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Mortovivo
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E-book137 pagine1 ora

Mortovivo

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Info su questo ebook

Mario, in seguito al sostegno che aveva deciso di dare al fratello, si ritroverà di fronte a scelte e fughe che spera lo riporteranno prima o poi a casa, dove lo pensano morto. Riuscirà a tornare come "vivo" o resterà soltanto il "morto"? Il titolo: un ossimoro, una contraddizione apparente tra l'idea di vita e quella del suo termine, la morte. In Mortovivo, la storia di un comune "Mario" a metà degli anni cinquanta, diventa molto meno comune e tanto più tragica quanto diretta. Disavventure, sopravvivenza e suspense in un thriller che analizza, tramite le esperienze negative, il carattere e il comportamento del protagonista, che mutano inevitabilmente facendo i conti con quanto lo circonda. Il dialetto marchigiano, inserito nei discorsi e nei pensieri che si contrappone all'italiano per la narrazione, svolge un ruolo fondamentale per la collocazione temporale e geografica, rendendo lo scorrimento della storia e la sua ambientazione caratteristica e suggestiva.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2024
ISBN9791222747200
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    Anteprima del libro

    Mortovivo - Giacomo Giannini

    CAPITOLO 1 – Quarantaquattro chili

    Si voltava in continuazione, quasi ossessionato, per vedere chi e cosa ci fosse alle sue spalle. Aveva l’ansia e l’angoscia di chi sa che ha fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare. Continuava a girare da sinistra a destra intorno alla corteccia di quell’albero, sfiorava con i polpastrelli i lembi del tronco, poteva sentire con il tatto ogni scanalatura della superficie, marcata dai segni del tempo. Seguire le nervature del legno su e giù era come ripercorrere tutti quei giorni infiniti, passati lontano dalla sua dimora. Dovette sedersi per non rischiare di svenire: a terra, a cuccia, come se potesse in qualche modo trovare riparo in quella posizione, o semplicemente per pensare tra sé e sé. Era lì, solo e assorto nel suo nulla.

    14 luglio 1956

    Ciao Pe’,

    ma com’è potuto succède’?! Que ce fo io chi, mezzo rinsecchìto, sotto la merìggia (1) de ‘st’albero, e pensa’ che ho fatto de tutto pe’ fallo butta’ giù! Ade’ me fa comodo. Me sto a tira’ la pelle pe’ vedémme le vene, jela fo pure a contàlle quelle suppe i bracci. De notte passo le ore a sentìmme tutti l’ossetti che dai diti della mane me vanne su fino alla spalla, ormai li conóscio tutti.

    ‘L colore della pelle manco vedo più qualo è perché no’ me do ‘na sciacquata co’ l’uscióne (2) da du’ settimane almeno. I capelli ade’ me ‘rrivene pògo sopre le recchie, no’ ce l’avéo mai avuti cuscì lunghi e sporchi. Ho da somiglia’ ‘n bel po’ a mi’ madre, sempre secca ‘rrostìta (3) e coi capelli custoditi fino a sotto la scucchia.

    Me sta a veni’ in mente che sci avéo dato retta a quello che me dicéa la testa, avrìa dovuto ‘mmazzàmme da ‘n bel po’! So’ r’masto du’ pezzi de pellànciga (4) taccata su a quattro pezzetti d’ossi! M’arpierò mai? A dilla tutta non so manco più que c’ho r’masto dentro sta testa… Pare come sci non me sento più ‘l sangue che me pompa dréndo (5) le vene. È cuscì che s’hanne da senti’ l’oghe quando je giro ‘l collo prima de ‘mmazzàlle… ‘Na sensazione strana: me manca l’aria, me manca talmente tanto che me ‘sfissia e me fa pija’ ‘l foràstigo (6). Ade’ me piacerìa gi’ a corre e sfinìmme pe’ scordàmme de ‘nnigò (7) co’ te, Pe’!

    È pe’ mamma che ho tenuto duro, ho da torna’ a casa e daje la bona nova (8) più mèjo che jela fo! Ma no’ jela posso fa’…

    Quarantaquattro chili accovacciati. La pelle raggrinzita, asciutta intorno alle ossa, aggrappata come le legature delle viti intorno ai filari, stretti stretti, per paura di cedere di fronte alla prima folata di vento.

    Quarantaquattro chili di estrema magrezza, sembrava che lui, oltre ad aver perso peso, avesse abbandonato anche parte della sua essenza. Si guardava intorno e non faceva altro che pensare al nulla. In quel momento si sentiva come un animale, privo di pensieri e di anima. Si chiese se fosse così anche per loro.

    Per lui lo era.

    Quarantaquattro chili che gli ricordavano chiaramente quello che aveva passato. Tutto il corpo sembrava volerlo abbandonare lì, all’ombra di un moro, ad un centinaio di metri da casa. Si stava per commuovere, ma non se lo permise. Ormai riusciva a controllare più che bene le sue emozioni e lasciarsi andare sarebbe stato un ulteriore, inutile, spreco di energie.

    Rivolse lo sguardo poco più lontano, esplorò con la vista i campi, poté scorgere alcune porzioni di colline con il grano già mietuto, altri campi con i girasoli che puntavano ad Ovest, era quasi l’ora del tramonto. Le barbabietole parevano già soffrire precocemente la siccità di inizio estate. Poco più a sinistra poteva ammirare la perfezione della legatura dei pomodori correttamente riuscita e la cura maniacale della terra mossa intorno alle piante degli ortaggi. Avrebbe voluto poter correre a più non posso per giungere fino a quell’orto per rifocillarsi, ma era quasi certo che non ci sarebbe riuscito. Le ultime energie doveva riservarle per vedere la sua famiglia al completo. Continuava a guardarsi attorno. Voltandosi a destra, intravide i coppi della parte più alta del tetto del suo vecchio casale, alzò ancora di più lo sguardo: era a casa! Un’emozione così forte non la provava da talmente tanto tempo che si sentì mancare, cadde a terra.

    Un brivido gli salì fino al collo e fu proprio quello a dargli l’energia per alzarsi di nuovo in piedi, si sentì alleggerito e cominciò a trovare tutto così strano: quei colori, quei luoghi e quelle piante sembravano invitarlo ad andare verso la sua vecchia abitazione che lo attendeva a braccia aperte, inebriandolo di una luce che mai aveva visto prima. Si diresse verso la casa ma, improvvisamente, sentì avvicinarsi alle sue spalle un rumore assordante di gomme e di un motore in accelerazione. Era una 1100 blu oceano che procedeva velocemente verso di lui sulla strada imbrecciata. Non fece nemmeno in tempo a voltarsi che venne travolto e sbalzato violentemente a terra.

    1 Merìggia: ombra, normalmente creata da alberi ad alto fusto.

    2 Uscióne: tubo in gomma flessibile, utilizzato per innaffiare.

    3 Secca ‘rrostìta: talmente magra da far intravedere le ossa.

    4 Pellànciga: pelle secca e lenta, penzolante.

    5 Dréndo: dentro.

    6 Foràstigo: nervoso, dovuto ad agitazione e/o esasperazione.

    7 ‘Nnigò: tutto quanto.

    8 Bòna nòva: bella notizia.

    CAPITOLO 2 – Il ciliegio

    11 giugno 1956, quarantaquattro giorni prima.

    Montenovo, dall’alto dei nove colli limitrofi, svettava con la sua cupola maestosa come a osservare quello che stava succedendo all’interno del suo territorio. Un paesino suggestivo, raccolto e chiuso in sé come uno dei migliori borghi medioevali dell’entroterra marchigiano. Era il protagonista di vicende controverse, a partire dalle tipiche discussioni tra paesani fino ad arrivare alle più strane ed impensabili coincidenze. Quello che stava per succedere in quei giorni di un giugno già troppo caldo avrebbe cambiato la storia di alcune famiglie, per sempre.

    Si sentiva il suono delle campane della chiesa di Santa Maria di Piazza scandire il tempo: sette rintocchi lunghi più uno corto, erano le 19.15. Né Peppe né Mario avevano un orologio, a loro bastava ascoltare il suono ritmato. Con le campane delle chiese ci si orientava più che bene per scandire i vari momenti lavorativi delle giornate di fatica. Ancora un’oretta per i campi e poi avrebbero tutti cenato. Prima i lavoratori, a seguire i più piccoli di casa, che attendevano nel frattempo il loro turno per mangiare lungo le scale esterne. Peppe sussurrò qualcosa a suo fratello Mario, invitandolo a seguirlo in fondo al campo. Arrivarono presto vicino ad un maestoso ciliegio, così da poter parlare senza farsi sentire dagli altri. Presero un paio di ceste, che normalmente lasciavano appese al ramo principale di una delle prime piante, e iniziarono a raccogliere i succosi frutti, così riuscirono a conciliare l’utile al dilettevole. Mario era troppo curioso. Tra i due c’era un rapporto di complicità e, quando c’era da raccontarsi qualche novella segreta, si allontanavano dagli occhi e dagli orecchi indiscreti dei parenti. Peppe gli si avvicinò: «Sai quando gimo (9) sempre sul paese a porta’ l’òvi a la gente?»

    «L’ so sci… Ce gimo tutte le settimane…»

    «Io vo sempre suppe le vie delle mura, te ‘nvece vai giù sotta, no!? Mbè… Me badùrlo (10) sempre parecchio perché lì ‘l vicoletto me ‘ncontro co’ ‘na ragazzetta!»

    Mario sgranò gli occhi, ascoltando la prima conquista amorosa del fratello con orgoglio: «Eddaje! Perdéro? (11) No’ m’avei detto mai gne’! E com’è? Cómo je dice?» (12)

    «Eh, è bella come ‘l sole! È bionda, alta ‘n palmo meno che me, ma me basta li stesso! Saranne quattro o cinque mesi che ce fo ll’amore!» (13)

    Di solito era Mario il più piacione. Durante le poche occasioni di festa, in paese o nelle contrade, lui era sempre al centro dell’attenzione, impavido e sfrontato. Le ragazze guardavano solo lui, nonostante fosse uguale al fratello.

    Peppe e Mario infatti erano gemelli, eterozigoti ma si somigliavano comunque molto, facendo confondere spesso anche i famigliari. Mario era sfacciato, tenace e sempre molto determinato. Peppe invece era un gran timido, con il sorriso sulle labbra, oscurato eternamente dalla personalità del fratello. Se aveva trovato la ragazza, forse era solo perché l’aveva conosciuta quando Mario non era insieme a lui. Probabilmente aveva aspettato così tanto prima di dirglielo proprio per evitare che, con il suo carattere estroverso, gliela potesse soffiare.

    Rimasero qualche istante in silenzio, poi Mario scoppiò in una grassa risata come se non credesse alla notizia. Peppe rimase serio e, con lo sguardo cupo, rivolse gli occhi a terra. C’era qualcosa che lo turbava, la stessa che gli aveva suggerito di fare quella confidenza al fratello: «L’unico problema de lia (14) è ‘l cognome. Ammó però ho da gi’ a conosce ‘l padre, sarà che quello non me dà ‘no scappellòtto!»

    Mario prese a camminare intorno al tronco del ciliegio come se, girandogli intorno, quello gli potesse rivelare l’identità della fanciulla. Cominciò a tempestare Peppe di domande per capire chi fosse la fortunata. Peppe non voleva far trapelare nulla, ma sapeva benissimo che, avendo lanciato il sasso, non poteva più ritrarre la mano. Forse si era già pentito di essersi confidato. Salì di fretta sull’albero, arrampicandosi e facendo leva sui monconi dei rami potati negli anni precedenti, si sedette a cavalcioni sul ramo più grande e robusto. Tirò fuori la sua agendina rossa con la penna e cominciò a scrivere.

    Peppe era particolarmente affezionato a quel regalo che gli aveva donato suo padre quella volta che era tornato da una visita ai

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