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Romanzi di fantascienza
Romanzi di fantascienza
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E-book481 pagine5 ore

Romanzi di fantascienza

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Info su questo ebook

Armi letali di ultima generazione, astronavi disperse tra le nevi e lontani pianeti governati da leggi ferree.
Scopri la raccolta di romanzi sci-fi di Franco Enna, uno dei padri fondatori della fantascienza italiana.
LinguaItaliano
Data di uscita2 lug 2024
ISBN9788727128252
Romanzi di fantascienza

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    Anteprima del libro

    Romanzi di fantascienza - Franco Enna

    Franco Enna

    Romanzi di fantascienza

    SAGA Egmont

    Romanzi di fantascienza

    Copyright ©2023, 2024 Franco Enna and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788727128252 

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Relè nero

    RINGRAZIAMENTO

    Esprimo la mia riconoscenza a Patrizio Frigeri, di Lugano, per la sua preziosa e sollecita collaborazione scientifica.

    AVVERTENZA

    I fatti narrati in questo romanzo sono inventati; i personaggi che vi agiscono non sono assolutamente reali e qualunque riferimento a persone esistenti o esistite dovrà essere considerato del tutto casuale. Se qualcuno volesse eccepire che esiste colui contro il quale si era ordito un attentato, a costui ricordo che nella realtà altri attentati sono stati effettuati contro la stessa persona, per fortuna andati a vuoto. La mia fantasia quindi non vuole essere una indicazione bensì una denuncia contro certi sistemi adottati per sovvertire un ordine costituito e serenamente accettato da un popolo.

    L’Autore

    ANTEFATTO

    Non si trattò di una vera e propria persecuzione; onestamente non potrei affermarlo. Se un’azione di disturbo vi fu, avrei potuto definirla assedio. Assedio telefonico. Il che non attenua le tue reazioni. Quanto meno, dopo uno squillo, nel sollevare la cornetta ti aspetti un rumore, non so, uno sfrigolio, un segno di occupato. Il silenzio totale ti disturba, specie se avverti che all’altro capo del filo c’è una persona che, dopo averti chiamato, non si decide a parlare.

    La prima volta non vi prestai attenzione, tanto più che in Italia le linee telefoniche si direbbe che siano state installate a titolo puramente decorativo; in ogni caso risentono della bizzarra follia di cui amano fregiarsi gli italiani denominandola vezzosamente individualismo, genialità e così via.

    Il secondo squillo mi sorprese nel pieno di una scena drammatica: il protagonista della sceneggiatura che stavo scrivendo, privo di armi ma imbottito di whisky, si sarebbe dovuto sottrarre a un agguato mortale. Era il 27 agosto 1975, di pomeriggio, e la città era deserta. Andai a sollevare la cornetta. Silenzio. Dovevo attribuire quella chiamata a un contatto accidentale? Decisi per il sì e tornai alla macchina per scrivere. Dall’ultima riga della pagina il tenente Walker mi urlava tutta la sua inquietudine. Non mi era simpatico; diceva parolacce e maltrattava i subalterni; a voler essere obiettivi, gli si poteva riconoscere il merito del coraggio. Niente di più. Mi carezzò l’idea di farlo friggere un po’ sulla fiamma del terrore; non potevo perdonargli la sua inclinazione alla violenza. Era quello che si suol dire un « grilletto facile » (nella scena precedente aveva fulminato un ragazzo negro che lo aveva minacciato con un coltello). Diedi un po’ di spago al killer che aveva ricevuto l’incarico di eliminarlo. Si chiamava Bill il Lungo ed era quanto di più odioso si possa immaginare. Ma volevo dargli l’illusione di essere un eroe, tanto sapevo che nella scena successiva avrebbe pagato il fio delle sue malefatte.

    Driiin.

    Ora il mio silenzioso disturbatore cominciava a esagerare. In ciascuno di noi, cittadini di collettività sedicenti civili, si risveglia una sorta di angoscia primordiale allo squillo di un telefono o al ricevimento di un telegramma. Non è curiosità: è paura; anche se non lo sappiamo. (Chi sarà a chiamarmi?, si chiede il nostro subcosciente. Che cosa sarà accaduto? Qualcuno dei nostri cari starà male? Starà bruciando la casa? Qualche ladro ferragostano si vuole accertare se l’appartamento è abitato?).

    Nessuna reazione alla mia voce. Lanciai tre o quattro improperi e riattaccai piuttosto violentemente.

    L’assedio si protrasse per tre giorni e due notti. Sì, anche di notte, il che decisamente non è piacevole. La mattina del trentuno, verso le nove, altro squillo. Non pensavo più all’Anonimo Taciturno e andai a rispondere.

    — Sì…

    Silenzio.

    Dentro di me scattò la molla dell’angoscia primordiale.

    — Insomma, vi volete decidere a parlare? Ora mi avete rotto le scatole!

    Come se, all’altro capo del filo, ci fosse stata una folla. I miei pensieri, fino a quel momento, erano stati rivolti alle vicende della sceneggiatura. Il produttore aspettava; la troupe si sarebbe riunita di lì a nove giorni. C’erano ottocento milioni di lire in ballo, e non volevo essere schiacciato da tanta responsabilità. Il produttore, un romano « de Roma», si era appellato pateticamente alla mia lealtà professionale nell’intento di farmi mantenere la data prevista. Col persistere del silenzio, la mia angoscia primordiale cedeva spazio alla mia irritazione. Ero sul punto di sbattere sulla forcella la cornetta, quando il fantasma si materializzò. Sonoramente, almeno.

    — Il signor Enna?

    Una voce d’uomo, un po’ cavernosa, di basso; accento indefinibile, forse con una remota inflessione straniera.

    — Sono io.

    — Il signor Franco Enna?

    Ero troppo curioso per stizzirmi. Comunque, cominciavo a sentirmi sollevato. Forse il mistero stava per dissolversi.

    — Sì, sì.

    — Lo scrittore?

    L’ansietà che avvertivo nella voce del mio sconosciuto interlocutore mi impedì di esplodere.

    — Esattamente — risposi con calma forzata.

    Seguì una lunga pausa. Per un momento temetti che l’Anonimo Taciturno avesse deciso di richiudersi nella nuvola del suo silenzio. Sarebbe stato un vero guaio se ciò fosse avvenuto. Avrei perduto la mia fragile pericolante serenità. Il basso invece parlò ancora.

    — Mi scusi…

    — Dica, dica pure. — Lo avrei pagato perché continuasse. Fremevo.

    — L’ho disturbata a lungo…

    — Era lei che telefonava in questi giorni?

    Esitazione. — Sssì. Non trovavo il coraggio di… Interruzione.

    Allentai il pedale della mia irritazione. Con sorprendente dolcezza dissi: — Senta, amico. Io non la conosco. Non riesco a immaginare chi possa essere. Sento però che ha bisogno di me… In fondo, non sono un orco. Non mangio nessuno. Dal momento che mi sta cercando da tanti giorni, non le pare che la cosa più semplice sia parlare chiaro, senza ulteriori esitazioni? Io risparmierei tempo e adrenalina, e lei gettoni telefonici. Che ne dice? O preferisce venire da me e chiacchierare da buoni amici?

    Mi parve di avvertire lo stillicidio della sua indecisione.

    — Non è possibile.

    — Perché?

    — Sono sorvegliato. Non mi permetterebbero di arrivare da lei.

    — Chi?

    — Loro.

    — Loro chi?

    — Lo saprà a suo tempo.

    Ora la voce dello sconosciuto sembrava avviluppata da un velo di paura che la appannava. Mi sembrava di vederlo mentre si guardava alle spalle, chiuso in una delle poche cabine telefoniche dei paraggi (potevo udire spesso voci di passanti e motori di ogni genere).

    — Senta, l’inerzia e l’indecisione non sono mai state produttive. Non posso restarmene all’apparecchio finché non avrà trovato il coraggio di spiegarmi il suo problema. Se ha cambiato idea, me lo dica, e io tornerò al mio lavoro. Quaranta persone e un regista aspettano il frutto delle mie meningi. O preferisce pensarci su ancora un po’? In tal caso, visto che siamo diventati vecchi amici, quando si sarà deciso, lasci squillare il telefono tre volte, riattacchi e rifaccia il numero. Così saprò che si tratta di lei…

    — Ha tutto il diritto di fare del sarcasmo — disse lo sconosciuto in tono decisamente funereo. — Ma, vede, se non agisco con estrema prudenza, lei corre il rischio di vedersi recapitare un cadavere in luogo di un plico.

    — Il cadavere sarebbe il suo?

    — Sì.

    — E il plico?

    — Una specie di diario.

    — Redatto da lei?

    — Sì.

    — E che lei vuole che riceva io?

    — Proprio così.

    — Perché questa preferenza?

    — Perché… Vede, ho letto alcuni dei suoi libri, e senz’ombra di adulazione debbo confessarle che mi hanno conquistato.

    — Lei è troppo buono.

    — Soprattutto uno — proseguì lo sconosciuto senza rilevare la mia interruzione, — quello intitolato Il delitto mi ha vinto.

    — Ah. Ha trovato qualche relazione tra la sua esistenza e la vicenda? — Ora ero interessato e mi misi a sedere nella speranza che la singolare conversazione si protraesse il più a lungo possibile. — Oppure…

    — Non ho il tempo di spiegarglielo… — Una lunga pausa, che fece vibrare la mia apprensione. — Sento che mi sorvegliano…

    — Ma chi?

    — Lo capirà leggendo il mio diario.

    — Senta, si tratta forse di uno scherzo? Io non…

    Il tono di voce del mio interlocutore mi rese certo della sua estrema serietà. Le parole che seguirono potevano definirsi un suo corollario.

    — Non ho più tempo. Troverà il diario nella buca delle lettere. Ne faccia quello che vuole. Però sarei felice che il mondo sapesse…

    Sembrava un commiato definitivo.

    — Aspetti, senta… Mi dica qualcosa di più… Abbia almeno…

    Mi fermai. Avevo capito che la comunicazione era stata interrotta. Dopo avere atteso ancora alcuni secondi, riposi la cornetta sulla forcella. Lì per lì ebbi l’impressione che quell’evento facesse parte della sceneggiatura che stavo ultimando, ma il fremito che mi teneva mi smentì.

    Quando entrai nell’ascensore per scendere nell’atrio, mi illudevo che si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto. Invece nella mia cassetta delle lettere trovai due quaderni cacciativi a forza e sporgenti a metà. Li trassi fuori senza dover aprire lo sportellino. Una grafia fitta e minuta copriva tutte le pagine, meno le ultime cinque. Il testo era in inglese.

    Il primo quaderno aveva anche un titolo: Avvertite il presidente!, e un sottotitolo: Rivelazioni di Anthony Migliaccio, agente della CIA.

    Debbo confessare che il sospetto che si trattasse di uno scherzo abilmente congegnato, invece di attenuarsi, si rafforzò. Le prime frasi del diario che lessi, mentre l’ascensore mi riportava nel mio appartamento, mi parvero insulse. Il produttore che sollecitava la consegna della sceneggiatura mi indusse a mettere da parte i due quaderni e a riprendere il lavoro, che ormai si avviava alla fine. Fu solo due giorni più tardi che mi resi conto che il caso, o chi per esso, mi aveva cacciato nelle mani una bomba esplosiva di estrema pericolosità, esattamente quando, nell’aprire Paese Sera, lessi tra le « ultimissime » la notizia che a Roma, in prossimità dell’ambasciata degli Stati Uniti d’America, un uomo sulla cinquantina era stato assassinato a colpi di pistola da uno sconosciuto, il quale aveva fatto perdere le sue tracce. Dal passaporto che aveva indosso era risultato che l’ucciso era un cittadino americano di origine italiana e che si chiamava Anthony Migliaccio.

    Mi ritrovai a fissare sgomento i due quaderni del diario che mani insensate avevano cacciato nella mia cassetta delle lettere. Li avevo dimenticati sul ripiano scuro di una scansia della biblioteca, e ora le loro copertine di marocchino scarlatto mi sembravano foriere di sventura. Ne lessi avidamente il contenuto. Anthony Migliaccio aveva registrato con grande cura, anzi con puntigliosità, gli eventi di cui era stato protagonista dal marzo al luglio del 1975 e che riguardavano una diabolica macchinazione ai danni di Fidel Castro. Come non prestar fede a quella narrazione tanto circostanziata? In ogni frase che leggevo avvertivo il pulsare della verità. Non mi sfiorò neppure il pensiero di distruggere il diario. Falso o vero che fosse, il racconto del sedicente agente della CIA meritava di essere conosciuto. In ogni caso il piano dell’attentato da qualcuno era pur stato concepito. Al suo confronto lo scandalo del Watergate diventava una birichinata. Il suo brutale assassinio sanciva il diritto di Anthony Migliaccio a far conoscere la sua storia, che riporto nella sua integrità, senza aver cambiato una virgola.

    Istanbul, marzo 1975 

    La cartolina con l’effigie di Abramo Lincoln mi fu recapitata nella tarda mattinata del sedici insieme ad altra corrispondenza. Nel porgermi il tutto, il baffuto portiere del Tarabya Hotel mi informò che l’automobile chiesta a nolo si trovava a mia disposizione nel garage dell’albergo.

    — Che tipo di macchina?

    — Una Opel Manta 1600, signor Migliaccio.

    Mi isolai sulla terrazza del bar, vicino alla ringhiera, al riparo di un ombrellone. Pochi metri sotto di me l’acqua azzurra del Bosforo mi rimandava i riverberi del sole di marzo. Faceva caldo. Nella piscina dell’albergo i bagnanti erano numerosi. Mi tolsi la giacca, accesi la pipa e spostai lo sguardo sui contorni della terra che si delineavano sull’altro lato del Bosforo. Laggiù cominciava l’Asia, e quella presenza suscitava in me una nostalgia dolce e misteriosa, quasi il rimpianto di paesi a me cari e proibiti. Chi può spiegare i reconditi segreti dell’anima umana? Io, figlio di italiani, nato negli Stati Uniti e cittadino americano, non avevo nulla in comune con l’Asia, eppure, forse perché scaturivano da letture e fantasticherie antiche, credevo di poter costruire ricordi di lunghe galoppate nella steppa, di veglie attorno ai fuochi dei bivacchi…

    In realtà cercavo solo di prendere tempo. Avevo intravisto l’effigie di Lincoln, ma non avevo ancora letto il messaggio. Non aveva perso tempo Wilson, il responsabile del G12. E mi trovavo in Turchia da appena cinque giorni.

    Mi chiesi (e non era la prima volta) come mi fossi trovato coinvolto in quell’attività. Non avevo nulla dello 007; nessuno dei colleghi che avevo conosciuto e frequentato sarebbe stato in grado di competere con Sean Connery. Io meno degli altri. Eravamo uomini comuni, forse insignificanti, rassegnati a un lavoro che quasi sempre diventava routine: ufficio, ricerche, archivio, indagini qua e là, molte riunioni e tante notti insonni. Per quello che mi riguardava (e per molti altri era lo stesso), non avevo mai dovuto ricorrere alla P38 ricevuta in dotazione anni prima; onestamente, forse non avrei saputo centrare un piatto a dieci metri (per questo lasciavo la rivoltella sempre in valigia). Ingannato dalla presunta banalità del mio lavoro, mi ero deciso a prendere moglie diciotto anni prima, e Kate aveva accettato con infinita pazienza l’inquieto ménage che le avevo imposto. Willie e John, i nostri figli, mi vedevano sì e no due volte al mese, e per loro quel padre sempre in giro « per affari » era qualcosa appena di più di un fantasma.

    Era stato Joe Parsons, mio vecchio compagno di università, ad attirarmi nelle spire di quel cieco congegno che è la CIA. Almeno credo che della CIA si trattasse, e il dubbio torna ad affiorare ogni volta che mi pongo la domanda. Sì, perché ufficialmente, io ero alle dipendenze della Fondazione Henry Bowman per il progresso sociale ed economico dei paesi sottosviluppati, la cui sede centrale si trova a New York, in un grattacielo di vetrocemento della Settima Strada Ovest. Lo sono ancora, s’intende, e faccio parte del G12, vale a dire Gruppo Dodici, formato da ventisette agenti, un capo e due vice. Ciascuno di noi ha compiti piuttosto elastici, che vanno dallo studio per la costruzione di una diga nello Zambia o in altri paesi africani alla ricerca delle cause ambientali che possono aver provocato il gozzo agli abitanti di una regione della Normandia. Tra questi due estremi può succedere di tutto: dal controllo dei veri obiettivi che si prefiggono i sovietici, con il lancio dei loro numerosi satelliti artificiali, all’indagine sulle attività occulte di certe banche londinesi finanziate dagli arabi; dalla analisi delle cause che hanno determinato la crescita del Partito comunista in Italia al rilevamento delle postazioni segrete di razzi a testata nucleare a Cuba. Fu proprio a Cuba che il mio amico e mentore Joe Parsons scivolò sulla buccia di banana di una imprudenza, all’epoca della tensione tra Kruscev e il presidente Kennedy: spedito in quell’isola come turista, fu trovato due giorni dopo crivellato di pallottole calibro quarantacinque. Un tragico errore, si disse, ma la bionda Margie Parsons rimase vedova con tre ragazzi dai dodici ai sette anni…

    Un cameriere mi portò una buona birra tedesca. Ne bevvi una sorsata. Poi mi decisi a leggere il messaggio di Steve. Carissimo, ti diverti a Istanbul? Visita i musei, che laggiù sono grandiosi. Quello di Topkapi, ad esempio: ne dicono meraviglie. Cordialità, Steve.

    Non avevo bisogno del codice per decifrare il messaggio. Dovevo recarmi al museo di Topkapi. Piuttosto aperto per un messaggio spionistico. (Si trattava proprio di spionaggio, poi? Non era piuttosto un cliché quel modo di agire?). La cartolina con l’effigie di Lincoln era stata imbucata a Roma due giorni prima ed era arrivata per via aerea. Nell’ordine di servizio ricevuto a New York la motivazione era piuttosto banale: ricognizione sull’atteggiamento dei turchi nei confronti dei ribelli curdi. Se quello era il reale obiettivo del mio viaggio, perché non mi avevano spedito in Iran o in Irak? Misteri delle trame di una fondazione per lo sviluppo economico e sociale dei paesi arretrati.

    Mi feci portare l’automobile all’ingresso dell’albergo. La carrozzeria era color bronzo, la targa ovviamente turca. Poiché conoscevo discretamente Istanbul, non mi ci volle molto per arrivare al museo Topkapi. C’era poca gente, tutti turisti stranieri, e soltanto uno di essi mi parve che potesse appartenere al mio gruppo. Era infatti un uomo sulla trentina, piuttosto calvo, con occhiali dalla montatura di metallo e lenti affumicate, vestito all’americana.

    Naturalmente m’ingannavo, perché poco dopo fui affiancato da una ragazza molto graziosa, dai corti capelli neri e dagli occhi a mandorla; indossava un abitino bianco a due pezzi che dava risalto al suo corpo armonioso; su una spalla reggeva una macchina fotografica e nella destra teneva una cartina della città.

    — Buongiorno, signor Migliaccio — sussurrò, — mi chiamo Gulsun e sono del G12…

    Non riuscii a nascondere la mia sorpresa. Lei ebbe un sorrisetto malizioso e m’infilò la mano sotto il braccio continuando: — Andiamo fuori, potremo parlare con più tranquillità.

    Si esprimeva in un inglese molto scorrevole, ma non riusciva a nascondere una leggera inflessione straniera.

    — Turca? — le chiesi.

    — Non potrebbe essere diversamente, a giudicare dal mio nome.

    Superammo l’andito semibuio dalla pavimentazione irregolare fino al grande portone di ferro arrugginito. Fuori, il sole mi abbagliò. Infilammo un vialetto deserto, sul bordo del quale erano allineati numerosi cannoni del XVI secolo dagli affusti malridotti.

    — Non ho mai sentito parlare di te — dissi fissandola.

    — Faccio parte del G12 da pochi mesi — rispose Gulsun in tono leggero.

    — Dov’eri prima?

    — In un college, a Londra.

    — La tua sigla di identificazione?

    — G48-7. — Si era fermata, staccandosi da me. Ora era lei a fissarmi, sempre con quella luce di malizia un po’ infantile che dava al suo volto un’aria sbarazzina. — Diffidente?

    — Nei limiti della logica.

    — È giusto.

    — Conosci il mio numero di identificazione?

    — Naturalmente: G28. Tranquillo, ora?

    Annuii. Non riuscivo a togliermi di dosso l’impressione di stare giocando a guardie e ladri. In ogni caso, Gulsun era una ausiliaria, e la sua qualifica era indicata dal numero sette aggiunto alla sigla ordinaria.

    — Hai un messaggio per me?

    — Sì… Me l’ha dato Wilson l’altro ieri a Roma. Tu una volta conoscevi uno scienziato svizzero… Wilson crede un ingegnere in elettronica o qualcosa di simile… un certo Mueller…

    — Sì. — Sull’istante rividi la figura allampanata di Hans, con quel ciuffo di capelli sempre sugli occhi e la sigaretta accesa tra le labbra. — L’ho incontrato a New York anni fa, in occasione di un congresso internazionale organizzato dalla fondazione Bowman.

    Gulsun accese una sigaretta.

    — Siete ancora in buoni rapporti?

    — Piuttosto. Ci siamo visti altre volte. Ci siamo tenuti in contatto anche per corrispondenza. Un tipo simpatico… Ogni anno mi manda, per Natale, una cassetta di specialità di formaggi svizzeri. Dimentica sempre che a me il formaggio non piace.

    Mi sedetti sull’affusto di un cannone e caricai la pipa, che accesi con tre fiammiferi. Soffiava una leggera brezza dal mare.

    — Siete amici, allora.

    — Diciamo pure di sì. — Aspettavo che continuasse. Non mi sarei mai aspettato che il timido Hans Mueller saltasse fuori come un diavoletto di Cartesio da quella discutibile messinscena. — E allora?

    — Puoi fidarti di lui?

    Mi irritava essere sottoposto a quell’interrogatorio da quella ragazza che avrebbe potuto essere mia figlia e di cui — senza giustificazione alcuna in realtà — continuavo a diffidare. Forse avevo visto troppi film di spionaggio. In ogni caso, provavo una punta di risentimento per Steve che mi aveva messo in quella situazione.

    — Ritengo di sì — risposi, — ma non so entro quali limiti. Dipende dall’entità della fiducia che dovrei riporre in lui.

    Gulsun schiacciò il resto della sigaretta con la punta di una scarpa e trasse un profondo sospiro. Mi chiesi lì per lì perché Steve si fosse servito di lei per inviarmi quel messaggio che temevo importante.

    — Non ne ho idea. A questo riguardo non posso dirti niente. Wilson ti chiede di prendere contatto con questo Mueller immediatamente, per telefono, e di dargli appuntamento per uno dei prossimi giorni. Dove risiede?

    — A Zurigo.

    — Prima di recarti a Zurigo, farai una sosta a Roma. Wilson si farà trovare all’ora e al giorno che gli indicherai all’aeroporto di Fiumicino. Potrai chiamarlo all’Hilton. Lui ti spiegherà quello che dovrai chiedere al tuo amico Mueller…

    Gulsun gettò un’occhiata all’orologio, poi si guardò attorno come se avesse temuto di essere spiata. Non c’era nessuno nelle immediate vicinanze; negli altri viali, qualche turista si affrettava verso la città. Dall’alto di un minareto, il muezzin rivolgeva ad Allah, attraverso un altoparlante, la preghiera meridiana.

    — Io vado — disse Gulsun.

    — Dove posso rintracciarti in caso di bisogno? — le chiesi.

    — Non è consigliabile incontrarci ancora. Non ne vedo la necessità. Ma io saprò se avrai bisogno di me, e in questo caso sarò io a farmi viva. Addio.

    Si allontanò con passo altero, quasi affrettandosi verso l’uscita. Mi parve che volesse fuggire da me. Istintivamente mi guardai attorno. Uno dei guardiani stava chiudendo il pesante portone del museo. Stormi di gabbiani gracidavano sulle spume delle ondate. Non c’era nessun altro. Aspirai altre due boccate dalla pipa. Mi sentivo in preda a un profondo scontento di me stesso. Non ne sapevo il perché. Ma da qualche tempo mi succedeva: quella forma di scoramento mi coglieva ogni volta, prima di ogni operazione, forse perché ne ignoravo i reali obiettivi. Perché tutte quelle reticenze? E la mia ricognizione psicologica sui ribelli curdi? Che relazione poteva avere quello straordinario popolo con la fondazione Bowman di cui facevo parte? Quel mistero, con le connesse omissioni negli ordini impartitimi, l’inquietudine che mi dominava, i sospetti che mi travagliavano, mi facevano sentire, oltre che inutile, dannoso. Ma a chi? A me stesso? Ai miei familiari?

    Quella sera stessa riuscii a parlare per telefono con Hans, che si mostrò felice di udire la mia voce dopo tanti mesi di silenzio. Mi disse che mi aspettava con ansia. Gli diedi appuntamento per tre giorni dopo. Più tardi, dopo aver prenotato un posto sul primo aereo della mattina successiva, telefonai all’Hilton di Roma. Mancavano pochi minuti alla mezzanotte. Steve mi avrebbe aspettato l’indomani alle undici nel ristorante dell’aerostazione, a Fiumicino.

    Roma, marzo 1975 

    Non vedevo Steve da circa due mesi. Gli ritrovavo la stessa grinta, lo stesso gestire lento e misurato; aveva la vocazione del complotto: persino nel chiedere l’ora a qualcuno sussurrava. Era alto e possente; le sue mani sembravano racchette da tennis; fino a due anni prima aveva avuto una folta capigliatura rossiccia, ora il suo cranio era nudo come un uovo, colpa di un principio di calvizie che lo aveva colpito dopo un breve soggiorno in Thailandia. Parlava sette lingue con assoluta padronanza; con la pistola, riusciva a colpire una moneta da un dollaro a venti passi. Nessuno avrebbe potuto batterlo nella lotta libera. Soltanto a tradimento lo si sarebbe potuto uccidere. Mi accorgo di avere descritto un eroe dei nostri tempi. Ma sotto l’involucro di quella bomba umana palpitava un cuore buono’ e onesto. Il suo profondo senso di giustizia mi dava sempre l’illusione che il mio lavoro poggiasse sul piedistallo della legittimità. Era di un anticomunismo viscerale, e ciò costituiva la sua tara, ma era capace di padroneggiare quello che lui soleva definire « un sentimento innato». Questa la sola incrinatura nella cristallina calotta della sua personalità. Per quanto mi riguarda, la penso come quel giornalista italiano che passò dalla Democrazia cristiana al Partito comunista perché nel comunismo vedeva rivalutati i veri ideali di Gesù Cristo. Ma non ho mai voluto affrontare aperte dispute in proposito; non amo le polemiche, le trovo improduttive. Ogni ideologia, nascendo nella mente, deve arrivare al cuore; in queste due zone, con echi costanti, dovrebbe agire e manifestarsi.

    Col suo bicchiere di Chivas Regal in mano, Steve mi fissava in silenzio, dopo le brevi frasi d’occasione. Sembrava che mi stesse studiando; il suo sguardo freddo sembrava l’ago di una bilancia: su uno dei piatti mi trovavo io, con la mia personalità, il mio stato di servizio, i miei sentimenti; e sull’altro?

    Non ebbi il tempo di approfondire la mia indagine, perché cominciò a parlare.

    — Tony, hai trovato Mueller?

    — Sì. Mi aspetta dopodomani.

    — Perché non domani o addirittura stasera? Potresti ripartire tra un’ora.

    — Pensavo che volessi parlarmi con una certa calma — spiegai con una lieve punta di irritazione.

    Sorseggiò un paio di volte, mentre con lo sguardo sfiorava, senza evidentemente metterli a fuoco, i due Boeing che si spostavano sulle piste dell’aerostazione.

    — Lo vedrai domani, allora — decise, e l’ago della bilancia fu ancora su di me. — Gli affiderai un incarico segreto, anzi segretissimo. Ma prima di sbottonarti, devi essere sicuro di poterti fidare di lui. Gulsun ti ha parlato in proposito, vero?

    Assentii. Ero sempre più curioso di arrivare al nocciolo della questione. L’ago oscillava, ora a destra, ora a sinistra. Avvertivo, nel mio capo, sperduta nel profondo dei suoi occhi celesti, l’ombra di un dubbio che mi riguardava. (« Mi fido? Non mi fido? », pareva che si stesse domandando).

    — Ritieni di poterti fidare di lui, allora?

    — Steve, stai menando il can per l’aia — scattai. — Perché non mi parli del tuo piano, invece? Mi pare che sia tu a non avere fiducia in me. Hai qualche motivo per diffidare?

    Il sorriso che esibì, appena accennato, si limitò a tendergli le grosse labbra.

    — Tony, senti di essere un buon cittadino americano?

    Aveva eluso la mia domanda e mi aveva messo alle corde con un’altra domanda trabocchetto, naturalmente sussurrata come una minaccia. Aveva il dono di percepire le alte frequenze dei sentimenti più reconditi, forse sconosciuti agli stessi interessati. Non era il caso di recitargli la costituzione americana, mi limitai a rispondere freddamente: — Certo che lo sono!

    — So che sei sincero. Sei convinto di esserlo. — Altre due sorsate di whisky, le ultime del bicchiere. — Finora non ti sei messo alla prova. Sì, hai sempre assolto benissimo i compiti che ti sono stati affidati, ma non hai mai avuto l’occasione di dimostrare a te stesso, e a noi naturalmente, la reale forza dei tuoi sentimenti patriottici, sentimenti che in un vero americano costituiscono la base della salvezza della civiltà nel mondo.

    Per la prima volta registravo un decibel di fanatismo nel suo tono solitamente piano, monocorde.

    — Ma che storia è questa? — Riuscii a controllarmi e, per darmi un contegno, accesi la pipa. — È tornato Mac Carthy, forse?

    Steve sciolse il guinzaglio a una risatina, tutta di gola.

    — Hai fiuto, eh? Me ne compiaccio.

    — Sarebbe fiuto il mio? Mi stai massacrando.

    Consideravo ancora con stupore la sua risatina. Era la prima volta che rompeva il calco della sua maschera facciale. (Bontà divina, la prima volta in più di vent’anni! Fui colto da un pensiero incongruo: aveva mai fatto il solletico a una donna, Steve? Come si comportava con la sua donna, ammesso che ne avesse una, dopo che Juana, la moglie, gli era morta tra le braccia in seguito a un incidente d’auto da lui stesso provocato? O stava in questo la spiegazione del suo apparente cinismo?).

    — Scusami, Tony, ma debbo essere prudente — sussurrò. — Lo capirai da te. Forse questa è l’occasione buona per dimostrare a te stesso… Niente, lascia correre. Sei un uomo in gamba, fedele e schietto.

    Fedele a chi?, avrei voluto chiedergli. A lui? Ai princìpi del patriottismo come lui lo concepiva? O al bizzarro regolamento della Fondazione Bowman? Mi limitai a fumare, tormentando la cannuccia della pipa. Intorno a noi gruppi di viaggiatori in attesa si lasciavano sballottare dalla noia tra le pareti di vetro dell’aerostazione.

    Non riprese subito il discorso, attese che il cameriere portasse altri due Chivas Regal. In genere preferivo il Bacardi, ma non osai contrariarlo.

    — Tony, è di estrema importanza che tu possa decidere — da solo, ascoltami bene — se puoi fidarti o no del tuo amico Mueller. Sòndalo, aprigli la pelle e le arterie fino a guardargli dentro l’anima, e poi decidi. Se ritieni di non essere sicuro al cento per cento di lui, non accennare nemmeno all’incarico. Se sì, versagli subito la metà di qualunque somma dovesse chiederti. Non hai limiti. Non fermarti di fronte ad alcuna cifra. Sei autorizzato a farlo. — Mi porse due assegni in bianco sulla Unione di Banche Svizzere di Zurigo, ma debitamente firmati. — Metterai tu stesso la cifra, sul momento. In franchi svizzeri, s’intende.

    Cacciai i due preziosi rettangoli di carta nel portafogli. Ogni parola di Steve, associata al suo atteggiamento, ingigantiva la mia curiosità. Ora doveva essere lui a vedere nel mio sguardo l’ago di una bilancia; benché lo conoscessi da molti anni, l’occasione me lo rivelava sorprendente, forse temibile. Un’ora prima avrei giurato col mio sangue su di lui, adesso mi sentivo disorientato.

    — Si tratta di questo — proseguì con calma, ma era evidente che faceva forza su se stesso per indursi a prendere una decisione di cui non era del tutto convinto. (Colpa del suo radar programmato per captare le alte frequenze dell’anima altrui? Certo non s’ingannava del tutto, a giudicare da quello che doveva succedere dopo). — Mueller deve studiare un congegno elettronico da celare nella carrozzeria di un piccolo pullman e destinato a provocare un’esplosione quando una certa persona parlerà nelle vicinanze dell’automezzo o dentro l’automezzo stesso.

    Mi sentii stringere il cuore. Se aspettavo ancora una prova del vero volto della Fondazione Bowman, ecco, adesso l’avevo. Le mezze frasi pronunciate dai colleghi in tanti anni, le allusioni, i vaghi riferimenti a golpe e guerriglie in certi stati del Sudamerica, in un istante ebbero per me un senso. Alzarmi e mandare al diavolo Steve e la CIA? La mia esperienza doveva avermi insegnato che non è mai prudente voltare le spalle al nemico. In un gioco d’astuzia dove la posta è la vita è d’obbligo fingere. Sapevo che ne sarei stato capace.

    — Un attentato? — chiesi in tono discorsivo.

    Steve strinse gli occhi. Per un lungo istante l’ago della bilancia cessò di oscillare. I due piatti erano in equilibrio? O non era piuttosto, quello sguardo gelido, il teleobiettivo di un fucile di precisione? Ma l’orizzonte si rischiarò dopo pochi istanti, e Steve accese un grosso sigaro confermando:

    — Sì, un attentato. Ma qui si tratta della salvaguardia della pace nel mondo. Dobbiamo premunirci contro una minaccia prima che essa si manifesti in modo irreversibile.

    Occultai la mia angoscia in un velo di imperturbabilità. Non avrei tardato a conoscere i particolari del piano. A giudicare dalla sua espressione, ritenni che Steve fosse soddisfatto della mia reazione.

    — Non m’intendo molto di queste cose — proseguì, — ma penso che deve pur esserci un sistema per far esplodere una carica di tritolo mediante un relè sollecitato dalla voce umana trasformata in segnali elettronici.

    — Non saprei che cosa dirti, Steve. Però immagino che sia possibile. Comunque, in che cosa consiste esattamente l’incarico da affidare a Hans Mueller?

    Mi fissò intensamente, uno sguardo duro, quasi minaccioso.

    — Non l’hai ancora capito? — sussurrò. — Voglio che il tuo amico mi fornisca l’apparecchiatura di cui ti ho parlato, nelle dimensioni più piccole possibili… Il relè, che funzionerà in un certo senso come

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