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Le marlboro di Sarajevo
Le marlboro di Sarajevo
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E-book163 pagine2 ore

Le marlboro di Sarajevo

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Info su questo ebook

Il libro è stato scritto mentre la guerra devastava quella bellissima e composita città che è Sarajevo. Narra le storie di quei giorni, viste dalla parte degli assediati, legando una vita all'altra, la sorte di un uomo a quella di una donna, di una casa indenne a una colpita dalle cannonate. Ne risulta un racconto corale, di amore e malinconia per una terra distrutta, ma privo di lamenti inutili, accettando l'inevitabilità della sorte e degli accadimenti. È un compendio di feroci pugni allo stomaco, in cui il conflitto balcanico fa da sfondo ai bislacchi protagonisti, sempre in bilico tra quotidianità e sopravvivenza.

"Jergovic è uno scrittore epico; possiede la capacità di lasciar parlare l'oggettività delle cose e degli avvenimenti, di cogliere la storia di un individuo o di un paese nei dettagli più concreti, con sobria essenzialità". Dalla prefazione di Claudio Magris
LinguaItaliano
Data di uscita8 nov 2019
ISBN9788899368715
Le marlboro di Sarajevo

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    Anteprima del libro

    Le marlboro di Sarajevo - Miljenko Jergovic

    L’autore

    Miljenko Jergović (1966), romanziere, poeta, giornalista e sceneggiatore, nonché maestro del racconto breve, è senza dubbio uno dei maggiori talenti letterari della sua generazione. Nasce a Sarajevo, dove compie studi in filosofia e sociologia. Nel 1994, durante l’assedio di Sarajevo – magistralmente tratteggiato nella raccolta di racconti Le Marlboro di Sarajevo (premio Erich-Maria Remarque in Germania) – decide di lasciare la città natale per trasferirsi a Zagabria, dove tuttora vive e lavora. La guerra, l’assedio, la fuga, il doloroso disgregarsi di una comunità, la nostalgia, ma anche gli affreschi commoventi e fiabeschi della propria infanzia, l’intrecciarsi di destini familiari e collettivi, saranno temi ricorrenti anche nelle opere successive.

    I suoi libri sono stati tradotti in una ventina di lingue e la lunga serie di premi e riconoscimenti letterari – tra cui, in Italia, il Grinzane Cavour nel 2003 per il libro Mama Leone e il premio Tomizza nel 2011 – lo consacra non solo come autore di fama internazionale ma anche come autentico erede dell’eccellente tradizione narrativa bosniaca e della migliore letteratura del Paese che una volta è stato la Jugoslavia. Per Bottega Errante ha pubblicato Radio Wilimowski.

    estensioni – 13

    Bottega Errante Edizioni

    Via Pradamano 4

    33100 Udine

    www.bottegaerranteedizioni.it

    [email protected]

    Editing: Ambra Ferraro

    Traduzione: Ljiljana Avirović

    ISBN 9788899368715

    Titolo originale: Sarajevski Marlboro, Durieux, Zagabria 1994

    © Miljenko Jergović

    È vietata la riproduzione totale e parziale del testo

    senza l’autorizzazione dell’autore e della casa editrice

    Quest’opera è stata pubblicata con il sostegno finanziario del Ministero della Cultura della Repubblica di Croazia.

    Miljenko Jergović

    Le Marlboro di Sarajevo

    prefazione di Claudio Magris

    traduzione e postfazione di Ljiljana Avirović

    Bottega Errante Edizioni

    Con la valigia sempre pronta

    Prefazione di Claudio Magris

    Il nuovo Andrić bosniaco: così Paolo Rumiz, perspicace scrittore e cronista della terribile e insensata guerra nei Balcani, ha definito Miljenko Jergović, il sorprendente autore de Le Marlboro di Sarajevo. Entrambi, come molti altri scrittori, raccontano di quel variegato crogiolo balcanico di popoli, religioni e culture diverse, che dovrebbe e potrebbe essere un esempio di coesistenza, tolleranza e arricchimento reciproco – e parzialmente lo è anche stato, dando così una lezione di coesistenza umana – il quale però è diventato luogo della vergogna e della distruzione.

    Anche il mondo di Andrić è venato di tragedia, il che rende tale mondo imperscrutabile ma non assurdo, e non lo priva del senso della vita; ecco come egli riesce a mantenere l’atteggiamento epico, l’ampio respiro e la notevole forza narrativa capace di cogliere la totalità e la continuità della vita.

    Anche Jergović è uno scrittore epico; possiede la capacità di lasciar parlare l’oggettività delle cose e degli avvenimenti, di cogliere la storia di un individuo o di un paese nei dettagli più concreti, con sobria essenzialità.

    Ma la tragedia che scuote il mondo di Jergović è insensata, grottesca; nei suoi racconti la violenza sanguinaria rivela il suo orrore attraverso l’indifferenza, attraverso l’apparente normalità di avvenimenti mostruosi, attraverso il caotico smarrimento e attraverso bizzarre coincidenze.

    È una violenza che proviene da ovunque, eppure non si sa da dove, e che viene costantemente mistificata, attribuita ad altri, in modo da non essere più identificabile, una violenza di tutti contro tutti. È una violenza abbinata alla falsificazione dell’ideologia, dell’informazione e del giudizio, che spesso nomina a priori i complici e vorrebbe indicare i colpevoli ancora prima che abbiano commesso il delitto. Mai come nella guerra dei Balcani la violenza e la menzogna si erano abbinate e assomigliate in tal misura.

    Il respiro epico dell’autore diventa dunque breve e interrotto; il narratore non descrive una vita intera, come disse Babel’ di Tolstoj, bensì i cinque minuti – che Babel’ scelse come proprio metro – in cui una vita si condensa e si spezza. La guerra, grande protagonista di questi insoliti racconti, non si vede; essa non è in primo piano, bensì costituisce la cornice, lo sfondo onnicomprensivo. La guerra si manifesta nel dettaglio, in colui che non ritorna a casa o viene colpito improvvisamente mentre sta portando l’acqua, nei particolari di un improvviso trasloco o nelle incomprensioni e nelle difficoltà che improvvisamente impediscono un amore.

    Il mondo di Jergović è vitale e allo stesso tempo inquietante. Vitale per le svariate vicende di individui irripetibili, per la loro picaresca familiarità con le osterie e con il destino, con il quale chiacchierano e che a volte riescono ad ingannare. Inquietante per l’assurdità che avvolge e distrugge il tutto, per l’astrazione che permette la terribile e stupida violenza. In Jergović è presente la compassione e un grande amore per la vita sensuale ed effimera, diventata effimera a causa di una guerra incomprensibile perché priva di un motivo intelligibile.

    Molti anni fa – in un’epoca quasi lontana – quando percorrevo la Bosnia in lungo e in largo durante i miei viaggi zingareschi lungo il Danubio e nei paesi confinanti, trovavo in Bosnia anche la felicità. Nel mondo di Jergović – come del resto in nessun altro mondo – la felicità certamente non può esistere, eppure paradossalmente essa si sente; si sente quanto potrebbe e dovrebbe essere vicina, il che rende ancora più terribile la sua impossibilità. E così non rimane altro che la rinuncia alla vita reale, la precarietà: «In un mondo fatto così – scrive Jergović – c’è una regola fondamentale, che si riduce a una valigia sempre pronta».

    Da Sarajevo Marlboro, Folio Verlag, Wien 1996, trad. di Klaus Detlef Olof.

    La traduzione dal tedesco del testo di Magris che qui presentiamo è di Marina Barbić-Poropat.

    I

    UN IMPRESCINDIBILE DETTAGLIO

    BIOGRAFICO

    La gita

    Il posto della testa è sul cuscino. Il resto è un orrore. Senti la terra soffice che cede sotto i piedi, il mondo barcolla assonnato, la tempia cozza contro il nocchio della spalla materna, dischiudi un occhio e sotto vedi il gioco delle scale, l’illusione ottica di elementari geometrie che ti ricacciano nel sonno. Ti svegli all’improvviso, la nausea che monta dallo stomaco. Sei dentro un autobus, circondato dagli impiegati dell’Ufficio di contabilità sociale in gita a Jajce. Nessuno si è portato i figli dietro, solo tua madre. Tu vedrai la cascata – ormai ha deciso –, non importa se le tue viscere cercano uno sfogo, se la palude torbida che hai in testa non sarà mai il getto chiaro di quell’acqua. Il vetro spesso dell’autobus rimbomba ritmicamente nella tua coscienza; cambiano gli scenari nei quali solo un domani, forse tra dieci anni, ravviserai i luoghi di una patria più vasta da raccontare in tono appassionato ed esagerato a chi viene dall’estero o dal resto del tuo paese.

    È una giornata di pioggia, sotto i ponti scorre il Bosna in piena e niente, proprio niente ti mette voglia di una gita. Gli impiegati di mezza età chiacchierano allegramente e qua e là sbirciano le bionde segretarie dalle grandi borse da spiaggia gonfie di polli arrosto, pettini, belletti, pasticche di plivadone, oli abbronzanti, nonché di quelle piccole cose femminili il cui uso ti sarà chiaro molto più tardi, cose che si usano solo una volta al mese, ma quella volta è sempre quando si è in gita o a una festa.

    Guardi una seicento sorpassare la corriera. Dentro ci sono quattro ragazzi. Visti dall’alto sembrano dei baldi nanerottoli che nella pioggia se la spassano a meraviglia. Corrono lungo uno scintillante mondo bagnato e sorpassano chiunque trovino per strada. Gli altri della corriera non sembrano averli notati, tutti presi come sono da questioni più importanti: nel bel mezzo della settimana capita una giornata libera, vale la pena di sfruttarla come si deve… Džemo lo Sdentato si è portato dietro la borraccia militare, la passa a tutti e così, per scherzo, la passa pure a te. Che pensi: è piena d’acqua, ma poi sei scosso dall’acre odore del liquido con cui l’infermiera ti unge la spalla prima della puntura. E allora, finalmente, le tue viscere scoppiano, il sedile davanti si copre di una poltiglia acida e giallognola che ancora per un bel pezzo, vischiosa com’è, ti salirà su per le narici.

    La corriera rallenta e si ferma per strada. L’autista scende, e dietro tutti i viaggiatori. Tua madre ti vorrebbe immobile al tuo posto, ma a te non va di startene là dentro tutto solo. Ti avvicini alla gente che si accalca, spingi e ti fai strada tra le gambe, poi vedi una seicento accartocciata, con un braccio che sbuca. Tua madre ti copre gli occhi con la mano, non guardi fino a che non ti ha rimesso sul sedile. Pallidi, i viaggiatori tornano a bordo: nessuno fiata più, solo una delle tre biondone dice che questo ci ha rovinato la gita. Ma questo cosa? E comunque alla fine lasci perdere, tanto ti dicono sempre che fai delle domande sceme. Quelli della seicento sono morti e pare che la cosa non ha scosso solo te. Ma se nessuno li conosceva, perché adesso bisogna essere tristi? Džemo attacca un discorso sugli incidenti stradali, i suoi e quelli altrui. A sentirlo diresti che ogni viaggio finisce sempre con una seicento accartocciata. Non ti stupisce se anche la tua corriera finirà sotto lo sguardo pallido di qualcuno, né se la madre di qualcun altro gli impedirà la vista del tuo braccio. L’idea, anzi, ha in sé qualcosa di intrigante. Chissà perché, ma stare al centro di tutta quell’attenzione ti pare magnifico. Sparisce la nausea, il tuo pendolo si gonfia nelle mutandine e un senso di benessere ti scorre nelle vene. Ti sei svegliato, finalmente. Ora sei lucido. Fai le domande a tua madre, sgranchisci le gambe, chiedi a Džemo di passarti la borraccia, fai ridere i tuoi compagni di viaggio, sei al centro degli sguardi e stai bene come quando sei morto.

    La città di Jajce è fatta di enormi mattoncini lego. Una mano gigantesca li ha messi lì come da prospetto. Qui niente è verosimile, a parte la cascata. Terribile e maestosa. Trascorri la gita sotto la tettoia del ristorante. Džemo racconta della ragazza che per via di un ragazzo saltò giù dalla cascata. Lui lo seppe e fece altrettanto. Ma la ragazza non era morta e il giorno dopo rieccola in città. Chiedeva a tutti dove si fosse cacciato il suo ragazzo, le rispondevano che si era buttato appresso a lei. Il che la rese ancora più infelice, e si buttò di nuovo. Nessuno credeva a Džemo, solo tu. Gli chiedi se per caso anche il ragazzo, dopo essersi buttato, non si sia rifatto vivo in qualche posto. No. Ah, capisco… però adesso ti suona proprio strano che una donna – e le donne sono più deboli degli uomini – possa restare viva una volta, e un uomo, invece, neanche una. Proponi a Džemo di buttarvi insieme, si vedrà chi resterà vivo. Non ci sta.

    Sotto la città di Jajce, dice, ci sono certi cunicoli da cui una volta entrato non esci più. Ci buttano i ragazzi che fumano nei cessi della scuola. La cosa ti fa venire i brividi. Tu non hai mai fumato, ma se a qualcuno dovesse saltare in mente il contrario potrebbero buttarci dentro pure te. Sarebbe orrendo vagare tutta la vita in mezzo al buio.

    Siete andati in una sala con le foto degli eroi. Qui il compagno Tito fece la Jugoslavia. Chiedi se il compagno Tito ha fatto pure Jajce. E Džemo: no, ma è come se fosse. Questa non l’hai capita. Secondo te il compagno Tito era abbastanza grande per mettere i mattoncini lego sotto la cascata. Quel no, ma è come se fosse di Džemo puzza assai, proprio

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