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Giallo a Messina: La prima indagine di Rosa Malizia
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E-book229 pagine3 ore

Giallo a Messina: La prima indagine di Rosa Malizia

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Info su questo ebook

Un silenzio. Lungo, infinito. Poi un tuono. Dura un attimo, ma basta affinché la vita riprenda il suo corso. Enzo Micali è in coma da dieci anni. Un tuono lo desta, la sua mente torna vigile. Il risveglio avviene a Messina e la notizia occupa le pagine dei quotidiani nazionali. Un evento raro, quasi miracoloso a detta dei medici, che merita tutta l’attenzione mediatica. Attorno al suo letto si materializzano i volti delle persone che lo hanno atteso con speranza e amore. La moglie Rina, il figlio Dario e soprattutto Rosa, scrittrice e giornalista che vive a Roma e che, appresa la notizia, torna a Messina. Lei è stata l’amante di Enzo ed è la figlia di Martino, un uomo che ha perso la moglie e le redini della propria esistenza rifugiandosi nell’alcol e che ritrova la retta via grazie alla fede in Dio. Quando Rosa torna a casa, l’unico pensiero che l’accompagna è rivedere l’uomo che ha amato, ma non sa che ad attenderla c’è una verità amara. Una verità che dovrà ricostruire con pazienza unendo i tasselli di un mosaico che racconta di segreti e colpe mai rivelate. Enzo Micali non apre bocca, non guarda nessuno. I suoi occhi scrutano sereni l’orizzonte dalla finestra, ma sente tutto. Ascolta le parole che gli vengono rivolte, le verità ricostruite, i segreti riportati a galla. Solo alla fine tornerà a parlare. Una voce, la sua, che avrà la forza e la potenza di un boato fragoroso che irrompe nel cielo, lo spezza, e si fa fulmine. Una voce che esplode e riecheggia e accende l’oscurità della tempesta raccontando un’altra storia, un’altra vita, un’altra verità.

Giuseppe Steno è nato a Messina nel 1967, dove lavora come architetto all’Università degli Studi di Messina. Questo è il suo romanzo d’esordio.
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2024
ISBN9788869437625
Giallo a Messina: La prima indagine di Rosa Malizia

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    Anteprima del libro

    Giallo a Messina - Giuseppe Steno

    Capitolo 1

    Policlinico di Messina 2 marzo, ore 12:30

    L’acqua scrosciante sbatte prepotentemente sui vetri della finestra di una degenza del quarto piano del padiglione E; la Calabria, al di là del mare, sembra svanita nel nulla.

    Nella stanza entra l’infermiera Antonella che, come fa da qualche mattina, inizia a detergere con una garza umida la fronte del paziente in coma. Un fulmine ritaglia il cielo terso con una luce seghettata che si tuffa nel mare nero dello Stretto. Un fragore prolungato frana e rimbomba rompendo l’aria. Le palpebre di Enzo scattano aprendosi d’improvviso.

    Antonella fa un balzo indietro, spaventata. Poi realizza. Si affaccia dalla degenza: «Spicciati, chiama il professor Camuti!», grida senza guardare nessuno in particolare. Lungo il corridoio si voltano tutti, infermieri e dottori. Un suo collega fuori dalla porta si volta di scatto perdendo la presa dell’asta porta flebo: «Cosa succede, Antonella?», chiede esagitato mentre entra nella stanza. Riesce a vedere solo per un attimo il volto del paziente perché lei lo blocca subito: «Lillo, vai presto, non perdere tempo!».

    L’infermiere si gira, scansa l’asta porta flebo che si era parcheggiata davanti alla porta e inizia a correre trascinando gli zoccoli sanitari che gli impediscono di prendere velocità.

    Antonella si sofferma solo un attimo a guardare il collega allontanarsi, poi rientra a sorvegliare il paziente.

    Lillo percorre rapidamente l’intero corridoio, scansando con destrezza colleghi e visitatori, e proprio quando ha preso familiarità con le sue calzature riuscendo a raggiungere una buona velocità, si ferma di colpo davanti alla porta del professore, alza il pugno per bussare, ma ci ripensa. Ruota la maniglia ed entra.

    Il medico, assorto nella lettura di una cartella, ha un sussulto e lo guarda con disappunto.

    «Che succede? Non si bussa più?».

    «Si sbigghiò!», sentenzia l’infermiere senza aggiungere altro.

    Il professore scatta in piedi come una fiamma che di colpo riprende vigore e, malgrado l’età e la rotonda corporatura, inizia a correre verso la camera del paziente. Gli infermieri e i medici nel corridoio, lo guardano incuriositi mentre indietreggiano per lasciare un varco spazioso a quella andatura scomposta.

    Camuti entra, affannato per la corsa, e si ferma ai piedi del letto. Osserva il paziente. Non riesce a crederci. Enzo ha gli occhi spalancati e sta fissando il soffitto. Effettua freneticamente una perquisizione su se stesso mentre si avvicina alla testa del letto, finalmente in una tasca trova la sua penna medica, l’accende e indirizza la luce dentro una pupilla immobile del paziente che reagisce trasformandosi in un minuscolo puntino nero. Il professore si volta verso gli infermieri e i colleghi, che nel frattempo hanno riempito la stanza, li guarda in silenzio e assorbe la loro impaziente attesa. Si volge, poi, verso le apparecchiature e le ispeziona come se le vedesse per la prima volta, gira attorno al letto alla ricerca del trucco di quella magia che solo nella sua mente si azzarda a chiamare miracolo. Avverte tutti gli sguardi che gli perforano la schiena sollecitando un suo parere, ma lui si sente esentato dall’esprimere qualsiasi considerazione perché non è certo un esperto di eventi soprannaturali.

    «Professore, ci spieghi com’è possibile tutto questo?», rompe il silenzio una voce.

    Camuti la riconosce e fa una smorfia con la bocca: «Dottor Anselmo Capizzi…», è risaputo che il professore esprime fastidio quando si rivolge a qualcuno chiamandolo con nome e cognome. «… lei sa benissimo che questo a cui stiamo assistendo è un evento inspiegabile, cosa vuole che le risponda?».

    «Professore, avverto la famiglia?», interviene l’infermiera Antonella cercando di gettare acqua sul fuoco.

    «Sì, avverta la famiglia. Chiami il figlio che mi sembra meno emotivo», propone il professore accennando mezzo sorriso.

    Dario sta strappando la bustina, un tuono potente lo fa sobbalzare e parte dello zucchero di canna si sparge sul bancone. Lui sorride per il sussulto che lo ha fatto tremare di paura come quando era un bambino. Con ciò che rimane nella bustina riesce a riempire il cucchiaino per metà, lo immerge nella tazzina fumante e inizia a mescolare. Beve un sorso di acqua fredda frizzante prima di assaporare il suo terzo caffè.

    Prendere l’espresso al bar del Policlinico è diventato per lui un rito da eseguire prima di andare a trovare il padre, lo aiuta a predisporsi all’incontro in uno stato d’animo di consolante speranza, costringendo fuori da quel luogo, per lui sacro, le distrazioni dei pensieri profani stimolati dalla vita quotidiana. Appena entra nel corridoio che conduce alle degenze, si accorge immediatamente della confusione che c’è davanti la stanza di suo papà. Rimane pietrificato. Teme che suo padre si sia arreso, che adesso sia davvero finita. Nonostante in tutti questi anni abbia avuto il tempo necessario per prepararsi a questo momento, non si sente comunque pronto ad affrontare la realtà e vorrebbe solo fuggire. È stato costretto a crescere in fretta come capita spesso agli orfani, anche se lui, di fatto, non lo era.

    Raccoglie tutte le sue forze e inizia a camminare con passo incerto verso l’inevitabile. Il corridoio sembra lunghissimo, stringe i pugni, inizia a correre, mentre vede un’infermiera uscire dalla stanza e poi arrestarsi non appena i suoi occhi si posano su di lui. Si ferma qualche metro prima dell’ingresso della camera e s’indigna constatando che nei volti di quelle persone non avverte nessun barlume di dispiacere, anzi molti sorridono pure. Con irruenza, spinge chi staziona davanti alla porta per farsi largo ed entrare, creando un po’ di confusione. Quando il professor Camuti lo vede, gli va incontro. Dario lo scansa e i suoi occhi cercano il volto del padre. Non capisce, non comprende. Enzo sta guardando il soffitto. Avanza di qualche passo, incerto, dubbioso, confuso. Camuti si avvicina e gli poggia una mano sulla spalla «Si è svegliato, ragazzo mio. Tuo papà è di nuovo fra noi. Questo è un prodigio!».

    Dario non capisce subito il senso di quelle parole.

    «Si è svegliato?», chiede incredulo.

    «È proprio così», risponde il medico continuando ad abbracciarlo.

    Il ragazzo, lentamente, si divincola dalla presa del medico mentre lo sente parlare con gli infermieri.

    «Vi rendete conto?», sta dicendo Camuti. «Quanti anni sono trascorsi? Dieci? Da quanto il signor Micali è entrato in coma?».

    Dario non ascolta più. Si avvicina al padre, attratto dal colore degli occhi che è uguale al suo, si accovaccia al bordo del letto, una sensazione di occlusione alla gola lo assale impedendogli di deglutire, allora istintivamente si rifugia abbracciando il torace del padre, come si era abituato a fare spesso nei momenti di sconforto. Gli occupanti della stanza, in religioso silenzio e con gli occhi lucidi, si guardano tra di loro, sorridono e tenendosi per mano formano un inusuale girotondo attorno al letto. Quando Dario riesce a percepire il lieve battito del cuore del padre, si abbandona in una risata piena di lacrime.

    «Papà, ti sto amando con tutto me stesso», dice. Poi, voltandosi verso il professore con gli occhi sbarrati: «Può sentirmi?».

    «Non lo so, ragazzo, non lo so ancora. Tu continua a parlargli, non ti fermare».

    «Ti ho sempre considerato il mio supereroe, anche se in qualche momento di sconforto ho dubitato dei tuoi superpoteri», continua Dario con la voce impastata dal pianto, poi allunga una mano per sfiorare la barba incolta del padre. «Ho persino immaginato come sarebbe stata la mia vita senza di te. Ma quel tuono tremendo che mi ha atterrito adesso so che è stato il ruggito dell’universo che preannunciava il tuo ritorno», si ferma per inspirare profondamente e si accorge che adesso la sua vita ha un altro odore. «Sarò sempre qui con te, ti aiuterò nella tua impresa più straordinaria e ti prometto che non dubiterò più di te, mio supereroe», e gli stringe forte la mano per suggellare quel patto.

    Capitolo 2

    Dario non ha nessuna voglia di staccarsi dal padre, ma deve avvertire la madre. Esce nel corridoio e si allontana in un luogo isolato, estrae il telefono dalla tasca, si asciuga le lacrime con i polsi tremanti per riuscire a leggere il display, e fa partire la telefonata.

    «Ciao Dario, dimmi».

    Dario prende fiato, ma non riesce a parlare, mette una mano sul muro e si guarda la punta delle scarpe, sospira ancora e poggia la testa alla parete.

    «Dario che succede, dove sei?», chiede, preoccupata da quel respiro affannoso.

    «Sono in ospedale. Sono da papà», la fitta alla gola è tornata e gli impedisce di aggiungere altro.

    «Se n’è andato? Oh mio dio…», Rina inizia a piangere, era consapevole che, nonostante le sue preghiere, quel terribile momento prima o poi sarebbe arrivato.

    «No, mamma», Dario si premura a spiegare: «Non ci ha lasciati.

    Papà è vivo. È tornato!».

    «Come? In che senso?», chiede lei incredula.

    «Mamma, ti giuro che è così. Papà ha aperto gli occhi. Torno da lui. Tu vieni subito», e interrompe la telefonata per precipitarsi al letto del padre. Rina con lo sguardo perso nel vuoto, continua a tenere il telefono all’orecchio, le ginocchia si piegano sotto il peso di quell’emozione e lei crolla sul divano esausta, liberando tutte le lacrime che ha a disposizione. In quel momento entra Luciano, che da qualche anno è diventato il compagno supplente di Rina.

    «Rina, cos’è successo?», chiede sorpreso da quel pianto accompagnato da singhiozzi e mezzi sorrisi convulsi. «Cos’è successo? Perché tremi?», continua mentre, timidamente, si siede accanto a lei per abbracciarla, ma lei si ritrae subito e indietreggia, intreccia le dita.

    «Mi vuoi dire cos’hai?», insiste lui.

    «Dieci anni, Luciano. Ti rendi conto? Enzo si è risvegliato dopo dieci anni», lo dice tutto di un fiato, poi getta il telefono nella borsa e inizia a vagare frettolosamente per la stanza alla ricerca di qualcosa.

    «Sveglio? Ma com’è possibile? E come sta? È vigile, parla?», la incalza Luciano inseguendola.

    «Non lo so. Voglio andare subito in ospedale», risponde soddisfatta perché ha trovato le chiavi dell’auto.

    «Aspettami, ti accompagno», la ferma lui mettendosi davanti alla porta.

    «No, è meglio di no. Ti chiamo io», ribatte Rina tentando di aggirarlo.

    «Rina, in questo stato non sei in grado di guidare, ti accompagno io. Prometto che ti porto lì e poi, quando mi chiamerai, tornerò a prenderti».

    Rina lo guarda, tace per qualche istante, poi annuisce: «Sì, forse hai ragione, grazie Luciano, sei stato sempre un amore».

    L’utilizzo istintivo del tempo passato per Luciano è una rasoiata in mezzo al petto. Ha smesso di piovere, Rina attende che Luciano le apra la portiera del SUV amaranto per farla accomodare, come lui l’ha abituata ormai da otto anni a questa parte. Durante tutto il tragitto nessuno ha il coraggio o la voglia di parlare. Luciano guida ruotando il capo a intermittenza tra la strada e Rina che, invece, non distoglie lo sguardo fisso sul suo finestrino.

    Semaforo rosso. Il SUV si ferma. Luciano sposta lentamente la mano che ha sul cambio verso il ginocchio di lei. Un rumore ovattato e intermittente rompe il silenzio, è un uomo di colore con un bicchiere di plastica che sta battendo con la mano sul vetro di Luciano. Rina grida atterrita e inizia a piangere mentre l’uomo, alla vista di quella inconsueta reazione, per paura fugge via. Luciano riparte, poi accosta e ferma l’auto subito dopo l’incrocio. Guarda Rina con la cautela di chi sta ispezionando un ordigno con il timer che ha iniziato a scorrere velocemente. Nel tentativo di scegliere quale filo deve essere tagliato per impedire l’imminente deflagrazione le sussurra: «Dai, per favore, calmati».

    «Come faccio a calmarmi? E se Enzo si ricorda, io come posso fare?».

    «Smettila di sentirti in colpa!», Luciano batte le mani sullo sterzo. «Non è stata colpa tua. Ti vuoi convincere di questo? Credevi di avere le tue ragioni per fare quello che hai fatto. Te lo dico da sempre che è stata una cazzata. Però tu non eri soddisfatta!», conclude con ironia Luciano, agitando una mano.

    «No, Luciano! Non ho giustificazioni», continua a ripetere lei tenendosi la faccia tra le mani.

    «Mi pare che hai espiato la tua ipotetica colpa e poi Enzo adesso è sveglio», la rassicura Luciano accarezzandole i capelli, convinto che la detonazione sia stata scongiurata.

    «Sono dieci anni che chiedo perdono a Dio. Dieci anni in cui ogni giorno ho chiesto perdono a Enzo per quello che ho fatto, ma la verità è che sono io a non perdonarmi», sussurra lei guardando fuori dal finestrino.

    «Al contrario di quello che pensa la gente, tuo marito non era uno stinco di santo. Quando ti diedi le prove della sua infedeltà, tu hai continuato a sperare ostinandoti a cercare il suo ravvedimento. E poi stanca delle sue bugie, insomma, in fondo cos’hai fatto di così grave? Volevi solo ridimensionare il suo ego. Volevi solo ferirlo nel suo orgoglio di maschio alfa».

    «Sì però io non potevo immaginare che sarebbe finita così».

    Luciano rimette in moto e si immette di nuovo in strada.

    «Quello che hai fatto aveva lo scopo di fargli fare una cattiva figura per riportarlo con i piedi per terra e poi, se non fosse successo quello che è successo, ecco, la nostra storia non sarebbe mai potuta iniziare», quelle ultime parole sfuggite contro la sua volontà non potevano conoscere momento peggiore per essere pronunciate.

    Lei lo fissa disgustata, avverte l’istinto di scendere dall’auto e allora afferra la maniglia, ma lui allunga il braccio per fermarla: «Che vuoi fare?».

    Rina stacca il suo braccio dalla presa di Luciano prima di esplodere in un grido isterico: «Ti sembra questo il momento per parlare di noi?».

    L’esplosione che Luciano temeva era appena avvenuta o forse era solo l’inizio?

    Capitolo 3

    "…Ma una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale come una freccia dall’arco scocca vola veloce di bocca in bocca…"

    (Fabrizio De André, Bocca di rosa)

    La notizia del risveglio di Enzo, a dispetto della ipocrita protezione della privacy, ha già fatto il giro delle redazioni.

    Quando Rina e Luciano arrivano in ospedale, trovano davanti all’ingresso principale un capannello di reporter che li aspetta, in formazione come un’armata che parte all’attacco: in prima fila brandiscono microfoni come se fossero lance, seguiti a ruota dai cameraman pronti a sparare.

    «Guarda i giornalisti sono arrivati prima di me», esclama Rina quando li vede.

    «Non preoccuparti, rimani vicino, ti accompagnerò fino all’ingresso», la rassicura lui.

    «Lo sai che, nella mia condizione, non posso rilasciare nessuna dichiarazione senza averla prima concordata con lui».

    Luciano indirizza l’auto verso l’ingresso principale, passando in mezzo ai giornalisti che imperterriti continuano a filmare e fare foto. L’auto, poi, si ferma.

    «Non scendere, ti apro io la portiera».

    Luciano gira di corsa attorno all’auto e non ha neanche il tempo di aprire lo sportello del passeggero che l’assalto ha inizio.

    «Buongiorno, signora Micali. Oggi è avvenuto un miracolo! Lei è credente?», chiede un giornalista infilando l’asta del microfono dentro la macchina con la delicatezza di uno spadaccino.

    «Quali sono state le prime parole che ha pronunciato suo marito appena si è risvegliato?», chiede un’altra con il tono di chi ha posto la prima domanda ad Armstrong dopo l’allunaggio.

    «Lasciate passare la signora!», grida con tono perentorio Luciano mentre la fa uscire dal SUV e, proteggendola con le sue braccia, la conduce verso l’ingresso dell’edificio.

    «Scusami per prima, sono stato veramente indelicato. Non avrei dovuto», le dice Luciano non appena sono davanti al portone. Ma dall’espressione tirata di Rina, capisce che quelle parole non hanno l’effetto sperato perciò prosegue sussurrando: «Adesso vado in agenzia. Chiamami quando dovrò venire a prenderti».

    Rina annuisce e varca l’ingresso dell’edificio.

    In quell’ospedale purtroppo è stata di casa per diverso tempo, veniva a trovare Enzo anche più di due volte al giorno, almeno fino a quando il professor Camuti l’aveva chiamata nel suo ufficio per comunicarle che, essendo trascorsi quasi quattro

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