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E-book552 pagine7 ore

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Info su questo ebook

A Philadelphia la vita di Danny è scandita da un tempo che sembra sfuggente, inafferrabile, mentre le sue giornate scorrono tra riflessioni, dubbi e incertezze, presentandogli momenti di misteriosi blackout. Danny vorrebbe trovare uno scopo più autentico, capire quanto c’è di vero nella sua realtà, disfarsi della monotonia e fuoriuscire dall’alienazione da cui si sente ovattato. 
Dopo il licenziamento e la rottura con la compagna, Danny parte in camper con Sebastian, l’amico che a tratti sembra quasi perseguitarlo per poi sparire nel nulla. 
Una volta a Berlino, Danny si ritrova da solo e incontra un gruppo di ragazzi che occupa una palazzina dismessa nella periferia della città. Il loro modo libero di vivere alla giornata, anche ricorrendo a espedienti illegali, lo attira, così come la bellezza della loro amica, Blu. Danny decide di aggregarsi al gruppo, di dimostrare loro la sua fedeltà, ed è così che riscopre un lato di sé molto più oscuro di quanto immaginasse. 
Le scelte di Danny lo travolgono in un vortice di incubi e identità distorte, pericoli e rivelazioni scioccanti; Jacopo Fabbrini traccia una storia avvincente, enigmatica e profonda che incolla il lettore alle pagine.

Jacopo Fabbrini nasce a Siena il 10 agosto 1994. Di origini pugliesi e badenghe, passa la propria infanzia e adolescenza fra le campagne toscane per poi spostarsi a Bologna, dove consegue la laurea all’Almamater Studorium, indirizzo DAMS. Da sempre amante della scrittura, elabora la propria passione prima attraverso la stesura di testi musicali e successivamente con l’editoria online.
LinguaItaliano
Data di uscita4 mar 2024
ISBN9788830696761
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    Anteprima del libro

    Then - Jacopo Fabbrini

    Nuove Voci – Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una Vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    A Flo.

    Avevo la sua bocca a un centimetro. Il sole ne rifletteva i lineamenti, il suo volto era vuoto, gelido, così vicino da poterne sentire il sapore. Conosci l’odore del vento? Quel momento sottile, in cui ogni movimento è una danza e qualsiasi risposta sembra inutile. Fermo davanti a lei mentre il cielo diventava rosso, un boato sordo, il secondo prima tutto si era fatto chiaro. La mia vita, in un attimo. Certo, il mio tempo era scaduto, ma il silenzio colmava lo spazio che ci separava. Un sorriso, quanto vale? E la giornata... fredda. Così fredda.

    -36

    «Che ore sono?»

    Il sole picchiava forte sulla fronte. Non ricordavo molto della sera prima, forse qualche bicchiere di troppo, o forse non c’era molto da ricordare. Deambulavo senza forze in cerca di qualche rimasuglio di tabacco, le cartine, un filtro. La testa si era fatta pesante, quanto tempo era passato? Un tiro dopo l’altro il vuoto che avevo dentro sfumava: ironico, riempire il silenzio con i sospiri... non avrei potuto ignorare chi ero per sempre. Ma questo non lo sapevo ancora.

    «Chi c’è?»

    Mal di testa. Che... che ci faceva lì? Quelle ombre. Quella notte, morta. E... E il freddo... Ero salito giusto un attimo. Solo per... Per? Forse avevo sentito dei rumori. O forse non ne avevo sentiti mai, e adesso cercavo un po’ di vita.

    «Chi sei tu, semmai.»

    Il vento e dopo il cielo. Aria, poca. Il vento e dopo il cielo.

    «Sono...» ... «Sono nuovo.» ... «Del condominio, dico.»

    «Okay, nuovo.» ... «E che ci fai sul tetto?»

    Il vento, le ombre, il sole. Così grande. Nessuna risposta.

    ***

    Le strade erano meno buie di quanto ricordassi, il sole batteva sui tergicristalli e spalancare gli occhi era difficile. Camminando rivedevo le facce di una vita, ma per me non avevano spessore: il macellaio, il tabaccaio, il vicinato e il suo vociare. Cosa ci facevo là? Come un’ombra percorrevo la stessa strada di sempre nello stesso modo di sempre, le cuffie non mi hanno mai isolato davvero per quanto ci sperassi. E se provavo a pensare le note sparivano, ogni sussulto intorno a me diventava boato, e ogni istante guadagnato sembrava un passo in più verso qualcosa che non riuscivo ancora bene a delineare. Non mi sono mai definito un sognatore ma di sogni ne ho avuti: cantante, veterinario. Amore.

    «Amore...»

    Era ormai mattina e la voce di Jess arrivò come un tuono. Il sole filtrava attraverso la serranda.

    «Cos’hai?»

    «Nulla.» Era davvero nulla? «Il solito incubo.»

    Il suo volto si schiarì. Mi guardava. Io no. Un fare assertivo, di chi ti è vicino anche se non può realmente esserlo. I suoi capelli crespi corvini poggiavano sul mio braccio mentre con le dita mi accarezzava la nuca, credo sperasse che non mi sarei mai alzato. Ma era tardi e io dovevo andare al lavoro. Quella mattina era nebbia. Ombre. Cucina, vialetto, strada. Strada, metro, ufficio. Ma cosa ci facevo già sul divano? Eppure, sembrava un attimo dal suo volto. Dicono che i contorni si assottiglino quando l’oggetto del desiderio sembra irraggiungibile, e quella distanza mi aveva sempre confortato: mi trascinava in una zona d’ombra che, razionalmente, assomigliava al piccolo angolo di paradiso che meritavo.

    «Ti sei mai chiesta quanto di reale ci sia in quella che chiamiamo verità

    «...»

    «Sinceramente.»

    «Sinceramente?» ... «Sinceramente...» ... «No. Non dopo tutto quello che ci sta capitando nell’ultimo periodo, almeno. Anche se, a pensarci bene...» ... «No, non credo di essermi mai posta il problema, non sono il tipo che pensa alle cose, quando inutili. Non ne ho il tempo! Mi piacerebbe perdermi ma non me lo posso permettere. Non voglio dimenticare chi sono.»

    Tutto molto chiaro. Domande stupide per gente annoiata. Forse era solo questo, noia.

    «Rispondi.»

    Il telefono squillava ma non me ne ero reso conto. Forse non volevo accorgermene o forse non sapevo farlo. I rumori di sottofondo li ho sempre ammassati in un angolo e ammucchiati come immondizia, senza dar loro un effettivo peso. E tutto ciò che non era nella mia testa stava lentamente diventando parte di quel piattume.

    «Dimmi.»

    «Si dice pronto.» Dalla cornetta scoppiò una risata. «Ma non arrivo a pretendere tanto. Che fai stasera, esci?»

    «Sì.» No. «Come sempre.»

    Quando?

    «Devi imparare a convivere con il mondo, sai, o un giorno ne rimarrai schiacciato. Passo stasera alle nove.» Le nove? «Puntuale, capito? Stasera abbiamo uno scopo.»

    Uno scopo... ne abbiamo tutti uno. E il mio era non pensarci su: tutti abbiamo un posto nel mondo, anche quando sembra l’opposto. La chiamata si chiuse senza bisogno di salutarsi, nessun a presto o arrivederci, perché in fondo in fondo non siamo mai davvero lontani da ciò che ci appartiene. Gli amici, gli affetti, i momenti che avrei voluto cancellare e le giornate lente, gli anni che si accatastano. Reagivo e mi comportavo come se tutto questo fosse stato mio: non sopportavo di essere tradito, ma ero io il primo a non riuscire a guardarmi allo specchio. Le lancette nel frattempo si muovevano, intorno a me si spostavano oggetti, persone, avvenimenti mutavano e ogni tanto qualche parola la esternavo. Un’ impazienza malata e un pensiero fisso, la paura di addormentarsi o la voglia di farlo: per rivivere quell’incubo, per iniziare realmente a capire qualcosa di quello che mi circondava. Secondo dopo secondo l’orologio si trasformava in ghigliottina, perché è così difficile lasciarsi andare? Dire sì come se fosse sì, dire a dopo come se fosse adesso. Decisi che quel giorno sarei uscito, che quel giorno avevamo uno scopo: mi convinsi che quella telefonata avesse il potere di stabilire cosa sarei diventato. Ma alle nove non arrivò nessuno.

    -35

    La sveglia continuava a martellarmi il cervello.

    «Zitta, cazzo.»

    Ma non c’era nessuna sveglia. Quella mattina avrei potuto restare a dormire quanto volevo. Non avevo impegni, orari. Avrei dovuto rimanere a letto? La stanchezza conforta quando non si ha nulla da fare. Fa sentire impegnati, fa sentire vivi. E Dan voleva davvero vivere? Il paesaggio diventava sempre più astratto, non riuscivo a capire bene dove fossi. Poi suonò la sveglia: ma io non ero stanco.

    «Ancora quell’incubo?»

    Rimasi un attimo in silenzio.

    «Già.» ... «La gente che cambia idea mi fa schifo.»

    Misi le scarpe e uscii. Quella giornata decisi di dedicarla a me: non andai in cucina, neanche nel vialetto, figurarsi in strada. Non presi la metro, non raggiunsi l’ufficio, e non tornai sul divano. Ero sul tetto da molto tempo ormai quando giunse la prima stella, i miei occhi cercavano le costellazioni, ma il cielo quella notte mi sembrava troppo distante per poter essere compreso. Una sensazione di calma invadente continuava a schiacciarmi lo sterno e il vuoto che avevo dentro mi dominava, lento, riflettendo ciò che avevo intorno. Non mi definivo triste. Ma nemmeno felice. Ridere e sorridere non sono proprio la stessa cosa, no? In quella storia decidevo io cosa importasse ma l’orizzonte era freddo. Il rumore dei grilli così insistente. Sulle scarpe i rimasugli di cenere venivano spostati dal vento, mentre l’odore di salsedine proveniente dal mare si mischiava al silenzio della notte. Potevo davvero chiamare forza quella gelida indifferenza? Abbozzai un sorriso fra me e me, che poi, me e me sono sempre state le due persone su cui ho fatto maggior affidamento. Sorridergli non mi è mai pesato, anche se ho dovuto sforzarmi per farlo: loro hanno sempre compreso la mia bugia e l’hanno rispettata, nessuna vuota frase di risposta, nessun atteggiamento di commiserazione. Due parti di me così distanti, ma allo stesso tempo tanto sincere.

    «Ieri non ti sei fatto vedere.»

    «Avevamo uno scopo, ricordi?» Sebastian era a sedere accanto a me. Non l’avevo sentito arrivare, non l’avevo visto nemmeno poggiarsi al mio fianco, ma quando si alzò notai la sua assenza. Le parole uscirono spontanee.

    «Sento che mi sto avvicinando. Non so bene a cosa, ma sento di essere abbastanza forte da poter percorrere una strada che non conosco. Ti sei mai sentito così?»

    Ma lui se ne era già andato. Tornai a sorridere.

    ***

    Driiin. La sveglia stava suonando ma io l’avevo spaccata la sera prima, appena tornato in appartamento. Quell’incubo iniziava a piacermi, e accettandolo vedevo i contorni che lo delineavano. Sembrava tutto così familiare: una stanza, un letto, una persona a fianco a me che fingeva sorrisi colmi di lacrime, musica? Sì, sembrava musica, anche se non c’era nessuno stereo. Forse era il rumore del sole, quando camminavo per strada le nuvole ne coprivano il canto ma adesso tutto sembrava più facile. E se rimanessi qui per sempre? Se oggi non mi svegliassi?

    «Buongiorno.»

    Non mi ero mai accorto che il mio comodino avesse un piede asettico. Il cassetto mi ha sempre spaventato, non mi ricordavo neanche cosa contenesse realmente, decisi tanto tempo prima che quello sarebbe stato il posto dove avrei sepolto le parti di me che non reputavo giuste. Era un mio modo di razionalizzare: creare spazio fisico per concetti astratti, mi conferiva un po’ di ordine mentale e un po’ di calma, pensare che tutto ciò che mi crea disturbo è sigillato, lontano. Stavo sorridendo ancora.

    «Ho detto buongiorno!»

    «Scusa... stavo pensando. Buongiorno.» Abbozzai un sorriso. Non mi voltai. «Vuoi del caffè?» La cucina era fredda. Deve essere stata domenica perché si stava avvicinando il tramonto: che giornata inutile per rompere una sveglia. Dovrò andare a comprarne un’altra, pensai, o rischio di non avere più le disponibilità per ritagliarmi i miei spazi di nulla. Il caffè stava per bollire, nella stanza dominava un odore forte di desiderio, effimero, ma sincero. Per la prima volta dopo tanto tempo, mi sentii vero. Fare qualcosa per qualcuno è un atto tremendamente egoista, è come ricordare al mondo che anche tu servi a qualcosa: un regalo, una parola, un momento. Qualsiasi cosa può trasformarsi in dedica, persino il tempo. Ma che ore erano? Jess si era già preparata da sola il caffè, era sul divano a guardare il telegiornale. Per quanto tempo avevo tenuto chiusi gli occhi?

    «Buongiorno Danny.» Quella mattina il letto era più caldo del solito. E quell’incubo diventava sempre più concreto... ma non era domenica. Era un banalissimo giovedì. Mi alzai per andare al lavoro, presi le mie scarpe di tela mentre disordinatamente m’infilavo la maglietta, per il caffè non c’era tempo e dopo un attimo ero alla scrivania. Guardandomi intorno faticavo a capire a cosa servissi realmente: smistare e-mail, leggere curriculum, lavoravo per un’agenzia di marketing ma non avevo mai effettivamente venduto nulla. Iniziavo a chiedermi se il mio ruolo fosse fondamentale, e la risposta mi spaventava.

    «Sei licenziato.»

    Quella sera non tornai a casa. E, su quel tetto, non venne nessuno.

    -34

    «Pensa che una volta abbiamo cotto male gli spaghetti. L’abbiamo chiamata progressista, arte? La buttammo ad acqua tiepida ma per noi c’era sempre un altro punto di vista.»

    «E dimmi, vi soddisfò?»

    «Beh, sì. In un certo senso c’era uno scopo dietro. La pasta però faceva schifo.»

    Parlare di Jess con Sebastian era strano. Sembrava che sapesse già tutto: eravamo così banali insieme? La nostra storia era stata vissuta da così tante altre coppie? Arrivato a casa giovedì le parlai del lavoro e lei non sembrò preoccupata. Mi è stata di conforto. Ci siamo spogliati e abbiamo ripercorso la nostra routine, è stato divertente: immaginarsi come quando il sole era alto e ogni giornata diversa. È stato bello. E triste. Scesi in appartamento, la notte si era fatta davvero fredda e poi non c’era molto altro da dire. Stavo diventando monotematico: parlavo di me, di lei, di noi. Quali erano stati i miei interessi? Scrivere? Cantare? Un tempo avevo un cane ma l’ho nascosto in quel cassetto. La morte non è mai qualcosa di giusto, anche se fa parte di noi. Muoversi fra le stanze cercando cartine e filtri era ormai diventato il mio unico hobby, ora che non dovevo più alzarmi la mattina e non avevo scuse per scappare dalla mia realtà. Sognare sé stessi è per alcuni un punto d’arrivo, per me gli incubi erano diventati la quotidianità. Aspettavo la mattina per quel buongiorno che avrebbe scandito il passare del tempo, senza prestare attenzione al paesaggio che mutava. In un attimo casa fu vuota e di comodini ne rimase uno solo. Nessuno mi avrebbe più chiesto il caffè, o spronato a reagire. L’appartamento si era fatto vuoto e, nonostante la malinconia, non potevo non capire la giustizia nascosta dietro a tanta sofferenza: così tanti anni a guardarsi negli occhi cercando l’altro, il tempo trascorso a capirsi, ogni istante spazzato via da un banale non mi importa. Quella sera non avevo motivo per allontanarmi ma, per capirlo, ebbi bisogno di quel tetto. «Alla fine, quindi, se n’è andata.» Sebastian non sembrava sorpreso «Ti ha lasciato. Anche lei.»

    «Le persone non se ne vanno mai veramente.» Quante bugie. «La solitudine è un concetto... superato.»

    Ma Sebastian se n’era già andato. Rimasi anche quella notte a fissare il cielo, e anche quella notte sembrava fin troppo distante. Presi quel che rimaneva di me e lo misi in tasca, scesi le scale. Non avrei mai più rivisto quel cielo così distante. E i sedili del treno erano così scomodi...

    ***

    Erano passati mesi. Ormai eravamo là che sembrava una vita intera, nel frattempo mi ero comprato un camper e vivevo come freelancer per una redazione online. Non avere un luogo fisso a cui legarmi mi permetteva di concentrarmi sulle necessità e allontanava le elucubrazioni esistenzialiste dalla mia mente. Stavo bene: economicamente autosufficiente, senza vincoli, ottima forma fisica. Vivevo ormai una routine fatta di cambiamenti, drogato dal bisogno di novità, vedevo nello scorrere del tempo un significato più profondo di quello che le lancette riescono a conferire all’orologio. Sebastian mi fissava entusiasta dal tettuccio mentre preparavo il barbecue sul prato, il giorno dopo la cartina segnava Praga. Che poi, perché Praga? Sebastian però sembrava davvero entusiasta all’idea. Ci addormentammo col sorriso, ma poi... poi la sveglia tornò a suonare.

    «Buongiorno.»

    Era un sogno o un incubo? Ormai non lo sapevo più. Andavo avanti ma la notte mi riportava là, dove le strade erano meno buie. I contorni si facevano a mano a mano più sottili e il suo volto era ancora esattamente come lo ricordavo. Buio. Con gli anni avevo imparato a capire e accettare la differenza tra realtà e verità. Mi cullavo nei miei ricordi, riproducendoli nel mio subconscio ogni volta che la mia testa poggiava sul cuscino, anche se continuavo a lavorare, e dopo suonava la sveglia, preparavo il caffè. Di tutto quel chiasso solo il tetto mi mancava davvero. Disegnare un quadro per dare un senso a quella cornice, aspettare che il tempo passi per trasformare il desiderio in speranza e la speranza in pace. Ma io non avevo mai conosciuto la guerra. Passivo, mi limitavo a osservare il mondo senza vederlo davvero. Facevo scorrere le giornate cullato da una monotonia sfiancante molto simile a una tregua scritta. E ogni volta che provavo a parlare, mi ricordavo di quella sveglia, e ogni volta che ricordavo quel ticchettio, le parole si fermavano in gola. A cosa serve parlare?

    «Questa mattina il sole è più grande del solito.»

    Sebastian mi stava fissando. Mi ero addormentato sul prato, il barbecue era in terra e i tizzoni ancora accesi crepitavano, ma il fogliame era arido. Mi alzai in maniera scomposta per continuare l’articolo da mandare in redazione, mi avvicinai al tavolino ripiegabile per recuperare gli appunti: non c’erano. Non che mi importasse ma ero sicuro di aver iniziato il lavoro. Tentai di chiamare la redazione per posticipare la consegna, ma sul cellulare non trovai il numero del datore di lavoro. Fanculo la redazione. Decisi di farmi una doccia per rinfrescarmi, poi uscii per chiedere consiglio a Sebastian, ma non trovai nessuno. In un attimo il silenzio assordante mi fece paura. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che avevo avuto paura? Quel sentimento così puro mi scaldò. Chiusi la portiera del camper e lasciai ogni cosa al suo interno. Qual era la cosa giusta da fare? Dov’era Seb? Eravamo da tanto tempo a Berlino e non mi ero mai chiesto come mai fosse rimasto accanto a me. Aveva lasciato tutto per seguirmi, che poi quel tutto... cos’era? Gli ho mai chiesto cosa facesse nella vita? Dove vivesse prima... se avesse una famiglia, degli interessi, abbiamo mai parlato davvero o era solo parte integrante di quel tetto? Sul prato accanto al barbecue i rimasugli della serata prima, e poi il vento, i miei occhi ghiaccio verso l’orizzonte. Stretto nella mano destra un piccolo pezzo di carta strappato, tutto stropicciato con sopra scritte solo due semplicissime parole: non cercarmi.

    -33

    «Perché il cielo questa notte è così scuro?»

    Io e lui.

    «Non lo so.»

    «E lei?»

    «Non lo so.»

    Intorno a noi il vuoto. Il cielo stellato, una strana sfumatura. Il fumo che diventa nuvole.

    «Dovresti parlarci.»

    «Dovrei fare tante cose.»

    «Danny...»

    «No.» Quella stanchezza. «Non oggi. Non è stata colpa mia. È semplicemente arrivato quel momento... sì, quel momento in cui si hanno un miliardo di cose da dire ma nessuna... nessuna è quella giusta.»

    Io e lui. Quel tetto e tanti ricordi. Tanto tempo.

    «A sentirti parlare non è mai colpa tua.»

    «Non c’eri. Non sai niente.»

    Il silenzio come un ancora. Nel vento il sorriso, falso. Notte dopo notte mentre il sole si nasconde.

    «Sono il tuo migliore amico. So quel che basta.»

    «Non stiamo insieme. Okay? Viene qua ogni tanto, scopiamo. Se si è fatta un’idea diversa è meglio così. Meglio scomparire.»

    «Non sei stato tu ad andartene.»

    «Appunto.»

    Quel tetto era sempre stato nostro amico. Ci aveva fatti incontrare, conoscere. Era grazie a lui che adesso eravamo insieme. E io non avevo poi molto più di quello, dopotutto. Due persone legate dalle circostanze, può un posto unire davvero? O stavamo insieme perché non c’era altro? Il tempo che si perde, ogni istante come un altro momento di un’altra vita.

    «Dovresti chiamarla.»

    «Seb.» Il vento. «Sta’ zitto un po’. E passami un’altra cicca.»

    «Guarda che poi finiscono.»

    «E noi le ricompriamo.»

    «Vuoi dire io, le ricompro.»

    «Fa differenza?»

    Un sorriso. Due, sorrisi. E il cielo che ci cade addosso.

    ***

    «Sei al quinto bicchiere, sveglia.» Il barman pareva scocciato. «I posti sono riservati ai clienti. Per dormire ci sono gli ostelli.»

    Da quanto tempo ero là? Ero davvero collassato per qualche bicchiere di Whiskey? Mi sentivo debole, ma a giudicare dalla luce filtrata dalla serranda non si doveva ancora essere fatta sera. Potevo reggere qualche altro bicchierino.

    «Passami una birra per rinfrescarmi, Kit.» ... «Per favore.»

    Bevvi la mia birra al bancone, in silenzio, fissando il piccolo televisore appoggiato alla mensola oltre la cassa. In quel momento stavano mandando una partita di rugby, il pilone della favorita aveva subito un grosso infortunio e nell’aria c’era molta tensione. La maggior parte dei presenti in sala probabilmente partecipava al giro di scommesse di Vicky: bel posticino, la Berlino notturna, se avessi avuto occhi per capirlo forse mi sarei potuto divertire anche io. Sono sempre stato un tipo lento: a fare, a capire, a bere? Era quasi mezzora che avevo quella pinta davanti ed era a malapena a metà. Spesso mi perdo nei pensieri ma non ricordo quasi mai su cosa rifletto, credo sia il mio modo di evadere. C’è stato un tempo in cui le responsabilità erano un piacere e in quei giorni guardarmi dentro mi incuriosiva. Tutto quello che avevo costruito in anni di fatiche si era dissolto nel nulla, ora ero completamente solo in una città che conoscevo a malapena e con pochi spiccioli in tasca, non avevo un posto da definire casa, non avevo legami: e la cosa che più mi spaventava è che sotto sotto, non mi importava poi molto. C’era però quella sensazione stanca tipica dei sogni infranti che aleggiava sulla mia testa: me la portavo dietro da tanto tempo, quasi mi ci cullavo.

    «Dov’è Vicky?» Forse dovevo iniziare a capire meglio quella realtà. «Sul retro?»

    «Sul retro.»

    Il retro di Kit era un luogo magico: chiunque poteva comprarsi un po’ di felicità. Che fosse droga o sesso, il brivido della vittoria o la mestizia della sconfitta, superare quella porta bianca faceva scomparire la noia. Sebastian era solito venirci ma non so esattamente a fare cosa: non me lo immaginavo strafatto su un divanetto a smacellare, tantomeno al banco con le fiches. Qua sembravano conoscersi tutti: ridevano e scherzavano, molto spesso arrivavano alle mani, sì, ma non c’era odio, goliardia forse? Certo, c’era anche chi sembrava non riuscirsi proprio a sopportare, ma era un po’ come una famiglia dopotutto. Il mio ticchettare nervosamente le dita sulla cintura sono sicuro che desse noia a parecchi: qualcuno mi fissava, per altri sembrava di essere a casa e rispondevano chi è ogni volta che la porta sbatteva... anche se era stato il vento. Mi appoggiai al muro e iniziai a scrutare davanti a me cercando di orientarmi, ma mi ero praticamente scordato perché fossi là. La mia vita dopotutto è sempre stata un susseguirsi di eventi lasciati al caso: momenti di monotonia, attimi di gioia, le novità che diventano routine, la routine che uccide e lascia carcasse, ordinario insomma.

    «Ehi.» Una voce femminile mi chiamò. «Dacci tutto.» Una ragazza di media statura dagli occhi marroni mi stava guardando. Aveva una camicia di flanella verde, i suoi capelli rosso fuoco. Dietro di lei un numero indistinto di persone mi fissava ridacchiando.

    «Ma io non ho niente.» Ed era vero, cazzo se era vero. «Sto solo cercando un amico.»

    «Che ne sai, potresti appena averne trovata una.» La ragazza scoppiò a ridere. «Ti prendo in giro, tranquillo. È che ti vedo spesso venire qua da solo. Non hai nessuno?»

    «Te l’ho detto, sto cercando un amico.»

    «Okay, allora. Io sono Erika comunque. E lui...» Un ragazzo moro, sulla trentina, abbastanza alto da non passare inosservato si avvicinò. «È Lars.»

    «Piacere di conoscerti.» La sua voce era stranamente confortante «Un tiro?»

    Feci un tiro. La mia gola s’infiammò e sputai fantasmi, nubi calde riempirono la visuale mentre il gruppetto si presentava. C’era Gin che si definiva la capetta e aveva uno sguardo davvero malizioso. Klaus, ma di lui non capii molto se non il nome: rachitico, calvo anche se abbastanza giovane, sembrava non volersi esporre troppo. Kross, capelli biondi e occhi scuri, autoritario quanto basta per venire di persona a stringermi la mano. E poi c’era Blu. Blu. Occhi verdi, capelli castani. Occhi verdi. Era solare e sboccata, felice direi. Occhi verdi. La stanza si riempì di colore, per la prima volta il mondo cominciava a girare e il tempo riprendeva a scorrere. Occhi verdi.

    -32

    Dopo quell’incontro fu tutto più facile. Scoprii che non erano esattamente amici di lunga data, quanto piuttosto coinquilini di un centro occupato poco distante. Eravamo rimasti al locale poco tempo, Gin doveva vedersi con suo padre e a noi toccò accompagnarla fino alla stazione. L’aspettammo in un posto orribile dove veniva servito del doner kebab, chiacchierando del più e del meno. Argomenti di poco conto, ma nonostante il posto l’attesa parve breve.

    «Fatto.» Quella ragazzina maliziosa sbucò dall’entrata del locale. «Andiamo, dai. Torniamo a casa per favore.»

    «Devi smetterla di dargli retta.» Erika si intromise. «Lui ti chiama, e tu vai. Poi non esisti. Poi una telefonata e scatti. Chi è l’adulto dei due?»

    «Ha bisogno di me.»

    «Esatto: ha bisogno. Dubito ti cercherebbe altrimenti. Sveglia, hai vent’anni e vivi in una palazzina dismessa in periferia. Frequenti gentaccia come Klaus – scusami Klaus – e ragazzine viziate tipo me. Lui se ne fotte di te.»

    «Sei con noi solo da qualche settimana e già mi fai la predica. Che palle. Sbaglio a dare troppa confidenza agli estranei.» Gin abbozzò un sorrisetto di sfida. «Lo so che ti preoccupi per me. Ma non c’è motivo. Quindi, andiamo?»

    Mi portarono alla palazzina ed era così alta... forse fin troppo. Ero incuriosito da come quella manciata di ragazzi riuscisse a tirare a campare: vivevano di piccoli lavoretti su chiamata e qualche furtarello, Erika era contraria all’illegalità ma Lars era una testa calda, un vero vulcano, sembrava proprio uno di quelli che detesta guardarsi intorno. Sì, insomma, una di quelle persone un po’ altezzose, simpatico sì... Eravamo arrivati solo da pochi momenti ma già tutti avevano fame, ora di cena? Forse no ma non era importante. Non c’erano vere e proprie regole, no, ci si aspettava solo che ognuno facesse la propria parte: chi si preoccupava di andare a comprare il cibo, chi puliva la cucina dal disastro della sera prima. C’era affetto in tutto quel disordine, c’era la mia nostalgia e la loro forza. Gin trattava tutti come impiegati ma non ci metteva cattiveria, in quei cinquanta kili scarsi di ragazza c’era nascosta una capacità organizzativa non da poco: gestiva i fondi, assegnava i ruoli, faceva di tante individualità diverse un’unica macchina di sopravvivenza. Sono sempre stato affascinato dalla figura del leader, si assume così tante responsabilità da rimanerne spesso schiacciato e non ha nessuno con cui confidarsi. Gli errori pesano come macigni, e se tutto va bene? Tutto va bene, è la normalità e non si apprezza mai la normalità. La figura più enigmatica rimaneva Klaus: silenzioso, se ne stava nel letto la maggior parte del tempo. Lars lo considerava fortunato. Al contrario degli altri, infatti, lui aveva una fonte di sostentamento: gli era stata diagnosticata una sindrome paranoide molto rara ed era stato considerato inadatto all’ambiente lavorativo, il governo gli passava il minimo indispensabile per vivere dignitosamente. Seppi che era amico stretto di Kross, che entrambi erano arrivati poco tempo prima sotto invito di Lars e che nessuno sapesse cosa facessero prima. La palazzina era in piena periferia, troneggiava sul panorama e, sebbene avesse solo due camere agibili, ai miei occhi sembrava una reggia, così lontana da quello che ero da suscitarmi genuina curiosità. Non so dire precisamente cosa mi avesse attratto, ma una volta entrato capii che quel posto era speciale... Aspettai fino all’ora di cena prima di azzardare la proposta.

    «Posso trasferirmi qui?» Quel posto mi piaceva davvero. «So badare a me stesso e posso aiutare voi. Davvero.»

    «Ti chiami Dan, giusto?» Klaus mi guardava fisso. «Dan o Danny?»

    «Danny, per gli amici.»

    «E tu sei nostro amico?» Il suo sguardo si fece ancora più sottile. «Bevi questo.»

    Quello che mi stava porgendo sembrava Whiskey, tenuto in una boccetta semitrasparente dal tappo blu. Feci per aprirlo e versarlo nel bicchiere.

    «Sai cosa fa il Whiskey, Danny?» Continuò Klaus. «Sterilizza. Ne porto sempre un po’ con me, anche se cazzo io non bevo. Tu bevi però. Sei sporco dentro?» Le sue parole erano taglienti come vetro ma il suo sguardo lo tradiva. Scoppiò una risata fragorosa, intorno vidi felicità e io inizi a sentirmi... in pace. «Benvenuto, Danny»

    «Ora che hai l’approvazione di Klaus è tutto a posto, direi.» Dall’altro capo della tavola, Lars se la rideva di gusto. «E dimmi un po’, per caso ce l’hai un lavoro? No? Quindi vieni ad aprire motorini con me?»

    «Lars!» Erika pareva scossa. «Minchia oh, sei uscito da manco una settimana e già vuoi fare casino, ma dico che c’hai ti manca qualcuno là dentro? Inventati qualcosa di normale tipo, chessò, vai a portare le pizze, fa’ il gelataio. Che ne diresti se il motorino fosse il tuo?»

    «Io non comprerei mai un motorino.» ... «E dai, Eri, Tranquilla. Ci pensa Gin a me. Mi tiene al guinzaglio...» Nelle fredde parole di Lars c’era così tanta dolcezza. «Ed è pure stretto.»

    «Guarda, Larry, che mica stiamo insieme.» Gin, alla mia destra, si era fatta rossa. «Per me puoi anche morirci in cella, basta che non ci trascini tutti. Ti immagini dei poliziotti qui? Come gliela spieghiamo? Salve gente, abbiamo visto questo palazzo dismesso e abbiamo deciso di farne una casa, venite che vi presento lo schizzato paranoide che presidia il divano» Scoppiò a ridere. «Sei così cretino che non c’arrivi proprio. Passi la prima, ma la seconda volta iniziano a pensare che tu abbia un giro. E qualcuno qui è ancora considerata una persona rispettabile...» Concluse tossendo. «Più o meno.»

    La cena continuò fra vociare in sala e bicchieri che si alzavano, un piatto si ruppe, fumammo fino a tarda sera nella noia di qualche partita alla playstation, poi un film di serie B dato alla tv. In casa eravamo rimasti solo io, Klaus e Gin e devo dire di non aver mai passato un venerdì sera più affollato. Non sono mai stato tipo da feste, spesso restavo a casa a leggere o a dormire, non ho mai cercato compagnia e le poche persone che mi circondavano risultavano più un caso che una scelta. Cosa era cambiato? Qualcosa mi aveva fatto iniziare a interessare al mondo. Qualcosa che non avevo, che volevo, che mi obbligava a rimanere vigile negli attimi, qualcosa da aspettare che mi impediva di rimanere passivo e anzi, mi spronava a crescere stimolando la mia attenzione ai particolari. Il continuo domandarmi se l’avrei rivista mi teneva sveglio, volevo provare un brivido. «Perché non sei uscito, Klaus?» Gin stava andando a dormire. «Io domani lavoro, vi abbandono presto. Potevi divertirti stasera.»

    «Io esco solo per andare da Kit.» La risposta di Klaus fu decisa. «E poi c’è Danny qui con me. Vero, Danny? Ci divertiamo stasera.» Non ero stanco, non avevo nulla da fare. Non avevo nulla in generale.

    «Dov’è Blu?»

    «Blu? Blu non vive qui.» Gin parve sorpresa. «O meglio, sì e no. Passa ogni tanto, ha un posto letto ma solo perché avanza. Non fissartici troppo.» Sbuffò. «Notte Klaus. Fai il bravo, Dan.»

    «Allora che dici, sei già innamorato?»

    Klaus mi punzecchiava. Ma non era amore. Quel giorno un gruppo di ragazzi si avvicinò per conoscermi, una aveva la camicia di flanella e un altro era troppo alto per passare inosservato. Ma lei... lei. Lei era occhi verdi e un nome di sfuggita, mormorato con qualche minuto di ritardo e dalla bocca sbagliata. Lei.

    -31

    Quella notte mi sistemarono con Klaus. Credo volesse tenermi d’occhio. Rimasi stupito la mattina nel vedere Erika dormire nel sacco a pelo accanto a me: non immaginavo le camere fossero miste. A pensarci bene però non mi sorprese che un paranoico come Klaus preferisse la compagnia femminile. Mi misi le scarpe, andai in cucina, tutto sembrava così normale, e preparare il caffè non mi annoiava più così tanto. Quel giorno sarei dovuto andare a cercare lavoro, il mio spirito d’iniziativa era prossimo allo zero ma il mio senso del dovere non ne aveva mai risentito eccessivamente. Mi ero fatto licenziare, avevo perso la mia ragazza e il mio migliore amico se n’era andato ma ero vivo, no? E quella notte non avevo avuto gli incubi.

    «Buongiorno tizio.» Gin entrò in cucina, prese il mio caffè, si sedette «Danny non mi piace. Devo trovarti un soprannome. Barry ti piace?» Iniziò a fissarmi divertita. «Vediamo... Danny... Ti chiamerò Din, o Don.» Scoppiò a ridere. «Din Don Dan.»

    «Non fa così ridere.» Non faceva affatto ridere.

    «Questo perché sei noioso. A volte si può sorridere anche per gentilezza, lo sai? Cazzo sei più serio del cemento. Ci sono, ti chiamerò Grigio. Facciamo Grì. Blu mi ricordava il cielo, tu sei più simile a un mattone.» Gin sembrava stranamente maliziosa «Pe-san-te!»

    In effetti sembrava strano. Blu era un nome troppo particolare per essere possibile.

    «E Blu come si chiama davvero?»

    «Blu! Perché, non ti piace? Per noi è solo Blu. Comunque, non deve piacerti per forza.» Gin tornò a sbuffare. «E poi lei è amica mia, mica tua. Manco la conosci e ti sei già fissato? È già la seconda volta che mi chiedi di lei... Sembra il gioco delle coppiette. Io con Lars e tu con Blu. Chissà che a Erika non piaccia Kross!»

    «Lascia fuori Klaus.»

    «Lui ci protegge. E poi penso sia gay, sai. Te lo prendi tu?» Scoppiò a ridere. «Sto scherzando, scemo. Nessun gioco delle coppiette.»

    «Però a te interessa davvero Lars.»

    «E tu pensi davvero a Blu.» Gin mi aveva incalzato. «Vabbè, io devo uscire. Ci vediamo dopo, Grì.»

    La porta si chiuse e tornò la calma. Quanto tempo era che non tenevo una conversazione così? Quand’era l’ultima volta che avevo riso, scherzato, quanto era che non provavo quella strana situazione di imbarazzo? La casa di mattina era davvero silenziosa, mi accorsi che per essere un centro occupato era tenuta davvero bene. Sembrava scontato ma probabilmente il mio vecchio appartamento non avrebbe retto il confronto. Andai in salone e una piccola palla di pelo si avvicinò: il giorno prima non mi ero reso conto ci fosse un gatto. Era rosso striato, non aveva medaglietta ma era amichevole, mi si strofinò sulle gambe un po’ poi si appollaiò sul divano a fissare la televisione spenta. Mi accorsi di quanto fossimo simili: entrambi guardavamo un mondo che non conoscevamo attraverso una finestra chiusa. E no... non potevamo capirlo. Non ce ne accorgevamo. Sei ragazzi senza volto e tante ombre, nello schermo adesso una realtà fatta di sogni. Speranza. Presi il cappotto, misi le scarpe, feci per aprire la porta che dava sul vialetto ma una mano mi bloccò.

    «Vieni con me» Lars pareva serio. «Non è per i motorini.»

    ***

    Camminammo tutta la mattina, Lars si fumava una sigaretta dopo l’altra mentre il grigiore della periferia di Berlino si sforzava di far sembrare quell’estate un autunno. Passammo a fare la spesa, a riscuotere qualche spicciolo dagli allibratori locali. Comprammo un po’ d’erba, Lars mi spiegò le routine, cosa evitare, che posti frequentare. Mi presentò a un tipo strano, Jorge si chiamava, a quanto pare gestiva una sala da gioco poco raccomandabile, un posto non molto affollato ma dove era facile procurarsi qualche soffiata per alzare due spiccioli.

    «Lui. Vedi lui?» Fermi adesso davanti a un discount, Lars stava indicando un ometto minuto, sguardo nero e capelli mossi. Attraverso il vetro sembrava un commesso come un altro. «Lui invece è uno di quelli che sa tutto.»

    «Ed è una cosa utile?»

    «Diciamo che di solito, quando hai bisogno di un tipo così, è già troppo tardi. Però sì, meglio sapere chi è.»

    Gli fece un cenno con la mano. Quanti anni poteva avere? Ci fissava adesso con la faccia scocciata. Non sembrava molto affidabile.

    «Come si chiama?»

    «Greg.»

    Le strade erano così rumorose. Il giorno prima a cena, invece... c’era stata così tanta pace. Gli avevo parlato del mio continuo vagabondare degli ultimi mesi, sapeva che era da poco che mi trovavo là e se dovevo inserirmi, secondo lui, dovevo farlo bene. Continuammo la nostra camminata mentre il sole lentamente si abbassava al nostro livello, all’inizio era strano ma dopo poco c’avevo fatto l’abitudine: mi fece memorizzare tutti i possibili punti di riferimento comuni presenti nella periferia nord-est, mi diede una cartina dettagliatissima per permettermi di muovermi meglio anche da solo. Cercò di farmi sentire a mio agio e ci riuscì, dopotutto ero sempre stato bravo a confondermi con l’ambiente e le persone non mi spaventavano. Semplicemente, non suscitavano il mio interesse: non potevano scalfirmi.

    «Mi stai simpatico, Danny, ma ci sono delle cose da mettere in chiaro.» Stavamo mangiando un trancio di pizza seduti alla panchina quando la sua voce cambiò tonalità. «Ieri ti sei divertito, ci siamo divertiti, abbiamo scherzato. Oggi non lo sappiamo.» Molto, seria. «E domani neanche. Questa è la nostra vita. Io mi guadagno da vivere facendo cose di cui spesso mi vergogno. Klaus è uno schizzato. Erika? Solo una ragazzina che vuole divertirsi, fra qualche settimana probabilmente si sarà annoiata e non la vedremo più. Kross... Kross è Kross. Un po’ freddino ma ha le idee chiare. La nostra non è una famiglia, è un’azienda. Non firmi un contratto e quando vuoi puoi andartene,

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