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La ragazza del bar Centrale
La ragazza del bar Centrale
La ragazza del bar Centrale
E-book215 pagine3 ore

La ragazza del bar Centrale

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Info su questo ebook

Stefano Da Rin è un ex poliziotto della Stradale costretto a un pensionamento anticipato da un grave infortunio sul lavoro. È un antieroe che decide di lasciare scorrere il tempo senza ulteriori scossoni andando ad abitare a Roggia, un borgo immerso tra i colli del Prosecco.Stefano impara l’arte delle vigne al mattino, la sera allena la locale squadra di calcio amatoriale, e di notte frequenta Silvia, la titolare del bar principale del paese. Una bolla perfetta all’interno della quale lasciare tutto immobile, in modo che la vita non possa riservare altre brutte sorprese. È qui che si spezza il corso naturale delle cose e che i fatti si ingarbugliano e il destino si mette di mezzo.

"Mi chiamo Stefano Da Rin, ho cinquant’anni compiuti a maggio, peso quindici chili di troppo e con questa tuta addosso devo assomigliare a un profugo più che a un allenatore di calcio. Ma nonostante il Real Roggia sia la squadra più perdente di tutta la provincia di Treviso, non esiste un posto al mondo dove preferirei essere in questo momento"
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2019
ISBN9788899368470
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    Anteprima del libro

    La ragazza del bar Centrale - Alessandro Toso

    L’autore

    Alessandro Toso, nato a Venezia nel 1970, è cresciuto a Treviso, dove vive tuttora. Dopo una lunga esperienza nel giornalismo sportivo, ha cominciato a occuparsi di export presso una multinazionale nel settore dell’edilizia. Nell’autunno 2013 ha preso parte al talent televisivo di Raitre Masterpiece. A settembre 2014 è uscito il suo primo romanzo, Destini Verticali (Ediciclo/Bottega Errante) che è entrato nella cinquina del Premio Itas 2015 e nella terna del premio Cortina d’Ampezzo 2015. Nel 2016 ha pubblicato A Galla per Scrittura & Scritture. Collabora come docente di scrittura presso i laboratori organizzati dalla scuola Il Portolano di Treviso.

    camera con vista – 11

    Bottega Errante Edizioni

    Via Pradamano 4

    33100 Udine

    www.bottegaerranteedizioni.it

    [email protected]

    Editing: esagramma

    Grafica e impaginazione: Federica Moro

    Coordinamento editoriale: Mauro Daltin

    ISBN 978-88-99368-47-0

    Bottega Errante Edizioni è un marchio di proprietà

    dell’Associazione culturale Bottega Errante

    (sede legale: corso Garibaldi 4/C, 33170 Pordenone)

    © 2019 Bottega Errante

    Tutti i diritti sono riservati.

    È vietata la riproduzione totale e parziale del testo

    senza l’autorizzazione dell’autore e della casa editrice

    Alessandro Toso

    La ragazza

    del bar Centrale

    Bottega Errante Edizioni

    A Nico, Dede, Chicca,

    e alla Robi che se n’è andata troppo presto

    1

    Il campo è duro, stanotte la temperatura deve essere scesa vicino allo zero. Da queste parti ogni tanto capita anche in novembre, me lo ha detto Bastiano durante il giro di ombre prima di pranzo. In compenso non dovrebbe piovere. Campo asciutto, allora; cosa che, unita al fatto che sul terreno di gioco del Real Roggia i fili d’erba si contano sulle dita di una mano, dovrebbe fare schizzare il pallone come su un biliardo. Giocarlo di prima, allora, tentare di prendere in contropiede gli avversari per mettere le punte davanti al portiere.

    Solo che i miei attaccanti sfiorano il secolo in due e hanno il passo di Antonio Cassano dopo una cena di cozze. Quindi non vale neanche la pena che ci provi, a dare consigli del genere. Magari potrei rovesciare il concetto e mettere in guardia i miei difensori contro i bomber avversari. Ma visto che anche la retroguardia del Real possiede la mobilità degli omini del calciobalilla, sarebbe del tutto inutile.

    Toh, un messaggio.

    In bocca al lupo!!! Ti aspetto dopo la partita. Anzi, dopo il dopopartita.

    La Silvia. Che sarebbe mia morosa, anche se questo termine lei non lo sopporta. Per fortuna qui nessuno sa che stiamo insieme, altrimenti presentarla sarebbe complicatissimo. Lei è Silvia, la mia… ragazza? Hmmm, c’è troppa differenza di età. Un’amica? No, con un’amica non ci passi tutte le notti. Se provassi a rispolverare la parola compagna, poi, non vivrei abbastanza a lungo per potermene pentire. Sì, ha un carattere deciso, la barista del Centrale. Se solo sapesse giocare a calcio, in effetti, sarebbe perfetta per stare in difesa. Di sicuro terrebbe in riga i miei undici dopolavoristi molto meglio di quanto riesca a fare io.

    Mi chiamo Stefano Da Rin, ho cinquant’anni compiuti a maggio, peso quindici chili di troppo e con questa tuta addosso devo assomigliare a un profugo più che a un allenatore di calcio. Ma nonostante il Real Roggia sia la squadra più perdente di tutta la provincia di Treviso, non esiste un posto al mondo dove preferirei essere in questo momento. Campo comunale, dieci minuti al fischio d’inizio.

    «Stagli addosso… stagli addosso… ECCO!!!».

    Tre a zero. Anzi, zero a tre, perché questa la stiamo perdendo in casa. Ma adesso io lo levo, Cavasin, così impara a ubriacarsi la sera prima della partita. Avrei dovuto capirlo quando è arrivato al campo in bici anziché col Fiorino, che non era in condizione di stare in piedi, e magari farmi due domande quando l’ho visto volare nei bagni degli spogliatoi tenendosi lo stomaco. Ha preso l’influenza, mister, abbiamo insistito noi perché venisse. Bei compagni di squadra che si ritrova, loro e la loro solidarietà tra avvinazzati.

    Mi volto verso la panchina. Canon, quarantatré anni, ventisei stagioni con la maglia del Real, una pancia da lottatore di sumo. Cernobil, lo spacciatore di fumo del paese. Lo teniamo in squadra perché ce l’ha chiesto il prete, ma ogni volta che mette piede in campo gli entrano tutti sulle caviglie, per via della mania che ha di vendere miscugli fatti di fieno e chissà cos’altro. E poi Leo, il fenomeno. Sedici anni, un sinistro benedetto dagli dei del calcio e il record assoluto di reti nei tornei giovanili delle Prealpi. Ora mi sta guardando come i cani quando stanno sotto la tavola dei padroni e si aspettano un boccone di cibo. Ma finché in panchina ci starò io, quello in prima squadra non esordisce.

    Così torno a girarmi verso il campo, dove Batista e Pancho stanno per rimettere la palla in gioco dopo il gol che abbiamo appena preso.

    «Copri, Panchooo!!! COPRI!!!».

    Figurati. Batista, in arte Antonio Battistella, anni trentasette, tocca la palla per il suo compagno, e quel cretino di Pancho anziché proteggerla con il corpo tenta una veronica. A centrocampo. Con i ragazzini della Virtus Losson che dopo un millisecondo gli sono addosso. È come buttare uno stinco nella vasca dei piranha, solo che sul nostro campo si alza la polvere al posto della schiuma dell’acqua. Il primo a scattare verso la nostra porta, la palla che apparteneva a Pancho incollata al piede, è Cecconato, un biondino che ci ha fatto impazzire fin dal primo minuto di gioco. Ora ha superato Magrin e sta puntando il mio stopper a tutta velocità.

    «Oooooooooooohhh!!!».

    Alle nostre partite non viene mai molta gente. Una cinquantina di persone quando va bene, una decina scarsa quando piove. Oggi però ci sono i tifosi dell’altra squadra, ovvero genitori e parenti dei giovanissimi del Losson. Ed è dal loro settore che si alza l’urlo di stupore, perché Pancho, in uno sforzo che a occhio gli deve essere costato uno strappo, ha allungato la gamba destra sradicando dal terreno Cecconato, il pallone e una zolla delle dimensioni di un sacco di concime.

    «Palla piena, arbitro!!!».

    Il suddetto direttore di gara arriva di corsa, fischietto in bocca e braccia già spalancate per fermare gli avversari che si sono fatti attorno al nostro numero nove. Nessuno osa muovere un dito, però, perché Cavasin è riapparso nelle vicinanze dell’azione. Di professione Cava fa il carrozziere e ha due mani che paiono presse industriali, così i ragazzi del Losson si ritirano in buon ordine.

    Appena è tornata la calma, l’arbitro estrae il cartellino rosso e lo agita in direzione di Pancho, che con la lentezza di un elefante ferito a morte si mette in ginocchio e apre le braccia a croce, sollevando il testone verso il cielo.

    «Arbitro!!! Ma ti schersi!».

    Come me, Pancho non è di queste parti. È arrivato in collina quando era già sui trentacinque, un brutto divorzio alle spalle e parecchie storiacce di donne da raccontare al bar. Ma nonostante qui i veneziani li vedano come il fumo agli occhi, per un’alchimia che non riuscirò mai a capire è riuscito a inserirsi alla perfezione nel tessuto sociale di Roggia. Se non fosse il centravanti della mia squadra, o se pesasse qualche chilo in meno degli attuali centonove, forse un po’ di bene glielo vorrei anch’io.

    Da quando mi sono trasferito a Roggia e ho preso la panchina della prima squadra, siamo arrivati ultimi per tre volte, penultimi due e terzultimi una, complice il ritiro del Tovena. Quando è successo questo miracolo abbiamo festeggiato per tre giorni di fila, costringendo la Silvia a implorare rifornimenti di prosecco da consegnare al suo bar nel giro di poche ore. Non che sia stato un problema, capiamoci. Su questi colli l’uva buona cresce come le ortiche in montagna, e l’industriosità dei residenti ha reso possibile una produzione intensiva tipo Giappone, roba che c’è da stare attenti a non trovarsi un filare di vigna nel giardinetto di casa al ritorno dal lavoro.

    Ora siamo tutti in pizzeria, il giro di antipasti è stato fatto fuori in cinque minuti scarsi e anche il piatto forte sta per essere spazzolato. Naturalmente l’argomento partita è già stato archiviato, che mica abbiamo voglia di soffermarci troppo sulle cose tristi. In compenso Pancho sta tenendo banco con le sue soluzioni al problema del terrorismo religioso.

    Magrin, però, mi guarda dal fondo della sala. Poi si alza e con aria vaga si dirige verso la porta del bagno; arrivato alla mia altezza si blocca e mi poggia una mano sulla spalla.

    «Mister, dobbiamo fare un discorso. Ma non si preoccupi, passo da lei domani dopo il lavoro».

    «Magrin, è la solita storia?».

    Il mio mediano di spinta, esperto mondiale di Gazzetta dello Sport, mi guarda, e un secondo dopo il viso gli si dipinge di un color raboso. Ho capito tutto.

    «Ragazzi, zitti un attimo che Sandro vuole dirci una cosa…» esclamo a voce più alta che posso.

    La comitiva finisce i bocconi, vuota i bicchieri e si prepara ad ascoltare.

    «No, mister, non è che volessi parlarne con tutti, poi va a finire ch…»

    «Vediamo se indovino, Sandro. Dopo la sconfitta di questo pomeriggio, volevi propormi qualche variante tattica per la formazione. Mi sbaglio?».

    Magrin è tra due fuochi. Se nega non avrà mai la possibilità di dirmi quello che gli girava per la testa, se vuota il sacco farà l’ennesima figura da idiota. Idiota aggiornatissimo, però. Il che, per sua sfortuna, è proprio quello che lo frega parlando di calcio con uno come me.

    «Be’…».

    Guarda il pavimento, il rossore non lo abbandona, adesso è più tipo spritz Campari, tra un po’ virerà sul rosso Aperol. Se lo conosco, non ce la farà a tenersi dentro tutto. Infatti scuote la testa, raccoglie un bicchiere a caso dal tavolo, vuota il vino in due sorsi e mi fissa.

    «Mister, abbiamo fatto quattro punti nelle prime sette partite. Non dico tentare di vincere il torneo, ma una mezza classifica, be’, quello io me l’aspetterei. Abbiamo il miglior portiere del torneo, Leo che non aspetta altro che far vedere quanto vale, insomma la qualità ci sarebbe».

    La qualità.

    Chiudo gli occhi, è come sentire un chiodo trascinato a forza contro una lavagna.

    «…».

    «Solo che se non cambiamo modulo non c’è verso!».

    Adesso Sandro si sta infervorando. Ha estratto una penna da non so dove e, allontanato un piatto con una Margherita ancora da finire, ha rigirato la tovaglietta di carta, lasciando esposta la parte bianca.

    «Allora. Mettiamo i quattro difensori in linea, così». Via quattro pallini messi in fila l’uno vicino all’altro, come gli omini del calcetto.

    «Poi a centrocampo ne mettiamo tre, tanto ci sono gli esterni che salgono quando occorre».

    Altri tre pallini, due frecce che partono verso l’alto. Sento un formicolio alla base della nuca, ma ancora non dico niente. Voglio che finisca, prima.

    «Sopra i centrocampisti mettiamo un fantasista che all’occorrenza sappia coprire, uno con piede buono e gambe veloci, e al suo fianco una seconda punta. Davanti il centravanti boa, uno tipo Ibra, che faccia reparto da solo e allunghi la squadra. L’albero di Natale, ha presente, no?».

    Magrin sorride, adesso, ed è il sorriso del bambino che ha recitato la poesia senza incepparsi e si aspetta gli applausi dei parenti.

    «Hai finito?» gli chiedo, il tono di voce controllato.

    «Più o meno, sì».

    Aspetto un paio di secondi, poi ne aspetto un altro paio. Alla fine mi alzo con un gesto lento e una smorfia sul viso, come se muovermi da quella sedia mi costi una fatica ingestibile e sia, in definitiva, l’ultima cosa che vorrei fare a questo punto della cena.

    «Magrin, tu lo sai chi è il mio modello calcistico, l’allenatore sul quale baso tutte le mie convinzioni non solo tecnico-tattiche, ma anche psicologiche e di gestione del gruppo?».

    Certo che lo sa. Ora però gli tocca dirlo ad alta voce, quel nome.

    «Ok, mister, ma stiamo parlando di trent…»

    «No» lo interrompo, e gli appoggio entrambe le mani sulle spalle fissandolo dritto negli occhi. Nel farlo mi abbasso appena verso di lui. A volte essere alti uno e novantacinque ha i suoi vantaggi.

    «Voglio quel nome, Magrin».

    Gli altri seguono la scena come al cinema, solo che al posto dei popcorn hanno in mano boccali di birra da mezzo litro o calici di vino bianco.

    «Bearzot. È Enzo Bearzot il suo modello di allenatore».

    «Bravissimo. Vedi che le cose te le ricordi, quando vuoi? E allora rispondi alla mia domanda. Bearzot le usava, parole come qualità, esterni, fare reparto da solo?».

    «Non… non lo so».

    «Te lo dico io, non le usava. E ciononostante, ha regalato al nostro paese il risultato calcistico più importante della storia. Niente mondiali vinti per via di intrallazzi politici, niente colpi di fortuna ai rigori, una vittoria schiacciante contro le tre nazionali più forti di quell’anno, e forse non solo. Pancho, tu te le ricordi quelle partite?».

    «Mister, ma ti schersi?».

    «Secondo te, Pancho, quando abbiamo schiantato il Brasile Bearzot ha utilizzato il modulo ad albero di Natale?».

    «Difesa strettissima e contropiede, mister. I pianxe ancora, i brasiliani».

    «Ecco, Magrin. Allora tu adesso mi devi spiegare perché abbiamo schiantato la squadra di Falcão, Zico e Sócrates con la difesa a uomo e il contropiede, e per battere dei ragazzini con la bocca sporca di latte dobbiamo trasformarci in una specie di laboratorio della NASA».

    Il paragone sembra fare breccia nel cervello del mio mediano di spinta, che alza le braccia come a dire mi arrendo, fa dietrofront e torna a sedersi al suo posto.

    Se fossi un allenatore onesto avrei dovuto aggiungere che la squadra dell’Italia ’82 aveva all’ala destra una specie di brasiliano con lo spirito di sacrificio di un tedesco, la difesa più impenetrabile degli ultimi quarant’anni e un numero otto che sembrava essere stato catapultato sul campo da un’astronave aliena, tanto era più avanti rispetto agli avversari. Ma questo farebbe nascere una polemica, e io non amo le polemiche. Almeno non quando riguardano la mia squadra.

    «Allora, mister, il solito brindisi per la prossima?».

    Meno male che c’è Cavasin a tirarmi su il morale. In campo è imbarazzante, specie quando pranza con i parenti prima di venire a giocare, ma in quanto a spirito di squadra non si batte. Grande Cava.

    «Ovvio! Stavolta comincia tu, però».

    La versione moderna di Fulvio Collovati si alza, boccale di birra stretto nella destra e mano sinistra portata in alto.

    «I… i…i…».

    In pochi secondi è un coro che coinvolge non solo la squadra, ma l’intera pizzeria. Che per la verità consiste in tre tavoli oltre al nostro, più il bancone del bar dietro cui si agita Beppe, il titolare.

    «I-I-I-I-I-I-I…».

    Al ventesimo i o giù di lì, Cava alza entrambe le braccia come un direttore d’orchestra, poi le riabbassa allargandole allo stesso tempo. Questo provoca una cascata di birra, ma nessuno ci fa troppo caso.

    «….SPACHEMO!!!».

    I spachemo. Li rompiamo, li facciamo a pezzi, insomma li battiamo. Sono circa tre anni che ci ripromettiamo di fare polpette dei nostri avversari alla partita successiva, e quello che succede di solito è che ne prendiamo tre o quattro, e ci ritroviamo da Beppe a giurare che andrà meglio la prossima. Capita, quando la squadra che alleni è composta da dopolavoristi con la pancia, qualche divorzio alle spalle e una preparazione atletica più adatta ai campionati di bevitori birra che a quelli di sport giocato. Ma a noi va bene così. Siamo il Real Roggia, prima squadra della Polisportiva Roggia e iscritta al torneo invernale UISP, categoria amatori. Due tornei l’anno, risultati come dire alterni, ma spirito incrollabile. Perché perdere sarà anche la nostra missione, ma noi perdiamo in un certo modo. E piuttosto che vincere come fanno quasi tutte le altre squadre, ci va benissimo così.

    «Mister…».

    «Mister…».

    Uno alla volta, i ragazzi mi salutano davanti alla pizzeria e si avviano verso casa. Se si

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