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La ferrovia dello Sciliar
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E-book294 pagine3 ore

La ferrovia dello Sciliar

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Info su questo ebook

Un periodo denso di cambiamenti rivoluzionari, un audace progetto di sviluppo economico e sociale, una località idilliaca incastonata tra prati e montagne. Sembrerebbe il preludio a un fortunato sodalizio; invece, le competizioni e gli interessi in gioco faranno emergere la realtà di un pae­sino di affaristi e intrallazzatori, ostili con gli stranieri e restii ad accettare novità.

Lo zoccolo duro del paese si oppone con ogni mezzo alle pretese avanzate dai forestieri, agli occhi dei locali interessati unicamente al profitto e al buon nome delle loro società, a maggior ragione quando la comunità viene sconvolta da un’improvvisa ondata di violenza.

Un romanzo storico dalle tinte gialle che racconta di una piccola comunità dentro a una terra di confine. Una storia che indaga i rapporti tra centro e periferia, tra pianura e montagna, tra l’utopia del progresso e il desiderio di difendere un territorio.
LinguaItaliano
Data di uscita7 nov 2023
ISBN9791255670193
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    Anteprima del libro

    La ferrovia dello Sciliar - Andrea Piontkowsky

    L’autore

    Andrea Piontkowsky Nasce nel 1976 a Milano, dove vive con la famiglia. Degli antenati polacchi trasferitisi in Italia due secoli fa resta unicamente il cognome. Ha studiato Scienze Geologiche all’Università di Milano e lavora in una società di consulenza e ingegneria ambientale. Da sempre grande amante della natura e della montagna, in ogni stagione e condizione, ne ammira la potenza, i silenzi e i ritmi. La ferrovia dello Sciliar è il suo romanzo d’esordio..

    camera con vista – 39

    Bottega Errante Edizioni

    Via Pradamano 72

    33100 Udine

    www.bottegaerranteedizioni.it

    www.bottegaerranteedizioni.it

    [email protected]

    Copyright © 2023 Bottega Errante Edizioni srl

    Tutti i diritti sono riservati

    ISBN 979-12-55670-1-93

    È vietata la riproduzione totale e parziale del testo senza l’autorizzazione della casa editrice e degli aventi diritto

    Andrea Piontkowsky

    La ferrovia dello Sciliar

    Bottega Errante Edizioni

    Questo romanzo è scaturito dalla fantasia dell’autore, sebbene prenda spunto da fatti realmente accaduti. Non se ne abbia quindi a male chiunque si ritrovi in queste pagine, siano essi persone, animali o cose.

    Alla mamma e al papà, per l’inizio.

    Alla Ninna e al Bombo, per la gioia.

    All’Ale e al Tom, per il sostegno.

    Alcuni personaggi e protagonisti:

    Arnaldo Vasilai. Ingegnere inviato a Fiè allo Sciliar dallo Studio Arcidiacono per un progetto di sviluppo locale.

    Carlo Pettenati. Vetturino e tuttofare al servizio di Vasilai.

    Giovanni Arcidiacono. Ingegnere e proprietario del sopra menzionato Studio di Milano.

    Mario Oreni. Perito incaricato da Arcidiacono di facilitare i rapporti con la gente del luogo.

    Alois Rier. Sindaco di Fiè allo Sciliar, marito di Margrit Leitner.

    Ferdinand Mayr. Ingegnere al servizio della ditta Riehl di Innsbruck e del suo superiore Hartlieb.

    Hubert Schneider. Giovane aiutante e valletto al servizio di Mayr.

    Josef Larch. Burbero proprietario di un maso a San Costantino, padre di Johanna.

    Konrad Helmi. Malgaro alcolista, sposato con Maria Plant.

    Italo Furlan. Ispettore della gendarmeria di Bolzano.

    Lorenz Martini. Agente della gendarmeria di Bolzano.

    Augustus Brunner. Parroco di Chiusa.

    Viktor Steiner. Parroco di Fiè allo Sciliar.

    I treni. Mezzi di trasporto su rotaia per persone o merci.

    I cavalli e le mucche. Mammiferi tetrapodi tipici dell’area, appartenenti rispettivamente alla famiglia degli Equidi e dei Bovidi.

    Lo Sciliar. Massiccio montuoso situato a est di Bolzano e di Fiè allo Sciliar.

    Prologo

    Il dove è un prato a mezzo sole nelle montagne delle Alpi. Il quando è uno degli anni appena dopo la fine del diciannovesimo secolo. Il perché è meno chiaro.

    Una figura cammina a passo deciso su un sentiero appena visibile che taglia il prato in diagonale come una bandoliera, portandosi dietro una testa piena di pensieri e altrettanti capelli grigi.

    L’uomo sta andando a parlare con una certa persona del paese vicino per cercare di risolvere la questione una volta per tutte. Una faccenda che parla di soldi, senz’altro, ma non solo. Fossero solo i soldi, potrebbe risolvere il tutto con più serenità.

    Nell’attimo in cui l’uomo ferma il passo per riprendere fiato, in quell’attimo sente in lontananza un fischio, un sibilo prolungato, che sale d’improvviso dal fondovalle riempiendo l’aria come il fumo di una stufa a legna satura una stanza.

    Nel medesimo istante, a pochi metri di distanza, una mucca che sta brucando nel prato solleva la testona, sorpresa dallo stesso suono e indecisa se scappare o restare a metter erba in pancia.

    Il secondo e il terzo fischio emessi dalla locomotiva a vapore coprono il rintocco di una campana che chiama a raccolta i fedeli e convincono l’uomo a riprendere il cammino. Non le mucche, che restano e resteranno nervose a lungo nel ricordo di quel suono così nuovo per loro.

    In quell’unico, preciso istante è racchiusa buona parte dell’essenza di questa storia.

    1

    Se è vero che la velocità di propagazione delle onde sonore è molto maggiore nei solidi o nell’acqua piuttosto che nell’aria, allora in quei giorni l’aria doveva essere parecchio carica d’umidità.

    Per questo la notizia dell’imminente arrivo dei due italiani ci aveva messo così poco ad arrivare a Fiè allo Sciliar o, come la chiamavano i locali, Völs am Schlern. Il perché la chiamassero così non era del tutto chiaro nemmeno a coloro che vivevano lassù da tempi immemori, nemmeno ai discendenti delle più antiche famiglie di origine tedesca che seicento anni prima avevano deciso di stabilire lì le proprie vite.

    I giorni prossimi al Ferragosto del 1908 erano stati, a detta di tutti, tra i più anomali di quell’inizio secolo. Anomali, bisogna chiarire, per la totale assenza di vento. Si racconta ancora oggi, dopo più di cento anni, di un giorno in cui pare non abbia soffiato un alito di vento nemmeno sulle vette più alte della zona, nemmeno ai bordi dei laghetti o tra le più strette valli che scendono dai monti. Mai la calma era stata così piatta.

    La carrozza si era fermata, su richiesta dell’uomo che l’aveva affittata per compiere quel tragitto interminabile da Bolzano, all’ingresso del paese, al centro di uno spiazzo in terra battuta. Il vetturino aveva eseguito senza fiatare.

    La porta di legno della carrozza si aprì con lentezza quasi esagerata, come se chi stava all’interno avesse timore di chissà cosa. Dopo qualche istante comparve un piede elegante, raccolto in una scarpa di pelle nera lucida; la scarpa era ricoperta da una ghetta bianca chiusa ai lati da quattro bottoni di madreperla dalla quale fuoriusciva un pantalone grigio scuro con una piega marcata.

    Il primo piede poggiò a terra, subito seguito dal compagno. Entrambi dovettero attendere qualche secondo perché il busto e la testa del loro proprietario facessero capolino dalla carrozza. L’uomo, apparso per la prima volta in quei luoghi, stonava con tutto ciò che lo circondava.

    Gli occhi salirono immediatamente al di sopra della linea dell’orizzonte per inquadrare una massiccia montagna che incombeva sul paese, senza però essere fastidiosa: una presenza forte ma non opprimente. Rientrò all’interno della carrozza per riuscirne subito dopo, reggendo un binocolo Zeiss.

    L’uomo si aggiustò il cappello e i revers a lancia della giacca estiva, mentre con il dorso della mano cercava di lisciare le pieghe che il lungo viaggio in carrozza aveva lasciato su spacco e fianchetti. Poi si portò il binocolo agli occhi mentre rivolgeva una domanda distratta al vetturino.

    «Ha idea di che montagna possa essere?».

    «Come dice, signore?».

    Il breve quanto poco fruttuoso dialogo finì immediatamente. Il vetturino realizzò come quelle poche parole fossero le uniche scambiate tra di loro dalla mattina.

    L’uomo col cappello inquadrò quella che da laggiù pareva essere la cima della montagna e aggiustò il fuoco delle lenti. Ci mise qualche secondo, a causa del riverbero della luce solare che in quelle ore si diffondeva con forza su tutta la vallata. Percorse la cresta della montagna da nord verso sud, fino a tornare al fondovalle.

    Rimise il binocolo nella custodia e lo appoggiò sul sedile della carrozza. Poi si affiancò al vetturino.

    «Dicevo… ha idea di che montagna sia?» e con il pollice indicò la montagna alle sue spalle.

    «No signore, mi dispiace».

    «Dovrebbe essere una di quelle della Val Gardena, o no?».

    «Dovrebbe, signore».

    «Oppure della Val di Tires?» continuò l’uomo immerso nei suoi pensieri.

    «Potrebbe, signore».

    L’uomo col cappello diede ancora uno sguardo furtivo alla montagna e, inspiegabilmente agli occhi del vetturino, curvò la testa verso sinistra, quasi stesse cercando di poggiare l’orecchio sulla spalla. Rimase così per un poco, poi la rialzò per rivolgersi nuovamente al vetturino.

    «È mai stato in Val Pettorina?» domandò fissando un punto oltre la spalla del suo interlocutore.

    «Dove, signore?».

    «La Val Pettorina, in Veneto. Sotto la Marmolada…».

    «No, signore. Non ci sono mai stato».

    «C’è una montagna, in Val Pettorina, che se la guardi di traverso sembra avere il profilo di un viso maschile. Per lo meno, così dicono i locali…».

    «Non lo sapevo, signore».

    «Mi sembra si chiami Sasso Bianco, ma non ricordo bene».

    «Qualcuno dice anche che somigli al profilo di quel tal Mussolini… non so se ne ha mai sentito parlare…».

    «No, signore» scosse la testa il vetturino.

    «Ma sì… quel giornalista filosocialista che sta cercando di mettersi in mostra con le sue idee… diciamo… eversive…».

    «Mai sentito nominare».

    «Ci sono stato una volta… qualche anno fa. Ma in realtà io non ci ho visto nulla. Nel senso che i miei occhi non hanno visto nessun viso. A dirla tutta, se uno ci mette un po’ di fantasia… forse un naso salta fuori».

    Il vetturino non aveva idea di come andare avanti con la discussione, quindi rimase in silenzio.

    In quell’istante, proprio dietro di loro, passò un carro trainato da un meraviglioso cavallo Haflinger con il mantello sauro e la criniera biondo cenere. Si era materializzato all’improvviso, senza che fosse preceduto da alcun avvertimento di sorta.

    L’uomo col cappello inquadrò la persona alla guida del carro e mosse un passo in quella direzione.

    «Buongiorno, signore» disse accompagnando le parole con un cenno della mano.

    Il carro e il suo conducente continuarono per la loro strada come se non avessero nemmeno udito quelle parole. Non un cenno del capo, non un rallentamento. Niente di niente. Continuarono dritti come fossero stati sordi. E anche ciechi.

    La mano dell’uomo col cappello ritornò parallela al corpo e il cenno di sorriso che aveva accompagnato il saluto scomparve.

    «Sicuramente non ha sentito, signore» bisbigliò il vetturino, per stemperare la tensione.

    «Sicuramente sarà come dice lei».

    L’uomo col cappello e il vetturino osservarono l’incedere del carro che proseguiva verso quella che, avrebbero appreso qualche tempo dopo, era la chiesa di San Pietro.

    La cosa che colpì maggiormente l’uomo col cappello non fu tanto la mancanza di qualsivoglia reazione, ma il fatto che sul carro non vide nulla. In quella stagione, immaginava, avrebbe dovuto essere pieno di fieno o attrezzi o legna.

    In realtà, qualche cosa c’era: sotto un telo logoro era seminascosto un vecchio fucile da caccia. La canna ancora surriscaldata.

    Videro il carro scomparire per una stradina del paese finché non si sentì più nemmeno lo scalpiccio degli zoccoli del cavallo sulla terra.

    Arnaldo Vasilai, finora conosciuto come l’uomo col cappello, inalò una profonda boccata d’aria e si andò a sedere su una sporgenza rocciosa a qualche passo da loro. Il vetturino, di nome Carlo Pettenati, rimase al suo posto come se avesse dovuto proteggere la carrozza dall’assalto di un bandito.

    «Ha bisogno di qualche cosa, signore?» domandò a distanza.

    «Niente, per ora» rispose Vasilai con una smorfia di difficile interpretazione. Poteva sembrare di minima sofferenza, oppure di apprensione.

    Vasilai estrasse dalla tasca interna della giacca un taccuino protetto da una sorta di copertina di pelle rosso sangue. Con un movimento misurato sciolse il legaccio che teneva unite le pagine. Accarezzò la carta pregiata con il fianco della mano e rimase in attesa, come sospeso.

    Tutte le pagine erano intonse, tranne per una data scritta nell’angolo a sinistra in alto sulla prima di esse. La calligrafia estremamente curata.

    «Carlo, è d’accordo se ci chiamiamo con i nostri nomi?» fece d’improvviso Vasilai, rivolto al suo vetturino.

    «Ma signore, non so se…».

    «Non può mica passare tutto il tempo a chiamarmi signore, non crede?».

    Il vetturino rimase spiazzato, soppesando se ci potessero essere dei risvolti negativi a quell’inaspettata apertura da parte del suo capo. Non riuscì a trovarne.

    «Come ritiene lei, Arnaldo».

    Arnaldo Vasilai rivolse nuovamente lo sguardo al panorama, con le spalle alla montagna che aveva appena osservato attraverso le lenti del binocolo. Di fronte si innalzava una specie di altopiano o di massiccio. Si riparò gli occhi con la mano per evitare di essere abbagliato dai raggi solari e seguì con lo sguardo il versante che scendeva scosceso verso il fondovalle dell’Isarco, che avevano abbandonato quella mattina all’alba.

    Riuscì senza troppa difficoltà a individuare alcuni complessi che probabilmente potevano essere masi o stalle per il fieno. Sembrava che il versante opposto fosse meno abitato di quello su cui si trovava lui.

    «Carlo, mi porterebbe la custodia con i miei carboncini?».

    «Dice il fodero di tela arrotolato?» domandò il vetturino da dietro la carrozza.

    «Esatto, dovrebbe essere dentro la mia borsa da viaggio».

    Dopo pochi secondi il vetturino ricomparve, tenendo bene in vista un rotolo di tela color terra bruciata, legato con un nastro blu scuro.

    «Grazie, Carlo. Vada pure a riposarsi per qualche tempo. La chiamerò io quando avrò finito con questo» e bacchettò il libriccino con la custodia.

    «Come vuole, Arnaldo» e si allontanò dichiarandosi comunque a completa disposizione, con un accenno di inchino che ricordava quello degli orientali.

    Arnaldo Vasilai estrasse dalla custodia, sulla quale erano ricamate le sue iniziali a filo rosso scuro, il mozzicone di un carboncino. Lo passò di traverso sulla parte alta del foglio e con il pollice sparse la polvere cercando di riprodurre le striature delle nuvole che stavano attraversando la porzione di cielo di fronte a lui.

    Poi con la punta iniziò a tracciare le creste e le valli che salivano su fino al massiccio, dove la linea da lui disegnata si appiattiva notevolmente per proseguire verso nord. Tratteggiò sommariamente i confini dei boschi che riusciva a distinguere, stupendosi della grande vastità di alberi. Raffigurò i masi di fronte a lui e diversi torrioni di roccia che sbucavano da alcune delle vallate a mezza costa, quasi fossero delle piramidi dai fianchi ripidi. Assomigliavano ad alberi di pietra che tutti insieme davano vita a una foresta di terra e sassi.

    Mentalmente si ripromise di andare a visitarli.

    «Carlo, può portarm…» e si interruppe rendendosi conto di aver appena concesso riposo al vetturino. Abbandonò il taccuino, per recuperare un oggetto che aveva lasciato in carrozza.

    Trovò senza troppa difficoltà un borsone rigido, chiuso con un lucchetto. L’aprì e, dopo una breve ricerca, parve scovare quello che cercava.

    Ritornò al quaderno reggendo in mano un grosso foglio. Lo spiegò: era una carta geografica, forse di metà Ottocento, mirabilmente disegnata a mano con l’utilizzo di quattro colori. Il nero, per il tratto geografico; il verde, per tutto ciò che riguardava la vegetazione; il blu, per i corsi e gli specchi d’acqua; il rosso, infine, per i toponimi.

    Vasilai trovò al suo interno un biglietto scritto a mano da una persona che aveva la sua stessa passione per la calligrafia e che conosceva molto bene, come rivelò il sorriso che incurvò le sue labbra al leggere le poche righe.

    Al mio caro amico Arnaldo, con immutato affetto e stima, dono quello che spero possa essergli utile nella sua nuova impresa.

    A. P.

    Vasilai lo infilò in tasca. Poi stese per bene la carta geografica, che gli copriva agevolmente le gambe, e si mise a studiarla.

    Al primo impatto notò l’insolito orientamento capovolto della carta; Vasilai ipotizzò che il cartografo dovesse essere legato alla tradizione religiosa cristiana che voleva Roma, la città del Vaticano e dei papi, rivolta sempre verso l’alto.

    Individuò senza alcuna difficoltà l’incavo profondo del fiume Isarco e salì con il dito a trovare in rosso la scritta Ritten, che doveva essere il toponimo locale dell’altopiano che aveva di fronte ai suoi occhi.

    Il solco dell’Isarco proseguiva verso nord con tratto rettilineo e risaliva fin poco oltre quello che era indicato con la scritta Brixen, dove si riunivano i rami provenienti da due valli circa parallele tra loro. Lì la cartografia si interrompeva, sfumando in un tratto non più distinguibile.

    Vasilai tornò con l’indice fino al punto da cui era partito. Opposto all’altopiano che aveva di fronte agli occhi si apriva l’altro versante della vallata dell’Isarco.

    Cercò di seguire la strada che dalle frazioni fuori Bolzano risaliva con moto serpeggiante fino a portare alla scritta Völs, dove lui si trovava in quel momento. La stessa strada che avevano percorso poco tempo prima e che, a vederla disegnata sulla carta, non sembrava così tortuosa e pericolosa come quando l’avevano affrontata in carrozza.

    Arrivato con il dito a Völs incontrò una serie di linee curve che si addossavano sempre più le une alle altre, indicando il crescere della pendenza, fino a giungere a un tratto artistico che rappresentava l’inizio delle pareti rocciose. Doveva essere la montagna che aveva appena osservato col binocolo. La scritta sulla carta indicava il nome Schlern.

    In lontananza udì quello che doveva essere il belare di un gregge.

    Vasilai richiuse la carta geografica con cura militaresca per tornare al taccuino. Lo riaprì e osservò il profilo che aveva tracciato pochi istanti prima.

    Le curve, i picchi e le vallette che il carboncino aveva lasciato sulla carta ricordavano le forme di una donna.

    Vasilai levò gli occhi dal disegno per scrutare la sua modella, in posa a centinaia di metri di distanza, e non vi ritrovò nulla di quello che aveva appena riportato su carta. La donna che aveva individuato in mezzo a rocce, valli e foreste sembrava essersi eclissata, tornata a nascondersi nelle ere geologiche che da centinaia di migliaia di anni custodivano quello e altri innumerevoli segreti. Piccole rughe d’espressione segnarono le tempie di Vasilai.

    Questi radunò le sue mercanzie e, con un ultimo sguardo allo Schlern, si diresse a passo deciso verso la carrozza.

    La scena fu osservata da due paia di occhi: un paio tornò immediatamente a puntare il fieno che stava ruminando; il secondo, invece, continuò a fissare lo straniero per lungo tempo.

    2

    A circa trecento chilometri di distanza un uomo vestito con un paio di pantaloni scuri, camicia bianco avorio e panciotto grigio stava entrando in un palazzo signorile del centro di Milano.

    L’uomo aveva un berretto marrone sgualcito che teneva sottobraccio. Era forse l’unico dettaglio che stonava con l’insieme.

    Era rimasto per qualche minuto in piedi, di fronte al palazzo, a osservare il movimento delle poche persone che passavano per la via. Sembrava fosse in attesa di un segnale che tardava ad arrivare, mentre fissava le finestre aperte del palazzo.

    In realtà era semplicemente una persona che amava la puntualità fin nella sua accezione più esasperata. L’appuntamento era stato fissato per le dieci di quella mattina, lui sarebbe stato annunciato per le dieci.

    Con gesto misurato estrasse la cipolla dal taschino del panciotto e lesse l’ora; con una smorfia simile a un sorriso si incamminò verso il portone.

    All’ingresso due lisce colonne di marmo presidiavano il passaggio mentre il cancello di ferro verniciato era aperto. Mario Oreni vi entrò e con fare navigato si rivolse alla guardiola.

    Una persona era seduta su una sedia di legno che dava l’impressione di essere molto scomoda, con le gambe distese sotto al tavolo e le mani incrociate appena sotto la pancia. Gli occhi erano socchiusi, segno forse della scarsa attività lavorativa di quella mattina.

    Alla voce del visitatore, il custode sussultò e sbatté un ginocchio sotto al tavolo.

    «Buongiorno, signore» fece il custode con voce assonnata. «Desidera?».

    Oreni non aveva mai sopportato quella domanda, trovandola per la verità sempre poco appropriata.

    «Buongiorno, ho un appuntamento con l’ingegner Arcidiacono. Sono il perito Mario Oreni. Sono atteso per le dieci».

    Mentre discorreva con il custode fece scivolare una mano nel taschino per verificare la cipolla. La ripose con un sorriso appagato.

    Oreni, forse stupidamente, aveva immaginato che il custode l’avrebbe accompagnato, quasi scortato, su per le scale fino all’ufficio. Invece, questi bofonchiò una specie di risposta seguita dalle indicazioni sulla strada e il piano da raggiungere.

    Oreni ringraziò con un fare ai limiti dello sgarbato e

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