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Gli occhi del gufo
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Gli occhi del gufo
E-book132 pagine1 ora

Gli occhi del gufo

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Info su questo ebook

Cos'è la vita se non imparare a vivere la vita? canta Achille Lauro nella sua "Marilù". È questo l'obiettivo di Sebastiano, un ragazzo privo di inclinazioni e ispirazioni, apatico e indifferente. L'unica scintilla che alimenta la sua vita è la speranza di trovare l'assassino dei suoi genitori. 
Quell'uomo misterioso, impresso nella sua mente, lo tormenta ogni notte, un incubo ricorrente che al tempo stesso è l'unico filo per ricostruire la verità. La sua rinascita sarà segnata dalla riscoperta di sé stesso e dal desiderio di cambiamento, senza mai dimenticare il suo scopo primario.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2024
ISBN9791223052167
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    Anteprima del libro

    Gli occhi del gufo - Antonino Natale

    1

    Stavo per addormentarmi quando suonò il citofono. Sentii mia mamma chiedere chi fosse, la porta aprirsi e… BUM BUM. Due colpi di pistola, le sue grida, il tonfo di un corpo che cade per terra, le urla di mio papà e… BUM BUM BUM, altri tre colpi. Sento un altro corpo cadere, poi solo silenzio. Il mio cuore batte all’impazzata, mi alzo e mi precipito all’ingresso. Vedo i miei genitori inermi ricoperti di sangue e un uomo davanti alla porta d’entrata che punta la pistola verso di me. Sento i suoi respiri e l’odore della polvere da sparo nell’aria. Compie tre passi. Uno, sobbalzo. Due, mi copro il volto e gli occhi col braccio destro. Tre, sento la canna della pistola appoggiata sulla mia tempia. Tolgo il braccio dal viso e ci guardiamo dritti negli occhi, il tempo sembra dilatarsi a dismisura e tutto andare al rallentatore. La sua mano trema – sento muoversi la canna sulla mia tempia – così come il mio corpo. Voglio urlare ma il fiato si blocca in gola. Addirittura, spero che l’uomo davanti a me prema il grilletto, almeno non sarei più costretto a sopportare il panico e la disperazione. Sento partire il colpo ma è solo la mia immaginazione. La pistola si separa dalla mia testa, l’uomo si gira e corre giù per le scale. Mi ricordo tutto, fin nei minimi particolari eppure… eppure non riesco a ricordarmi chi fosse quell’uomo. Vuoto completo, un blackout che mi attanaglia da quel giorno per ogni maledetto giorno della mia vita. Voglio sapere chi è, ma invano. Voglio ricordarmelo! Me lo ricorderò e finalmente potrò vendicarmi. È l’unico appiglio per dare un senso alla mia vita, l’unico pensiero che mi impedisce di impazzire del tutto. Sono seduto in salotto davanti al computer e cerco un modo per ricordare il suo volto.

    2

    Dopo quel giorno orribile vengo adottato dallo zio Paolo, il fratello di papà. Le pratiche sono lunghe anche perché vive solo. È un uomo alto sul metro e novanta, con guance e mento spigolosi che gli conferiscono un’aria austera. È sempre di poche parole e a casa quasi nessuno viene mai a trovarlo. Solo un signore passa ogni tanto: anche lui alto, biondo e, anche se parla bene l’italiano, con uno strano accento. Tipo orientale, direi. A pensarci bene mi viene in mente che possano essere amanti, chissà perché. Anni dopo, io e lo zio ci saremmo sentiti al telefono solo per i nostri compleanni e a Capodanno per gli auguri: «Come stai?» «Bene, e tu?» «Anche io, grazie, tutto bene». Una conversazione più o meno così, sempre. Mentiamo entrambi, tutti e due lo sappiamo, e forse per questo si crea una specie di frattura affettiva tra noi.

    Iniziate le medie mi isolo dai coetanei, seguendo un po’ le orme di mio zio. Cerco di non farmi notare molto e non frequento nessuno. Non lo faccio apposta, preferisco stare nella mia camera a leggere. Leggo sempre, in continuazione, tranne quando mi prendono fantasie erotiche sulle mie compagne di classe, non so se mi spiego. Il primo romanzo che prendo dagli scaffali di mio zio è Il signore delle mosche. Ne rimango affascinato. Desidero ritrovarmi anche io in un’isola per poter essere al comando di un gruppo di ragazzini. Mi vedo come una via di mezzo tra Peter Pan e Mangiafuoco, un leader che vuole il bene della comunità ma con un’anima oscura dentro. Il secondo romanzo è Il ritratto di Dorian Gray. Questo libro mi folgora cambiando in me la prospettiva sul mondo.

    Al liceo inizio ad avere un fare più spigliato e a tenere testa a qualsiasi discussione coi professori, interrogazioni comprese. Ho buoni voti in tutte le materie fuorché in ginnastica. Detesto proprio lo sport, non sopporto l’agonismo e al tempo stesso, per quel che concerne il basket e il calcio a cinque, lo spirito di squadra. Voglio fare sesso il più possibile, in continuazione, e non mi ricordo di una sola ragazza, tra quelle conosciute, che non si sia presa bene di me. La prima compagna di scuola con cui c’è stato qualcosa si chiama Giulia. Ha capelli neri scuri e ondulati, non è molto alta, porta gli occhiali e ha due occhi sottili come una giapponese. Ha un fidanzato che studia sodo e ha modi eleganti e gentili. Una sera esco di casa con la bici per fare un giro. Mi capita spesso, è un modo per sfogarmi della noia e della quotidianità. Passo davanti alla scuola e li trovo abbracciati sullo scalone dell’ingresso. Per la via non c’è nessun altro. Inchiodo davanti a loro e dico rivolto a lei:

    «Salta su», facendo un cenno con la testa.

    Si mette a ridere e arrossisce, ma cerca di non darlo a vedere.

    «Ti porto in un posto fantastico», proseguo. A quel punto il suo fidanzatino, che proprio non riuscivo a sopportare, l’abbraccia ancora più stretta e mi grida:

    «È la mia ragazza, vattene!».

    La saluto e me ne vado con una risata che riecheggia ovunque fino a quando non svolto l’angolo. Il mattino dopo, a scuola, li trovo di nuovo in corridoio intenti a parlare. Passo davanti e guardo lei negli occhi senza dire niente e tiro dritto. All’uscita li aspetto seduto sulla bici. Le intimo:

    «Vieni».

    Giulia si gira verso il suo ragazzo.

    «Mi dispiace, io…» Lo lascia e sale sul portapacchi posteriore. Lui non protesta. Vedo la tristezza nei suoi occhi e non me ne importa.

    Inizio a pedalare più forte che posso con lei che mi grida da dietro «Rallenta», e per tenersi mi abbraccia forte e si stringe ai miei fianchi. Mi sento ebbro, quasi in estasi.

    «Dove andiamo?»

    «Conosci la fontana dei Dodici Mesi?»

    Arriviamo al parco del Valentino, subito dopo il Borgo Medievale. Le dodici statue ai lati della fontana a rappresentare i dodici mesi dell’anno, appunto. È primavera e la fine degli anni Novanta è alle porte. Glielo faccio notare e Giulia mi risponde che non ci aveva mai pensato e che la cosa le mette un po’ di nostalgia. Io non so neanche cosa abbia voluto dire per me «anni Novanta». Ci sediamo davanti alla fontana. La vasca è piena d’acqua e qualche pesce rosso ci sguazza dentro. Inizio a togliermi la maglietta.

    «Che fai?», mi dice Giulia alzandosi in piedi e guardandomi.

    «Ho caldo, mi rinfresco nell’acqua.»

    «Ma non puoi!», protesta e intanto con le mani tiene ferma la maglietta.

    «Ah, posso, certo che posso!», esclamo ridendo e nonostante i suoi tentativi me la sfilo del tutto.

    «Sei un idiota!»

    Mi tolgo anche le scarpe, i jeans ed entro nella fontana. Passano due tizi ma fingono di non accorgersi di noi.

    «Dai, vieni, non c’è nessuno.»

    Anche lei si sveste ed entra. Iniziamo a spruzzarci l’acqua addosso e in men che non si dica ci ritroviamo abbracciati l’uno all’altra.

    Da quel giorno vado a trovarla a casa sua ogni sabato pomeriggio. I suoi genitori non ci sono mai e mi fermo a dormire da lei. Passato qualche mese inizio ad annoiarmi. Quando una domenica mattina al risveglio faccio per andarmene, lei mi chiede se va tutto bene.

    «Certo», rispondo chiudendomi la porta di casa alle spalle. In breve tempo smettiamo di frequentarci e lei ritorna tra le braccia del suo ex.

    Anna, invece, la conosco alla festa di compleanno di un mio compagno di classe. È alta, ha i capelli biondi e lisci e un corpo minuto. Anche lei porta gli occhiali. Arrivo verso mezzanotte, qualcuno se ne sta già andando. Lei è lì, appoggiata al muro con un bel broncio sul viso e non parla con nessuno.

    Qualcuno mi saluta e io non gli rispondo neanche. Prendo una birra, la sorseggio e vado a offrirgliene un po’.

    «No, grazie, non ne voglio.»

    «È l’unico modo per non annoiarsi qua dentro», rispondo e intanto faccio dondolare la birra tra le mani.

    Tiene gli occhi fissi nei miei. «Preferisco annoiarmi.»

    «Domani salirò su un cargo diretto in America. Mi pagherò il viaggio lavando i piatti e pulendo il pavimento. Vieni con me?»

    «Che stronzata!», risponde togliendosi gli occhiali per guardarmi ancora meglio negli occhi. La prendo per la camicia e la bacio.

    Anche con Anna dopo i primi tempi inizio ad annoiarmi. Ma questa volta è lei a dirmi che non ha più voglia di frequentarmi. Continuo così per tutti i cinque anni del liceo, una ragazza dietro l’altra, senza mai fermarmi. È un modo come un altro per stordirmi.

    Finito il liceo l’omicidio dei miei genitori ritorna a galla nella mia mente e non smette più di tormentarmi. Quelli della mia classe si disperdono tra tante università, alcuni iniziano a lavorare. Io non faccio né l’uno né l’altro. Sono maggiorenne e finalmente autonomo: ottengo l’eredità fino ad allora rimasta in gestione a mio zio. Quando ci incontriamo per formalizzare il passaggio ci salutiamo velocemente: in un attimo, percepisco un bagliore nei suoi occhi così come nei miei. In fondo, a suo modo, è stato l’unico che si è preso cura di me per tutti quegli anni. Avrei potuto andare a vivere nella casa dei miei, ma il solo pensiero mi metteva un’angoscia terribile. Affitto un appartamento in zona San Salvario dove ci sono ancora pochi locali di tendenza. Nella zona ci sono alcuni spacciatori che tendenzialmente

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