circa tre anni. Il mese scorso è venuta con la lettera di dimissioni».

    «Ma come mai una scelta così improvvisa?».

    «Zoya era sposata con un connazionale ubriacone. Ci ha raccontato che la picchiava. Aveva due figli grandi, che se ne erano andati di casa e quello che prendeva lo girava sempre a loro».

    L’uomo indicò un non meglio precisato punto oltre la parete, come se l’Ucraina fosse a qualche chilometro di distanza.

    Dania aggiunse: «Negli ultimi tempi sembrava preoccupata. Era spesso al telefono. Credo che il marito la minacciasse».

    «Ma che tipo di minacce?» chiese Uber.

    «Non lo sappiamo, al telefono parlava sempre ucraino. È venuta qualche giorno dopo a riprendere le sue cose e… no, io non l’ho più vista, e voi?» domandò la donna guardando i due fratelli.

    «Certo che no. Io non avevo molte relazioni con quella donna» disse Ludovico impacciato.

    Il prete scosse il capo. «A volte veniva in parrocchia con mio padre. Amava portarlo in giro. Una brava e cara donna».

    Un bel trio di bugiardi pensò Uber osservando una mensola in legno massello sulla quale erano allineati una serie di farmaci. Riuscì a leggere alcuni nomi: Glucolux, Glucosprint, Vitamin C, Naprossen, Fluoxerene, Seroxat. Nomi per lo più sconosciuti, ma essendoci in casa un anziano era probabile avesse varie patologie.

    «Sapete chi frequentasse a Luino? Aveva amici?»

    Ludovico e la moglie si guardarono per un attimo negli occhi, poi il primo osservò: «Aveva il giorno libero la domenica e si trovava con altre badanti come lei. Ma non so cosa facessero. Non è che io la seguissi per… insomma andare a vedere. Ci siamo capiti, no?».

    Uber si alzò. «Scusate, avrei bisogno del bagno».

    Dania si alzò a sua volta. «La accompagno io, venga».

    La seguì fino a una porta che dava su un corridoio.

    «Complimenti signora, ha davvero una bella casa» disse Morelli.

    «La ringrazio, Zoya mi dava una grande mano. Non si limitava solo a badare a mio suocero».

    «Capisco, non sarà facile sostituirla».

    La donna sospirò. «Credo di no. Queste persone che arrivano da altri paesi e si inseriscono nelle nostre case portano sempre una ventata di aria fresca. Senza che te ne accorgi diventano di famiglia, ti affezioni a loro. Poi ti rendi conto che non è sempre un bene, ma ormai è troppo tardi. È difficile controllare i propri sentimenti».

    Si fermarono davanti a una porta socchiusa dalla quale faceva capolino un lavandino.

    «Grazie per avermi accompagnato, quando ho finito vi raggiungo» disse il giornalista sorridendo.

    Quando sentì la porta del salotto richiudersi, scattò invece verso le scale e salì al piano di sopra. Dopo aver sbirciato in un paio di stanze, trovò quella di Gianni. Le finestre erano socchiuse e nella semioscurità si intravedeva il viso dell’anziano sotto le coperte. Nell’aria un odore misto di alcol e urina.

    Uber entrò e scosse il vecchio per una spalla. Gli parve di toccare un mucchio di ossa rinsecchite, ma l’uomo si riebbe, spalancando gli occhi.

    «Chi è?» disse spaventato.

    «Niente paura, sono un amico di Zoya» mentì il giornalista.

    Il vecchio guardò nella sua direzione, ma lo sguardo era spento.

    «Zoya, Zoya, dov’è andata a finire? Sono giorni che non la vedo più» disse.

    «Era una bella donna Zoya. Bionda, occhi azzurri» lo provocò Uber.

    «Ah sì, un vero fiore. Me l’hanno mandata via quei cancheri».

    Il vecchio parve infervorarsi a quelle parole, pure gli occhi si illuminarono.

    «Perché l’hanno mandata via? Litigava con qualcuno?» chiese il giornalista.

    Il vecchio parve riflettere, ma forse non aveva capito la domanda.

    «Con chi litigava Zoya, con Dania?».

    «Dania l’è tanto gelosa, la pensava che facesse il filo a mio figlio».

    «Ed era vero? A tuo figlio piaceva Zoya?».

    Silenzio.

    «Hai capito quello che ti ho detto, Gianni? A Ludovico piaceva la tua badante?».

    «A me piaceva, io l’avrei sposata».

    Uber fissò quel vecchio male in arnese. Stavolta era lui che temeva di non avere capito bene.

    «Lo hai detto a qualcuno?».

    «A lei. Le ho detto, sposami, andiamo da te in Ucraina. Via da questo brutto paese, da questa brutta gente. I miei figli non vedono l’ora che io muoia per ereditare».

    Scuotendo il capo, il giornalista chiese: «Poi cosa è successo?».

    «Lei mi ha detto di sì».

    Un rumore al piano di sotto convinse Uber ad andarsene.

    «Ci vediamo Gianni, stammi bene».

    Ritornò sui suoi passi e dopo aver posto alcune altre domande di circostanza salutò i Sartori. Mentre raggiungeva la propria auto vide una pattuglia della Polizia imboccare il viale. Dal lato passeggero c’era una poliziotta con la coda di cavallo.

    Come si fa il giornalista? Facendo le domande giuste. Questo era uno dei mantra che aveva accompagnato Uber nella propria professione. Anche se la carta stampata lo aveva sempre rimpallato, costringendolo a occuparsi di pettegolezzi, beghe politiche e ambiente. Ma lui era nato per la vera cronaca e ora la fortuna gli aveva servito quel caso su un piatto d’argento.

    Dell’incontro avuto con i Sartori lo incuriosiva la figura di don Alessandro. La domanda che gli frullava in testa era: perché era lì? Non aveva detto molte parole, ma non gli era parso uomo in preda a preoccupazioni o conflitti particolari, a differenza degli altri due.

    Tornato in redazione, Uber cominciò a fare delle ricerche online e dopo pochi clic trovò la seguente notizia: PRETE ACCUSATO DI CIRCONVENZIONE DI INCAPACE.

    Non ricordava quel caso vecchio di cinque anni. Il prete era stato accusato di aver circuito un anziano fedele, a cui faceva da padre spirituale, per costringerlo a inserire nel proprio testamento un importante lascito a favore di una fondazione da lui seguita. Le accuse erano cadute nel vuoto, in quanto i familiari defraudati non erano riusciti a dimostrarlo.

    Un cicalino trillò sul telefono. La lucetta del direttore responsabile lampeggiava e lui alzò la cornetta.

    Senza neanche salutare, il direttore disse: «Hanno risolto il caso che stavi seguendo. È stato il marito della badante».

    «Cosa?».

    «L’ucraino. Era in una pensione in città, lo hanno arrestato un’ora fa».

    Uber ripose il telefono senza aggiungere altro e si alzò di scatto.

    Qual è la dote migliore di un giornalista? Restare concentrato e fermo sui propri scopi, qualsiasi cosa succeda. In una sola parola? Perseveranza. E Uber Morelli nel proprio lavoro era perseverante. Aspettò con pazienza nella sala d’attesa dell’ufficio denunce della questura di Varese fino a quando la chioma nervosa dell’ispettore Grazia Fiammeri apparve sulla soglia.

    «Le devo parlare» disse seguendola.

    «Non ho dichiarazioni per la stampa» lo liquidò lei senza fermarsi.

    «Non è stato l’ucraino».

    La poliziotta sbuffò. «Abbiamo i filmati delle telecamere di un distributore nei pressi del punto dove è stato trovato il corpo. Abbiamo le riprese dell’auto del marito di Zoya. All’andata sono in due, al ritorno solo uno. Sono andati a discutere sulla spiaggia e lui l’ha uccisa. Caso chiuso».

    Uber sentì un formicolio alla base del collo ma resistette alla tentazione di grattarsi.

    «Non è stato lui» ripeté.

    «Oggi il magistrato passerà a interrogarlo e lo farà confessare. In auto abbiamo trovato la borsa e il cellulare di Zoya, ma a quanto pare è stato cancellato tutto».

    «Aveva paura, ma non ha ucciso sua moglie. Dovete scavare sui Sartori».

    Grazia alzò il braccio per allontanarlo. «Vattene, ho un rapporto da redigere».

    A causa del gesto brusco, le cadde una penna dalla tasca e Uber la raccolse e gliela infilò nel taschino del giubbino.

    «Il finale del tuo rapporto non sarà come lo hai pensato» disse andandosene.

    La donna lo fissò per qualche secondo, poi alzò gli occhi al soffitto.

    Era ormai sera quando Uber selezionò un nome nella sua rubrica. Un certo Pasquale B., il cui nome era seguito dalla parola Miogni, il carcere di Varese. Avere un secondino bene informato tra le proprie conoscenze poteva fare la differenza per chi si occupava di cronaca nera.

    Mentre il telefono squillava a vuoto, il giornalista si mise a tracciare delle linee diagonali con la penna su un foglietto. Pasquale rispose al quinto squillo. Dopo i convenevoli, Uber andò subito al sodo: «Il magistrato ha parlato con l’ucraino condotto stamattina?».

    «Dicono che abbia fatto scena muta. Lo hanno pure visitato perché temevano si fosse imbottito di qualche droga».

    «Sta in isolamento? Lo hai visto parlare con qualcuno?».

    «Solo con l’avvocato d’ufficio e con un prete».

    Nella mente di Uber si accese una lampadina.

    «Che prete?».

    «Uno che viene ogni tanto a fare servizio in carcere. Ha parlato con lui dopo il magistrato».

    «Sai come si chiama?».

    «Don Alessandro, il parroco di San Giuseppe».

    Uber arrestò la penna sul foglio.

    ASSASSINIO SUL LAGO MAGGIORE recitava il titolo della Gazzetta Prealpina. E nel catenaccio, sempre a caratteri ben leggibili: "Arrestato il marito della badante. Ha confessato".

    Il giornale se ne stava sul sedile passeggero dell’auto di Uber mentre percorreva la litoranea che lo avrebbe portato sulla spiaggia di Ronco delle Monache. La giornata era soleggiata e la superficie del lago rifletteva i raggi trasmettendo un certo tepore, nonostante l’autunno. Parcheggiò a bordo via, in uno spiazzo in cui c’erano solo un paio di mezzi Anas per la manutenzione delle strade. Scese lungo lo stretto sentiero che portava alla spiaggetta e fiancheggiò il lago per un tratto. Seduta davanti a un’antica edicola, in un punto in cui la vegetazione era più intensa, trovò Dania Sartori.

    «È arrivato finalmente» disse la donna.

    Uber non disse niente e rimase in piedi davanti a lei.

    «Quando mi ha chiamato al telefono, non volevo crederci. Come ha fatto a scoprirlo?».

    Il giornalista si sedette su uno scalino accanto a lei.

    «Ho solo messo insieme delle cose che ho visto. Nel mio lavoro è importante saper osservare con attenzione».

    «Lei non sa proprio niente».

    Uber prese un paio di sassi e iniziò a girarli in mano. «Quando ho visto il corpo sulla spiaggia, ho notato che aveva un ciondolo in ambra, come gli orecchini che indossava lei il giorno in cui l’ho conosciuta. Ho immaginato fosse un suo regalo per Zoya».

    Dania portò istintivamente una mano all’orecchio.

    «Inoltre, sempre quel giorno, ho notato i farmaci che aveva sulla mensola. Molti erano per suo suocero, come quelli per il diabete, ma ce ne erano due che mi suonavano familiari: Fluoxerene e Seroxat. Farmaci per curare la depressione. La sua».

    Dania si lasciò andare a una risata isterica. «Non vorrà dirmi che ogni depresso è un potenziale assassino?».

    «No, ma un depresso è una persona sola, chiusa nel suo mondo. E quando scopre qualcuno che gli dà attenzioni e affetto gli si attacca come a un’ancora di salvezza».

    «Io amavo Zoya e lei amava me» disse la donna.

    «Amava solo i vostri soldi. Avrebbe sposato suo suocero e non escludo ci abbia provato anche con suo marito».

    «Zoya mi ha detto che è successo una volta sola e mi ha chiesto perdono».

    Uber si fregò le mani. «Avete mandato don Alessandro a convincere il marito della badante a prendersi la colpa. Scommetto che gli ha detto che gli pagherete un buon avvocato e gli darete tutti i soldi di cui ha bisogno per i figli».

    «Lui la ricattava».

    «Non è vero, erano d’accordo, ma suo cognato prete è riuscito a convincerlo e l’ucraino si è preso la colpa. Tanto con le leggi italiane tra cinque anni è fuori».

    Dania abbassò il capo. «Avevamo litigato perché se ne era andata. Le avevo chiesto io un chiarimento e per la rabbia le ho stretto forte le mani al collo, facendola cadere in acqua. Ma poi sono scappata e lei era ancora viva».

    «Questa è la storiella che si è raccontata signora?».

    «Non mi crede vero?».

    Mentre lo diceva estrasse dalla borsa una pistola. Una beretta calibro nove.

    «Cosa vuole fare?» chiese il giornalista.

    «Visto che per lei sono un’assassina, tanto vale che la uccida. Così nessuno saprà nulla».

    L’uomo sospirò. «Signora, metta giù l’arma».

    La donna allungò le braccia e prese la mira, ma in quell’istante, un paio di ombre sbucarono dalla vegetazione e le furono addosso in un attimo. Un poliziotto pelato le strappò la pistola di mano.

    «Ben fatto Morelli» disse la voce di Grazia Fiammeri.

    «Cazzo, potevate uscire un po’ prima» disse Uber.

    «Mi sarei tolta il divertimento. Sei un ottimo attore».

    Dania Sartori venne alzata a forza e trascinata lungo la spiaggia scura.

    «Quindi è finita» disse il giornalista seguendola.

    «Dove credi di andare?» domandò la poliziotta.

    «A scrivere il mio articolo sul vero assassino di Zoya».

    Lei scoppiò a ridere e aggiunse: «Lo farà qualcun altro. Tu sei in arresto per omicidio».

    «Cosa?».

    Grazia tirò fuori la pistola. «Il giorno della morte di Zoya eri qui nascosto. Stavi facendo un servizio sulle spiagge del Lago Maggiore, quando hai visto quelle due donne litigare. Le telecamere di sorveglianza del distributore hanno ripreso anche la tua auto».

    Uber deglutì. «E anche se fosse?».

    «Zoya è rimasta a terra svenuta dopo il litigio con la Sartori e tu hai pensato bene di crearti la notizia di cronaca nera che sognavi da sempre, tenendole la testa sott’acqua».

    «Ma cosa stai dicendo?».

    «Ho parlato con il tuo psichiatra. So tutto della depressione e dei tuoi sogni di diventare un grande cronista di nera».

    «Non hai prove».

    «Sul ciondolo di Zoya ci sono le tue impronte».

    Uber si portò le mani sulla fronte. «Le mie impronte? Ma come hai fatto a…».

    Non finì la frase perché la poliziotta gli mostrò la penna che le aveva restituito in questura. Ecco come le avevano avute.

    L’uomo si accasciò. «Era la mia occasione per diventare un grande giornalista».

    L’ispettore tirò fuori le manette. «I grandi giornalisti la verità la raccontano soltanto, non la creano».

    ROBERTA AVALLONE

    LO SPECCHIO DEL LAGO

    Corro 10 km tutti i giorni. Dalle 7:00 alle 8:00 del mattino. Ogni giorno che Dio manda in terra. Regolare come un orologio svizzero. Non mi ferma il caldo, non temo il freddo. Non mi spaventa assistere all’accorciarsi delle giornate durante l’autunno, né uscire col freddo e col buio d’inverno. Non ho paura dell’assalitore nascosto dietro a una siepe, perché io correrò più in fretta e veloce di lui. Posso essere più veloce di chiunque. Sono forte, mi alleno ogni giorno. Sono forte e veloce, non ho niente da temere, e poi con me c’è sempre Lena. La lego alla mia vita con il guinzaglio da corsa, ma non sarebbe necessario. Lena mi segue come un’ombra. È un Rhodesian Ridgeback. Una cagnolona di 30 chili dal manto fulvo e lo sguardo acuto. È con me da un anno; l’ho adottata dopo che la sua padrona è morta. Viviamo in simbiosi io e Lena. Ci prendiamo cura l’una dell’altra. So per certo che non permetterebbe mai che mi accadesse qualcosa di brutto. Lei corre al mio lato, io corro di fianco a lei. Siamo legate dal nostro guinzaglio d’amore. Nessuna delle due trascina l’altra. Il nostro incedere è ritmato, parallelo, simmetrico. Voliamo nella nostra corsa, leggere come nuvole. Siamo eleganti, belle da vedere. I nostri passi risuonano all’unisono, rimbalzando sullo specchio del lago.

    Ogni mattina, infatti, partiamo da Ceresio, dove vivo. Lasciamo l’auto al parcheggio di via Monti. Da lì iniziamo la nostra camminata veloce per riscaldare i muscoli infiacchiti dalle ore di sonno. Attraverso le stradine raggiungiamo la Passeggiata del Lungolago a passo spedito, poi a velocità sempre crescente. Arriviamo alla Fiammetta, una piccola spiaggia a forma di falce di luna. La visuale da questa angolazione è davvero spettacolare; l’aria è tersa e i respiri iniziano a essere più ravvicinati. I battiti del cuore aumentano la loro frequenza, e si fanno sentire in gola. Ci lasciamo il lago alla nostra sinistra. Lo specchio dell’acqua riflette il paesaggio circostante. A volte l’immagine riflessa risulta talmente fedele all’occhio da non riuscire a distinguere quale sia quella reale e quale quella rimandata. Così anche tu non sai più dove ti trovi, se in un mondo realmente esistente o se sei nel

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