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I tempi felici emersi dalle pietre della Memoria
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E-book411 pagine6 ore

I tempi felici emersi dalle pietre della Memoria

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Info su questo ebook

“Parlate italiano?... Siete italiani?...” Giorgio si fermò voltandosi a destra; Breviglieri fece un passo avanti, ma con la coda dell’occhio capì e avvertì la voce che ripeteva: “Parlate italiano?”

“Certo, siamo italiani” disse Giorgio e alzò lo sguardo sulla ragazza. Così cominciarono “i giorni felici” a New York sulla 46a Strada. “Mi chiamo Elizabeth” disse e noi ci guardammo perplessi. 

Giorgio del Piano e Daniele Breviglieri dovevano raccogliere dalla esperienza negli Usa i segreti della tecnologia e come si sopravvive nel mondo degli “squali”, già, gli squali come li avevano ironicamente qualificati i colleghi italiani che macinavano solo perdite e debiti.     

Erano due giovani ingegneri, pieni di entusiasmo; avrebbero rovesciato il mondo ma era difficile iniziare da una studentessa della Università della Columbia che in seguito si sarebbe mostrata parte organica del “pianeta”. Le sorprese si infittirono, prima sfumarono le ironie e a cascata la curiosità di confrontarsi sulle piccole scelte della vita nell’involucro delle passioni. Hyde ti avrebbe chiesto: “Sai vivere dove tutti i giorni migliaia di volti affaccendati ti passano davanti senza vederti?”… e tu avresti replicato, per distinguerti: “che rapporto puoi avere col denaro simbolo primario della loro esistenza?” 

Hyde, riflettiamo sul pianeta: le università in questo paese scavano dappertutto, i teatri tengono in cartellone Caligola per settimane e nel Village c’è musica, la satira arde di furori e le gag fiumi di lacrimoni. Poi le passioni e il governo dei fragili perché dentro, Elizabeth crede e dubita, Maureen è donna che con i desideri giunge sulla soglia, ma il pianeta, alle pulsioni travolgenti, pone un limite con lo scudo di Aiace!

Venti anni dopo esce dall’ombra Charles, pareva il più debole, credeva nel futuro – diceva “verranno” – il pianeta sarà spinto a riconoscere per la sua natura di moltiplicare il profitto, prima una presidenza di colore… e nell’ombra ci saranno molte altre novità.
LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2024
ISBN9788830698147
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    Anteprima del libro

    I tempi felici emersi dalle pietre della Memoria - Oreste Fasi

    cover01.jpg

    Oreste Fasi

    I tempi felici

    emersi dalle pietre della Memoria

    © 2024 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - [email protected]

    ISBN 978-88-306-9411-8

    I edizione aprile 2024

    Finito di stampare nel mese di aprile 2024

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    I tempi felici

    emersi dalle pietre della Memoria

    Scritto nel 1983 a San Quirico Valleriana,

    nel Maniero di famiglia

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di Lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    New York – maggio, 1983

    L’Amtrack si mosse puntualissimo alle 9,30 a.m. scivolando via dalla Pennsylvania Station col fruscio leggero di una serpe nel bosco. Era straordinario constatare la perfetta simmetria tra il programma che aveva infine deciso e la sua puntuale realizzazione. Fin dalla sera prima era stato in dubbio se raggiungere Valley Forge in treno, fino a Philadelphia, proseguendo poi in taxi, o direttamente da New York City con un’auto a noleggio. In ogni caso aveva prenotato sia l’uno che l’altro seguendo il consiglio di Regine che prevedeva per sabato mattina un traffico da brivido. La cordiale vicinanza di Regine durava da una decina d’anni e non era mai scaduta ai taciti compromessi che, per la verità, negli hotel vengono spesso fantasticati più che essere consumati. Il St. Regis, dopo la demolizione o la scomparsa comunque – perché non aveva mai capito bene cosa fosse successo, praticamente da un giorno all’altro – del Commodore sulla 42a Strada, era diventato un approdo raffinato che trasmetteva ai suoi ospiti quella piacevole sensazione di benessere conquistata con tanta fatica. Regine era stata la prima gradevole sorpresa e poiché lui dentro assaporava i frutti maturi dell’amicizia, oggi non avevo difficoltà a riconoscere che la fedeltà all’hotel era una conseguenza di sguardi e sorrisi ‘con ciascuno al suo posto’ dapprincipio eppoi piccole complicità mai risolte, ma tenaci e ricambiate con simpatia dalla ragazza.

    Parecchio tempo indietro, anzi giusto vent’anni, quando per la prima volta Daniele, giovane e spaurito ingegnere, era stato catapultato a New York per conto di una importante azienda italiana – ricordava come fosse stato ieri – si era comportato come i cuccioli che ogni giorno, circospetti, si allontanano di qualche metro dalla tana. Alloggiavo al Commodore, e per una settimana, gli spostamenti cauti e misurati si erano limitati a curiosare intorno a pochi isolati, dal Rockfeller Center a Broadway. Si muoveva con circospezione e preoccupato si chiedeva e si dava risposte, ma non avrebbe saputo dire di che cosa potessero indagare su di lui. Naturalmente nessuno gli prestava attenzione, ma l’ansia lo teneva sulla corda e con buona dose di realismo, avvertendo puzza di provincialismo nei suoi gesti cercava di passare leggero e inosservato. Ci stava pensando al breakfast room quando Regine, quasi in punta di piedi, si era avvicinata al suo tavolo per aiutarlo a prendere una decisione: Mr. Daniel – disse dolcemente frusciando la ‘r’, ma senza tradire l’aria di una vecchia frequentazione – le consiglio di rinunciare all’auto… vengono infatti segnalate miglia di coda sia sulla Express way presso il Ponte di Verrazzano, che sulla Turn Pike, passato il Lincoln Tunnel.

    Lui alzò lo sguardo, sorrise e ringraziandola la invitò a prendere una tazza di caffè. Non era la prima volta e per la verità entrambi conoscevano bene anche la risposta; il rigido protocollo dell’albergo non permetteva al personale alcuna confusione di ruoli. L’avventore veniva trattato sbrigativamente con cortesia e contava poco essere considerato buon cliente. Tuttalpiù, ad alcuni, venivano consentiti i modesti favori personali che, in quel momento, Regine infiorava con lo sguardo e con i muti rimproveri già noti: se la sua collaborazione era tanto preziosa quanto gradevole la sua presenza perché non le aveva mai chiesto di uscire insieme una sera?… Si guardarono e nessuno abbassò gli occhi, piuttosto impacciato osservò meglio, seduto al tavolo, come se qualcosa gli fosse dovuta.

    Allora le confermo la prenotazione del treno – lo riscosse lei con pazienza – solo un posto, Mr. Daniel?

    Sì, darling e ti prego prendi la mia carta di credito – disse sfilandola dal portafoglio – puoi interessarti del mio conto?. Si versò un’altra tazza di caffè e gli venne da sorridere alla piccola indiscrezione… solo un posto?… Già sembrava che sapesse parecchie cose sul cliente – né poteva sorprendersi alla luce dei fatti – ma non pensò neppure per un istante che fosse diventata improvvisamente curiosa. Qualche volta lo aveva accompagnato Elizabeth, che per la occasione alla reception si faceva registrare come Elizabeth Dianne J. Belmont, dandogli sempre la strana sensazione di frequentare una donna diversa. Riprese ad osservare con insistenza il volto di un uomo, appartato in un tavolo d’angolo, qualcosa stuzzicava la memoria – eppoi quando capitava e lo riferiva in famiglia, trasferiva la sua fama, se era veramente famoso, anzi con questa astuzia e una piccola parte della proprietà transitiva, la cosa si ingrandiva e molti dicevano che in sostanza lui e i suoi vivevamo in una non trascurabile intimità con le celebrità.

    L’avevo notato poco prima di avvertire il profumo di Regine e ora che si era levato gli occhiali scuri, mi apparve ancor più evidente di averlo conosciuto da qualche parte. Era stempiato, dai rari capelli trasparenti come fili di seta, doveva essere stato un biondo-rossiccio che vestiva impeccabilmente portando un leggero foulard sotto il collo della camicia. Si concentrò sulle lentiggini e, ora che poteva osservare l’espressione degli occhi, umidi e melensi, ritornarono alla mente i suoi gesti. Gli sovrappose una divisa da marinaio, Saratoga o Constitution che fosse, e lo rivide sullo schermo… perdio… l’irlandese cantante e ballerino, o forse ballerino no, ma mi ripromisi di parlarne con mia figlia che sugli attori, i registi e i film conosceva vita, morte e miracoli Non avrei avuto gran successo con lei e comunque dovevo attendermi già la sua risposta: Pà, fosse stato De Niro… Selleck o Chamberlain!

    Aveva sedici anni mia figlia e in Italia sembrava che non esistessero altri attori al di fuori dei suoi idoli. Dovevo convenire: il personaggio che in quel momento masticava con difficoltà perfino le uova al bacon, appariva come un antenato di quella lontana immagine giovanile che piroettava con un’altra americanissima la June… eppoi?… mah… June sì, ma il resto vattelapesca!… tutti in verità dovevamo essere molto diversi. A me non dava fastidio, si sentiva in gran forma e le uova strapazzate, latte, juice e frutta lo stavano a provare, non una piega, un rossore sulla pelle, un capello in meno ma l’altro che cosa pensava di se stesso dopo cinquant’anni di luci della ribalta e di notorietà? Guardò l’orologio: mancavano venti minuti alle nove. Firmò la carta di credito a saldo del conto, baciò la mano di Regine e col taxi raggiunse la stazione ferroviaria.

    Eravamo entrati nel New Jersey e ci accingevamo a superare gli innumerevoli bussolotti che davano a Newark una immagine spettrale. Ora che ci stavo pensando, in quello squallido paesaggio, non ricordavo di aver mai visto anima viva; tuttavia non riuscivo a togliermi dalla testa che lì qualcuno doveva pur esserci, come una babele moderna fluida sottoterra, forse eretta a simbolo dei nostri silenzi. Una sera a teatro ne parlò con la madre di Elizabeth, Margareth P. Lynch – lei spendeva la sua vita in difesa della natura – e al suo disappunto non aveva voluto rinunciare a una visione allegorica sorprendendolo con una immagine che sembrava addirittura poetica: Daniel, se tu la vedessi sotto una bianca coltre di neve in inverno, infiocchettandola con l’idea del Natale, potresti assimilarla al paesaggio dove vivono gli amici di Biancaneve!

    Certo a Daniele Breviglieri non erano mancate le occasioni per voltare lo sguardo e pensare ad altro, ma poi ciascuno nasce come nasce e i ranchitos de la carettera once o le periferie brulicanti delle megalopoli sudamericane, non facevano differenza, là era stato l’uomo a disegnare quei simboli di sopravvivenza, qui c’era da struggersi il cuore a credere che a circa venti miglia dalla più affascinante città del continente venisse incontro un lager di combustibili e sterpaglie abbandonate… altro che fiabe d’occasione. In scala ridotta provavo le stesse allucinazioni quando per raggiungere Venezia, dopo aver attraversato i dormitori di Mestre, mi venivano incontro i miasmi solfurei degli acquitrini industriali di Marghera portati da un volo stridulo e disordinato di gabbiani. Se per vivere e ottenere il comfort del progresso avevamo pagato un prezzo così alto, forse era meglio continuare ad andare a cavallo. Il paradosso lo riportò al suo Bloody Mary e ne bevve un sorso. Dentro non si sentiva completamente a suo agio e guardando attorno provò ad immaginare se qualche vicino potesse trasferirgli euforia in eccesso e magari un pizzico di ottimismo che in quel momento precipitava al brutto, colpa non soltanto dei bussolotti di Newark o dei miasmi di Marghera. Scartò subito il passeggero che aveva difronte, sulla fila opposta. Aveva ordinato un sandwich con un pack di latte e con incredibile pignoleria, ruminando insieme cibo e pensieri, buttava giù appunti a valanga, per di più con quel sistema di scrittura che non era mai riuscito a capire fino in fondo, nel quale, polso e block notes, si ponevano ad angolo retto. Euforia da buttar via doveva averne proprio poca. Non si era tolto neppure il soprabito e gli occhi si dilatavano ogniqualvolta deglutiva un boccone: sarebbe arrivato a Washington avendo riscritto la Bibbia. La capitale mi era venuta in mente ritenendolo istintivamente un funzionario statale; un pendolare della Amministrazione che si preparava ad illustrare la catastrofica situazione finanziaria di New York City, al solito sottocomitato del Congresso che gli avrebbe suggerito di farvi fronte aumentando alcune tariffe pubbliche e rinunciando a costruire i casermoni per la povera gente. Affari loro

    Noi in Italia ci potevamo permettere il lusso di assegnare case popolari anche ai poveracci che si sarebbero lamentati perché non erano previsti i garage per le Volvo o le Range Rover. Già affari nostri.

    Ritornai al relatore e lo giudicai meno sicuro. Si passava frequentemente il palmo della mano sulla fronte e con un tic monotono toglieva gli occhiali, puliva accuratamente le lenti, le appannava con il fiato e via di seguito dopo aver ripetuto una stropicciatina agli occhi. Dubitò che fosse tranquillo e neanche a dirlo trovò il modo di lamentarsi col cameriere che nel settore ‘club’ serviva i viaggiatori con particolare efficienza. Desiderai controbilanciare la evidente scortesia; alzai la mano con un gesto studiato e ne attirai l’attenzione. Si accostò e mi parve straordinario poter ordinare un caffè e ritornare alle attese che ansiosamente circondavano la sua visita a Valley Forge dove avrebbe finalmente discusso i piccoli intrighi di famiglia.

    Le attese che ansiosamente circondavano di curiosità il mio viaggio, dove avrei finalmente guardato negli occhi Elizabeth Merryl. Feci un bis con l’aperitivo. L’alcol, al contrario del caffè, mi avrebbe ben disposto all’accoglienza, come sempre emozionante, forse con qualche lacrima perché non si vedevano da tempo con gli smeraldi dolcissimi. Si doveva parlare dei ragazzi; ulteriori proposte sul futuro di Joseph Junior, senza scossoni, eppoi elogi e colorite stravaganze goliardiche per nostra figlia Helen Shana. Questa volta però intendevo capire meglio e non sarei caduto nel trabocchetto abituale che mi tendevano Elizabeth e Charles: lei a tener duro e lui generosamente tutto dalla loro parte, a chiedermi un consiglio, per farmi sentire sempre uno di loro, anzi la saggezza della nostra famiglia. Al risvolto positivo di un pizzico di euforia dovevo peraltro opporre la cambusa che ci aspettava allo Sheraton e figurarsi la delusione del vicino, gomito a gomito, che mi avrebbe guardato come una bestia rara se avessi rifiutato un secondo o un terzo Martini, secco di ginepro, come una legnata di una mazza da baseball… Così era, ed era sempre stato – come dovevo confessare con incredulità – fra le tante abitudini entusiasticamente accettate del nuovo pianeta, gli aperitivi, prima o dopo pranzo, mi riducevano ad uno straccio. Okay il caffè andava benissimo e lo avrei accompagnato con la seconda sigaretta. Posai lo sguardo in fondo allo scompartimento ed incrociai per un attimo gli occhi di una anziana signora, leggeva una rivista e di certo – pensai con insolenza – non sembrava intenta a coltivare tutte le mie speranze. Potevano anche non essere determinanti venti o venticinque anni di troppo a giustificare la sensazione di rara esclusività che portavo dentro, in ogni caso ero certo che non la favorivano. Mi ritrovavo infatti in cima ad una vetta o stavo per arrivarci dopo aver trascorso un anno intero in salita, interrogandomi invano sulle decisioni che altri prendono sulle nostre teste. Chiusi gli occhi e nel buio incerto del ricordo rividi ancora una volta una tarda mattinata di fine estate sull’autostrada Serenissima da Milano a Venezia, abbagliata dal sole… con tante voci che si intersecavano. Perché il fato, o comunque si potesse indicare o classificare l’evento, anzi il chiodo, che ci aveva squarciato una gomma, non si era portato via per sempre il sottoscritto che era al volante?… I più semplici avevano tentato di consolarmi sostenendo che siamo tutti segnati in un registro di carico e scarico. Ma anche i più accorti che non si sarebbero mai aggrappati al commento banale, con la loro solidarietà, non avevano aggiunto una sola virgola ai miei dubbi. Così la mia compagna se ne era andata lasciandomi alle prese con tutte le angosce che, in decenni trascorsi insieme, neanche supponevo potessero esistere. Tutto scorreva sotto gli occhi come se qualcuno mi stesse raccontando un episodio della propria vita. Sentivo dalle sue conferme che i ragazzi avevano reagito con dignità riprendendo a fare il loro dovere scolastico, fino a quel momento ricco di non pochi pensieri. Poi in quei ragazzi di cui mi narravano la storia, riconobbi i volti dei miei figli. Ancora stentavo a credere: l’ambiente diventò più familiare e nelle quattro mura domestiche, rigirandomi per le stanze, come un automa, ripresero a scandirmi le domande senza risposta dei giorni tristi che ne erano seguiti. Il lavoro messo da parte per cercare di riorganizzare la famiglia improvvisamente privata della sua bussola e della sua guida. Ricordavo quanto mi avesse giovato la sferzata che mi avevano portato, con la loro visita, Elizabeth e Charles senza pretendere di suggerirmi un impossibile conforto: Sistema i ragazzi e riprendi il tuo lavoro…

    Lì per lì mi era sembrato un consiglio crudele e disinvolto; tuttavia avendolo seguito, capivo che era stata l’unica strada ragionevole da percorrere. Per Ivan, a diciasette anni si avvicinava l’ultimo anno di liceo e Silvia, subito dietro, era lì ad un passo. Tutti potevano sopravvivere ed era giunto il momento – come non è facile supporlo quando tira il vento in poppa – di provarci anche noi.

    A metà gennaio avevo ripreso i miei viaggi esplorativi negli Stati Uniti e, nel cammino in salita, cominciai a scorgere i quotidiani interessi della sopravvivenza. Mi riscossi e riaprii gli occhi: il rumore era quello del treno che implacabile avanzava. Ora ero più tranquillo, a portata di mano c’erano tutti i traguardi ritrovati e mi restava da capire – se campavo – dove mi stava indirizzando la parabola dell’ultimo quarto di secolo al quale avevo diritto secondo le statistiche della vita media, né mi sarei sentito derubato nelle aspirazioni di una volta, da un eventuale anticipato silenzio.

    Ma Elizabeth, poi, voleva parlarmi soltanto dei ragazzi o non aveva intuito che un’altra spallata, rendendomi partecipe dei suoi successi, mi avrebbe giovato al morale? Qualcosa del genere era verosimile: ci conoscevamo da vent’anni e non era difficile immaginare quanti passaggi stretti la vita ci avesse spesso presentato come un contributo ai tempi felici. Il gusto del caffè, dopo il Bloody Mary, mi rilassò completamente e rinunciando ad approfondire i problemi degli altri passeggeri accesi una sigaretta. Gettai una occhiata al Journal e un insolito titolo a tre colonne riportò il mio pensiero al palcoscenico degli aridi interessi. Il giornale della City era pessimista sul recupero degli ingenti prestiti effettuati dalle banche americane ai paesi del vasto continente del Sud. C’erano due diagrammi distinti: una grande torta a spicchi colorati in bianco e nero, con la macchia latinoamericana, la fetta più grossa, copriva i due terzi del debito complessivo mondiale e, sotto con una didascalia pessimista, un istogramma che, a scaletta inseriva Messico e Brasile in testa, collocandosi ad occhio e croce tra i settanta e gli ottanta miliardi di dollari nel debito verso l’estero. Seguivano l’Argentina, il Venezuela e il Cile con poco più della metà, ma con un prodotto nazionale lordo nettamente inferiore alla metà, il che equivaleva a dire che erano quindi ancor più disastrati. Sollevai il giornale e focalizzai i ricordi; ora rammentavo lucidamente. Charles aveva detto: Daniel, chiudi tutte le partite scoperte al più presto e negozia i crediti che hai in portafoglio… be aware – era tipico di Charles consigliare, allarmando – non dare la impressione di volertene sbarazzare a qualsiasi costo… accusa una temporanea mancanza di liquidità, ma fila via!… Daniel, non ti fidare neppure dei titoli garantiti da banche argentine e cilene; se necessario opera in permuta, bestiame, quintas, anche terreni, ma entro due-tre mesi realizza tutto il possibile. Cavolo, appena in tempo! Mi aveva salvato da un mezzo disastro, ma una parte del merito, già non era stato proprio il mio intuito, dentro i piccoli e grandi compromessi esistenti tra di noi, ad accordare una insolita fiducia al mio amico Charles? Eh, sì, caro Charly, tu mi stavi restituendo una parte ancora insignificante di quanto io ti avevo già dato – ma dubitai subito del termine… dato, no… consentito forse, sì consentito col cuore mi parve più sincero – … okay era passata tanta acqua sotto i ponti e mi sembrava impossibile lei, tu ed io insieme, chi dei due poteva accampare una differenza a suo favore?… Scossi la testa e col giornale tra le mani ritornai alle cifre della catastrofe economica del Sud America. Eppure quando il vento spirava a poppa sul mio business e Charles mi aveva chiesto un incontro urgente, altri portatori di verità, informatissimi confidenzialmente e direttamente da fonti governative riservate, ad alcuni segnali di nervosismo che avevo riportato dall’Europa, mi avevano contagiato ostentando un pacato ottimismo. Come avrei potuto ignorare Jorge Mella Salinas, un alto funzionario del Tesoro argentino, col quale avevamo trattato una infinità di buone opportunità, che mi aveva rispolverato perfino la storia?

    Estimado Ingeniero, ma non avrà mica dimenticato che nella Seconda guerra mondiale abbiamo sfamato mezzo mondo?

    Sarebbe stato troppo facile allora ribattere e chieder conto sul perché, dopo aver salvato mezzo mondo dalla fame, il suo paese era annegato nella miseria – ma Charles mi aveva insegnato che i buoni affari sono sempre la conseguenza di risposte difficili a domande facili – e in quei giorni gli affari andavano proprio bene; la Calle Florida nel cuore di Baires era più che mai un salotto civettuolo di belle donne e di eleganti caffè sprofondati nella penombra eppoi non era semplice affrontare questi argomenti con un argentino.

    Di se stessi e del loro paese avevano quasi tutti una spavalda ammirazione e con un sorrisetto di commiserazione concludevano che una città come Baires era l’insieme di Londra, Parigi, e… senza freni un po’ per il verso giusto e un po’ per quello sbagliato. Quello invece che non riuscivo a comprendere era il cataclisma che aveva portato alla bancarotta metà delle imprese in Cile. Li ricordavo concreti, con un approccio europeo al business, anche se – ora rammentavo parola per parola – il mio corrispondente, ai pressanti suggerimenti di convertire tutti i pesos in dollari per far fronte ai suoi debiti con l’estero, mi aggredì con una sicumera che non mi aspettavo: Eres loco, Daniele? Sono cinque anni che cambiamo il dollaro a trentanove pesos: non vorrai deludermi affermando che il Cile potrebbe mai assomigliare al paese della pampa?

    No di certo, amico, gli avrei ironicamente rimproverato ora – ma era facile anche per me riflettere nel settore club dell’Amtrack – eppoi c’era la vecchia storia della sovranità contesa nel Canal del Beagle e… naturalmente la maggiore capacità bellica cilena… insomma di tutto un po’ meno che economia e finanza con le quali Manfred andava a spasso, sicuro del futuro. E mi venne da pensare a lui – sollevando gli occhi oltre il finestrino – povero amico al quale gli occhi erano rimasti solo per piangere. Da due anni non avevo sue notizie ed anche il numero telex era stato disattivato. Personalmente avevo limitato le perdite ad una manciata di dollari e non avevo mai capito bene perché Charles, che mi aveva aiutato col fiuto di una volpe, nelle sue attività finanziarie fosse invece rimasto così pesantemente coinvolto. Quando gliene avevo chiesto ragione, intuendo le mie perplessità, appoggiandomi una mano sulla spalla, lui al fratello minore, aveva replicato: Daniel, devo camminare – ma in inglese sentivo più marciare che camminare – insieme agli altri… è il complesso reticolo di coloro che sono nello stesso tempo un po’ clienti e un po’ fornitori di se stessi. Una banca d’affari non può scegliersi sempre la sua strada.

    E così aveva tagliato corto consigliandomi quello che lui avrebbe preferito fare per se stesso e io gli ero sinceramente assai riconoscente. Okay, Charly, quanto ti dovevo? Un mucchio di soldi questo era certo… la versione club dell’Amtrack forse, le mie mazze da golf… non Elizabeth, no, Elizabeth no, no! Ripiegai il giornale e osservai le prime case di Trenton che ci venivano incontro. Ora il pensiero si era avvolto di Elizabeth e tutto il resto mi stava creando un grosso malumore. Malgrado avessi rigettato almeno una decina di volte la decisione dell’auto, mi sentii contrariato per aver accettato prima il treno eppoi la limousine alla stazione di Philadelphia, giusto all’angolo di Market Street. Quanto sarebbe stato più semplice scendere a Trenton, prendere un taxi e raggiungere comodamente Valley Forge!… ma poi non avevo così fretta. Mi rilassai e rifeci l’itinerario. Intanto l’appuntamento era per le dodici e prendendo l’Expressway avrei raggiunto lo Sheraton tranquillo e riposato in quaranta minuti senza dannarmi col taxi, sempre troppo lenti o troppo veloci, per come li sopportavo io. Ma dopo aver ripercorso i limiti estremi dell’inconscio che di lei non voleva parlare, esaurito tutto il possibile a portata di mano, i vicini, il paesaggio, l’America latina e questi benedetti castelli di chiacchiere, lei e non altri, lei da venti anni e Charles, perché tutto come allora era rimasto confuso, pericolosamente inclinato, sempre sul punto da temerne una accelerazione nel cambiamento. Piuttosto chi avrei incontrato, oltre Elizabeth, nel salone delle feste dell’hotel, dove il banchetto era previsto? Charles Gilbert ovviamente, eppoi i Lynch, i Salomon e con loro avrebbero fatto quadrato la lobby ebrea di Wall Street e quella assai più numerosa dei grandi network televisivi. Insomma proprio tutti coloro che non sopportavo, giornalisti compresi, colleghi di Elizabeth, alcuni Pulitzer o con altri prestigiosi riconoscimenti. Arthur si sarebbe visto?… No, era ormai acqua passata, ma captando al volo uno sguardo avrei capito se nell’aria qualcuno si faceva avanti… che strano temo forse un nuovo amico? No! Noo! Perché non sentivo più gelosia, avevo imparato a vivere solo in mezzo agli altri e non temevo di perdere la mia compagna; in ogni caso se fosse capitato, ora ero preparato a metterci una pietra sopra, la vita avrebbe avuto sempre il sopravvento… era cinismo? Noo! – ribadii con forza, quasi gridando, ma l’autista non diede alcun segno di stupore oltre il cristallo – … e anche se parteggiavo per me, non c’era dubbio, sulla pelle ne portavo i solchi e non vedevo come avrei potuto giudicare tutte le inquietudini che, al ritmo delle pulsazioni, mi attraversavano da parte a parte.

    Elizabeth me ne aveva accennato quasi per caso al telefono, piuttosto dimessa, restando nel vago, né mi aveva dato il tempo di approfondire l’insolito invito: Daniel, ti aspetto, per carità non pensare ad un Pulitzer… ma io sono così felice. Poi aveva aggiunto che anche Helen Shana voleva abbracciarmi e sarebbe stata presente con suo fratello. L’ultima volta che avevo incontrato mia figlia per un momento avevo tremato e sul mio viso doveva essersi diffuso un pallore sospetto: Non ti senti bene, Daniel? – aveva detto prendendole le mani – Fumi troppo e lo sai, ma anche girare il mondo come una trottola credi sia un tuo eterno privilegio o ti sei fermato a trent’anni?

    Si erano seduti su una panchina del campus di Princeton, dove Helen studiava con profitto da alcuni semestri e le aveva sfiorato i capelli con le labbra, ancora molto emozionato: Helen, non mi avevi mai ricordato tua madre come qualche istante fa… sei così bella!

    Avevano parlato dei suoi studi e con il candore aveva confessato che le avevo insegnato ad amare il greco e il latino, un modo tutto nuovo per vivere nel suo paese, e Princeton era il posto ideale e lei lì sarebbe rimasta volentieri. Erano complimenti e risatine: stavano bene loro due e la invitò a non precipitare, c’erano una infinità di luoghi dove avrebbe potuto portarsi dentro tutto quello che amava nella vita, eppoi le ricordò che anche a Ginevra, al college, gli aveva dato le stesse risposte. Era un segno sicuro che amava le cose che faceva, ma a decidere nella vita non le sarebbe mancato il tempo. Poi al momento di salutarla Helen lo aveva accompagnato al parcheggio, all’ombra delle querce e degli ippocastani, fermandosi all’improvviso, con una lacrima scrutandolo maliziosamente aveva aggiunto: Daniel… a mia madre invidierò sempre di averti conosciuto così giovane… non la fece terminare, le posò una mano sulla bocca, l’abbracciò forte e per allontanare una venatura di commozione disse in fretta: Tesoro, saresti sulla soglia dei quarant’anni, avrai tempo per spenderli assai meglio, non credi?

    Elizabeth Merryl Lynch

    Scotch?… Martini?… Orange juice? mentre i suoi occhi si acclimatavano col mio stupore.

    Erano i tempi del pionerismo dei voli di massa e nell’attraversare l’oceano i passeggeri qualche volta venivano affidati all’equipaggio come pacchi postali e se durante il tragitto si facevano due o tre scali, nel Regno Unito o a Terranova, non era difficile osservare dei piccoli gruppi che stavano sempre insieme. Scendevano e risalivano – avresti detto tenendosi per mano – e al buffet del transito ordinavano più o meno le stesse bibite. Un problema quasi unanime, comune anche a quelli che avevano studiato l’inglese, era capire lo yankee, giacché non tardai a farne le spese io stesso. Quindi le cose stavano più o meno a questo punto: il mio inglese pareva fatto apposta per prendere in giro chi parlava yankee e di questo dovevo rendermene conto molto, molto rapidamente per abituarmi alle parole tronche, alle frasi sottintese e assai di più alle preposizioni, una trentina in tutto, da giostrare coi verbi. Tutto il resto, almeno quello che mi avevano insegnato a scuola, soltanto poesia! Comunque dopo il primo scotch mi ero prontamente ripreso e, al di fuori delle tiritere che snocciolavano come un rosario nelle segnalazioni di servizio, scambiai con la bellissima ragazza una cordiale conversazione. Il nostro

    dc

    8 viaggiava con venticinque-trenta passeggeri ed un rompiscatole non veniva ancora classificato come il 41

    h

    che insisteva col caffè.

    Dovevo esserle rimasto simpatico ricambiando, con molti sorrisi e qualche sbirciatina dal corridoio, il mio imbarazzo, timido e pulito. Mi diede il benvenuto in America e nel trasferimento alla dogana, molto più scorrevole per lei e per i suoi colleghi, prima di scomparire per sempre dalla mia vita, appoggiò le dita sulle labbra e con un bacio mi disse: Bye!

    Ero a New York e mi parve di sognare. Ora dovevo attendere che la nostra rappresentanza in America, una via di mezzo tra il buen retiro e l’ufficio degli oggetti smarriti, completasse le formalità per il trasferimento a Lima, Ohio, presso una prestigiosa azienda siderurgica. Il mio destino da quel momento si confondeva con quello dell’Azienda italiana che si attendeva in cambio un graduale assorbimento per quanto di meglio potesse offrire l’America nel sapere. In verità le cose venivano rallentate per darmi la opportunità di inserirmi e prendere confidenza col modo di vivere di quei posti e della sua lingua, alle cui modulazioni bisognava abituarsi per il bene di noi tutti, compresi dunque coloro che da me si attendevano miracoli. Alloggiavo all’Hotel Commodore, tra la 42a e la Lexington Avenue, avendo alle spalle il Pan American Building che ad osservarlo, dalla mia camera al 16° piano, metteva in una certa relazione con la scoperta dei cieli, in atto proprio in quei primi anni Sessanta. Non avendo incarichi precisi in quel momento, Mr. Spavataro, il capo della nostra dimora a New York, mi spingeva a conoscere il magico caos della metropoli, consigliandomi di non perdere occasione per parlare con la gente; andare al cinema e a teatro

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