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Lo scampolaio ovvero de trinitate homini
Lo scampolaio ovvero de trinitate homini
Lo scampolaio ovvero de trinitate homini
E-book411 pagine5 ore

Lo scampolaio ovvero de trinitate homini

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Info su questo ebook

Quando il corpo del duca Aleotti viene ritrovato orribilmente dilaniato dai cani all’interno della sua villa, è subito chiaro per tutti, soprattutto per il viceispettore Caniglia, che non si tratta di un caso di facile soluzione, fosse solo per la quantità di elementi da analizzare: il passato della vittima, caduta in disgrazia dopo aver sperperato il proprio patrimonio; la scena del delitto, ricca di elementi volutamente disseminati come a costruire una scenografia teatrale; e infine, i misteriosi riferimenti esoterici sparsi nell’edificio. Nel tentativo di dare un senso a tutto ciò, entra in gioco anche la specialista Vanessa Cerbi, recentemente formatasi presso l’FBI. Ma è l’intuizione del viceispettore Caniglia a dare una svolta all’indagine. Il collegamento con un omicidio avvenuto l’anno precedente gli conferma il terribile sospetto: si trovano di fronte all’opera di un serial killer… Thriller avvincente e ricco di risvolti psicologici, Lo Scampolaio cattura l’attenzione del lettore fin dalle prime pagine con una prosa piacevole, incalzante e spesso ironica. Davanti ai suoi occhi, man mano che la trama si dipana e i tasselli del mosaico trovano il proprio posto, prende forma un disegno inquietante e machiavellico, specchio fedele delle molteplici seduzioni del male.

Antonio Verderi, originario di Noceto (PR), da oltre vent’anni si occupa della registrazione e realizzazione tecnica di album musicali, collaborando con prestigiose etichette discografiche a livello mondiale. Ha gestito artisticamente e tecnicamente vari teatri ed eventi culturali. È un esperto della storia della riproduzione sonora e della digitalizzazione di supporti fonografici. Questo è il suo romanzo d’esordio.
LinguaItaliano
Data di uscita8 apr 2024
ISBN9788830697379
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    Anteprima del libro

    Lo scampolaio ovvero de trinitate homini - Antonio Verderi

    Nuove Voci. Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    per

    Sofia Thaisia

    0. PREMESSA

    26 MARZO 1993

    Un’auto solca lentamente il vialetto ghiaiato d’accesso alla villa. Anche oggi nessuno l’accoglierà sulla soglia d’ingresso. Meglio così. La sorpresa deve essere ancora ultimata, prima dell’arrivo del padrone di casa.

    Parcheggia fuori mano, lontano da possibili occhi indiscreti. È la terza volta che questa settimana fa visita a quell’antica dimora; ha dovuto faticare parecchio ma ne è valsa la pena. Quando Filippo Maria arriverà non riuscirà a credere ai propri occhi.

    Oggi concluderà la sua opera con la proverbiale ciliegina sulla torta e il gioco sarà completato. Calza gli usuali guanti neri di pelle, ottimi anche per evitare fastidiose vesciche. Scarica quindi due pesanti cassoni in rete metallica con l’ausilio di un carrello e li trasporta con fatica al portone d’ingresso. Il sudore è copioso, nonostante il calare del giorno sembri fornire un qualche refrigerio.

    Come previsto la villa è deserta; quando il padrone di casa è assente il servizio di servitù non serve. Ma Filippo Maria dovrebbe arrivare a breve: domattina ha un importante appuntamento con l’avvocato di fiducia che da anni segue tutte le sue pratiche.

    Apre facilmente il portone d’ingresso, massiccio ma assolutamente mal protetto da una serratura che sembra provenire direttamente dal secolo scorso. Bastano delle forcine, un set di cacciaviti di differenti diametri e la serratura scatta all’istante. Come tutte le altre volte. Effettivamente quella villa in aperta campagna non sembra proprio essere un bersaglio appetibile per esperti Arsenio Lupin, non contiene più nulla di economicamente rilevante da tempo, a parte una clamorosa biblioteca ben custodita da una possente porta blindata e da un allarme collegato alla più vicina stazione dei Carabinieri.

    Sistema i due cassoni al secondo piano e la spossatezza prende il sopravvento:

    Speriamo non arrivi proprio ora Filippo Maria, farei proprio una pessima figura!

    Questo il suo pensiero, mentre si appoggia a una colonna ornamentale in granito e cerca di riprendere fiato. Vorrebbe tanto accomodarsi da qualche parte ma il grande androne d’ingresso è privo di ogni qualsivoglia arredo e comodità. Spartano. Si stende semplicemente sulla fredda marmiglia, per rinfrescare le membra.

    Qualche minuto dopo, al primo imbrunire, un rumore basso e omogeneo rompe il silenzio. Un’auto di grande cilindrata si avvicina lentamente alla villa. Balza in piedi, si dirige con fare circospetto a una vetrata laterale e osserva la scena. Da una preziosa Bentley Continental color vinaccia scende Filippo Maria.

    Come d’abitudine non si degna di ringraziare l’autista. E nemmeno di salutarlo. Il suo rango non glielo permette. Con passo strascicato si dirige verso il portone d’ingresso. L’auto riparte con la stessa delicatezza meccanica con la quale è arrivata. Il passo felpato del vero lusso. Quello cui il canuto Filippo Maria non è più avvezzo da tempo.

    Leggermente ingobbito e con una smorfia d’insoddisfazione sulle labbra, Filippo Maria si accinge ad entrare nella sua dimora. Solo spiacevoli ricordi lo attendono all’interno di quella che un tempo era considerata quasi una reggia dai suoi parigrado.

    Il suo inatteso ospite è ancora acquattato nel buio e sta cercando di contenere il rumore del respiro ancora affannato per non farsi scoprire. Altrimenti che sorpresa sarebbe? Ma il cuore improvvisamente comincia a battergli all’impazzata. Vorrebbe tanto sedarlo, ma non sa proprio come fare. Pensa insistentemente al motivo di tutta quella messinscena e trattenendo il fiato prova ad abbassare il ritmo cardiaco, che ora assomiglia tanto alla doppia grancassa di una band metal. Ha effettivamente paura che Filippo Maria possa sentire tutto quel frastuono. Edgar Allan Poe docet.

    E in effetti il padrone di casa sembra accorgersi di qualcosa, annusa l’aria: l’olfatto è l’ultimo dei suoi cinque sensi a non avere ancora dato forfait. Istintivamente l’ospite serra le braccia, in modo da non esporre le ascelle sudate all’aria. Filippo Maria è esperto in caccia grossa.

    «I soliti ratti! Schifosi, mefitici coinquilini!» sbotta Filippo Maria, che con l’usuale disprezzo dipinto sullo scarno volto si dirige verso lo scalone centrale per andarsi a coricare dopo il lungo viaggio. Non mangerà nulla: la dispensa è vuota e il maggiordomo arriverà solo domani con le vettovaglie.

    Questo è proprio il momento perfetto per la sorpresa: indossa la maschera da Vittorio Emanuele II che ha comprato qualche giorno prima in un negozio specializzato e con passo deciso ma silenzioso segue Filippo Maria. Ha ragionato a lungo su quale tipo di maschera acquistare, poi ha optato per quella del Re che ha unificato l’Italia. Ha pensato che Filippo Maria l’avrebbe certamente apprezzata. Molto meglio dei classici Elvis o Nixon.

    Arrivato al primo piano, mentre il vegliardo riprende fiato, l’improvvisata prende forma.

    Filippo Maria, dopo essersi vestito per la notte, nota una figura alle sue spalle e con autentico stupore riconosce le sembianze storpiate della caricatura del primo Re d’Italia. L’espressione che gli si disegna in volto è il più classico dei: per le fauci dell’inferno, ma che diamine…

    L’effetto sorpresa è riuscito perfettamente: Filippo Maria non reagisce in alcun modo all’apparizione misteriosa. Con ancora la bocca aperta viene cinto dalle membra del Re. Un fazzoletto dall’odore dolciastro non gli permette di respirare. Lo sgomento però dura poco, Filippo Maria casca in un profondo sonno senza sogni.

    Inizia così una vicenda che i nostri progenitori ellenici sapevano descrivere e cantare alla perfezione.

    O forse non è proprio questo il punto di partenza di tutto quanto.

    Ma poco importa: questa tragedia antica in qualche modo deve pur avere inizio.

    1. PROLOGO (un singolo narratore)

    C’ERA UNA VOLTA UN RE

    Questo non è un vero romanzo noir, un racconto giallo, una storia di qualsivoglia colore. E non è neppure un semplice scritto sull’amore, sull’odio e altre amenità. Qui, cari lettori, come nelle tragedie greche, si tratta di indagare sulla natura stessa delle cose, sull’essenza dei comportamenti umani e sul nostro rapporto con ciò che governa le azioni quotidiane.

    E lo faremo insieme, seguendo le strane e contorte vicende che sono accadute nell’arco di pochi anni nella nostra bella penisola a uno come tutti noi, una persona normale nell’aspetto, usuale nei costumi. Forse piacente, certamente intelligente, indiscutibilmente senza alcun potere sul prossimo.

    Ma questo nostro pari ha una caratteristica che a molti di noi manca: una assoluta determinazione, nel senso più eterogeneo che vi possa venire in mente. Una completa dedizione all’introspezione, che partendo dall’indagine su se stesso tende ad allargarsi alla società tutta. Negli anni il nostro non eroe è riuscito a costruire un credibile schema comportamentale e sociale su cui ha basato tutte le sue teorie antropiche. E le ha volute mettere in pratica.

    E ha una completa onestà intellettuale, almeno dal suo punto di vista. Senza secondi fini e volontà di potere. Ma aspettate a farvelo piacere: in fin dei conti ha mandato al Creatore diverse persone. E anche il nostro protagonista alla fine non potrà che lordarsi al contatto con l’oscurità. Non riuscirà a farla franca.

    Il nostro non eroe, come già gli antichi e saggi greci, sa che tutto è ciclico. Lo è il tempo, che ripete eternamente se stesso. E la natura è ciò che lo scandisce: una ruota che ritorna sempre al punto di partenza. Ma la natura non ha alcun interesse nelle umane vicende; lo stesso vale per il gran varietà religioso che tutto creò, ammesso che così sia. Tutto il sacro e il santo in questa vicenda non c’entrano nulla. Tutto torna, amplificato o meno. Prima o poi. Le nostre azioni hanno sempre una conseguenza, sia sugli altri che su noi stessi.

    Il libero arbitrio, il karma, il fato: non ci è dato sapere se esistano realmente. Tutto quello che accade nel nostro mondo è solo opera dell’uomo, inteso come spirito di specie o, come diceva Schopenhauer, come inconscio collettivo. E quindi ripetiamolo: tutto ritorna, prima o poi. Basta saper aspettare.

    C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva raccontami una storia, e la serva incominciò:

    c’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva raccontami una storia, e la serva incominciò:

    c’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva raccontami una storia,…

    c’era una volta un re…

    2. PARODO (l’ingresso del coro)

    THIS IS NOT A LOVE SONG (estratto da Amerika, Rammstein)

    Le intricate vicende che ci apprestiamo a investigare hanno avuto luogo in una ben definita città, nell’arco temporale di cinque anni. Per non urtare la sensibilità di familiari, parenti, amici dei protagonisti coinvolti in questa umana vicenda non si identificherà chiaramente il luogo degli accadimenti, in modo da evitare facili assonanze: vi basti sapere che ci troviamo in una città di media grandezza a nord dell’Appennino, una città d’arte come lo sono in effetti tante altre, con importanti musei, chiese, una questura e una prefettura. E un tribunale. Insomma, una città, nel senso stretto della parola. È però opera di sensibilità non citarne né il nome né le caratteristiche peculiari, dal momento che alcuni tra questi accadimenti sono ancora al vaglio degli inquirenti, nonostante siano passati tanti anni.

    Anche i nomi dei protagonisti sono stati volutamente modificati, mantenendone però alcune caratteristiche fonetiche perché, come vedrete nel prosieguo, queste hanno una stretta attinenza con gli avvenimenti. È consigliabile non citare i loro veri nominativi, siamo sicuri che molti di voi ricorderanno in qualche modo la vicenda e di conseguenza si impone un certo riserbo e una qualche grazia, soprattutto nei riguardi delle vittime. Ci scusiamo quindi in anticipo se qualche nome di fantasia potesse essere simile o riconducibile a persone del tutto estranee ai fatti. I nomi dei protagonisti sono del tutto fittizi, le vicende assolutamente reali.

    Il motore di tutta questa oscura storia, materia per spiriti saldi e indagatori del profondo pozzo che è l’Io, è come sempre un desiderio. Un desiderio di possesso, per la precisione. Ovvio, direte voi. Il desiderio è quasi sempre il bisogno di possedere per sé quello di cui non si dispone: è proprio da questa assenza che si muovono tutte le corde più profonde dell’umana concupiscenza. E in effetti è tutto molto semplice all’inizio: un tale in apparenza come tutti noi desidera qualcosa, e fa di tutto per ottenerla. E quando non ci riesce reagisce in modo consono alle sue caratteristiche comportamentali. Il problema è se queste attitudini sono deviate, come nel suo caso.

    Lo scopriremo strada facendo, per ora vi basti sapere che alcuni anni fa un uomo desiderava una donna. E questo ha dato origine a una catena di eventi difficilmente prevedibile all’inizio di tutta la storia.

    Ma questa non è una storia d’amore: quando una figura oscura desidera qualcuno non lo fa perché mossa da nobili propositi o con i delicati pensieri di un poeta del Dolce Stil Novo. Lui agisce per occupare con la forza uno spazio che gli è precluso. E tutto questo non ha assolutamente a che fare con l’Amore, almeno nel senso che si attribuisce normalmente a questo nobile sentimento.

    Tutto ha inizio in una tiepida serata d’inizio primavera, una trentina d’anni fa. L’odore dei tigli al primo fiorire riempie l’aria, l’illuminazione pubblica ai vapori di mercurio spande tutt’intorno un’aura fioca ma avvolgente. Un clima che predispone alle dichiarazioni amorose. Un’aria frizzante…

    Un momento, fermiamoci. Non sarete per caso quel tipo di lettore che desidera interminabili descrizioni di clima, temperatura, nomi di vie e monumenti, vero? Le descrizioni, nei libri a stampa, avevano senso nel secolo scorso, quando ancora i mezzi tecnologici non avevano riempito le nostre vite di migliaia di film, serie televisive e documentari. E cellulari, stracolmi di svariate migliaia di inutili fotografie e video demenziali. Tolkien, maestro della descrizione visiva, ha riempito interminabili volumi di mondi fantastici, descritti con dovizia e maniacale perfezione: ma lui scriveva nel primo Novecento. Ora non ha più alcun senso. Lasciamo quindi la paesaggistica a quegli scrittori che hanno imparato a novellare nei memorabili corsi di scrittura creativa che riempiono le serate di tanti aspiranti Hermann Hesse. Noi proveremo a concentrarci sulla sostanza.

    Si diceva, era l’inizio primavera del 1989…

    3. EPISODIO PRIMO

    APRILE 1989

    Piccolo appartamento nella prima periferia. Ultimo piano, non un attico ma un sottotetto mansardato. In affitto. Una giovane coppia, entrambi trentatreenni, cultura media liceale. Lei, Anna, indubbiamente una fanciulla d’altri tempi: statura media, lineamenti puliti, viso perfettamente ovale, naso dritto, occhi di un castano tendente al verde pallido. Raffaello l’avrebbe ritratta volentieri. Lavora come commessa e factotum in un piccolo negozio di giochi da tavolo e hobbistica. È sempre poco truccata, quasi del tutto assente ogni orpello di vanità. Non per ostentare sicurezza in se stessa o per rifiuto del conformismo: Anna vive realmente tranquilla nei suoi panni ed è soddisfatta di quello che il convento le ha passato finora. Stranamente. Lui, Alessandro, è un genotipo estremamente standard: altezza nella media, capelli lisci color castano, magro ma non per doti atletiche. Porta gli occhiali. Ed è esattamente quel genere di giovanotto che tutti chiamano nerd. Estremamente appassionato del mondo Apple, divide le sue giornate tra il magro lavoro in copisteria e le interminabili partite ai vari giochi di ruolo nei gruppi di aficionados del genere fantasy nelle paninoteche e birrerie della sua città. E proprio all’interno di uno di questi gruppi Anna e Alessandro si sono conosciuti quattro anni prima. Una storia non appassionante ma sicura, salda. Lei lo accudisce come una madre farebbe con un ragazzino delle scuole medie, lui in compenso non le fornisce mai motivi per dubitare dei suoi sentimenti. Una di quelle classiche coppie apparentemente improbabili ma che ha le carte in regola per vincere l’usura del tempo. Manca però il sugo. Ed entrambi cercano di sopperire a tutto ciò partecipando ogni volta che possono a interminabili serate di gioco con tutte le possibili compagnie. La presenza di altri corpi li mantiene distanti dall’introspezione personale e li salva da ogni pensiero ribelle e caotico. Stasera è una di quelle occasioni, sette amici impegnati a far finta di essere maghi, gnomi, guerrieri ed eroi in un’atmosfera festosa da compleanno prepuberale.

    «Sicura che non ti scoccia che li abbia invitati tutti qui da noi?».

    «Tranquillo, per niente, non possiamo passare tutte le serate dal Pisano: sarebbe la terza volta questa settimana. Coca, noccioline e patatine non ci mancano».

    Anna mette le bibite in frigorifero e svuota con attenzione la busta di plastica con le cibarie.

    «Sai, era per creare la giusta atmosfera. È la prima volta che giochiamo a Hero Drome e volevo concentrazione. Questo nuovo gioco è assai complesso. La scelta dell’ambientazione è quanto mai bizzarra. Umbi ha preteso Vienna ad inizio Novecento, e ci può stare. Ma la richiesta di Frank di parlare in finto medievalese mi pare un po’ azzardata».

    «Più che azzardata direi complicata, Ale. Tu su cosa ti sei preparato? Hai per caso letto l’Opera Omnia di San Tommaso d’Aquino???».

    Risate.

    «No. Anche perché avrebbe significato parlare in latino. Ho riletto un po’ dei miei fumetti da sfigato. E mi sono rivisto "Quel gran pezzo dell’Ubalda e Brancaleone"».

    «Ah, volevo ben dire che avessi fatto qualcosa di serio, una tantum…».

    Altre risatine.

    «Non sottovalutarmi, ascolta un po’: nello stolido tentativo di ascondere la canizie incipiente, vestii con acquiescenza un cappello tipo cardinalizio reperito nei miei armaria. Ti pare una terminologia acconcia?».

    Risate.

    «Ale, sei bravissimo! A dir la verità non saprei se quello che hai detto ha un senso logico. Ma come introdurrai una frase del genere nel contesto dei Cafè viennesi frequentati da Freud ad inizio secolo?».

    «Boh, tanto seguiremo il canovaccio proposto dal regolamento del gioco. È l’unico role-playing game che lascia totale libertà di scenario, è veramente interessante, molto complesso. Nessuno è il game master, anzi, lo siamo tutti, a turno. Questo sì che potrebbe essere un gioco che ci trascineremo avanti per anni!».

    Leggera smorfia di disappunto di Anna, senza farsi vedere. Tutti i giorni lei osserva sul lavoro persone che acquistano giochi e amenità varie, tentando così di sfuggire alla propria realtà, inventandosene una alternativa più magica e accattivante. Lei gioca soprattutto per compiacere lui, per assecondarlo. Proprio come si fa con un ragazzino delle scuole medie, appunto.

    «Dammi almeno una mano, qualche consiglio, qualche termine. Sono come sempre l’unica donna, non voglio fare anche stasera la figura dell’imbucata alla vostra festa».

    Alessandro si tocca con fare studiato la barbetta ben ritagliata attorno alle labbra:

    «Ti scrivo alcuni vocaboli, madamigella: iattura, opificio, affezione, velame, caliginoso, immantinente, apostasia, cuciniere».

    «Fermo, fermo, stop! Se non mi dici in che contesto usarli non mi servirà a nulla!».

    «Tranquilla, te lo scrivo a latere» infierisce Alessandro.

    Suonano alla porta. Entrano Umbi e Frank, altri nerd. Chiassosi come ragazzini troppo cresciuti, cominciano a disporre sull’unico tavolo disponibile in casa, quello della cucina, armi e bagagli estraendoli dalla confezione di Hero Drome.

    «Chi manca?» chiede Frank.

    «Il Lupo, Reno e Il Santo».

    «Viene anche Reno?» commenta sollevata Anna.

    Reno, uno dei pochi partecipanti ai giochi di ruolo che Anna apprezza davvero, per la sua gentilezza e pacatezza, la sua attenzione alle sfumature. Mai sopra le righe. Un galantuomo d’altri tempi. Come lei, di secoli addietro.

    «Che cavolo di soprannome, Reno. Ma da dove deriva?» commenta Umbi.

    «Da un cartiglio rinvenuto in un incunabolo, sembra…».

    Risate all’uscita di Alessandro.

    «In realtà si pronuncia Rino, come la città nel Nevada dove tutti noi vorremmo un giorno sposarci per poi divorziare la mattina successiva. Bella gente gli americani. Come molti soprannomi, la sua origine si perde nella notte dei tempi, ma penso che abbia a che fare con la parola rinoceronte».

    «Reno… pardon, Rino… Rinoceronte… Genialata!!!» ironico, Frank.

    «Ma Reno non ha le fattezze di un rinoceronte!» protesta Anna.

    «Gentile pulzella, è solo un gioco di parole, come usano baloccarsi certi giovincelli» Frank, tra le risate generali.

    Anna ora è contenta, l’attenzione si è spostata per una volta su una persona vera: si parla finalmente di storie reali, di gente in carne e ossa, non solo di mitologia norrena e quisquilie assortite. Ma la sua contentezza dura ovviamente poco.

    «Avete scelto i vostri nomi non d’arte?» irrompe Alessandro.

    Come sempre le discussioni su argomenti concreti, come accade nelle usuali compagnie normodotate, hanno vita breve tra di loro.

    «Come i nomi non d’arte??? Anche questo?» chiede Anna, sempre più affossata dall’atmosfera puerile della serata.

    «Sì» irrompe Frank «devi scegliere come tutti noi il nome reale di un personaggio famoso, conosciuto ai più solo tramite il nome d’arte. Potresti scegliere ad esempio di chiamarti Carlo Pedersoli…».

    «Chi???» Anna.

    «Tutti lo conoscono, ma solo tramite il suo nome d’arte: Bud Spencer! Ma dov’è finita la tua cultura classica?» Frank, con finto disappunto.

    «Sì, certo… mi ci vedo proprio nei panni di Bambino…» ironica, Anna, facendo riferimento al cult movie Trinità.

    «Io ad esempio, dal momento che ho scelto il personaggio del nano, nel gioco sarò Lou Alcindor che tutti conoscono come Kareem Abdoul-Jabbar» continua Frank.

    Risate fragorose, un nano alto due metri e diciannove, come il famoso giocatore di basket.

    «E allora io, avendo scelto il personaggio del ladro, sarò Bettino, in arte Arsenio Lupin» ironizza Umbi.

    «Mi sa che non hai capito proprio bene la scelta dei nomi non d’arte» scherza Alessandro.

    «Però anche tu Frank hai sbagliato» continua Alessandro «Kareem non è il nome d’arte, è il suo vero nome una volta che Lou si è convertito all’islamismo. Però è troppo bello, essendo tu il nano. Te lo lasceremo passare…».

    «Bene, allora io che interpreto l’incantatrice sarò Maria Mazzini» proferisce solennemente Anna.

    «Chi??? L’amante di Garibaldi?» sbotta Frank.

    «Bestia! Mina!» replica Umbi.

    «Avrei preferito Ilona Staller, in arte Cicciolina!». Impudente, Frank.

    Lo scherno e le battute di dubbio gusto vengono interrotte dal suono acuto e squillante del campanello. Entrano Reno, il Lupo e il Santo. Quest’ultimo, fedele al suo soprannome interpreta il santone, nome di battaglia Roger Osborne, in arte King Buzzo. Il Lupo con la sua barba lunga sotto il mento è il guerriero, in non arte Arthur Antunes Coimbra, cioè Zico.

    «King Buzzo? E chi è? Ma anche i fumetti sono validi?» protesta allegramente Alessandro.

    «Ma voi non seguite la musica underground? La musica vera, quella ancora pura? È il cantante dei Melvins, una band che si è formata vicino a Seattle, dove sta nascendo un movimento musicale eccellente, per noi amanti della musica rock» commento sprezzante del Santo, che proprio non sopporta la musica pop e commerciale, men che meno Mina.

    «E tu chi sarai?» chiede con delicatezza Anna a Reno.

    «Io interpreto il grullo, come dicono i toscani, lo sciocco che come nei filmetti di infima categoria alla fine ha sempre il colpo di fortuna che gli permette di risolvere molte situazioni spinose. E come tale ho scelto di chiamarmi Franco Lechner, meglio conosciuto come Bombolo, quello che prendeva tutti quegli schiaffoni da Tomas Milian, er monnezza».

    Ululati di approvazione degli astanti.

    Il resto della conversazione tra i due viene tacitata dal vociare fanciullesco degli altri, dal clangore dell’hi-fi compatto di infima categoria che suona ad alto volume un disco di Van Morrison e dai preparativi di allestimento del gioco da tavolo. Anna è appassionata di lirica ma anche sul versante musicale accondiscende ad ascoltare qualcosa di più usuale quando è in compagnia.

    «Però la musica la sceglieremo un po’ tutti a turno, vero?» protesta il Santo, appassionato fruitore di punk e rock.

    «Certo, non preoccuparti».

    «Visto il nuovo Windows 2.11? Una bomba, il futuro!».

    «Ma va! Vuoi mettere con il NeXT?».

    E si continua ad libitum su questo tenore. Modalità nerd attivata. Il Lupo riesce solo a chiedere se per caso parteciperà anche il Togo, il belloccio dei circoli Dungeons & Dragons oriented. Frank tra una battuta di spirito e l’altra gli risponde:

    «No, lui solitamente viene solo a guardare giocare e ne approfitta sempre per studiare il campo, per vedere se ci sono pulzelle interessanti da concupire» tanto per restare in tema con il linguaggio del gioco.

    A quelle parole Reno nota un impercettibile moto sulle guance di Anna. Potrebbe apparire come una specie di sorriso abbozzato, ma sembra più una sorta di rilassamento, quasi di pericolo scampato. Reno rimugina. Anna vede che Reno la osserva e volge subito il suo sguardo altrove.

    E il gioco di ruolo comincia.

    4. STASIMO PRIMO (il coro)

    PRELUDIO AL POMERIGGIO DI UN FAUNO (Claude Debussy)

    E il gioco comincia.

    Oh, sì, e comincia anche per noi. Conosceremo il Lupo Cattivo, il Grillo Parlante, Barbablù vestito per la festa, Biancaneve sottomessa ai nani. Tutti gli istinti più puri, animaleschi, quelli che vivono dentro le nostre viscere, molto spesso a nostra insaputa. E tanta varia umanità. Infine la Provvidenza, interpretata magistralmente dalla Giustizia, non quella divina o dei tribunali, ma quella che ci si augura sempre che si manifesti durante un racconto intricato. Molto spesso l’attesa è vana. Non in questa storia. E questa Giustizia prenderà le fattezze della Responsabilità Individuale: ognuno di noi è l’unico responsabile delle conseguenze che affronterà per le proprie azioni nefaste. Il terzo principio della dinamica: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Ricordatevelo: il torto fatto agli altri vi si può realmente ritorcere contro. Senza l’attenuante del Perdono. Gli istinti primari, il gioco, la responsabilità personale. La divina terna.

    Ma lo vedremo insieme più avanti.

    È vero, abbiamo iniziato molto lentamente, introducendo la storia con estrema flemma. Come le infinite percussioni prima che Santana schitarri il suo motivo orecchiabilmente latino, come i lunghissimi arabeschi che fanno da interludio a Dark Star dei Dead. Anche Mascagni ci fa attendere prima di illuminarci con il tema della Cavalleria, nell’intermezzo.

    Certo, Beethoven, da buon tedesco, era più diretto. Ma non preoccupatevi, cercheremo anche noi di essere più teutonici.

    Abbandoniamo subito il nostro Preludio e ci tuffiamo nel vivo dell’azione. Quattro anni più tardi, primavera del 1993. È tutta un’altra Italia: la spensieratezza di plastica degli anni Ottanta si è sgretolata sotto le bombe degli attentati di mafia e le inchieste del pool di Mani Pulite. Il mondo ha perso tutte le sue ideologie e non è più diviso in due blocchi contrapposti. Una nuova Italia, più lugubre. Un nuovo mondo, ancora più ingiusto.

    Torneremo ai tavoli dei giochi di ruolo più avanti; ritroveremo Anna e gli altri. Ma prima è d’uopo che si faccia un bel salto temporale e si entri prepotentemente nella vicenda oggetto del nostro indagare.

    Si diceva, siamo a fine marzo 1993. Tutte le Questure italiane sono in festa per i colpi inferti alla mafia, come l’arresto di Totò Riina. E sono allo stesso tempo estremamente preoccupate per la risposta che potrebbero ricevere a questa mossa che non è ancora uno scacco matto. E purtroppo la ritorsione arriverà, tonante. Chi tra gli inquirenti non si occupa attivamente di malavita organizzata rincorre i politici rei di qualunque nefandezza negli ultimi cinquant’anni. Le mitologiche e chimeriche figure dei politici della prima repubblica, mezze uomo e mezze mazzette, sono già quasi tutte inquisite.

    E nessuno, o quasi, rivolge la dovuta attenzione ai fatti di cronaca locale, neri o grigi che siano. O meglio, le indagini su fatti delittuosi di seconda importanza vengono lasciate a quadri inferiori delle Forze dell’Ordine. E questa, come direbbe il nano Frank, il nostro Kareem, non è certo una genialata.

    Ma il fatto passato più in secondo piano in quei giorni è l’avvistamento dell’immensa cometa ribattezzata Shoemaker-Levy 9, diretta ineluttabilmente verso Giove. È il 25 marzo. L’estinzione di massa dei Gioviani è vicina. E sulla Terra l’influsso diabolico di questo tipo di oggetti celesti colpisce molti di noi. La stella del mattino.

    Si sa, l’avvistamento di colossali stelle comete fa impazzire intere civiltà, dall’inizio dei tempi.

    5. EPISODIO SECONDO

    FINE MARZO 1993

    Il corpo di Filippo Maria Aleotti, nobile caduto in disgrazia, viene ritrovato a Villa Ponente in uno stato pietoso. È sabato 27 marzo, due giorni dopo l’avvistamento di una colossale cometa diretta su Giove. I segnali di qualcosa di estremamente sinistro sono chiari, ma non per gli inquirenti.

    Il Duca Aleotti, da tempo assediato dai creditori, dagli strozzini e dalle banche, continuava imperterrito a scialacquare il suo residuo patrimonio tra viaggi di piacere, la caccia grossa in Africa, accompagnatori compiacenti e vini d’alta classe. Niente droghe, l’età ormai avanzata lo sconsigliava da tali attività ricreative. Fedele all’andazzo di altolocati suoi simili che nella vita non avevano dovuto lottare per ottenere qualcosa, Aleotti era arrivato alla maggiore età già sapendo perfettamente che non avrebbe avuto nulla per cui smaniare, nessuno scopo. La noia dei successivi sessant’anni aveva fatto il resto. Le immense tenute vitivinicole erano già da tempo state svendute alle banche, i quadri e le statue neoclassiche impegnati per addolcire i creditori. Ogni oggetto significativo a livello economico era finito nelle tasche di scrupolosi strozzini, legati alla malavita, che a differenza sua sapevano benissimo

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