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La valle dei Ros
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E-book244 pagine3 ore

La valle dei Ros

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Info su questo ebook

Nei primi anni del Novecento, Alceste e Sisto, della famiglia dei Ros, salgono con le proprie mandrie da un paese delle Prealpi per stabilirsi in una casera incastonata in una valle tra le montagne della Carnia. È questo il fatto che sconquassa un'intera comunità e che dà inizio a una parabola nera, ispirata a fatti realmente accaduti, in cui ogni personaggio si autocondanna e dove il racconto si fa corale. Sullo sfondo due conflitti mondiali combattuti in montagna, la grande miseria che porta a una forte emigrazione maschile, prima verso le terre dell'Impero, poi della Francia, della Germania e del Belgio. E, durante l'ultima guerra, l'occupazione nazifascista e quella cosacca per contrastare e combattere la Resistenza. Attorno, una natura meravigliosa e feroce, madre e matrigna, un paesaggio aspro che nulla perdona e dove per ultimo persino la terra si mette a tremare.
LinguaItaliano
Data di uscita27 gen 2021
ISBN9791280219039
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    Anteprima del libro

    La valle dei Ros - Raffaella Cargnelutti

    L’autrice

    Raffaella Cargnelutti Critica e storica dell’arte, scrittrice, vive a Tolmezzo (UD). Esordisce in narrativa con Il ritratto di Maria (Kappa Vu Editore), seguito da Viandante sul mare di nebbia (Antiquità Editore), racconto ispirato al quadro di Caspar David Friedrich.

    Per le Edizioni Biblioteca dell’Immagine, esce L’opera imperfetta, vita romanzata del pittore Gianfrancesco da Tolmezzo mentre per Santi Quaranta ha pubblicato il volume Fiabe e leggende della Carnia, giunto alla terza edizione.

    Nel 2015 pubblica Alla gentilezza di chi la raccoglie. Dall’inferno di Buchenwald, una storia vera (Andrea Moro Editore), romanzo ispirato all’esperienza di prigionia del padre nel campo di concentramento tedesco. Al grande pittore rinascimentale Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto Pordenone, è dedicato il romanzo d’arte La lunga notte (Andrea Moro Editore, 2015).

    camera con vista – 19

    Bottega Errante Edizioni

    Via Pradamano 4

    33100 Udine

    www.bottegaerranteedizioni.it

    [email protected]

    Editing: esagramma

    Copyright © 2020 Bottega Errante

    ISBN 979-12-80219-03-9

    È vietata la riproduzione totale e parziale del testo

    senza l’autorizzazione dell’autore e della casa editrice

    Raffaella Cargnelutti

    La valle dei Ros

    Bottega Errante Edizioni

    Echeggia

    malinconica

    una luce di stelle

    alle remote

    meravigliate cime

    della Carnia.

    Pier Paolo Pasolini

    Nota

    Avvenimenti, nomi e persone sono frutto della fantasia dell’autore. I riferimenti alle miniere d’oro, a fatti veramente accaduti, a personaggi e a luoghi reali sono puramente strumentali al racconto.

    PARTE PRIMA

    Alla conquista della terra

    Quando il vecchio Ros venne da me era appena successo. Mio marito, su al pascolo, se l’era portato via un fulmine. Folgorato in un amen, aveva raccontato il famiglio, che era poco distante da lui.

    Per giorni quel canai non fece che piangere e straparlare, come un matto. A momenti ci rimaneva secco anche lui, aveva detto belando come una pecora.

    Era accaduto in fretta, vicino al Bosco Grande, sotto un larice.

    Lo sanno tutti che i temporali d’estate sono tremendi nella Valle, ma il mio paron era corso a cercare le bestie che, al primo botto dei tuoni, come impazzite, rischiavano di precipitare nella gola profonda del torrente, aveva spiegato il giovane pastore. E invece, era rimasto incenerito il mio povero Pietro, mentre le vacche e le pecore erano state più furbe, neanche una ne aveva presa quella tempesta.

    Era un giorno di fine estate. Non era ancora sera, o forse sì, non ricordo. Rapido, il cielo si era fatto scuro e una saetta lunga e gialla aveva attraversato quel catino di piombo, colpendo come una fucilata il mio paron, che Dio l’abbia in gloria! Però questo lo seppi solo dopo.

    Io, che stavo rimestando la polenta, ero stata freddata da un brivido, un presentimento cattivo, come se avessi immaginato quello che stava accadendo su, nel pascolo alto, vicino al cielo. Non sapevo spiegarmi perché, ma avevo sentito che poteva essere solo una mala sorte. Di corsa mi ero segnata il petto.

    «Ah, Madre di Dio!» avevo urlato, e avevo iniziato a mettere sul fuoco barba di capra, iperico, sambuco, viburno, iris, garofano… Erano fiori e piante benedetti in chiesa il primo giorno d’estate. Ma quel Mac di San Zuan, così da noi si chiama, non era servito a nulla, la disgrazia era già bella e fatta.

    Qualcuno poi disse che forse si erano messe di mezzo le streghe. Tutti sanno che quando si sciolgono e pettinano i capelli portano pioggia e fulmini nella Valle. A volte anche sventure. Deve essere stato così, per il nostro troppo amore e per la loro perfida invidia.

    Fatto sta che Pietro tardava a rientrare.

    E poi: «Alida, Alida, Alida…». Gli urli, come bastonate del canai, avevano frustato il fango del cortile, confermando quello che dentro di me già sapevo. Neppure la grande croce della passione, che stava fuori la casera, era riuscita a scongiurare quella disgrazia.

    Per farla breve, su quei miseri resti bruciacchiati, don Ugo, il nostro parroco, recitò l’Ora pro nobis, e solo allora capii che ero rimasta sola, sola per davvero in questa Valle bella e feroce, con un’eco lunga, che ti rincorre da una montagna all’altra, tra i peri, i pruni e i meli, a ritmare i ripidi balzi dei prati, verdi in primavera, brulli e gialli prima della neve di novembre.

    Per tre volte il mio paron mi aveva ingravidata, ma si vede che la mia pancia non ne voleva sapere di covare quei fruts. Se ne scappavano via, correvano fuori nel rosso del sangue come piccoli pesci, scivolavano tra le mie gambe, per finire nel pavimento di pietra della casera. Lì restavano, mentre io piangevo e mi tenevo tra le mani il mio ventre sterile.

    Una volta rimasta vedova il dolore divenne immenso e mi dominò come una montagna. Eravamo rimasti solo una madre fallita e un fulmine assassino a imbalsamare il futuro.

    Pregai, ancora pregai l’intera corte celeste e forse dall’alto del cielo qualcuno mi ascoltò. Fatto sta che una mattina, d’un tratto, tutto mi si fece chiaro.

    Serrai le labbra, strinsi i denti e puntai lo sguardo avanti, oltre le montagne, oltre la Valle, verso la pianura. Era l’unica strada che mi rimaneva.

    Al vecchio Ros non ci volle molto ad annusare l’affare. Cappellaccio in testa, giacca sgualcita, panciotto di fustagno e stivaloni da avventuriero. Un bastone ritorto nella mano destra per rimarcare il suo comando.

    Quell’uomo, rosso di pelo e con gli occhi furbi da demonio, come un cane segugio fiutò la mia pena e si presentò in un giorno di primo autunno. Deciso, bussò alla porta e non ebbe da insistere molto per convincermi a vendere, anche se sapevo che quella terra, i prati, i pascoli, la casera, il mio povero marito se li era sudati. Anni e anni da emigrante a spaccarsi la schiena nei cantieri lontani dell’Impero. Ma senza le sue braccia di quercia come avrei fatto a far fronte a quella vita da bestie che ti imponeva la Valle? No, da sola non ce l’avrei mai fatta a lavorare tra i grebani e le rocce, tra uomini irsuti e donne avvelenate da fatiche tremende.

    La mia casera silenziosa pareva già sentisse la mancanza del suo padrone. Perciò ben poco potei contro quell’astuto trafficante, corso in fretta dal suo paese, abbarbicato alle prime montagne brulle della Carnia, quelle che incontri appena sali dalla pianura, mi aveva raccontato il Ros. Io non conoscevo quel posto, allora mi era familiare solo il borgo dove ero nata, subito sotto questa Valle. Di grandi fiumi e larghe pianure nulla sapevo e neppure riuscivo a immaginarmele.

    I pettegoli dicevano che il vecchio Ros i soldi li avesse fatti col contrabbando o, addirittura, che avesse scovato un tesoro sepolto, insomma, soldi sporchi, maledetti che portavano disgrazia a chi li possedeva, bisbigliava qualcun altro.

    Ma allora io intendevo ben poco di come andava il mondo. Capivo solo che i pascoli alti, i prati e il frutteto avrei dovuto venderli, perché da sola non sapevo che farmene. E anche le mie bestie erano di troppo, dovevo affidarle ad altri.

    Era roba buona, la mia. E il Ros, pronto negli affari, lo aveva intuito subito. Nessuno lo batteva, era scaltro come pochi e sapeva sempre raccontarla a modo suo, la storia.

    Per ultimo aveva molti denari, quel vecchio malgaro.

    Ai tempi, correva l’anno 1907, chi aveva mai visto tutti quei soldi legati assieme con lo spago? Nessuno. E nessuno, almeno tra noi donne, aveva mai spinto lo sguardo oltre la Valle.

    La canaglia sapeva come abbindolarti. Mi lisciava, dicendo che poi avrei fatto la vita da signora fuori da quella stamberga, lontano da quelle montagne e da quel mondo aspro come i nostri destini.

    Come potevo non credergli? Allora ero giovane, e bella, rimarcava l’incantatore, allungando verso di me una mano pelosa, crepata da anni di vita in malga e dai lavori della terra.

    Il Ros si portava dietro un odore di selvatico che stordiva e il suo alito ruvido ti toglieva il respiro. Gli abiti che indossava erano laceri, sporchi, sembrava un morto di fame, che però teneva una saccoccia ricolma di marenghi, così si vantava.

    Intanto mi ero accorta che, seguendo il mio profilo, a lungo mi aveva guardata con i suoi occhi sozzi. Per ultimo, mi era venuto addosso, borbottando le sue porcherie.

    «Vieni qua, fammi sentire come sei fatta. Posso pagarti, e bene…» aveva farfugliato cercando di afferrarmi.

    Ma non gli andò dritta a quel vecchio porco. Tempo un attimo. Uno scatto indietro e afferrai lo schioppo di Pietro, arrugginito, scarico. Tuttavia si rivelò utile più che mai per tenerlo lontano. E, per mia fortuna, di lì a breve l’odore degli affari prevalse sugli istinti della carne. Quel corteggiamento, se così si potevano chiamare i suoi palpeggiamenti maldestri, finì ancora prima di nascere.

    Non interpellai alcuno, neppure il vicino Luigi, miglior amico del mio paron, che mai mi scusò questa urgenza leggera. Lui si sentì tradito e non mi perdonò. Lo capii da come mi salutò freddo l’ultima volta che lo vidi. Strinse le labbra sui suoi denti di lupo e poi di colpo si voltò, tornandosene nella sua casera.

    Ma la voglia di ricominciare la vita da un’altra parte, lontano da quelle cime aguzze e fredde, da quei pascoli strappati alle rocce che mi ricordavano solo la morte ingiusta di Pietro, era troppo grande. Niente e nessuno poteva fermarmi.

    Perciò, non persi tempo e, in una grigia mattina di novembre, mi incamminai verso il sentiero che porta da basso, lasciandomi alle spalle la Valle, già imbiancata dalla prima neve della stagione. Non mi voltai, non ne ebbi il coraggio. Il cuore pareva mi scoppiasse in petto.

    Sapevo solo che non potevo tornare sui miei passi. Ormai il Ros era il nuovo padrone delle mie terre, della mia casa, dei miei ricordi. E volevo dimenticare la sua bocca di rana.

    Lasciai anche la Lola, una vecchia volpina a fare da guardia a un passato che non mi apparteneva più.

    Dalle stalle, un lungo muggito delle vacche mi salutò triste. Non volli sentire quei richiami, mi tappai le orecchie e incassai il capo nelle spalle, sprofondando nel nero del mio scialle. Volevo scomparire come un ragno nella tana del suo dolore.

    Una volta sorto il sole, scrollai la schiena e con essa ogni rimorso. E, pur col freddo e la paura che mi attorcigliavano lo stomaco, cercai di respirare la mia nuova, sconosciuta libertà.

    Negli anni a venire molto viaggiai e molto imparai; arrivai fino alle Americhe. Vidi città meravigliose con gente povera e nobile insieme. La Valle venne spesso a trovarmi nei sogni, tant’è che finii per costruirmene una nuova, tutta mia, coi colori più belli della nostalgia, ma anche con le ombre nere di una premonizione, come se qualcosa di malvagio si nascondesse in quella terra.

    Luigi

    Era mattina, albeggiava appena. Le nuvole, cariche di neve, pesavano sugli abeti induriti dal freddo della notte e dal ghiaccio. Faceva ancora scuro. Eppure, in quella giornata striminzita di novembre, Luigi l’aveva vista lo stesso imboccare il sentiero che scendeva di sotto. Alida aveva un portamento elegante, come una donna di città, nonostante fosse una contadina, nata da contadini, come tutti gli abitanti della Valle. La sua figura si muoveva morbida. E a Luigi piaceva tanto quella femmina, gli faceva ribollire il sangue, ma questo nessuno lo seppe mai. Non fu difficile tenere questo segreto. Da quel momento nessuno la vide più.

    A quel tempo, Alida aveva i capelli lunghi e neri come una zingara, li teneva raccolti in una treccia arrotolata sul capo. Di nascosto Luigi la spiava quando li scioglieva e li asciugava al primo sole di maggio, canticchiando… Pareva una ninfa, un’agana, un essere misterioso, nato dalle cavità della terra o dalle sue acque magiche, che nulla aveva a che vedere con gli orizzonti di stenti della Valle. Le sue labbra carnose avevano il colore maturo dei lamponi.

    Luigi si vergognava per quello che provava per lei, si sentiva in colpa verso Pietro, amico fraterno. Anche se mai aveva sfiorato quella femmina, neppure con un dito. Solo i suoi pensieri indisciplinati non avevano limiti e, nelle lunghe notti solitarie in malga, si facevano molesti.

    Il giorno della partenza, Luigi aspettò a lungo che Alida si girasse, verso di lui, verso le montagne antiche della Valle, ma era una giovane dalla testa dura. Non lo fece. Proseguì diritta come un mulo per la sua strada. L’uomo rimase ancora alla finestra, fino a che la intravide rimpicciolirsi, a poco a poco.

    Infine, la nebbia del mattino la inghiottì del tutto e Lui­gi continuò a vederla, non col volto nero della vedovanza, ancora più mesto e affilato nell’ultimo saluto, ma col sorriso e il canto in bocca che lo stregavano tanto.

    Dopo l’addio di Alida, le storie nella Valle andarono sempre peggio. Gli amici in osteria l’avevano messo in guardia sul Ros. Luigi aveva alzato le spalle, dicendo che non aveva paura del diavolo, figurarsi di un malgaro. Tuttavia, dopo qualche mese, aveva dovuto ricredersi.

    Forte dei suoi soldi, il vecchio seminava zizzania tra i valligiani per poi comprare prati, pascoli, casere a prezzi stracciati, con una smania di possesso ingorda, senza remore.

    Con la miseria che c’era in giro, non era facile resistere al profumo del suo denaro.

    Alla fine, tanto brigò che riuscì a mettere un contadino contro l’altro. Per diventare, acquisto dopo acquisto, padrone incontrastato del luogo. Ma questo lo fece in seguito, assieme al figlio, che nel frattempo si era unito al padre venendo a vivere in Valle.

    La sera, accanto al focolare, spesso Luigi ripassava a mente la storia della sua terra. Era una storia lunga. I vecchi raccontavano che gli antenati degli antenati si erano sistemati in quel posto della Carnia, appartato e protetto, molti secoli addietro per sfuggire a scorrerie di barbari, a invasioni slave o a bande di briganti, oppure a un’epidemia di peste. Nessuno poteva dirlo con certezza. Comunque, di tale memoria c’era ancora una chiesetta dedicata a Rocco, santo che da sempre difende gli uomini da quel morbo infetto, e ad Antonio Abate, valido protettore del bestiame.

    Le famiglie, più di dieci al tempo della venuta del vecchio Ros, allevavano diverse mandrie di vacche, pecore, capre… Ogni anno, pulite e infiocchettate, le bestie venivano benedette alla festa patronale contro calamità e stregazzi di ogni sorta. Ciononostante più di qualcuna moriva per malattia o giù nei dirupi dove cadevano animali e cristiani. Oppure finiva abbrustolita dalle saette, come era successo a Pietro.

    Luigi scuoteva la testa e pensava che, una volta morto il suo compare, tutto era andato a rovescio in quella terra.

    Prima era diverso. Bene o male in Valle cercavano di vivere come buoni cristiani. C’era qualche baruffa ogni tanto, una bestemmia di troppo, ma finiva lì. Ognuno lavorava dall’alba al tramonto, senza un respiro, perciò rimaneva poco tempo per cavilli e bisticci.

    Ma, dalla venuta del Ros, le cose erano cambiate rapidamente. L’ultimo arrivato voleva imporsi su ogni questione e in particolare aveva trovato da ridire sui confini che non erano ben segnati. Questa però era solo una scusa, perché Luigi si era accorto che la notte il Ros andava a spostarli e sempre a suo vantaggio. Perciò, poco dopo la partenza di Alida, tra Luigi e il vecchio trafficone erano corse brutte parole.

    Il forestiero si vantava della sua fortuna e sputava in faccia a chiunque la sua ricchezza. Era bravo a umiliare gli altri, che ai suoi occhi erano tutti dei morti di fame. Intanto il signorotto comprava, comprava…, correva dal notaio giù a Tolmezzo e i campi, i prati della Valle andavano via via aggiungendosi alle sue proprietà, che recintava con pali e filo spinato.

    Nel mentre le leggende sul suo conto cominciavano a circolare maligne. Nella Valle tutti si chiedevano dove avesse recuperato quel denaro, ma alla fine non si arrivò a niente. L’origine della sua ricchezza rimase un mistero.

    Quando i valligiani scendevano nel paese di sotto, le bocche degli altri contadini e pastori stavano cucite, nessuno voleva impicciarsi col Ros. Se nelle chiacchiere saltava fuori il suo nome, con una scusa tutti cambiavano discorso. Infine, a circondare quell’uomo rimasero solo pettegolezzi, che nel fumo delle osterie e nei vapori del vino trovavano terreno fertile per gonfiarsi di invidia.

    A volte la sera, nella taverna della Valle, già un po’ brillo, il vecchio malgaro faceva il tronfio e pagava da bere per ingraziarsi i più stolti e gli ubriaconi. Ma con Luigi non gli riuscì. Dopo i primi litigi, appunto per via dei confini, i rapporti tra loro rimasero difficoltosi.

    Si tenevano a distanza, anche se Luigi aveva capito che il vecchio di sicuro stava architettando qualcosa per mettere le grinfie pure sulle sue proprietà.

    La sorte venne in suo aiuto e non dovette scervellarsi molto perché di lì a poco scoppiò la prima grande guerra del secolo. Luigi fu arruolato, andò prima a combattere sul Pal Piccolo, poi sul Carso. Fu gravemente ferito e, impedito com’era nella testa e nel corpo, non fece

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