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La via per Altrove
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E-book397 pagine6 ore

La via per Altrove

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Info su questo ebook

Un'antica villa sul Lago d'Orta, un dono inaspettato e un passato sepolto sotto strati di silenzio. Quando Erika si trasferisce nella casa dei nonni per preparare un esame, non immagina che un mondo di ombre si celi dietro le pareti. Visioni inquietanti, un gatto parlante con strani poteri e un fantasma che cerca il suo aiuto la trascinano in un vortice di segreti di famiglia e sinistre rivelazioni. La serenità del lago e l'affetto per i nonni si scontrano con la scoperta di un passato oscuro, fatto di crimini e orrori indicibili. Erika dovrà affrontare la propria eredità di sensitiva e svelare la verità, a costo di mettere in discussione tutto ciò in cui ha sempre creduto. Un romanzo avvolgente e misterioso, dove il confine tra realtà e soprannaturale si fa sempre più labile e la ricerca della verità porta a un confronto con le proprie paure più profonde.
LinguaItaliano
Data di uscita26 giu 2024
ISBN9791222741581
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    Anteprima del libro

    La via per Altrove - Silvia Colombo

    1

    "Tutto è a due facce, tutto ha due poli,

    tutto ha la sua copia di opposti,

    uguale e disuguale sono la stessa cosa.

    Gli opposti sono identici in natura,

    solo diversi di grado; gli estremi si toccano;

    tutte le verità sono soltanto mezze verità;

    tutte le contraddizioni possono essere composte."

    Kybalion

    Sono sempre stato un po’ lento a capire le cose, e ancora di più a farle... Forse se fossi stato più sveglio avrei saputo cavarmela meglio. Che so, avrei potuto almeno difendermi da quelle accuse assurde, quando ero ragazzino, e in seguito evitarmi il peggio.

    Ma anche Gravina e Cecconi, detto Cecco, con tutto che facevano sempre quello che dicevo io, più o meno, e si capiva che mi riconoscevano come quello che ha le idee e pure l’energia giusta per trascinare un po’ tutti e renderle cose vere, alla fine erano di un bel po’ più furbi di me. A loro non capitava mai di passare per delinquenti, neanche quando i prof li beccavano a farsi una canna nel bagno dei maschi, quello con tutti quei cazzi sui muri e l’invito a seguire la freccia fino a pisciare fuori di brutto dal buco del cesso.

    Un giorno abbiamo dato fuoco al registro di classe della terza B, che non era nemmeno la classe nostra, ma quello ci era riuscito di fregare dalla sala professori mentre non c’era nessuno. L’avevamo ficcato dentro il cestino che stava accanto alla scrivania dell’Antonacci, il bidello strabico del secondo piano, che era pure un grandissimo stronzo e ce l’aveva con me, anche con un pizzico di ragione a ripensarci adesso... Quella volta lì la colpa me la sono beccata tutta io, insieme alla sospensione con tutto il casino di contorno e i pianti di Gina, della casa famiglia dove stavo allora. E il corpo docenti al gran completo a dire la sua sul caso umano che rappresentavo ai loro occhi... Cecco e Gravina un cazzo. Eppure c’erano anche loro con me. Anzi, se non ricordo male l’idea era stata proprio di Gravina, che però come al solito aveva bisogno di un esecutore materiale che si sporcasse le mani al posto suo, perché lui si faceva sempre un sacco di paranoie. Io me ne facevo meno, ero più incosciente, o forse più innocente, ma sinceramente non credo di aver avuto più di loro un’attitudine delinquenziale. Delinquenziale. Una parola che ho imparato dopo, leggendo per conto mio, perché anche se prendevo 2 a raffica in praticamente ogni materia, e in un istituto tecnico di materie ce n’è a milioni, giuro, da andar giù di testa, mica sono proprio un irrecuperabile. Mi interessano le cose, come sono fatte, perché funzionano così, e perché a quella causa segue quell’effetto... Mi incuriosisce anche come agisce la mente, i suoi meccanismi nascosti, la psicologia che spinge verso certe azioni e non altre, che muove le persone – o le blocca dove sono, come gatti col freezing – e anche una cosa così l’ho imparata per fatti miei, leggendo quasi di nascosto per non sembrare un intellettuale sfigato, che nell’ambiente in cui mi muovevo, tra i cosiddetti amici che a un certo punto ho frequentato, non ti dava tanti punti essere considerato una fighetta china sui libri. La psicologia... per forza, con una storia come la mia...

    Sono anche andato dalla psicologa. Prima ancora della faccenda della sospensione. Mi ci avevano mandato per decisione del giudice, quando mi hanno tolto alla tutela di mio padre che, essendo in galera, non è che potesse occuparsi di me più di tanto. Peccato che sia finito dentro, poveraccio, perché ho come l’impressione che proprio lui, tra tutte le persone con cui ho avuto a che fare, fosse quello che più pensasse a me come a un ragazzino e non un foruncolo sul culo. Mia madre nemmeno me la ricordo, ero troppo piccolo quando è morta, e c’è chi si è spinto a dire, mi sembra di sentirlo come fosse ieri ’sto discorso, che era meglio così, perché era una capace di finire, com’è poi finita, stroncata da un’overdose a meno di vent’anni. E vabbè... provateci voi a essere un’adolescente venuta fuori da una famiglia disfunzionale, come ho imparato a dire, che ci sta stretta nella vita e non sa probabilmente mai dove sbattere la testa per riuscire a farla giusta... Così me la immagino mia madre, una ragazzina fragile, preziosa, con ancora un casino di ideali in testa, tutti poi sbriciolati, uno dopo l’altro, dopo il frontale con i casi della vita... Capita che negli scontri con la vita uno ci perda sempre, scontro dopo scontro... Credo che la chiave sia concepire la propria posizione nel modo più comodo per non prenderla ripetutamente in quel posto... Se tu pensi che sei uno che ci rimette sempre qualcosa, probabilmente proprio così sarà, se invece hai un po’ più la faccia come il culo, per così dire, è facile che la spunti e poi non ti senti un fallito... è lì la chiave di tutto... Ma mia madre ci scommetto che non lo sapeva, e nemmeno aveva ancora incontrato nessuno che le avesse suggerito una riflessione del genere, prima che morisse in quel modo... povera ragazza... sola come un cane... Non che qualcuno si sia mai preso il disturbo di raccontarmi nei particolari come fosse successo, com’è morta. Sono stato io, un bel po’ di tempo dopo che era stata sepolta e pure dimenticata, a mettere insieme i vari tasselli, gli elementi sciolti nei discorsi delle persone che mi ruotavano intorno con il compito di prendersi cura di me e della mia educazione, a ricostruire lo scenario squallido dell’ultima scena dell’ultimo atto della vita di una ragazzina, i dettagli scabrosi e tremendi che nessuno, tantomeno un figlio, dovrebbe mai conoscere...

    Mio padre invece, se non per lei, che ormai era troppo tardi, almeno per me c’era, anche se a modo suo, intendiamoci. Dai, andiamo a farci un giro mi diceva, e partivamo con la Vespa, io allacciato alla sua vita, a sentire attraverso la vibrazione della pancia il rimbombo delle canzoni che cantava un po’ stonato. Non è che andassimo chissà dove, più che altro al bar giù in piazza, a chiacchierare con gli amici con una birra in mano e a ridere di battute che non sempre capivo. Ogni tanto mi raccontava cose, quello che pensava, quello che aveva fatto... qualche volta anche quello che sperava ci sarebbe stato nel mio futuro. Un giorno che era particolarmente lirico e voleva forse lasciarsi dietro qualcosa di memorabile mi ha portato al mare, io e lui soli, con la Vespa. Poi mi ha guardato dritto negli occhi e con un tono solenne che non gli avevo mai sentito mi ha detto: Tu vedi di venir fuori diverso da me... non fare stronzate. Ma sì... sei intelligente, vedrai... e ha avvicinato la fronte alla mia, con un gesto che mi ha lasciato dentro una specie di disperazione per quanto era intenso. Forse, per una volta, voleva sentirsi il padre che faceva fatica ad essere, forse aveva bevuto e gli era presa triste, non so... Era così, mio padre, anche da sobrio poteva sembrarti fatto.

    Me l’aveva detto lui di rivolgermi ai suoi vecchi amici, se per caso mi fossi trovato col culo a terra e lui non fosse stato lì a darmi una mano... Non so se sapesse già che le cose per lui non sarebbero finite bene, tra i Carabinieri che ogni tanto qualcuno chiamava e l’avvocato che a un certo punto aveva cominciato a nominare come fosse l’arcangelo Gabriele... Mi aveva detto dove trovarli, questi amici suoi, e che sarebbe stato ben attento a non rovinarli, a non nominarli nemmeno, proprio perché io avessi un futuro. Povero coglione. Ci è schiattato in galera, tumore ai polmoni. D’altra parte, fumava come un camino...

    Io sono stato prima in un istituto pieno di monache e poi in comunità. Non era male la comunità. Gina era anche affettuosa, il che per me era una gran bella novità. Non ero mica abituato a cose tipo abbracci, buffetti sul naso, mani che si allungano ad arruffarti i capelli, quella roba lì. Si interessava proprio alla mia vita, Gina, ai miei voti a scuola, anche se erano regolarmente pessimi e lei tornava sempre dai colloqui coi prof allegra come un cane che ne ha prese una manica, per quante gliene dicevano su di me... Devo dire che non era male, povera Gina, anche se rompeva i coglioni a elica con le fisse della puntualità a tavola, dei turni in bagno, precisi precisi come fossimo in caserma, che per farti una doccia non ci dovevi mettere più di dieci minuti, risciacquo compreso, e le preghiere tutti insieme prima di mangiare eccetera. Una cosa, tutta quella disciplina, quel rigore, che all’epoca mi faceva vomitare. Ero come allergico a ogni genere di rituale, da ragazzino. E se poi bisognava seguirlo per forza, quel rituale, altrimenti erano punti di demerito che andavano a toglierti anche quel poco che addolciva la vita, tipo il diritto alla pausa nelle ore dei compiti per giocare a pallone in cortile con gli altri, era anche peggio, ci stava anche che avevo delle brutte reazioni. Già. Ma capitava un po’ a tutti noi ragazzi, almeno quelli più grandi, specialmente con ’sta menata che non si poteva mai mangiare, anche con una fame della madonna, perché lei voleva che giungessimo le mani, manco fossimo tutti dei chierichetti... E allora ci guardavamo, attenti a non farci beccare, e facevamo fatica a non scoppiarle a ridere in faccia, povera Gina, con i suoi padrenostri e le sue avemarie. Si vedeva che ce la metteva tutta, e adesso mi dispiace di averla presa sempre un po’ per il culo e poi di averle dato dei gran dispiaceri, proprio come se fosse stata una madre vera. Guarda, dirò di più, mi dispiace – giuro – anche se non me l’aspettavo che pure lei fosse tra quelli che mi hanno puntato il dito, dopo quell’episodio assurdo, quando sono stato accusato... Poi è vero che io mi sono rifiutato di dare spiegazioni e dire la mia versione dei fatti, ma cazzo, proprio non mi è andata giù che mi abbiano fatto passare per un pervertito. Io volevo solo starle vicino... e sì, vabbè, anche avere qualcosa di suo, da tenere tra le mani quando nessuno mi vedeva, perché lei mi piaceva... ma non per farci cose, non era quello il modo in cui la pensavo... Mica le chiedevo niente, era solo così, una cosa per me. E anche se mi fossi spinto fino al punto che pensavano tutti, bastava che lei mi dicesse fermati e io l’avrei fatto... Non sono uno che non sa cosa vuol dire no. Ma poi... no, escludo proprio, non era una cosa di quel genere lì, non c’era niente di sessuale, mi accontentavo che si accorgesse di me, e lei si accorgeva... Volevo solo la sua attenzione, forse l’aveva capito. Forse anche per lei era la stessa cosa, che per l’attenzione degli altri sei disposto a fare cose che poi magari ti penti, ma comunque scegli di farle lo stesso, perché niente è più urgente che sentire l’attenzione su di te, qualcuno che fa caso al fatto che esisti...

    Comunque mi piaceva un sacco come mi guardava, con occhi senza paura e sorrisi sempre un po’ sghembi, ma simpatici. Mi aveva regalato un disegno fatto da lei, con una bella casa e un bosco sullo sfondo, nel prato c’era anche un cane, un cane enorme, perché lei amava gli animali e avrebbe tanto voluto averne uno, anche solo un criceto, ma in comunità non era permesso... È vero che le stavo sempre appiccicato, che sembrava la seguissi come un maniaco, ma non ho mai voluto, o non sono mai stato capace di spiegare che lo facevo per assicurarmi che non le capitasse qualcosa. Ero più grande di lei, e di sicuro più forte, perché sapevo menare le mani, avevo imparato fin da piccolo. Avrei potuto tirarla fuori dai guai se ne avesse avuto bisogno, e nella zona dove stavamo noi non è che fosse un’idea così strampalata la mia. Non era mica tanto sano per una ragazza uscire da sola, nemmeno di giorno. C’erano in giro un sacco di vigliacchi non del tutto sicuri di averci un paio di coglioni tra le gambe e un batacchio in mezzo, che si spalleggiavano l’uno con l’altro e facevano branco proprio quando si trattava di mostrare a una ragazza, possibilmente sola o al massimo in compagnia di un’amichetta, fino a che punto potessero essere imbecilli. Poi sì che se ne uscivano tirando un bel sospiro perché i coglioni secondo loro ce li avevano, una volta che avevano chiuso all’angolo la preda e fatto le loro cose... Poi, sai, quelli vabbè che erano mediamente dei vermi, ma andavano comunque in giro coi coltelli. Una ragazzina garantito che finiva male se li incontrava in una strada buia. Ma forse anche in una illuminata... non so. Però, guarda, sembrava fossi l’unico a pensare una cosa tanto innocente. Tutti subito a voler vedere il marcio dove non c’era.

    È vero anche che rubavo le sue cose dallo stendino... ma perché mi piaceva tenermi vicino qualcosa che lei aveva toccato. Invece non è affatto vero che la spiavo quando andava in bagno, come hanno detto poi, con quel compiacimento che fa vomitare di chi ci gode nel rimestare nel torbido e venirsene fuori con dettagli inventati, basta che siano piccanti e facciano correre il brivido lungo la schiena, ad alleviare i pruriti inconfessabili dei moralisti a piede libero. Giuro che non mi ha mai sfiorato la mente un’idea del genere, che quella sì, sarebbe stata proprio una cosa da pervertiti...

    Devo dire che lei non mi ha mai accusato di niente. Almeno credo. Ha continuato a farmi quei suoi sorrisi un po’ sbilenchi, come se fosse indecisa fino all’ultimo se sorridere con tutta la bocca o limitarsi ai primi danni... Si chiamava Cristina Sibaldi e dormiva nella seconda camera dopo il bagno, prima con Alice, finché Alice non è ritornata da sua madre una volta allontanato il padre alcolista che aveva il vizio di menarle tutt’e due, brav’uomo, e poi con un’altra bambina, adesso non mi ricordo come si chiamava... era una bambina delle piccole, che era anche un po’ ritardata e bisognava aiutarla a vestirsi... Ecco, Gina andava bene per quel tipo di assistenza, per quei ragazzini lì, con dei problemi proprio anche di disabilità, come si dice adesso... perché per tutti allora quelli erano bambini handicappati... Comunque. Era una donna concreta, Gina, sapeva prepararti da mangiare le cose giuste, vestirti il giusto al giusto prezzo senza passare per barbona, ti portava dal dentista quando si accorgeva che avevi le caverne nei denti, queste cose qui. Però non c’era pericolo che ti venisse in mente di andare da lei per raccontarle i fatti tuoi. Per questo era meglio rivolgersi ai muri di casa. È vero che ogni tanto ti stupiva perché se ne usciva fuori con qualche gesto che poteva anche darti da pensare che avesse capito qualcosa di te, che ci fosse come della profondità invisibile dietro quello che faceva... Invece probabilmente erano solo gesti così, tanto per... Forse anche per sentirsi bene con se stessa, pure lei, come tutti, che non si sa mai dove finisca l’altruismo e dove cominci l’autogratificazione... Senti un po’ qui che paroloni che uso...

    A Cristina invece ogni tanto dicevo qualcosa di me, anche se parlare non è mai stato il mio forte e mi ha sempre imbarazzato e fatto sentire un cretino. Però lei pareva non lo notasse, e mi guardava con quel guizzo negli occhi e il suo sorriso a mezza bocca: Non stare a pensarci, facciamoci un panino, va’. Mi diceva cose così, sembrava più grande della sua età.

    Ci provavo gusto a rubacchiare cose qua e là e poi fargliele trovare sotto il cuscino, come quella volta che avevo fregato una matita con attaccata dietro una gomma a forma di tulipano a Marta Micozzi, del banco davanti a me, che era sempre vestita come una bibliotecaria quarantenne ed era la più brava in matematica, e l’avevo nascosta nei pantaloni del pigiama di Cristina, piegato sotto il cuscino, perché mi piaceva pensare che l’avrebbe trovata prima di andare a dormire, ed ero sicuro che avrebbe subito capito che ero stato io. Oppure le cacciavo un Buondì nella cartella, l’ho fatto spesso, o le mettevo di nascosto nell’astuccio un bambolino con il cappuccio a pompon, di quelli che vendevano dentro una specie di scatola da fiammiferi e ce n’erano di tutti i colori, che le bambine li potevano collezionare. Adesso non vorrei passare per uno sdolcinato, ma mi piaceva farle regali. Mi piaceva soprattutto spiare la sua faccia quando li scopriva e vedere il guizzo del suo sorriso sghembo sapendo che era per me. Non so, mi faceva sentire bene.

    È durata finché è durata, e per la precisione finché Gina, tornando a casa un pomeriggio con le borse della spesa ci ha trovati in cucina, troppo vicini, mentre io avevo una mano dentro la camicetta di Cristina e lei mi guardava e mi lasciava fare, perché quel giorno era triste, l’avevano esclusa dal club di quelle quattro oche delle sue compagne di classe, che dicevano che lei non si vestiva nel modo giusto per essere una di loro, e nemmeno si comportava nel modo giusto. Giusto per cosa, poi... Ad ogni modo, mi hanno mandato via, dopo grandi scenate e pianti e sussurri alle spalle, in un’altra casa famiglia dove mi sentivo guardato a vista, probabilmente perché ormai avevo appiccicata addosso l’etichetta del pervertito e Marisa, che si occupava di noi ragazzi, non ci provava nemmeno a nascondermi che mi stava con il fiato sul collo. Cristina non l’ho più vista, spero che abbia avuto una buona vita, ogni tanto mi capita ancora di pensare a lei...

    Porca troia, piove, sento fin da quaggiù il rumore delle gocce che battono contro il legno... E pensare che a me sono sempre andate a genio quelle belle giornate, in primavera, quando si balzava la scuola per andare al fiume a farsi due tuffi e un paio di canne con Cecco e Gravina, che aveva sempre dietro nello zaino almeno tre panini prosciutto e formaggio, perché sua madre stava continuamente a preoccuparsi che non mangiava abbastanza proprio ora che doveva crescere. E dire che Gravina aveva già allora una circonferenza di tutto rispetto...

    Erano sempre giornate di sole, e quando uscivi dall’acqua gelida, che ci voleva un bel coraggio a cacciarsi dentro, si sentiva subito il calore del sole sulla pelle e se non c’era vento anche le mutande asciugavano addosso senza farti risalire le palle fino in gola per il freddo. Invece adesso piove e il freddo lo sento, come se non dovessi asciugarmi mai più. Mi pare di essere fradicio fino alle ossa da sempre... Dio come odio l’acqua, adesso.

    2

    Erika spingeva sui pedali sfrecciando attraverso il centro di Orta, proprio come quando da piccola costringeva il nonno a fare a chi arrivava a casa per primo dopo una delle loro infaticabili esplorazioni dei dintorni. La musica incalzava nelle cuffie cadenzando il ritmo della pedalata e l’impermeabile garriva al vento ai lati del grosso zaino come ali aperte di un goffo uccello. Appese al manubrio c’erano due borse del supermercato piene di caffè, frutta, verdura e cracker: l’alimentazione secondo Erika.

    Era un aprile piovoso e il cielo greve rendeva plumbeo anche il lago, già schiacciato sotto il cipiglio cupo delle montagne intorno, che a quell’ora della sera parevano faticare a rendere visibili i segni della primavera. Erika aveva fretta di arrivare a casa, avrebbe fatto i conti in seguito con quel vago senso di inquietudine, quasi di timore, che con una puntina di veleno inquinava il momento del suo ritorno in quei luoghi.

    Massimo si era offerto di darle un passaggio in macchina da Milano e si erano da poco salutati al parcheggio appena fuori Orta ostentando un’allegria un po’ forzata, a camuffare il leggero disagio che rendeva Erika impacciatissima e lui – che per tutto il tragitto aveva più o meno velatamente rimarcato quale immenso favore le avesse fatto per aver caricato sul SUV anche la bici – visibilmente incapace di decidere se stringerle la mano come fa un amico, abbracciarla ostentando una familiarità che in effetti non c’era o puntare gagliardamente a un bacio che magari facesse da trampolino per un bel lancio verso qualcos’altro. Erika sperava che il fatto di aver accettato la sua offerta non implicasse una restituzione in natura... Massimo era piuttosto trasparente, non è che ci volesse un poker di lauree per capire che gli sarebbe piaciuto approfondire un rapporto che lei ci teneva invece restasse ben blindato entro i binari dell’amicizia.

    Si erano conosciuti quando Erika e Giada, la sorella di Massimo, si erano ritrovate nella stessa classe, al Manzoni, e nel giro di poco erano diventate amiche amiche, con ciò intendendo che Giada era l’unica amica di Erika, in effetti. Anche dopo la maturità i contatti erano rimasti costanti, fra tutti e tre: lui era stato ripetutamente benché inutilmente friendzonato, guadagnandosi per meriti sul campo il titolo di Mr Collins, e le due ragazze si erano iscritte insieme a Lettere moderne e vivevano praticamente in simbiosi, con l’ausilio della tecnologia e abuso di videochiamate. La tata di Erika spesso lamentava procurati infarti perché, entrando in un bagno che riteneva vuoto con l’intenzione di pulirlo, capitava venisse inchiodata sul posto dal saluto squillante di Giada, che dallo schermo del cellulare che Erika aveva lasciato un attimo appoggiato sul piano del lavabo, presidiava il luogo, con ottima visibilità sui sanitari. E la mamma, quelle rare volte che con papà faceva tappa a casa prima di un cambio di volo per esotica destinazione, trovava scomodo che non si potesse più girare per casa in mutande, dato che da qualche cellulare qualcuno faceva sempre capolino, e tanti saluti all’intimità... Comunque... Lei e Giada stavano preparando in strettissima connessione l’esame di filologia quando l’avvocato della nonna si era fatto vivo con quella novità straordinaria.

    Anche la nonna aveva telefonato – alla nipote naturalmente, non certo alla figlia – e aveva confermato quelle sue volontà. Qui è bellissimo, sto alla grande, non ci torno più a casa. I soldi non mi mancano, grazie al cielo... Tuo nonno è sempre stato in gamba ad amministrarsi i beni... testa fina. Sì, cara, tutto merito suo, perché io proprio non ci ho mai capito di quelle cose lì, obbligazioni, azioni... mi hanno sempre annoiato, lo sanno tutti che non ho mai pensato per numeri... mi si confondono nella testa e non li trovo divertenti... Lui invece sembrava sguazzarci nei numeri, gli piaceva spremersi per bene e riuscire a cavare sangue anche da una rapa... Meno male che il mio commercialista è un ragazzo sveglio anche lui e sta a sentire i ragionamenti bislacchi di una vecchia rimbambita... Comunque, capiscimi, per me, adesso che sono qui e che intendo restarci finché allungherò le gambe, è un grosso dispiacere pensare che la casa di Orta vada in malora senza che nessuno se la goda. E mi prenda un colpo se ho intenzione di perdere tempo, alla mia età, dietro a dispiaceri e altre sgradevolezze... Perciò, cara, fammi il favore di seguire il mio ragionamento, mica come quel generale di tua madre...

    Erika ci aveva messo un po’ a realizzare quello che la nonna le stava dicendo. In buona sostanza, siccome le era sempre piaciuto, quando era piccola, passare le vacanze a Orta e imperversare allegramente in lungo e in largo nel giardino dei nonni, e magari lanciarsi in scorribande spensierate sul lago con la barca, o tra i vicoli tortuosi del paese, la nonna le avrebbe intestato la vecchia villa con una donazione: Che ci vuole? Il mio avvocato dice che posso fare quello che voglio con le mie cose, ci mancherebbe... E io voglio finire i miei giorni in questa specie di parco giochi di lusso per gente a fine corsa che ho la fortuna di potermi permettere e non pensare più a tutte quelle cose noiose, le tasse, le scadenze e tutto il resto... E non riesco mai ad accedere all’home banking, cacchio... cioè, non si dice cacchio.... Momento riflessione. E poi: Mi vengono i brividi a pensare a quante cose stupide potrebbero distrarmi da quello che rimane della mia vita... Voglio assolutamente usare al meglio il tempo che mi resta, capito? Voglio fare solo le cose che mi piacciono. Cogli la vera saggezza, ragazza? Così, ho deciso di dare in gestione il mio patrimonio all’amministrazione della Residenza, qui, e a te faccio una donazione per la villa. Che ci vuole mai? La casa ti è sempre piaciuta, Orta ti è sempre piaciuta... Poi fanne quello che vuoi... Potresti anche venderla, volendo. Però intanto io ti intesto la casa, e anche un bel po’ di soldi, per mantenerla, ovvio... Sì sì, cara mia, la Residenza per me non ne spenderà poi così tanti, ormai sono vecchia, mica ci metterò una vita per togliere il disturbo... Invece per te è un’altra faccenda... sei giovane in tempi difficili, la casa è grande, il giardino richiede manutenzione continua... Perciò sì, la villa la voglio dare a te e voglio anche metterti in condizione di potertela permettere. Adesso. Non c’è mica bisogno che ci lasci le penne prima....

    Erika era stupita di quella decisione. Non che avesse motivo di dubitare di essere la destinataria di dosi impressionanti di amore. Il nonno e la nonna l’avevano sempre amata sopra ogni cosa, su questo non c’era alcun dubbio. Solo ultimamente, dopo tutto quello che era successo e che aveva scosso brutalmente tutta la loro famiglia, era arrivata a nutrire qualche sentimento contrastante. Un tarlo fastidioso aveva preso a rodere dal di dentro la sua incrollabile fede nell’amore tra lei e i nonni, in quella bolla fuori dal tempo dove si ritrovavano insieme senza fatica e che aveva sempre considerato zona franca.

    I nonni erano sempre stati, da che lei ne aveva memoria, territorio adibito al reintegro delle risorse che inevitabilmente era costretta a spendere senza riserve fuori, nel quotidiano, soprattutto nel rapporto disagevole con una madre dominante, capace anche da remoto di farsi percepire come ingombrante, ancorché in apparenza del tutto amorevole, o nella fatica delle relazioni interpersonali dal punto di vista di una ragazza estremamente timida e introversa. Erika aveva capito presto che per esempio a scuola essere timidi non paga mai, anzi gioca contro di brutto... che con gli amici conosciuti in classe, o in palestra, non va per niente bene essere quella che immancabilmente preferisce, se non proprio scomparire, almeno riuscire a mimetizzarsi a dovere con la tinta dei muri... Ma i nonni, in qualche misterioso modo che aveva forse a che fare con la saggezza dell’età, o con il loro stile di vita, o con il magnifico posto in cui vivevano, erano meravigliosamente capaci di farla sentire apprezzata esattamente per quello che era. Per se stessa. Zero fatica. Il prodigioso meccanismo era facile da capire: loro la amavano incondizionatamente, di conseguenza lei non era tenuta a dimostrare proprio niente. A loro lei andava bene comunque, indipendentemente da quello che faceva, dai corsi che frequentava dopo la scuola, da quello che decideva di mettersi addosso, dal numero di amiche che riusciva ad attrarre intorno a sé per allegre merende in compagnia, dai voti in matematica che andavano a infangare il suo pedigree eccetera.

    La prima verifica di greco che Erika aveva portato a casa in quarta ginnasio era deturpata da un enorme 2 in rosso che aveva gettato sua madre nel più profondo sconforto. La mamma, anche se si trovava a Barcellona – o forse era Madrid? – le aveva dedicato un’interminabile telefonata ritagliando una notevolissima quantità di tempo nella giornata spagnola ricca di impegni alla quale avrebbe altrimenti allocato interamente la sua attenzione. Le aveva messo addosso un’ansia terribile prefigurando scenari apocalittici in cui lei, Erika, figlia dalle considerevoli potenzialità che era compito precipuo di loro genitori sollecitare e stimolare in ogni modo possibile, si sarebbe dovuta affrettare – ma subito, quel giorno stesso – a organizzarsi le giornate immediatamente seguenti con lezioni private mirate a evitare che il divario tra la sua preparazione – fatalmente carente – e quanto preteso dalla professoressa di greco non si facesse più profondo e in quanto tale impossibile da colmare. E forse era il caso di provvedere in tal senso anche per il latino, senza stare a perdere tempo utile aspettando di vedere quale sarebbe stato l’esito della verifica del lunedì precedente. Poi, ovviamente, c’era da pianificare le lezioni di recupero di matematica, quelle poi erano fondamentali perché, ormai lo sapevano bene, quando vedeva anche solo un numero il cervello di Erika proprio chiudeva bottega, senza poi dimenticare di tenersi un po’ di tempo per il judo e la scherma, sarebbe stato un vero peccato buttare al vento tutte le competenze acquisite in anni e anni... Erika aveva chiuso la chiamata con le orecchie bollenti e il cervello fuso, già immensamente stanca anche solo all’idea del lavoro aggiuntivo che le sarebbe toccato caricarsi sulla schiena. Poi, dopo aver sentito anche Giada, che invece in greco aveva preso 1 e blaterava di abbandono scolastico – una telefonata, non il solito audio whatsapp di tempi più recenti, perché la cosa era davvero pesante – pur sentendosi vagamente stronza per il fatto di guardare l’amica dall’alto del suo punto in più, si era accorta di stare leggermente meglio, giusto di un punto decimale... Dopodiché aveva chiamato la nonna, così, per avere una dose supplementare di conforto. E la nonna puntualmente le aveva detto di non preoccuparsi, che al ginnasio era assolutamente imperativo collezionare voti bassi, anche tendenti ai numeri negativi... i professori in genere amano il dramma... Si sarebbe aggiustato tutto, con un po’ di tempo, un po’ di studio e una sana dose di familiarità nei confronti di un alfabeto diverso. E quando Erika, rinfrancata, aveva preso coraggio e si era lamentata dell’atteggiamento iperperformante della madre, che evidentemente non si rendeva conto che non tutti si servivano dal suo pusher, la nonna le aveva fatto un discorso meraviglioso, che per un po’ l’aveva riconciliata con la vita e con il tributo che quotidianamente richiedeva. Secondo la nonna la più ricorrente trappola educativa nella quale incorrono i genitori, in assenza di un manuale che spieghi dettagliatamente come fare, era la tendenza a mettere sempre il dito nella piaga, per così dire. I genitori, quelli di Erika indubbiamente, erano specialisti in cecità selettiva: sembravano vedere e ritenere degne di attenzione, al punto di farne all’occorrenza oggetto di riunione familiare con tanto di comizio a genitori unificati, solo le carenze, o quelle che le drama queen in cattedra segnalavano come tali... e con discorsi più o meno infarinati di psicologismi e qualche pretesa in termini di conoscenze pedagogiche enfatizzavano solo quelle, così che a un adolescente poteva anche sembrare di essere identificato esclusivamente con le proprie mancanze. Che poi pareva che in casa fossero ritenute tali a basarsi esclusivamente sull’acutezza di giudizio di un registro elettronico.... Era piuttosto difficile rimontare a quel punto lì, con l’identità, già di per sé in via di costruzione, ammaccata in quel modo... E invece è così bello notare le piccole cose che rendono prezioso ciascuno di noi e per cui varrebbe sempre la pena dire grazie... Ogni abbraccio è preziosissimo! E non solo: ogni sguardo! Tutti i piccoli pensieri che una persona dedica nella sua giornata a chi vuole bene... Il nonno e io abbiamo ancora tutti i disegni che hai fatto per noi. E ci piace raccontarci di tanto in tanto ‘quella volta che... Eri ha fatto questo e ha fatto quello’... Poi ogni volta ce la raccontiamo diversa e con qualche balla in più, ma fa niente... Erika, manco a dirlo, adorava le teorie pedagogiche della nonna.

    Più o meno lo stesso teatrino si era verificato a proposito del prof di inglese, che in istituto godeva, pare meritatamente, di una certa fama: era infatti piuttosto noto per essere di manica così stretta da non andare più in là del concetto di gilet. La mamma, di fronte a un 4 che Erika stessa considerava non adeguato alla sua preparazione e alla sua prova, aveva sclerato invocando lezioni private anche per quella materia, la nonna invece le aveva consigliato la ribellione matura. In buona sostanza, secondo la nonna, che ci si era appassionata parecchio mentre gliene parlava, Erika avrebbe dovuto prendere da parte il prof e fargli un bel discorsetto. Tipo che lei non si sentiva rappresentata da quel 4, non quella volta lì quantomeno, che aveva fiducia nella propria

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