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Le voci del mare
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E-book321 pagine4 ore

Le voci del mare

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Info su questo ebook

Patrizia Scognamiglio ci propone un testo molto singolare, Voci del mare, nel quale racconta una parte della storia partenopea, arricchita di particolari e di considerazioni personali dell’Autrice. I personaggi storici e mitologici di cui si narra sono solo una piccola parte dell’immenso vissuto della città di Napoli. Inseriti in un appropriato contesto storico, i singoli personaggi si rivestono di fascino e autonomia individuale rispetto alle intere vicende e, accompagnati dallo sciabordio del mare, si inseriscono perfettamente nel narrato.
Il profumo del mare è onnipresente, e racconta la sua storia a chi lo sa ascoltare, a chi riesce ad avvertire le voci concitate delle tante anime che ha accolto e accompagnato nel loro viaggio.
Testimone muto fin dalla notte dei tempi, conserva segreti e speranze, e solo un cuore puro può ascoltare la sua voce, che a volte si mescola con il vento e, in un tutt’uno, ululando, si infrange sulla roccia. 
Il mito di Castel dell’Ovo, di Cola Pesce, del diavolo di Mergellina, del Palazzo di Donn’Anna, della sirena di Posillipo, e tante altre storie, tratteggiano personaggi storici per la gran parte afflitti da una smania di potere che li ha condotti verso la dissolutezza e il declino. Vittime dell’intemperanza, molti di loro si ricordano per l’efferatezza degli atteggiamenti, la licenziosità dei costumi e l’indifferenza nei confronti di un popolo che, nella sua napoletanità schietta e verace, gioca con la tradizione e il mito, lasciando una porta aperta alla fantasia.
LinguaItaliano
Data di uscita5 apr 2024
ISBN9788830697881
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    Anteprima del libro

    Le voci del mare - Patrizia Scognamiglio

    Poche parole a margine

    di uno scritto

    Prefazione di Rosa Morelli

    Napoli, la mia Napoli, la nostra Napoli è tutta nelle pagine che Patrizia Scognamiglio ci regala.

    Più volte mi sono chiesta cosa determini un amore così viscerale dei suoi figli, da dove nasca quest’amore che è per sempre e non ha similitudini con altre città. Anche quando storie di cronaca la portano alla ribalta per eventi tutt’altro che esaltanti, l’amore dà voce ad un dolore profondo, simile a quello di un amante tradito, e allora si condanna, si ama e si spera.

    Questo libro nasce da questo amore che è anche affermazione delle proprie radici, un dono che l’autrice, con tenerezza di madre e di nonna, affida ai propri figli perché queste radici vengano amate e mai dimenticate.

    Il Silenzio che genera la contemplazione del Golfo è dono di Bellezza. Quella Bellezza cercata e desiderata, che apre il cuore e la mente. Essa si offre all’osservatore in tutta la sua pienezza e il suo splendore. Stupore del Sublime.

    Nel silenzio della contemplazione, antiche storie incontrano colui che attinge a questa visione, tante storie: quella dei grandi protagonisti e quella dei piccoli; storie e leggende, spesso mescolate tra loro. Questo libro le offre al lettore. In tal maniera , questa città, che è sempre stata Capitale – anche durante il vicereame spagnolo – che è stata declassata, sia pur con il contentino del Principe di Napoli, aggredita, devastata, umiliata, racconta di sé, entra nel cuore dei lettori, invita alla conoscenza.

    Popolazioni italiche, Greci, Romani, Bizantini, Normanni, Angioini, Svevi, Aragonesi, …, persino la ricerca del Graal e il conte Dracula. A Napoli c’è di tutto!

    Qual è il suo segreto? Essa accoglie tutto, tutto abbraccia in una stretta che non soffoca perché rispetta il diverso e lo fa sentire a casa.

    Sarà la magia del mare? quel mare in alcuni momenti di un verde intenso o di un blu cobalto, che apre gli occhi dell’anima? Che racconta di Ulisse e dei cannoni aragonesi, di Cola di Pesce come di Nelson e Caracciolo, delle scorrerie turche e dei motoscafi blu? Dei bombardamenti delle due Guerre, la fuga dei nazisti, l’arrivo degli Alleati? Sarà la sua musica?

    Quanto dolore, tra i terremoti della natura e quelli della storia, custodisce questo mare!

    Una città sempre e ancora sotto la lente d’ingrandimento di tutti, più di qualunque altro luogo, in cui la bellezza affianca il degrado di alcuni punti tra i più rappresentativi della sua storia, degrado frutto di interessi poco trasparenti, di incuria delle amministrazioni, di una memoria che a volte sfugge e non custodisce i tesori della propria storia.

    Un universo articolato, in cui amore e morte, gioia e dolore, si intrecciano senza confondersi perché l’amore è: amore, e la morte è: morte; e il dolore non è l’altra faccia della gioia.

    Guida in questo universo si fa l’autrice; attraversa alcuni periodi storici, si sofferma su alcune narrazioni popolari e leggende. Suscita così il gusto della scoperta perché un libro non può e non deve dire tutto, deve, piuttosto, incuriosire, risvegliare il desiderio di saperne di più e ancora.

    Emerge da queste pagine, una città singolare, che nonostante il progresso custodisce fedelmente la sua identità, lì davanti a quel mare verso cui tutti vanno, nei momenti di gioia, di dolore, nel quotidiano che si colora, per questa visione, dei colori della festa.

    Tutti davanti a quel mare come davanti ad un’acquasantiera (Marotta). Un legame che non si spezza: il mare è la sua identità, il mare che sussurra, che urla, che crea e distrugge; il mare che narra, che canta, che abbraccia e che abbandona; mistero della vita, della tenacia di chi è sempre capace di ricominciare, di rifiorire e di rinascere.

    Ai miei lettori

    Sarà una pura e semplice sensazione o forse, quello che gli etologi chiamano fenomeno dell’impronta, fatto sta che da quando ho contezza di me stessa, dovunque io mi trovi, in viaggio di piacere, per turismo o per qualsiasi altro motivo, io cerco il mare. In una qualunque splendida capitale, sia pur lontana mille miglia da qualsiasi distesa d’acqua e che io stessa ho scelto di visitare per le sue pregevoli attrazioni, senza che me ne accorga, il mio sguardo si spinge lontano, nella segreta speranza di scorgere quell’azzurro che non c’è. Percorrendo le strade della mia città natale, ci s’imbatte di continuo in strette viuzze, ovvero in vicoli, spesso ripidi e angusti, ma basta sollevare lo sguardo e subito le pupille si deliziano vedendo apparire il nostro vulcano circondato dal mare: uno spettacolo d’ineguagliabile bellezza, sia quando il cielo è terso e trapunto di candide nubi che si rincorrono sospinte dalla brezza, che quando il tempo minaccia pioggia e il contrasto dei colori accende lo scenario facendolo apparire simile ad uno sfondo caravaggesco. Il centro storico di Partenope è particolarmente vasto poiché i palazzi antichi, sia quelli nobiliari che gli altri, edificati dalle diverse dinastie regnanti, sono disseminati in zone della città molto distanti tra loro a causa delle differenti destinazioni volute dai loro committenti. Aggirandomi in quei dintorni, li ammiro con curiosità e il sentimento che mi pervade, fino a indurmi a scrivere questo mio libro, è il vivo desiderio di afferrare la vita che in tempi lontani scorreva nelle vene degli uomini, delle donne e dei giovani della città. M’interessa molto cogliere le gioie, i dolori, i tradimenti e gli intrighi di cui trasudano quelle dimore, alcune delle quali sono ormai destinate ad un uso diverso da quello abitativo. Partecipando con spontaneo afflato alle vicende dei personaggi, mi commuovo, piango, sorrido e m’indigno per le ingiustizie e i delitti. Tuttavia, non riesco a distaccarmi dalle ragioni di ciascuno, sapendo che la vita costringe, talvolta, a scelte controverse, spesso spietate e dolorose; in ogni caso, la storia di questi protagonisti insegna che tutte le colpe si pagano fino in fondo, sia pure ad un’enorme distanza di tempo, quando se ne crede ormai svanita la memoria. Tra il sogno e la realtà potrei affermare di aver afferrato le voci dei protagonisti dei miei racconti, tutti storicamente attendibili, ambientati in alcuni fra i siti più rappresentativi di Napoli. Vi narrerò, innanzitutto, le vicende dei personaggi che hanno popolato, sin dalle antichità più remote, il Castel dell’Ovo. Subito dopo, vi parlerò di Cola Pesce, un personaggio vissuto in tempi assai lontani, a cavallo tra storia e fiaba popolare, che tanto ancora ha da insegnare a noi cittadini dell’era postmoderna. Sarà poi la volta del palazzo seicentesco, della viceregina di Napoli, Donn’Anna Carafa. Successivamente, conoscerete la villa di Jacopo Sannazaro, poi trasformata nella chiesa di Santa Maria del Parto e la storia del celebre dipinto denominato il diavolo di Mergellina. Infine ripercorreremo insieme gli innumerevoli fatti e misfatti accaduti all’interno del Maschio Angioino. Se vorrete seguirmi in questa avventura, di sicuro non rimarrete delusi.

    L’Autrice

    Prefazione

    Testimone d’eccezione dei racconti che stiamo per narrare è il mare di Napoli. Nel mormorio delle sue onde, imprigionate come in uno scrigno, esso racchiude le voci dei protagonisti delle vicende, sia liete che tristi, di cui è stato spettatore e delle mille storie, raccolte dalle sirene sue mitiche dominatrici.

    Per prima, troviamo la voce di Phaleros¹, antico condottiero della nave Argo che proveniente dal Mar Egeo, nel IX sec. a.C., sull’isolotto di Megaride, l’odierno Borgo marinari, fondò un agglomerato urbano protetto dalla leggendaria Torre di Falero. Nel secolo successivo, dalla penisola ellenica, giunse sulle nostre sponde la voce dei Calcìdi, mitici fondatori di Kyme², l’odierna Cuma, prima e più antica fra tutte le colonie greche dell’Italia Meridionale.

    I Cumani, volendo espandersi sulla costa, edificarono successivamente Parthenope, in onore della Sirena che, umiliata e offesa dalla noncuranza di Ulisse, si era lasciata morire nelle acque del nostro golfo. Con lo scorrere dei secoli, la città invecchiò, mostrando evidenti i segni del tempo; si decise, pertanto, di cambiare il suo nome in Palepoli³, la Vecchia Città, sita sulla collina di Pizzo Falcone. Contemporaneamente, a valle, nella zona pianeggiante del territorio, venne edificato un agglomerato urbano chiamato Neapolis, la Città nuova.

    La sua fondazione, secondo la tradizione, risalirebbe al 21 dicembre, giorno del solstizio d’inverno, dell’anno 475 precedente l’era cristiana.

    Nella Città nuova fiorirono ben presto innumerevoli attività, mescolando incessantemente le antichissime e multiformi voci delle vicende di quel popolo. Finché, nel 421 a.C., in seguito ad una sanguinosa battaglia, il bellicoso popolo degli Osci⁴, sconfisse l’esercito di Capua costringendo alla fuga la popolazione di Cuma.

    Neapolis, invece, avendo resistito all’assedio, asserragliata all’interno delle sue mura, fu in grado di dare ospitalità ai Cumani al loro interno. Così la città divenne ancor più popolosa di prima; la vita ferveva in maniera multiforme, sviluppandosi come gli infiniti colori di un caleidoscopio di razze di culture, di mestieri ed arti di ogni genere.

    La Città nuova sorgeva in una zona racchiusa tra la rigogliosa collina del Vomero e quella boschiva di Capodimonte, declinando dolcemente a valle attraverso il canalone di via Foria e la discesa di via Toledo, fino a giungere agli ampi spazi prospicienti il mare, nella zona dell’attuale piazza Municipio.

    Neapolis era prospera e operosa; vi fiorivano la produzione della ceramica e quella di eccellenti e svariati manufatti di artigianato locale; inoltre, le innumerevoli campagne, diversamente da quelle di altre regioni della penisola italiana, fruttificavano ben due volte l’anno, con una straordinaria varietà di prodotti agricoli. Proprio la multiforme differenziazione della sua produttività permise alla Città nuova di conquistare la funzione di polo commerciale intermediario tra la Magna Grecia e l’entroterra italico, dominato dai Sanniti e dagli Etruschi. Il suo agglomerato si sviluppava secondo lo schema urbanistico degli ateniesi, la struttura ippodamea⁵, ideata dall’urbanista Ippodamo di Mileto⁶. Si tratta di un impianto a forma ottagonale di strade, in cui la divisione del territorio si disegnava in aree omogenee in base alle tipologie delle attività che in esse venivano esercitate. Tale morfologia urbanistica venne conservata anche in epoche successive; ad esempio: nel Vico Panettieri si produceva il pane, il Vico Lammatari era abitato dai lavoratori dell’amido, e similmente avveniva in moltissimi altri vici, vicoli e traverse.

    Il centro della Neapolis greca venne impostato secondo tre ampie strade parallele longitudinali dette decumani, intersecate ad angolo retto, con strade più strette, chiamate cardini.

    Le mura difensive della città erano molto spesse e costruite con blocchi tufacei; vi si poteva accedere attraverso monumentali porte, situate nelle strade principali. Fra queste, ricordiamo: Porta di Costantinopoli, Porta Capuana, Porta Carbonara, Porta del Carmine, Porta Medina, Porta Nolana, Port’Alba, Porta San Gennaro e Porta del Santo Spirito.

    Pianta ippodamea di Neapolis con decumani e cardini

    Queste nove porte conducevano alle vie d’accesso e venivano varcate quotidianamente da viandanti, mercanti, ortolani, artigiani, nobili e signori d’alto rango che le cui attività rendevano, ogni giorno più, prospera e vivace la Nuova città. Intanto, le belle onde del mare lambivano senza sosta le sue rive, assistendo ad un incessante avvicendarsi di dominazioni.

    Troppo spesso, i nuovi Signori miravano unicamente ad impadronirsi delle grazie della bella Sirena, anziché riconoscere e accrescere lo splendore e la dignità che le spettavano. Forse fu così, che il popolo minuto, spogliato dall’avidità del potente di turno, finì per languire in una squallida miseria che rischiava di farlo degradare verso l’ignavia più assoluta.

    Ma ciò non avvenne perché la prodigiosa vitalità dei Neapolitani era, sin da quei remotissimi tempi, un formidabile scudo contro ogni oppressione.

    In tutto questo, cosa faceva il mare con le sue mitiche abitatrici? Il bel mare di Napoli, dalle onde cangianti dal blu al verde, al pari di un attento spettatore, ascoltava, assorbiva e rielaborava le lontane eco delle eccelse culture di antichi popoli d’ineguagliabile bellezza. Esso, ancora oggi, non si stanca di restituire, a chiunque voglia ascoltarle con l’orecchio dell’anima, le sue voci, misteriosamente unite a quelle delle mitiche sirene che, incessantemente, attirano chiunque sappia riconoscere la reale grandezza di questa incredibile città.

    1 M.E. Bertoldi , Phaleros- Treccani, Enciclopedia dell’Arte Antica (1965).

    2 Kyme, http://www.archeoflegrei.it/cuma/

    3 Palepolis https://napolineiparticolari.altervista.org/da-palepolis-a-neapolis-la-vera-storia/

    4 Osci , https://biblio.toscana.it/argomento/Campani

    5 F. Castagnoli – "Architettura ippodamea" da Enciclopedia dell’Arte Antica Treccani (1961).

    6 Ippodamo di Mileto, Skuola. Net.

    Castel dell’Ovo antico

    maniero fra le onde

    di Partenope

    "Il pensiero ricorre ivi, ora alla natura,

    ora alla storia dei popoli scomparsi.

    Si vorrebbe riflettere, meditare, ma non vi si riesce.

    Intanto sorride intorno a noi la vita,

    della quale pure non si può fare a meno".

    Johann Wolfgang von Goethe

    Ricordi di viaggio in Italia 1786/87

    Parte II/ Napoli

    Era sera ed io, non lo riconobbi al primo sguardo. Era Castel dell’Ovo. Man mano che la sua mole s’avvicinava, lo guardai come mai avevo fatto prima. Da quella prospettiva mi pareva più maestoso e infinitamente più bello del solito mentre ammiravo le onde infrangersi gagliarde sulle sue fiancate, esso mi sembrò splendido come un vascello incantato, salpato da un porto infinitamente lontano, pronto a condurmi in un fantastico viaggio verso mondi sconosciuti.

    Di colpo, mi addormentai profondamente e presi a sognare. Lo scafo greco proseguiva placidamente la sua navigazione, i rematori, sordi all’incanto delle ammaliatrici, lo conducevano attraverso le acque dei faraglioni dell’isola di Kapr Zai⁷, al largo della costa di Palepolis, mentre Ulisse, loro condottiero, legato all’albero maestro, pur fremendo ad ogni richiamo, non cedeva al canto delle sirene. Eppure le fantastiche creature avevano dispiegato tutte le loro arti per indurre quei marinai, esausti dall’interminabile viaggio, a tuffarsi fra le onde, affinché serviti come loro pasto, essi trovassero in quelle acque la loro tomba. La più delusa di tutte era lei, Partenope, dominatrice di quel tratto di mare e guida delle sue sorelle. S’era forse innamorata di Ulisse? Nient’affatto; è risaputo che ella poteva amare soltanto gli abitanti degli abissi come lei; tuttavia, non riusciva a distogliere il pensiero dall’accaduto, essendo sommamente indispettita, non soltanto per il fatto di non essere riuscita a divorare quei disgraziati, ma molto di più, per essere stata, per così dire, snobbata da quel traditore d’un Acheo. In realtà il nome di lui era corso, già da molti anni, su e giù per il Gran Mare come sinonimo d’ingegno, d’inganno e tradimento, eppure ella non avrebbe mai creduto che Odisseo si sarebbe rivelato furbo al punto di superare in astuzia le signore del mare. Ora si vedeva sconfitta, e colpita nell’orgoglio; lei che da sempre era stata la guida delle altre sirene, come avrebbe potuto continuare ad essere loro d’esempio e di sostegno? Rimuginando senza sosta circa la sua cocente disfatta, Partenope iniziò a non toccare più cibo, a disertare sia i momenti di svago comune che gli incontri di famiglia e a rifiutare ogni parola di conforto. Di giorno in giorno, la sua salute andò peggiorando e lei si sentiva sempre più debole. Finché in un mattino di mare in tempesta, non riuscendo a contrastare la corrente, a causa della sua estrema astenia, entrò in un gorgo che la risucchiò verso il fondo. In un attimo, si trovò a roteare in un vortice, poi riaffiorò andando a sbattere contro la parete di una grotta, proprio sotto l’istmo che unisce l’isolotto di Megarid⁸ al monte Ekia⁹. Qui, Partenope rimase tramortita, senza poter muovere le braccia e tanto meno le pinne e la coda, piombando immediatamente in un angoscioso delirio.

    Riversa sulla roccia, così rannicchiata, sembrava più piccola di quanto non lo fosse in realtà e iniziò a ripercorre, in uno stato di semi incoscienza, tutte le vicende della sua vita trascorsa. Vedeva se stessa appena nata, quando con le sorelle gemelle, per la prima volta s’erano allontanate dalla grotta natia per sperimentare l’ebbrezza di nuotare in mare aperto. Ricordava quel tempo lontano in cui, contro il volere di Acheloo, loro genitore e della musa Melpomene, loro madre, s’erano spinte a nuotare verso lo Jonio e l’Egeo per accarezzare, con le giovani pinne, quella miriade di isole sconosciute che risplendevano al sole come gemme preziose. Un giorno, sulle rive dell’isola Jonia, le tre sirene ancora giovinette, avevano udito la voce di un vecchio aedo, chiamato Omero, mentre declamava le gesta del figlio di Laerte, quell’Ulisse, re di Itaca, che aveva suggerito ai Greci suoi compatrioti, lo stratagemma per ingannare i Troiani col famoso cavallo dentro le mura della città. Grazie a quel suo tranello, gli Achei erano riusciti a coglierli di sorpresa, ad incendiare Troia, passando a fil di spada quel fiore d’eroi che erano i figli di Priamo, vincendo infine la guerra, dopo vent’anni d’assedio. Quella figura di anziano senza più le pupille, aveva impressionato le sirenette, ma la loro curiosità aveva avuto la meglio. Partenope ricordava di avergli chiesto: «Dimmi, vegliardo, come fai a raccontare tutte queste vicende se non hai potuto vederle coi tuoi occhi?» Omero che stando sulla riva del mare non s’era accorto del loro arrivo, rispose meravigliato: «Chi sei tu, che all’improvviso, interrompi il mio canto? Spiegami come sei giunta fino a questo lido; capisci bene che non posso svelare la mia arte ad una sconosciuta come te se prima non so chi sei e da dove vieni».

    Mentre le altre, spaventate dalla severità del poeta, fremevano per allontanarsi di lì, lei che era la sorella maggiore, indugiò non soltanto per esaudire la richiesta del vecchio, ma soprattutto per soddisfare la propria curiosità.

    «Il mio nome è Partenope – gli disse – insieme alle mie sorelle, figlie di Acheloo e Melpomene, stavamo ammirando le sponde aspre e al tempo stesso dolci di questo mare, quando abbiamo udito i versi con i quali narravi di una misteriosa guerra, di Ulisse, del prodigioso cavallo e degli sfortunati eroi troiani. Ora che sai di noi, raccontaci, per favore, in che modo sei venuto a conoscenza delle meravigliose gesta che stai narrando in questo tuo cantare, tanto affascinante e doloroso».

    «Nobili fanciulle – rispose rassicurato Omero – sappiate che io non sono nato come ora mi vedete; infatti, da ragazzo ero come voi e distinguevo la luce del sole, i colori e tutte le bellezze della natura. Molto spesso seduto sulla riva del mare, mi divertivo ad ascoltare i racconti di naviganti che narravano di posti fantastici veduti sulle rive delle isole più lontane. Un giorno essi divennero più cupi perché tutto il nostro Mar Dolce brulicava di navi da guerra, pronte a portare distruzione e morte ad un popolo, quello di Troia, che resisteva coraggiosamente, tanto da sembrare invincibile. Nel frattempo, per colpa della mia eccessiva curiosità, mentre mi arrampicavo sull’albero maestro di una di quelle navi, persi l’equilibrio e piombai sul fondo dell’imbarcazione battendo violentemente la nuca. Da quel giorno sono diventato cieco e il mio nome, Omero: Colui che non vede, lo dimostra; in compenso però, ho ricevuto dagli dèi i doni soprannaturali della sapienza e della veggenza. Ascoltando il suono del mare, ho imparato a far attenzione alle voci che esso racchiude e di giorno in giorno, sono riuscito ad accogliere e interpretare i loro messaggi. Come dicevo, nel XII secolo dell’era antica, Ulisse, escogitando un astuto tranello, pose fine alla guerra di Troia, così che da un orribile male poté scaturire la pace, bene supremo per tutti i popoli della terra. Lui, però, per vent’anni ancora, non riuscì a raccoglierne i frutti. Sta’ lontana da quell’uomo, Partenope! Ascolta bene e tieni sempre a mente sia le grida di giubilo che quelle di dolore, senza lasciarti sfuggire nessuna di esse, mia giovane amica, perché la Sapienza nasce dall’ascolto e dalla capacità di mettere a frutto tutti gli insegnamenti appresi».

    Rannicchiata in quell’angolo di roccia immerso nel mare, dolorante in ogni minima parte del suo corpo, nel delirio della febbre, Partenope ricordò il monito di Omero e rimpianse l’ostinazione che l’aveva spinta al tentativo di ammaliare Odisseo e i suoi compagni nelle acque dell’isola di Kapr Zai. Forse a causa delle ritmiche contrazioni del corpo, dovute agli atroci spasimi della sua agonia, si compì in lei l’estremo miracolo della vita: da quelle viscere morenti, sgorgò un uovo, grande quanto il palmo aperto della sua mano, di un incredibile color rosa, cangiante in ambra e oro. La poverina se ne accorse ma non ebbe neppure la forza di raccoglierlo, così lo accarezzò dolcemente e con la pinna caudale, lo spinse verso una piccola cavità nello scoglio che sembrava messo lì apposta per offrirgli riparo; quindi, con un lieve colpetto, della coda, lo accompagnò al suo interno, ultimo gesto d’amore della vita che sempre sgorga dalla sofferenza. Una volta messo al sicuro il suo uovo, la sirena s’abbandonò, esausta, all’abbraccio della morte mentre le onde la cullavano trasportandola verso il porticciolo vicino dove, poco tempo dopo, il suo corpo esanime rimase impigliato nella rete di un pescatore. Subito fu dato l’allarme e all’alba del nuovo giorno, nel mare di Palepolis nacque il mito di Partenope e del suo uovo portentoso. Quanto tempo rimase quell’uovo nella cavità dello scoglio di Megaride, nessuno potrà mai rivelarlo; sta di fatto che le vicende successive della Storia volsero a suo favore. Il nascondiglio che sua madre gli aveva trovato sarebbe stato ben presto violato

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