Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Kharankhui
Kharankhui
Kharankhui
E-book308 pagine3 ore

Kharankhui

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

1260 d.C. Nelle terre desolate dove un tempo fioriva l'Immenso Oceano Verde, il sogno di Gengis Khan vacilla. Rekasha, il suo sciamano, evoca l'ombra del Dio della morte nel disperato tentativo di riportare in vita il grande imperatore, ma l'oscurità risvegliata è insaziabile e si aggira per la steppa, cibandosi di cuori e anime.
Marco Polo è soltanto un bambino quando suo padre Niccolò si ritrova al centro di una guerra tra mondi. Quello “di sotto” governato dagli dèi e dagli sciamani, e quello di sopra, in cui il destino ha scelto i suoi improbabili eroi: Suna, la bambina-strega, e Khirtai, il giovane guerriero, chiamati insieme a Mørk l’Oscuro a combattere forze oltre ogni immaginazione umana.
In un viaggio nelle lande inospitali dove il khan un tempo regnava, Suna, Khirtai e Mørk dovranno affrontare assassini, divinità e i loro stessi fantasmi per salvarsi dall'ombra che minaccia di ghermirli. La chiave è una spada, il simbolo di un potere antico che potrebbe fermare il Dio della morte, ma a quale prezzo?
Kharankhui è un’avventura epica in cui mito e realtà si fondono. È il percorso di crescita di un ragazzino che scopre di essere più di un guerriero, all’interno di un mondo che sfida i confini della leggenda per riscriverla.
Possono amore e lealtà trionfare su una maledizione eterna?
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2024
ISBN9791281822016
Kharankhui

Leggi altro di Angelo Berti

Correlato a Kharankhui

Ebook correlati

Fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Kharankhui

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Kharankhui - Angelo Berti

    Gli autori

    Angelo Berti

    È nato nel 1963 a Cortemaggiore e vive in provincia di Ravenna con la sua cagnolina Arya. Ha pubblicato quattordici romanzi e diversi racconti, e nel 2018 è arrivato in finale al Premio Italia con il romanzo fantasy Nonaroth (Watson). È stato direttore del blog Fantasy Planet di La Corte Editore. Tante le sue interviste sui blog di settore agli autori più rappresentativi del fantastico, da Terry Brooks fino a Nora K. Jemisin, Licia Troisi e Jonathan Carrol.

    Alfonso Zarbo

    Lavora nel team di Oscar Mondadori Vault. È stato consulente per la saga Il Trono di Spade, mentre per Watson Edizioni ha curato Folklore – Antologia fantastica sul folklore italiano. Scrive fantasy e tra i suoi ultimi libri ci sono Schegge (Watson), Ultima Oasi (Gargoyle Books) e Furiae: Storie Fantasy di Donne Ribelli (Amazon). Con la sua agenzia letteraria piratesca, Controvento, offre servizi di editing e talent scouting.

    Il libro

    1260 d.C. Nelle terre desolate dove un tempo fioriva l’Immenso Oceano Verde, il sogno di Gengis Khan vacilla. Rekasha, il suo sciamano, evoca l’ombra del Dio della morte nel disperato tentativo di riportare in vita il grande imperatore, ma l’oscurità risvegliata è insaziabile e si aggira per la steppa, cibandosi di cuori e anime.

    Marco Polo è soltanto un bambino quando suo padre Niccolò si ritrova al centro di una guerra tra mondi. Quello di sotto governato dagli dèi e dagli sciamani, e quello di sopra, in cui il destino ha scelto i suoi improbabili eroi: Suna, la bambina-strega, e Khirtai, il giovane guerriero, chiamati insieme a Mørk l’Oscuro a combattere forze oltre ogni immaginazione umana.

    In un viaggio nelle lande inospitali dove il khan un tempo regnava, Suna, Khirtai e Mørk dovranno affrontare assassini, divinità e i loro stessi fantasmi per salvarsi dall’ombra che minaccia di ghermirli. La chiave è una spada, il simbolo di un potere antico che potrebbe fermare il Dio della morte, ma a quale prezzo?

    Kharankhui è un’avventura epica in cui mito e realtà si fondono. È il percorso di crescita di un ragazzino che scopre di essere più di un guerriero, all’interno di un mondo che sfida i confini della leggenda per riscriverla.

    AltriMondi

    Angelo Berti – Alfonso Zarbo

    Kharankhui

    Proprietà letteraria riservata

    ©2024 AltreVoci Edizioni srls

    Prima edizione digitale: giugno 2024

    ISBN: 9791281822016

    Copertina realizzata da Andrea Falsetti

    Elaborazione grafica da foto Adobe Stock

    I fatti e i personaggi riportati in questo romanzo sono frutto della fantasia dell’autore. Pertanto ogni somiglianza a persone reali e ogni riferimento a fatti accaduti sono da ritenersi puramente casuali.

    Ad Alfonso,

    compagno di viaggio

    nell’alba più bella che potevamo vedere insieme,

    fratello di penna

    e non solo.

    Angelo

    Ad Angelo,

    che con Nonaroth mi ha dato la spinta per resistere,

    e alla scrittura,

    che può trasformare due amici in fratelli.

    Alfonso

    Ad Alessandra, a Giovanna

    e a tutto il team di AltreVoci Edizioni,

    grazie per avere creduto

    in questa fiaba oscura.

    Angelo e Alfonso

    Ogni fiaba ha un’origine,

    lontana nei luoghi e nei tempi.

    Jigshuurt è leggenda.

    Dicono che, quando il suo sangue tornerà,

    il mare gli restituirà la sua anima

    e l’ombra ingoierà l’eterno.

    Immenso Oceano Verde, 1260

    Qualcosa sta per cambiare.

    Distolgo lo sguardo dalle braci e osservo il fumo che litiga con il vento.

    Soffia verso ovest, adesso.

    Così il destino ha lanciato di nuovo le sue ossa. Posso sentirlo nelle fiamme, che crepitano più forte; nell’alito di quel fuoco sacro che mi permette di vedere il mondo fuori dal mio rifugio.

    Nei sussurri delle ombre che sembrano volermi invadere.

    «Kharankhui»,ripeto le loro parole. «Trova gli Oscuri.»

    Ancora quella vecchia leggenda. Smuovo le braci con la punta del mio bastone. La luce e il calore mi proteggono, ma per quanto ancora?

    «Trova gli Oscuri…», ripeto come un’ossessione.

    La sua ossessione.

    «…e l’ombra ingoierà l’eterno.»

    Forse non sono ancora perduto.

    Il vento trascina delle voci.

    Arrivano.

    Il vento che soffiava sulla collina sembrava contenere il silenzio dell’eternità.

    Niccolò trattenne il fiato. Non avrebbe saputo rendere giustizia alla grandezza della pianura davanti a sé. Soltanto il mare uguagliava quello spazio.

    Perché la steppa mongola era immensa.

    Un Immenso Oceano Verde.

    «È come sospettavo, vero? Ci siamo persi!». Suo fratello Matteo arrancava dietro di lui verso la collina, con la loro guida, una scorta esigua e i servi. Rivolse uno sguardo inferocito alla guida. «Qui ci sono solo vento e polvere. Dove posso trovare merce da comprare e dove posso vendere la mia? Dove?», gridò nel vuoto.

    Mercanti. Avevano viaggiato molto, i due fratelli Polo. Da Venezia a Costantinopoli, e poi fino al Mare Inospitale, sulle rotte dei pirati variaghi. Ora le città erano scomparse. I nomi delle regioni si rincorrevano sulle pergamene soltanto in grafie minute e linguaggi ignoti.

    Ma la fame di Matteo per il commercio e, di rimando, a Venezia per il potere, era insaziabile. Valeva lo stesso anche per Niccolò, però la sua era una fame diversa.

    «Matteo, guarda…». Niccolò indicò una macchia scura nella desolazione. Era qualcosa che non avevano mai visto: una costruzione circolare, forse rivestita con delle pelli. Una spirale di fumo saliva dal buco al centro. Si voltò di istinto verso la guida, che lasciò intuire che cosa volesse sapere.

    «È una gher. Come una nostra tenda, ma più resistente.»

    Niccolò annuì. Aveva promesso una storia a suo figlio Marco. Ormai non ricordava più quanto tempo fosse trascorso dal loro ultimo incontro a Venezia.

    «Se c’è qualcuno con cui parlare», dichiarò a voce alta, «è là.»

    «Non perdiamo tempo, allora!». Matteo spronò il cavallo verso la costruzione strana.

    L’animale, però, non obbediva.

    Non era l’unico a mostrare preoccupazione. Da settimane gli uomini erano inquieti. Ogni sera, sostando intorno al fuoco da campo, sussurravano di presagi nefasti. Erano nelle terre dell’Orda.

    Uomini pericolosi, dicevano.

    I lupi e le aquile fuggivano.

    Assassini.

    Niccolò avrebbe voluto del tempo per ascoltare.

    Suo fratello Matteo non intendeva dare peso a certe storie di imbriaghi. Irritato, strattonò le redini e cacciò i talloni nel ventre del cavallo, che reagì impennandosi: non sarebbe andato oltre. Matteo smontò e si voltò per prenderne un altro, ma in quel momento lui e Niccolò si accorsero che erano rimasti soli con la guida e un servo. I cavalli, le merci e gli uomini erano già lontani, destinati a perdersi nell’Immenso Oceano Verde piuttosto che restare vicino a quella gher.

    Matteo scalciò la polvere e bestemmiò, poi con passo spedito scese dalla collina.

    Niccolò non sapeva che fare. Desiderava e odiava il pensiero di tornare a Venezia. Il suo animo sognava ancora una grande storia. Sentiva che quelle terre tacevano segreti straordinari, forse così straordinari che l’Occidente non avrebbe potuto crederci.

    Marco, però, gli avrebbe creduto.

    Con la guida e il servo, seguì suo fratello.

    Dentro: buio, fumo, silenzio.

    Niccolò si affiancò a Matteo, che non sembrava essersi calmato e, anzi, fremeva di rabbia e impazienza. «C’è qualcuno?»

    Se qualcuno effettivamente fosse stato lì, né la luce del piccolo falò né quella che entrava dall’apertura sul soffitto sarebbero riusciti a raggiungerlo. Un’oscurità intensa avvolgeva tutto, tanto da sembrare un varco per un altro mondo.

    Niccolò, con lo sguardo incerto ma anche rapito, sollevò una mano indicando le ombre che pendevano dal soffitto.

    Matteo lanciò un’occhiata sfuggente ai feticci di feltro appesi, scacciando via con la mano pensieri che riteneva inutili. «Usanze!»

    «Chi siete? Chi turba il riposo di Rekasha?»

    Si voltarono di scatto. Alla loro sinistra, un vecchio mongolo era emerso dal buio. La grande sagoma impugnava un bastone e se ne stava lì, con un sorriso bislacco che s’allargava man mano che gli occhi di Niccolò si abituavano all’oscurità.

    «Sei tu Rekasha?», chiese Niccolò, esprimendosi, con un po’ di fatica, nella sua lingua.

    Il vecchio annuì agitando il bastone e invitandoli a rispondere.

    «Mercanti», disse Matteo.

    Niccolò cercò di smorzare il tono scortese del fratello, spiegando la loro presenza. «Veniamo da Venezia. Stiamo cercando di raggiungere le terre che chiamano Catai… ma nonostante la nostra guida ci siamo persi. Io sono Niccolò Polo», e si toccò il cuore con la mano.

    «Venezia? Conosco un uomo che viene da lì». Il mongolo si pulì le mani addosso ai vestiti.

    Un rumore dal fondo della gher, nel buio, li distrasse.

    Era come acqua che sciaborda.

    O ratti che strisciano.

    Matteo girò lo sguardo verso la coltre di tappeti che divideva lo spazio in due ambienti. «Chi c’è?»

    La guida e il servo si erano stretti l’uno all’altro e mormoravano parole che sembravano preghiere. Niccolò riusciva a stento a catturarne il significato. Afferrò soltanto un nome. «Che cos’è uno Jigshuurt

    Gli occhi del mongolo catturarono il riflesso delle braci. Silenzio.

    «Non farci perdere tempo, vecchio!», si stava irritando Matteo. «Dicci da che parte dobbiamo andare per il Catai.»

    La faccia del mongolo si fece buia. Truce.

    «Possiamo pagare!», s’affrettò Niccolò, aprendo le dita per raggiungere una scarsella piena di monete. Guardava il mongolo, ma parlava a voce alta per farsi capire anche più lontano.

    Il vecchio, infatti, fissava l’oscurità, mormorando un canto che suonava antico e selvaggio. Come il vento. Come la steppa. Poi, tornò a Niccolò. I suoi occhi, adesso, erano accesi di un nuovo interesse. «Che altro avete per noi?», sorrise arricciando il labbro.

    «Altro?», ringhiò Matteo.

    Niccolò pensò: Noi?

    La guida e il servo sussultarono e Matteo si lasciò prendere dalla collera. Qualcosa stava cambiando nella gher: l’aria si era fatta irrespirabile. La terra tremò e, prima che gli stranieri riuscissero a comandare alle gambe di scappare, il mongolo spalancò le braccia e lanciò un verso bestiale.

    Nella confusione, Niccolò cadde a terra. Qualcuno aveva rovesciato le braci del falò e, quando alzò la testa, si accorse che un lembo di fumo – se era fumo – aveva afferrato il braccio della loro guida per trascinarla via con sé, nel buio della gher. Urla atroci. Il fumo ghermì anche il loro servo, nell’attimo in cui tentò di arretrare.

    Matteo Polo si inginocchiò e pianse.

    «Matteo! Matteo! Resta basso!», urlò Niccolò, strisciando sui gomiti per raggiungerlo. «Dobbiamo uscire!»

    Ma il bastone del mongolo li trovò. Niccolò scansò la punta per miracolo e, rotolando via, conquistò un istante prezioso. Che Matteo usò per fuggire.

    Non si voltò neppure un attimo.

    L’aveva lasciato da solo, contro l’ignoto.

    A cavalcioni di Niccolò, il mongolo premeva il bastone sulla sua gola. Il fiato rancido del vecchio gli penetrò le narici. «Che altro?»

    Il mercante allungò indietro la testa per respirare.

    Il fumo strisciava in avanti per raggiungerlo. Non era un’allucinazione, qualcosa stava prendendo forma!

    Qualcosa che voleva altro da lui.

    Ma Niccolò cosa poteva dargli? Le ombre non venerano il denaro. Segreti? Informazioni? Che cosa poteva mai volere? Ma, soprattutto, chi?

    E si ricordò di un fatto.

    Un volto.

    «Io», si sorprese a dire, «l’ho conosciuta.»

    Gli occhi del vecchio s’illuminarono. «Chi?»

    Niccolò Polo piantò lo sguardo nell’Oscurità.

    «Tua figlia!»

    Gli inizi

    1

    Colchis, sei anni prima

    Il vento fischiava, agitando le conchiglie lasciate appese a oscillare davanti alla porta.

    Khirtai aprì gli occhi. Osservò la mole del padre sulla soglia, con già in mano l’otre d’idromele che gli avrebbe fatto compagnia tutto il giorno.

    Scivolando sulla gamba di legno, Jegsa si aggrappò alle conchiglie. Che non lo sostennero. Con il culo a terra, le gettò al figlio. «Khirtai, fai sparire questa roba o io farò sparire te!»

    Il giovane − otto o nove inverni scarsi di vita − si chinò a raccoglierle. Le sue dita sfiorarono delicatamente quella sinfonia di ninnoli. Suonavano… Sì, suonavano come quando il vento sibilava parole strane. Che sembrava solo lui riuscisse ad ascoltare.

    Un guerriero passò trafelato davanti alla capanna, impugnando spada e scudo. «Muoviti, Jegsa! Stanno arrivando delle navi.»

    La notizia preoccupò l’uomo, ma entusiasmò Khirtai. Perché una nave che attraccava a Colchis poteva voler dire molte cose: guerra, avventura, storie.

    Soprattutto storie.

    E, per le storie, nessuno era migliore di Mundalay.

    Khirtai abbandonò il padre e corse verso la gher dello sciamano.

    «Mundalay!»

    Lo sciamano s’affacciò. «Piantala di molestare il mio nome e dimmi che cosa vuoi.»

    Khirtai sollevò un braccio, indicando il mare. «Navi!»

    «Navi? Suna, dov’è finito il mio bastone?»

    Silenzio.

    «Merda! Torno presto, bada tu al fuoco». Mundalay si avventurò seccato. Era il suo dovere. Gli uomini chiamavano e lui rispondeva

    Khirtai osservò lo sciamano dirigersi verso la riva. Esitò davanti all’ingresso e, prima di entrare, avvertì la bambina. «Suna?»

    Anche lui non ricevette risposta e, dopo un profondo respiro, varcò la soglia.

    Ogni volta che succedeva, Khirtai restava affascinato da quello che vedeva. All’interno, c’era la più incredibile mescolanza di fumi, vapori, polveri e odori sparsi nell’aria.

    E alla sua destra, seduta su un pagliericcio, c’era la figlioccia dello sciamano.

    Suna aveva sei o sette inverni e Khirtai era l’unico in tutto il villaggio che la vedesse come un’amica, mentre per gli altri ragazzi era da evitare come la peste. Forse per quello si era legato così tanto a lei.

    «Perché non hai risposto?»

    La bambina stava accarezzando il legno del prezioso bastone di Mundalay, scolpito di simboli, con monili e pendagli. E anche ossa.

    Sollevò la testa e guardò Khirtai con indifferenza.

    Neppure un sorriso. Ma Suna era così.

    Khirtai si avvicinò ancora un poco. «Mundalay cercava il suo bastone.»

    Suna scrollò le spalle. La sua mano, ora, stava sfiorando delle piccole ossa bianche. «Per me sono di un cane morto.»

    Khirtai fece un sorrisino nervoso. «A me sembrano dita umane…»

    Suna fece una smorfia, come se la cosa non avesse importanza. «Forse.»

    I loro incontri erano sempre così: lei laconica e irritante, lui curioso e impaziente. E, come spesso succedeva quando erano insieme, i guai li vennero a cercare.

    Questa volta, nella voce di Rukhor e della sua accozzaglia di amici.

    «Ehi, Storto! Ti abbiamo visto entrare. Lo Storto e la Strega. Non riesci a trovartelo proprio un amico vero, eh?»

    «Che Storto!», gli fece eco uno degli altri.

    Khirtai serrò le labbra. Sapeva già che, se non li avesse affrontati, avrebbero continuato a tormentarli.

    Uscì. Erano tutti lì: Rukhor e la sua banda.

    Aveva solo qualche mese in più di lui. Ma Rukhor si credeva grande. Si credeva forte. E in un certo senso lo era. Così grosso, grasso e spalleggiato sempre dai soliti quattro stronzi che pensavano che assecondarlo fosse meglio che prendere un sacco di botte.

    Rukhor sogghignò. Un passo avanti e già gli altri si allargavano per accerchiare Khirtai. «È più facile stare con le femminucce che in mezzo ai veri guerrieri.»

    Khirtai strinse i pugni. Era giovane, ma sarebbe diventato un guerriero. E un guerriero non torna a casa senza ferite, altrimenti è un vigliacco. Ma deve farlo comunque da vincitore. Lui sapeva che sarebbe tornato a casa sconfitto, pieno di lividi, e che suo padre gli avrebbe dato il resto.

    Non arretrò.

    «Voi non siete proprio nulla.»

    «Ti ho sentito!». Rukhor sollevò il pugno destro. «Vedremo se dopo la Prova dirai ancora così!»

    Senza quasi rendersene conto, Khirtai vide uscire Suna con in mano il bastone di Mundalay. Correndo a testa bassa, centrò in mezzo ai testicoli Rukhor, che piombò a terra con un tonfo.

    Tutti gli altri erano increduli. Indietreggiarono: strega o non strega, era pur sempre la protetta dello sciamano. E nessuno se la sentiva di avere a che fare con gli spiriti dell’Eterno Cielo Azzurro e dell’Immenso Oceano Verde.

    Ma Khirtai non era protetto da nessuno. Nemmeno dal padre ubriacone.

    Rukhor si rialzò a fatica, paonazzo in volto. Con una mano, stringeva i gioielli doloranti e con l’altra minacciava Khirtai.

    Suna si era affiancata all’amico. E lui sapeva bene che la giovane non aveva niente da temere da quel branco di cani spelacchiati. Tuttavia, si sorprese quando lei gli offrì il bastone.

    Khirtai lo strinse con entrambe le mani. Era proprio con quel bastone che lo sciamano parlava con gli spiriti. E non era forse per loro volere che la terra tremava, che le onde ruggivano e che il vento dai capelli bianchi sibilava parole assassine nelle notti d’inverno?

    Tengri, l’Eterno Cielo Azzurro, avrebbe visto tutto.

    Soltanto, Khirtai non sapeva come.

    Rukhor si gettò in avanti.

    Non c’era tempo per pensare, e la paura spinse Khirtai ad allungare il bastone per tenerlo distante. Nello slancio, l’idiota riuscì a colpirsi da solo allo stomaco.

    Piegato su se stesso, Rukhor afferrò il bastone e ringhiò: «Questa volta ti faccio male!»

    Tirarono forte, con ossa e ninnoli e piume a danzare al riflesso del sole come braci scintillanti.

    «Khirtai!»

    Stringeva forte, con le mani che bruciavano. I ciondoli si spezzavano e andavano a conficcarsi nella terra e nel fango.

    «Khirtai!», gridò più forte Suna.

    Il cielo si spense.

    Lui si fermò. Stava accadendo qualcosa.

    Un forte vento sferzò la faccia di Khirtai.

    Solo, di Khirtai.

    «Adesso basta!»

    La voce di Mundalay era un tuono che scalciava e tirava schiaffi da far girare la testa.

    Si rimpossessò del bastone. Scrutò nei volti dei ragazzi. «Ci saranno conseguenze per questo», li ammonì, fissando i monili sparsi nel terreno. «Via, tutti!»

    Sembrava che uno spirito dannato si fosse impossessato di lui.

    Rukhor e i suoi scagnozzi non se lo fecero ripetere.

    «No, Khirtai… Tu no», disse lo sciamano, con un tono meno feroce.

    Il giovane sbiancò. Si chinò per raccogliere quanto si era staccato dal bastone. Quando trovò le ossa le tenne in una mano, fissandole.

    Mundalay si avvicinò e le prese con delicatezza. «Non sono cose per voi». Poi, mentre stava ricomponendo gli ornamenti del suo bastone, studiò il ragazzo. «Cosa pensavi di fare? Che cosa pensavi mentre lo stringevi?»

    Khirtai era imbarazzato. Cercò l’appoggio di Suna, ma lei guardava altrove.

    Guardava le vele ormai vicine.

    Non succedevano molte cose al villaggio, per quello l’arrivo delle galee veneziane fu un evento.

    Le loro sagome ormai si distinguevano bene. La riva si stava affollando di persone.

    Davanti a tutti, Mundalay.

    Quelle imbarcazioni non avevano il pescaggio delle navi variaghe, così si ancorarono a qualche decina di braccia dalla costa. Tutti osservavano con curiosità i mercanti mentre scaricavano le loro merci su alcune scialuppe e raggiungevano la riva.

    Il primo a toccare terra fu un uomo vestito in maniera semplice, seppur elegante nella finezza dei tessuti.

    Si guardò intorno e attese che qualcuno si facesse avanti.

    Mundalay si avvicinò, sorprendendo i mercanti parlando in latino. «Chi siete?»

    «Il mio nome è Matteo Polo». Indicò il bastone di Mundalay. «Non credevo di trovare così a ovest uno sciamano mongolo.»

    Mundalay sbuffò. «E io non mi aspettavo di trovare un galletto italico sulle nostre rive.»

    Se Polo si sentisse offeso, non lo diede a vedere. Mundalay annuì: a quanto pareva, l’animo del mercante era avvezzo all’ironia dei suoi clienti.

    «Cosa vi porta a Colchis?»

    La domanda era retorica ma necessaria.

    Matteo fece un leggero inchino e, con un braccio, indicò il carico sulla piccola imbarcazione. «Siamo qua per allargare i nostri mercati, per offrire quello che abbiamo, e per comprare quello che potete darci.»

    «Abbiamo molte pelli ancora da conciare. E i nostri artigiani sanno lavorare bene ogni metallo e legno. Possiamo parlare di baratti.»

    Matteo rinnovò l’inchino e fece cenno

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1