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Figlio di papà
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E-book206 pagine2 ore

Figlio di papà

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Info su questo ebook

Dopo il tentativo fallito di stabilirsi a Berlino, un trentenne originario di una cittadina di provincia trascorre le sue giornate lavorando come receptionist in un hotel di Zagabria, in bilico tra la propria disperazione, un ricco amante e la malattia del padre.

È il rapporto tra padre e figlio, da sempre ambivalente e minato dal passato che incombe su di loro, a rappresentare 
la chiave di volta dell’esistenza del giovane.

Senza compromessi, con capitoli brevi e potenti, pieni di emozioni profonde alternate a sesso e morte, paura e gioia, Pešut dimostra di essere una voce originale che interpreta perfettamente il tempo in cui vive e la generazione di chi è nato negli anni Novanta.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2024
ISBN9791255670407
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    Anteprima del libro

    Figlio di papà - Dino Pesut

    L’autore

    Dino Pešut (Sisak, 1990). Scrittore, drammaturgo e poeta croato. Laureato presso l’Accademia di Arte Drammatica di Zagabria, è noto come drammaturgo sia in patria che all’estero; plurivincitore del premio Marin Držić, ha ricevuto il premio Deutscher Jugendtheaterpreis e il premio della fondazione Heartefakt per il testo contemporaneo socialmente più impegnato. Partecipa al programma residenziale per giovani drammaturghi del Royal Court Theatre di Londra. I suoi testi sono stati tradotti in inglese, tedesco, francese e polacco. Figlio di papà rappresenta il suo debutto in traduzione italiana.

    La traduttrice

    Sara Latorre (1997, Ghisalba). Originaria della Bassa bergamasca, ha studiato Traduzione e Mediazione Culturale da serbo-croato e russo a Udine. Di giorno fa un lavoro normale, la sera si interessa di questioni di genere, linguaggio inclusivo e jugosfera. Ha tradotto Le trappole della buona educazione. Saggi sul femminismo e la cultura pop di Maša Grdešić (Asterisco Edizioni, 2023).

    estensioni – 39

    Bottega Errante Edizioni

    Via Pradamano 72

    33100 Udine

    www.bottegaerranteedizioni.it

    [email protected]

    Traduzione dal croato: Sara Latorre

    ISBN 9791255670407

    Titolo originale: Tatin sin

    © Dino Pešut and Fraktura 2020. All rights are represented by Fraktura, Croatia. All rights reserved

    © Dell’edizione italiana Bottega Errante Edizioni s.r.l. 2024

    È vietata la riproduzione totale o parziale del testo senza l’autorizzazione della casa editrice e degli aventi diritto.

    Quest’opera è stata pubblicata con il sostegno finanziario del Ministero della Cultura e dei Media della Repubblica di Croazia.

    Dino Pešut

    Figlio di papà

    Traduzione di Sara Latorre

    Bottega Errante Edizioni

    A mio padre,

    che mentre scrivo questo romanzo,

    per fortuna,

    è vivo e vegeto.

    E a tutti i nostri tentativi.

    Tuo figlio ti vuole bene.

    1.

    La notizia che mio padre è gravemente malato mi lascia quasi indifferente. Un po’ mi irrita, come i lavori stradali, come scoprire che quel vecchio vicino di casa alla fine è morto davvero o che una coppia disfunzionale di amici adesso aspetta anche un bambino. Percepisco un divario sempre più grande, un abisso tra quello che dovrei provare e quello che provo. O, più precisamente, non provo. Mi fa solo una telefonata veloce, dice che non mi tratterrà a lungo.

    «Ora sono al lavoro» riaggancio.

    Davanti a me c’è la hall indifferente dell’hotel. È ben climatizzata. Gambe molto bianche si accavallano. Chiudo gli occhi. Inspiro un profumo misto di disinfettante e carne arrosto.

    La notizia che mio padre è gravemente malato mi ferisce per i motivi sbagliati. Provo rancore, sull’orlo dell’adolescenza, come se i miei piani per il weekend fossero stati rovinati. Insieme al rancore arriva anche il disagio. Tengo il broncio alla malattia potenzialmente terminale di mio padre.

    Ho reso la mia vita insolitamente semplice perché un tempo era estremamente complicata e caotica a causa dei bisogni e dei problemi delle persone attorno a me. E ho fatto di tutto per non dover fare ciò che non mi piace – a parte il mio lavoro. Non ho un potenziale brillante, non vibro di energia positiva e mi riservo il diritto di non essere appagato dal lavoro che faccio. Non mi piace mentire.

    La malattia di mio padre mi mette a disagio perché mi costringe a parlargli, e io non voglio farlo. Qualche volta ci abbiamo provato, abbiamo provato a stare insieme e a conoscerci un po’ meglio e non ha funzionato. È come se avessimo deciso che è meglio chiacchierare una volta al mese del tempo e di quanto il Paese sia nella merda. Qualche volta lascio che dica che il lavoro che faccio nonostante le mie lauree è il chiaro segno che in Croazia non c’è speranza per i giovani. Lavoro alla reception di un hotel abbastanza ok perché mi sono laureato in letteratura comparata e lingua inglese. Le ho studiate perché non avevo altri talenti né interessi da piccolo gay pretenzioso. Con il tempo ho capito che non avrei mai trovato lavoro nel settore culturale perché è l’unico ambiente in cui anche alla sinistra fa comodo il nepotismo. L’assenza di privilegio va colmata con un talento incredibile, che io non possiedo. D’altronde, preferisco le persone ai concetti. Il mio lavoro non è impegnativo, spesso è noioso, ma tiene viva la mia curiosità. Mi piace lavorare soprattutto di sera e indovinare chi scopa con chi. Di notte riesco a leggere moltissimo. Scrivo poesie in segreto. La mia piccola opera è nascosta in una cartelletta nera con la scritta Hotel Addio. Non mi lamento del mio lavoro. Mi lamento molto di rado anche della mia vita.

    Però, a causa della notizia che mio padre è gravemente malato, sento la necessità di autocommiserarmi.

    2.

    «Adesso noi prendiamo e mandiamo tutto affanculo, e che cazzo. Lo sai, bisogna godersela la vita. Bisogna essere felici. Tutto il resto è da mandare affanculo, lo sai? Questo è il mio insegnamento. Bisogna divertirsi, bisogna mandare tutto affanculo. Io ho mandato tutto affanculo. Ora non è che posso piangere e pensare a quello che potevo e non potevo fare, al passato e cazzi vari. Capisci? Non posso fare così. Ho mandato tutto affanculo e quindi? Quindi adesso? E se muoio, vaffanculo. Non ho mica avuto una brutta vita. Ho te. E quando ti vedo, so che nella mia vita almeno una cosa l’ho azzeccata. Lo so. Vedo che sei diventato una brava persona, sei un lavoratore. Cazzo, lo Stato è messo talmente male che fai il lavoro che fai, ma nessun lavoro è perfetto, vacca ladra. Il lavoro è sempre una merda. Ma guadagni bene e poi ti metti su una bella vita, cazzo. Non serve mica avere tante cose e boiate varie che non saprei neanche dirti. È abbastanza che hai una casa tua. Che poi mi dispiace da morire che non siamo riusciti a comprarti un appartamento. Adesso è tutto rimandato. Ma porca puttana, nella vita ce la stai più o meno facendo e poi ti va male, che cazzo. Per noi era una priorità. Sistemarti in qualche modo. Per sapere che avresti sempre avuto un posto dove andare. Ma pazienza, cazzo, quando muoio avrai tutta la mia parte. Oppure se muoio vendi questa casa e te ne compri un’altra. Chiedi un prestito, capito? Mi ascolti? Stai bene? Mi interessa solo che stai bene. Solo quello. Solo che mi dici che sei felice e che va tutto liscio. Mi dispiace che non scrivi. Scrivevi bene. Io non ci capisco un cazzo, ma tu eri bravo. Penso che dovresti scrivere ancora. Poi puoi anche fare lo spazzino, ma hai qualcosa di tuo. È importante avere qualcosa di proprio perché poi finisce tutto affanculo. Tutto. Gli amici vanno affanculo, gli Stati, i politici, le scuole… Va tutto affanculo. Tranne quello che è solo tuo. Cioè, perfino i matrimoni vanno affanculo e poi i figli devono andar via. Vedi, tu te ne sei andato. È fondamentale avere qualcosa che è solo tuo e che ti tirerà su quando sarai nella merda. Io non so cosa c’ho di mio. Non lo so. Tu non sei più mio. Sei diventato un uomo, cazzo. Sei intelligente, hai finito l’università, hai fatto la magistrale. Io non ho studiato. Non ho potuto. Ma ho avuto una buona vita, una bella vita. Davvero. Senti, io non ti disturbo. Hai il tuo lavoro. Ma cazzo, falla una telefonata ogni tanto. Non ti disturbo. Davvero, non ho motivo di chiamarti e chiederti hai mangiato, hai cacato, hai scopato. Non è roba che mi riguarda. Sei un uomo adulto, ma chiamami, dai. Oppure vieni qui e andiamo a divertirci io e te. Possiamo anche andare da qualche parte. Non so. Vedi tu come sei messo col tuo lavoro. Io sono sempre a casa. E possiamo divertirci. Ora vado. Ma mi raccomando, chiama. Dai. Ogni tanto. Dai, ti voglio bene. Ti voglio tanto bene».

    E riaggancia. Ultimamente gli è presa la logorrea, dopo anni di silenzio. Quella fiumana di parole, la paura di sentire la mia indifferenza. E il riconoscimento, che io taccia come fa lui. Adesso l’inondazione di parole allaga la chiamata finché non riagganciamo. Non riesce neanche a prendere fiato. Risponde alle sue stesse domande, come se temesse che, se si fermasse un secondo, io gli chieda ma chi sei? Percepisco la sua paura.

    Mio padre non conosce nessuno come me. Credo di essere l’unico omosessuale che conosce. Sicuramente l’unico dichiarato. Non conosce nessuno che scriva o che abbia scritto. Conosce qualche professore di inglese perché ha fatto dei corsi gratuiti. Parla tre lingue straniere. Male, ma con autoconvinzione. Lento, ma preciso. Mio padre, prima di me, non conosceva persone che guardassero film lunghissimi e andassero alle inaugurazioni delle mostre. Non ha mai frequentato un uomo che si dichiarasse femminista. Non sapeva che esistessero ragazzi a cui non piace guidare. Mio padre non ha amici cinici, che alzano gli occhi al cielo e starnazzano come facevo io da adolescente. Mio padre non conosceva persone che si difendessero dal mondo leggendo. E non sapeva che i ragazzi potessero essere così intimi con le ragazze. Non mi ha mai giudicato per queste cose. L’ho dovuto supporre io, come tutto nella nostra relazione. Mio padre è sempre stato di poche parole. I miei genitori parlavano raramente tra loro. La mamma di solito gli parlava tramite me.

    Digli che siamo come due estranei nella stessa casa – parlava come in una telenovela. Poi piangeva. Solo dopo ho scoperto che le lacrime non dovrebbero avere l’odore della vodka.

    3.

    Il caffè lo bevo in un bar troppo caro del centro. Il caffè è acido, scarso e sempre della temperatura sbagliata. Il caffè è fair trade, anche se spesso mi chiedo se questo termine mi sia davvero chiaro. Ho iniziato a bere questo caffè carissimo quando ho smesso di fumare, quasi due anni fa. E perché il cameriere è attraente. Ho rinunciato al mio ultimo vizio, al piacere, per fissare un cameriere, molto probabilmente etero, per tre kune. Scappo sempre prima che arrivi l’occasione di parlargli. In questo momento bevo il caffè e penso alla malattia di mio padre. Dovrei chiamarlo e dirgli che andrà tutto bene. Solo questo. Questa bugia così piccola, questo conforto, lo rimando di un altro po’. Tra me e mio padre c’è sempre stata la mamma, la sua tristezza e la sua solitudine. L’avevo capito in terapia, quando ancora ci andavo. E, anche se sono riuscito a separare lei da me, mio padre è rimasto sempre troppo lontano di qualche passo, sempre come se fosse fatto di piume, sensibile, chiuso, sempre sull’orlo del pianto, di vetro e ghiaccio. Io e mio padre non abbiamo mai litigato. Non mi ha insegnato come si sgrulla l’uccello dopo aver pisciato. Non so quale fosse il cognome da nubile di sua madre. Non so come fossero i suoi nonni. Non ho mai conosciuto suo padre. Non so con quante donne sia stato. Non so se ne abbia amata qualcuna. O nemmeno se abbia amato mia madre, sua moglie. Conosco meglio il matrimonio dei miei genitori che mio padre. Le responsabilità genitoriali le delegava alla mamma, e lei a me. Siamo due uomini adulti che condividono una buona parte di DNA, che non hanno mai avuto l’occasione di conoscersi e che si fanno paura a vicenda.

    Non so a memoria il numero di cellulare di mio padre. I ricordi di lui mi sembrano lontani, confusi. Ci scavo dentro come un disperato per provocarmi artificialmente un senso di nostalgia, un’emozione con cui potergli telefonare. Non c’era quasi mai. E anche quando era con noi, rimaneva proprio il minimo indispensabile, il tempo di un pranzo, dell’episodio di una serie prima di andare a letto. Era lì per creare un silenzio imbarazzante dopo la domanda ma veramente non hai niente da dire? Quando ero più piccolo, pensavo che mio padre stesse nascosto nel telefono bianco della cucina attraverso il quale mi raccomandava che la mamma era sensibile e che dovevo fare il bravo con lei. Non riuscivo a capire perché lei mi dicesse che soltanto io la capivo e che era viva solo grazie al mio amore. Ripeteva continuamente che era infelice a causa sua. All’epoca non potevo sapere che le

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