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Minuetto all'inferno
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E-book281 pagine4 ore

Minuetto all'inferno

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Che cos’è la cattiveria? Cosa significa contemplare ed esplorare il male? A volte, semplicemente, si tratta di non trovare agio nel conformismo imperante, e percorrere una propria strada a dispetto di tutto e di tutti. Anche nel grande teatro della Torino e dell’Italia del Ventennio c’è un copione da recitare (a cui chiunque si adegua: dal gerarca zelante all’antifascista arrabbiato; dal borghesuccio meschino al contadino superstizioso) e quando i destini dei protagonisti, Lotario e Giulia, si incrociano sul finire della guerra, i due si accorgono che, nel condurre la loro esistenza indipendente e disordinata, forse hanno comunque interpretato un ruolo.
E lassù, dal cielo, Belzebù e un baffuto dittatore onnisciente si godono la recita dell’umanità, elargendo tiri mancini a profusione; e constatando con sottile piacere che, alla fine, chi non supera le prove della vita è solamente chi conduce quella più normale.
Uscito per la prima volta per Einaudi nel 1956, Minuetto all’inferno è un libro controverso, difficile da inquadrare. Elio Vittorini, che pure lo pubblicò nei suoi Gettoni, ne scrisse una quarta di copertina che era quasi una stroncatura, e lo definì con spregio – in un’epoca in cui la letteratura si interessava soprattutto di sondare il reale – come «cupamente fantasticante: un incubo puramente libresco». Eppure il romanzo vinse il Premio Strega opera prima e anche oggi, a distanza di tanti anni, si ha l’impressione che questa osservazione profonda della bassezza dell’animo umano e questo addentrarsi, a mo’ di favola gnostica, nel regno del fantastico, lo rendano una lettura di valore imperituro.
LinguaItaliano
EditoreCliquot
Data di uscita8 lug 2024
ISBN9788899729707
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    Anteprima del libro

    Minuetto all'inferno - Elémire Zolla

    Biblioteca

    19

    Elémire Zolla

    Minuetto all’inferno

    Introduzione di Grazia Marchianò

    Titolo: Minuetto all’inferno (1956)

    Autore: Elémire Zolla

    © 2023 Questo libro è pubblicato secondo accordi presi con Grazia Marchianò.

    Progetto grafico di Cristina Barone

    In copertina: Dieric Bouts (c. 1415-1475), La chute des damnés, vers 1450 (dettaglio); Musee des Beaux-Arts, Lille, Francia

    © 2024 RMN-Grand Palais / Jean-Gilles Berizzi / RMN-GP / Dist. Photo SCALA, Firenze

    ISBN: 9788899729707

    Prima edizione: marzo 2024

    © 2024 Cliquot edizioni srl – Roma

    www.cliquot.it

    [email protected]

    Introduzione

    «In quanto al regno dello spirito, egli lo immaginava come sovrapposto alla terra, ma senza che dalla terra vi penetrasse mai nulla, eccetto i profumi, la pietà, la corruzione, la malinconia e i gatti.»

    M. Proust, Jean Santeuil

    I

    Facciamo un salto indietro di oltre settant’anni. Nel letto 63, sezione Cardiologia, Ospedale Maggiore San Giovanni Battista Città di Torino, alle ore 20 del 24 luglio 1951, sotto il segno zodiacale del Leone, è appena spirata Blanche Smith, età 66, nativa di Maidstone nel Kent, coniugata, domiciliata in via Pesaro 7, Torino.

    Chi era costei?

    Figlia di Albert Smith e Kate Larkin, nel 1909 aveva sposato Vincenzo Venanzio Zolla, il pittore anglo-piemontese (1880-1961) attivo tra Londra e Torino. Il ménage, ufficialmente comme il faut ma tempestoso, aveva fruttato due figli distanti sedici anni l’uno dall’altro. Eda, la primogenita, maritata con Luigi e madre di Dolores, e Venanzio Elémire che una malattia, al tempo poco curabile, aveva inchiodato a ventidue anni allo pneumotorace. Trattamenti snervanti erano seguiti nello stesso ospedale, le Molinette, dove l’estate del 1951 decedeva la madre. Il 12 luglio, nella cartella clinica 404, la diagnosi di ingresso di Bianca Smith Zolla segnala ipertensione, scompenso cardiaco; il 19 luglio blocco atrioventricolare; il 21 luglio la paziente è descritta molto agitata. La terapia con strofantina, senza altre annotazioni, proseguiva il 22 e il 23. Il 24 l’esito per trombosi mesenterica¹.

    Un decesso come tanti?

    Forse no per due ragioni: 1) perché nessun decesso è un decesso come tanti; 2) perché in questo caso particolare se ne andava colei che, tra ciambelle al burro, accordi di pianoforte e qualche accenno di sonnambulismo², aveva allevato uno che senza dirlo a nessuno avrebbe stretto con la vita un patto segreto: «Dammi quanto basta» aveva preteso «non un attimo in più, e saprò io che farne. Il resto tientelo».

    Si potrebbe replicare: non è inevitabile stringere con la vita patti del genere?

    Di nuovo la risposta è no. Venire a patti con la propria vita non è da tutti. Per prima cosa, negoziarci a tu per tu non salta in testa quasi a nessuno. Forse a un malfattore, un dissoluto, un grande giocatore, un guerriero, un santo cui l’ennesima prova del fuoco intimi, seduta stante, un patteggio senza sconti. Ma uno che non incarnò nessuno di quei tipi estremi, che cosa spinse a un negoziato da pari a pari, e come andò la partita?

    Posto che si voglia tentare di scoprirlo, le argomentazioni occorrenti esulano dal compito di una introduzione, anche se, in questo caso, sono a un romanzo segnato da un destino speciale l’anno in cui si pubblicava a Torino, il 1956. L’autore – che altri non è che il patteggiatore in questione – gli assegnava, all’epilogo, una data di stesura, il 1951-52, che coincide o segue di poco la morte della madre. Viene di pensare che Minuetto all’inferno con quell’evento si misurò, se non altro dilatandolo nel timbro ferale dell’epoca descritta, la fine degli anni Trenta in piena età fascista.

    In un’inchiesta sulla «generazione degli anni difficili» apparsa su Il paradosso nel 1960, Zolla veniva interrogato accanto a Italo Calvino, Mario Rossi, Rossana Rossanda Banfi, Giovanni Baget-Bozzo e Franco Fortini. Confessare un malessere profondo gli pesava e la risposta, come sempre in simili casi, venne fuori spiccia, appuntita:

    Nel 1939 avevo tredici anni. Frequentavo la scuola fascista con l’animo di Alice fra le bestie e le carte da gioco. Il mio bagaglio? Dovrei copiare l’elenco della biblioteca di casa e di quella di un circolo di Torino. Le preferenze che avevo da ragazzino? La storia d’Europa di Benedetto Croce e L’anima dell’uomo sotto il socialismo di Oscar Wilde. L’abitudine di confinare le letture dei fanciulli ai libri per l’infanzia è nevrotica, ha la stessa funzione della fasciatura del cranio presso certi africani. Non mi fu imposta…³

    Trentatré anni dopo, nel Ricordo di Guido dedicato a Ceronetti, il ritratto di sé stesso ha l’iridescenza di un arcobaleno, la leggerezza di bolle colorate in un vecchio caleidoscopio:

    Vivevo isolato, sbrigando in fretta le scuole, ignorando compagni e professori per quanto potevo, adagiato a leggere per ore e ore, vagando a lungo attraverso le strade miserelle di Torino, sempre in cerca d’un tratto di vita memorabile, nel quale alla fin fine nemmeno speravo.

    Sentimento costante era il vago incantesimo per il semplice fluire del tempo, che di quando in quando riusciva a comprimersi e a fermarsi in una sfera raggiante, dorata.

    Osservavo con curiosità non troppo intensa l’abitudine che gli altri avevano di considerarsi un punto d’imputazione, un carico di responsabilità e di doveri, una persona. Io non m’ero mai visto altro che come un convegno temporaneo, fluttuante, trasognato di impressioni. Ciò che davvero mi costituiva era l’entusiasmo che provavo per certe opere. Le leggevo e rileggevo: il Tao Te Ching, Alice nel paese delle meraviglie, la vita del Buddha. Viceversa altre letture le tenevo a distanza, mi infastidivano quasi quanto il mondo circostante (come i romanzi di Dickens così carichi di odiosa compassione).

    Qualche rara volta parlai di ciò che provavo e vivevo a qualche donna che mi piaceva, per i profumi, la pelle morbida, gli occhi scintillanti, per una sua parvenza d’attenzione amorosa⁴.

    Da ragazzo e figlio d’arte, Elémire aveva dipinto anche lui. Su un cartone 26x32, visibile ancor oggi, è ritratta Blanche anziana, i capelli coronano la stessa vasta fronte del figlio, ma un’ombra sulla tempia e pupille confitte in un mesto vagare trasudano una tetraggine che l’accenno di un vaso da fiori alle spalle e lo slargarsi della camicetta sul collo alleviano appena appena. Le labbra si stringono in una piega dura, di riluttante sopportazione, e s’indovina tra le sopracciglia il solco della melanconia che Elémire sulla fronte delle donne, di tutte le donne via via incontrate, avrebbe aborrito.

    Alla Nazionale d’arte al Valentino (3 maggio-29 giugno 1953), accanto a svariate opere del padre, figura una tela di Elémire: Composizione di ellissi. L’ellisse è una figura contorta: si ottiene segando una superficie con un piano obliquo all’asse che non raggiunga però i 90° nel qual caso diventerebbe un cerchio. D’altra parte l’ellissi (dal greco èllepsis, mancamento) è un tipo di figura verbale per cui si omette qualche parola facile a sottintendere – così spiega il dizionario.

    Inizialmente la scrittura di Zolla, sorella della sua pittura, era stata un tantino farraginosa e qualche volta ellittica. Un esempio è nel passo dei Saggi di etica e estetica (1947), il suo primo libro, dove espone da professore la teoria del contrasto in Benedetto Croce:

    L’unica vera e propria evasione dalla regola, che non sia conclamato stacco e implicito abbraccio, parrebbe l’effettuata esortazione a fermare sé stessi nel momento senza respiro e mortalmente angustiato dalla privazione, nell’angoscia che scopriamo per aver spezzate le tavole della legge, nel contempo inibendoci nuove legislazioni. Siamo di fronte al momento dell’istante e del gratuito, dell’angoscia, punto d’arrivo e dell’esasperazione della legge (nel mondo presente nella metafisica kafkiana) e dell’angosciosa assurdità dell’esistenza cui la morte imminente abbia tolto ogni ritegno (il tema dell’esistenzialismo); infixus sum in limo profundo et non est substantia⁵.

    La conquista di uno stile letterario venne per gradi. L’improvvisa infermità fisica a ventidue anni, con quella vertiginosa, umiliante penuria di fiato lo aveva avvisato di un ammanco di forza vitale: bisognava studiare una controffensiva, installarsi su un piano analogo a quello della vita ma immarcescibile, conquistato e ottenuto come un privilegio dal «figlio del padrone». Questa figura hegeliana ricorre nell’introduzione a I mistici dell’Occidente. «Il figlio del padrone» scriveva «è colui che obbedisce al destino senza essere trascinato»⁶.

    L’ammalato di tisi aveva deciso: si sarebbe ritratto in sé stesso, e il soffio vitale, nutrito di sterminate letture, di un sapere prelibato e raro avrebbe animato un piano analogo a quello della vita: la scrittura. Fu così che il primato della scrittura sulla vita, deliberatamente, modellò il suo destino⁷.

    Nel 1989 la domanda «Perché scrivete?» era stata rivolta insieme a lui a 108 scrittori italiani. Rispondeva: «Lo scrittore vero scrive perché scrive, ha il fine in ciò che fa come lo fa, in modo che non può tollerare di rifare, senza nessun rapporto con le finalità generali dell’esistenza, con le convenienze dell’economia, della politica, della moralità o dell’immoralità. Scrivere è un atto che si profila sul nulla, un modo di affermare, descrivere, meditare che si è sempre associato all’ispirazione e sempre gli si è unita una pretesa infinita o nessuna pretesa. Naturalmente esistono altre attività retoriche calcolate, che con lo scrivere spesso non hanno rapporto, anche se ne hanno tutti i caratteri materiali. Perciò questa discussione sarà interminabile e apparirà oziosa»⁸.

    Il tirocinio letterario iniziò dall’orecchio. Affinarlo sullo stile dei grandi: Yeats, Dickinson, Melville, Mann, Kafka, Proust era il primo passo. Poi bisognava inoltrarsi nel bosco di notte delle loro ossessioni più recondite: il dramma dell’intelligenza estrema in Thomas Mann, la folgorazione kabbalista in Kafka, l’eroismo gnostico in Melville. Proust, annotava in un saggio del 1952, «ci suggerisce anche una particolare critica, attenta al variare della sensibilità, al diverso configurarsi degli oggetti via via che nuovi artisti vi calchino il loro segno». Ad esempio il «chiaro di luna»: i riflessi d’argento che vi vede Chateaubriand si fanno celesti, opalescenti, cinerini agli occhi di Hugo, Baudelaire, Leconte de Lisle: «nei poeti» rifletteva «si esemplifica la storia della sensibilità nell’arte; l’incupirsi dell’animo romantico fa calare nel tenebroso tono bruno, mentre un ritorno alla compostezza indora (la luna, per Leopardi, è aurea)». Il vedere estetico in Proust culmina nell’ipervisione: «la visio beatifica, il rifolgorare dei ricordi»⁹.

    Il saggio James Joyce e la moderna apocalisse usciva quello stesso anno nella rivista di Remo Cantoni, Il pensiero critico¹⁰. La detestazione per l’opera di Joyce, ribadita negli anni a venire¹¹, scaturiva da studi meticolosi sul vizio primario che secondo Zolla avrebbe deciso per l’osannante acclamazione dell’opera dell’irlandese nella letteratura del Novecento.

    Un esempio di quelle iniziali indagini è nel saggio appena citato dove scrive:

    Alla soglia dell’intimità dell’anima… si apre un bivio: da un verso spicca l’itinerario verso l’estasi, dall’altro si stende la terra desolata della delectatio morosa, del dormiveglia, della coscienza crepuscolare, brulicante di tetre banalità e rimasticature, di desideri o ambizioni conculcati che tentano la rivincita sul piano della fantasticheria, di ricordi sconnessi, di lugubri lussurie. È il mondo dei precordi che, fin tanto che irraggi e domini la saggezza intellettuale della mente o la volontà serrata del plesso solare… giace nell’oscurità della trascuranza; ma nell’uomo volgare (e anche nell’uomo intelligente e di carattere sonnecchia un uomo volgare…) la vita è tutta fatta di triti frantumi, di rifiuti: mozziconi di canzonette, puzze, giochi di parole, rimasugli insensati di ricordi, avanzi di dialoghi, facezie insulse e frasi fatte: un universo di amebe che si rincorrono, intrecciano, combinano. È il vero e presente inferno che l’uomo si reca dentro, voragine che inghiotte e rimugina le scorie della vita svolta sul piano superiore del pensiero e della scelta volitiva. Ognuno ha dentro di sé questa cloaca dove incessantemente si raccoglie e rimescola il bric-à-brac dell’esistenza¹².

    La gestazione di Minuetto all’inferno è del tempo in cui la ricaduta nella malattia polmonare confligge con la stesura della tesi di laurea¹³ in concomitanza con un peggioramento della malattia anginosa della madre. Il «figlio del padrone» non ebbe difficoltà in quei frangenti a calarsi nel sottosuolo «che l’uomo si reca dentro», e la trasposizione romanzesca avvenne in maniera esacerbata, colma di una cupa urgenza che Elio Vittorini, nei panni di chi si trovava a malincuore, a battezzare il libro, riconosce al giovane autore seppure alla rovescia. Il testo del risvolto vittoriniano è trascritto qui integralmente¹⁴.

    Le atmosfere di Torino sotto il fascismo, Zolla le aveva dovute inghiottire; la città «cupa e laboriosa», uggia e radice del suo tormento, non aveva per lui segreti¹⁵. Non c’era che da rimestare il contenuto putrido di quel vaso da notte agghindandolo di una parvenza d’altro, un tratto di arcana bellezza che il passo di un romanzo giovanile di Proust, Jean Santeuil, gli aveva fatto intravedere. Era stato un colpo di fulmine. Tutto ciò che sentiva della vita di più prossimo e affine alla sua natura, era in quel giro di frase¹⁶. Il sottosuolo «che l’uomo si reca dentro» – gli suggeriva il narratore nel Jean Santeuil – ha le sue radici in un male radicale che contamina il «regno dello spirito». Eppure nell’orrore di quel male s’annida un germe di bellezza e un soffio di compassione può sprigionarsi.

    Il dattiloscritto di Minuetto all’inferno atterrò un bel giorno sui tavoli dell’Einaudi e le mani per cui passò furono tante. A quel tempo gente come Calvino, Fruttero, Fenoglio, Vittorini in veste di lettori editoriali, spesseggiava di passioni, accanimenti, feroci prese di posizione e quando il puntiglio nasceva da una schietta perplessità, le tirate a favore e contro i testi in esame esplodevano in fiammeggianti perorazioni. Il carteggio sul caso Minuetto all’inferno dell’esordiente Zolla è una sapida pagina di critica letteraria italiana. Esumarla dagli archivi personali dello scrittore dopo la sua morte credo valga oggettivamente la pena¹⁷.

    Il più perplesso tra i giudici di Minuetto era stato Elio Vittorini, factotum per la narrativa e direttore della collana I gettoni.

    Alla vigilia del Capodanno 1953 egli scriveva a Calvino:

    Per lo Zolla, tutto sommato dico pure di sì: purché poi lo si possa presentare per la vecchia letteratura che è: nuova sola in quanto risalta fuori dopo un bel po’ di tempo¹⁸.

    Cinque mesi dopo, mentre dava il suo parere sul manoscritto di Giorgio Polverini, le perplessità sul testo di Zolla ingrandivano:

    Noi che prendiamo in considerazione i romanzi di Elémire Zolla, perché non dovremmo farlo con questo? Solo perché quelli si ispirano a un’ideologia decadente, o questo a una positiva? Tra l’altro non avrebbe un sapere più inedito rispetto a quelli¹⁹?

    Il 10 novembre di quell’anno Fruttero provava a far ricredere Vittorini:

    Ti farò mandare le bozze dello Zolla perché tu lo possa rileggere serenamente e transigere. Non convince neanche me, ma insisto nel non ritenerlo indegno dei Gettoni… Ha diversi capitoli buoni, e le sue numerose ingenuità e falle non sono quelle di un dilettante da giornaletto di provincia… Sia ben chiaro io non faccio il paladino di Zolla per ragioni personali; ma, a parte il fatto certissimo che ci farà causa (è un esperto in materia) e che la perderemo, non vedo la ragione di trattarlo così male, quando pubblicargli il romanzo non costerebbe, riconoscilo, neanche a te, un terribile sacrificio ideologico. Ti prego con tutte le forze di ripensarci. Ciao, Fruttero.²⁰

    La replica di Vittorini il 15 novembre era categorica:

    Non sono d’accordo. Trovo lo Zolla decisamente inferiore a tutti i libri che tu citi… Sono pieni di cose vissute che riescono più o meno a vivere anche nei rispettivi libri. Sono degli effettivi gettoni. Mentre lo Zolla è solo cupamente fantasticante: un incubo puramente libresco… No, francamente, non abbiamo mai pubblicato un libro tanto brutto e arcaico, presuntuoso e inattuale, cervellotico e ingiustificato come lo Zolla. In ogni modo non dico che non lo voglia pubblicare. Ho detto e ripeto che vorrei scrivere all’autore per dirgli della brutta impressione che mi ha fatto rileggere il suo manoscritto e per cercare di convincerlo a ritirarlo, a non commettere l’errore di rendersene responsabile in pubblico. Questo è tutto. Lo farei dopo aver riletto almeno la metà composta. Ciao, Vittorini.²¹

    Doppiato il solstizio d’inverno, le posizioni dei pianeti sulle sorti di Minuetto sono mutate. Fervono i preparativi per i nuovi Gettoni; Vittorini chiede i dati biografici di Zolla e il 24 gennaio scrive a Calvino: «Nel risvolto per lo Zolla non farò che dir male di me. Niente di lui»²².

    Passa la primavera e il 5 giugno, una nota a mano, frettolosa, annuncia: «Usciti Guerra e Zolla, la tipografia è in riposo e non bisogna lasciargliela»²³.

    Si era nel 1956 e il commento di Vittorini sull’intero filone di letteratura europea che gli riusciva inesplicabile: «quello in cui si avverte, deliberata, l’azione speculativa dell’intelletto come quando vediamo, a una radioscopia, il bario percorrere i visceri che vuol rivelarci»²⁴, fa pensare che lui conoscesse il saggio in cui Zolla aveva scrutato Thomas Mann sulla rivista di Flora Letterature moderne nel 1953. Nella poetica letteraria manniana – aveva scritto – dominano e ritornano tre motivi: «l’arte come morbosità, la vita come ripetizione, la saggezza come oblio dell’intelligenza».

    La vocazione artistica fa affiorare nella quiete dell’equilibrio borghese l’irregolarità, il miasma della disintegrazione; l’artista necessariamente è cacciato al limite della vita sociale… e tanto dovrà faticare a vincere la sua avversione verso la brutalità dei fatti da non poter affrontare con istintivo abbandono e spontanea astuzia la realtà…²⁵

    E più oltre:

    L’uomo è privo di direttive morali, solitario e senza appigli, ma per ciò stesso reso più acuto e penetrante, ripiegato a guardare con spirito inquieto l’articolarsi della realtà, la legge oscura del successo…²⁶

    Un tema cruciale nel Doktor Faustus era poi toccato: il dramma dell’intelligenza estrema. Questa «è tutt’altro dall’intelligenza mezzana, piegata al servizio della potenza, desiderosa solo di trovare un porto sicuro, di risolvere il mondo in un sia pur faticato acquisto». Una intelligenza estrema

    porta con sé una maledizione. Essa significa infatti distacco, impossibilità di porsi in comunione: Leverkühn emanava quasi una fisica sensazione di gelo, la sua presenza recava una ventata di freddo… Per l’intelligenza estrema non esiste piacere intellettuale, ciò che per gli altri è graduale fatica e quindi entusiasmante acquisizione non è che monotona intellezione immediata… I confronti sarebbero agevoli con il Faust goethiano (anche in esso si trattava di rappresentare un punto d’arrivo dell’intelligenza), e colmo di sapienza goethiana è tutto il libro. Ma il Faust di Mann ha un carattere nuovissimo, egli è sì saturo di disciplina morale, da non essere più se non prontezza fredda, gusto della costruzione fine a sé stessa, della parodia. Un uomo simile ha delle vie dischiudibili alla sua opera?²⁷

    Al tempo dei suoi primi esercizi letterari questo quesito era stato per Zolla anche un quesito personale. Mentre si dava al narrare, alla saggistica, alla critica sociale, alla fustigazione del mondo moderno e alla denuncia dei vizi nazionali²⁸, se l’era posto e riposto. Poi, a grado a grado, i rovelli, il ricorso all’invettiva, la pratica del sarcasmo coatto erano cessati, e dall’ordito che veniva tessendo, il dilemma si era sciolto motu proprio, naturalmente. L’afflitto avrebbe reciso alla radice il suo tormento non appena si fosse lucidamente e deliberatamente arreso al proprio destino. Questa soluzione sublime Zolla la indicò nella resa che Boris Pasternak aveva scolpito a lettere di fuoco nel profilo del Dottor Živago²⁹ e che Pavel Florenskij incise nella propria carne di deportato e condannato a morte³⁰.

    Ma nei primi anni Cinquanta il lucido abbandono nella visione di Zolla era una soluzione ancora lontana dal prendere forma. Perciò a proposito di Leverkühn affermava:

    [Egli] può ascrivere a sé quelle parole di Kafka (citate da Mann nel suo saggio-presentazione del Castello): «lo studio per la rappresentazione della mia sognante vita interiore ha ridotto tutto il resto a cosa di secondaria importanza, e questo si è rattrappito in modo spaventoso, non cessa di rattrappirsi… spesso sono invaso da una triste, tranquilla meraviglia per la mia mancanza di sentimento, per il fatto che solo in seguito alla mia professione letteraria, sia privo di interessi e quindi senza cuore».³¹

    Torniamo ora alle domande sulle qualità di Minuetto che Vittorini nell’occasione, pilatescamente, girava al pubblico: «…è solo cervellotico o libresco? O ha, in qualche modo, una sua validità realistica, una sua storicità, per oggi? Nel dubbio lascio che sia il pubblico a giudicare…»³².

    Il pubblico infatti giudicò e il premio Strega per l’opera prima assegnato a Minuetto all’inferno diede a quel «giovane in abito scuro, timido, ma che si assicura intelligentissimo»³³, una rinomanza decisiva per l’esito di quel libro e dei suoi successivi. In una pagina di Come un racconto – Gli anni del premio Strega, Maria Bellonci affermava:

    Quel 1956… con Guido Alberti, sempre sollecito verso i giovani, pensammo di dare un premio anche a un’opera prima dal carattere originale: la giuria era composta dai vincitori dello Strega.

    Nel 1955 era toccato a Giovanni Comisso con Un gatto attraversa la strada e l’anno dopo per le Cinque storie ferraresi a Bassani:

    Vinse Elémire Zolla col suo romanzo d’esordio Minuetto all’inferno, un libro che sorprese tutti, oscillante fra una specie di realismo magico e un moderno razionalismo; e così proponemmo un nome che ha oggi un suo singolare colore nel saggismo italiano³⁴.

    Nella dialettica intellettuale, dura a morire in questo paese, tra «apocalittici e integrati», l’opera di Zolla si avviava a diventare, come un critico scriveva nel 1965, «una macchia necessaria nel nostro panorama d’idee e di scritture»³⁵.

    II

    «Il romanzo è miracoloso che possa vivere, e proprio

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