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Sono ovunque tranne che qui
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E-book350 pagine4 ore

Sono ovunque tranne che qui

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Info su questo ebook

Thriller - romanzo (218 pagine) - Napoli, oggi. Tel Aviv, ieri. Virginia Sottile ha ricevuto tutti gli insegnamenti da suo padre e ha imparato a difendersi dalla vita e a non fidarsi di nessuno: ma c’è una realtà con la quale non si è ancora confrontata: niente è come sembra.


Virginia Sottile ha venticinque anni e fa la prostituta a Napoli. Vive nei Quartieri Spagnoli e la sua vita è popolata da uomini-incubo: un padre duro, tenente dell’esercito israeliano, deceduto in un attentato, che le ha lasciato in eredità il krav maga; Remo Vitale, il suo pappone, Mate lo slavo, uomo cinico, che vuole detronizzare Remo Vitale, suo tenente, ritenuto inadeguato.

La vita di Virginia cambia quando incontra un cliente insolito su una sedia a rotelle, dal fascino indiscusso. Virginia è avvezza a essere usata, ma chi ha di fronte si può definire il primo uomo vero della sua vita, e sarà lui ad affidarla alle cure spirituali di un frate, Ciro Squillace, ex delinquente.

Il carisma esercitato dal frate sulla ragazza è enorme ma Virginia non dimentica la vita di fuori e ciò che la lega alle sue compagne di strada, con le quali convive, Cloè su tutte, in cui si rivede molto.

La situazione precipita e nella testa di Virginia rimbomba la frase che suo padre le ripeteva sempre: Niente è come sembra.

Una protagonista che non si dimentica e un romanzo coraggioso, che affronta di petto il tema dell’emancipazione femminile e ci mostra l’evoluzione di una ragazza rimasta da sola. Una ragazza dei giorni nostri che rifiorisce grazie a degli incontri casuali ma, soprattutto, grazie alla propria determinazione che le farà indirizzare il corso della sua esistenza.


Marco Simeone, coniugato e padre di due figlie, è milanese di nascita, ma napoletano nel cuore, dal momento che la città di Napoli occupa un pezzo importante nella sua storia personale; la vita lo ha portato a vivere all’ombra delle Prealpi, dove opera nel settore del commercio.

Fin da giovanissimo si è dedicato per passione alla scrittura, passando attraverso diversi generi sia di prosa che di poesia, con una predilezione per il noir e per il thriller. Lo scrivere è per lui scoperta continua: un modo per imparare a conoscersi e per guardarsi dentro. Abbina questa sua passione alla pittura di soggetti rigorosamente naturali.

LinguaItaliano
Data di uscita16 lug 2024
ISBN9788825429817
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    Anteprima del libro

    Sono ovunque tranne che qui - Marco Simeone

    A mamma Laura, prima donna della mia vita.

    A Eleonora, Annalisa, Giulia, la mia casa

    A mia zia Mammola, semplicemente unica

    A Davide, piccolo grande uomo.

    … e un poco anche a me stesso.

    Se riuscite a capire questo voi che

    possedete le cose che il popolo deve avere, potreste salvarvi.

    Se riuscite a separare le cause dagli effetti, se riuscite a capire che Pain,

    Marx, Jefferson e Lenin erano effetti, non cause, potreste sopravvivere.

    Ma questo non potete capirlo. Perché il fatto di possedere vi congela per

    sempre in io e vi separa per sempre dal voi.

    Furore, John Steinbeck

    Se non avessi visto il sole

    avrei sopportato l’ombra

    ma la luce ha reso il mio deserto

    ancora più selvaggio.

    Emily Dickinson

    Prologo

    Sono ovunque tranne che qui

    ossimoro vivente

    che ragiona d’altro

    mentendo con il corpo a sé stesso.

    Non apro bocca

    perché non esca

    il suono obliquo di una sola parola

    oltraggiando il silenzio fecondo

    in cui ho cercato rifugio.

    Il cavalier Testa si riallaccia i pantaloni e prima di rivolgermi la parola ascolta risalire la zip della sua lampo.

    – Grazie a Dio che ci sei tu. – Mi pizzica la guancia tra l’indice e il medio. – Quanto sei bella, figlia mia – va ripetendo in giro per la stanza mentre si scruta attorno per non dimenticare nulla.

    Sono seduta sull’angolo del letto e mi domando cosa ci sia di Dio lì dentro, se mai si sia fatto vedere in quella stanza, in quel palazzo o nella mia vita.

    L’uomo mi omaggia di un inchino dopo essersi sollevato il cappello di paglia, curva il capo e scompare dietro la porta.

    I soldi sono sopra una sedia dove li lascio perché perdano il suo odore.

    Questo è il momento migliore della giornata perché posso correre sotto la doccia e lavarmi per cambiare pelle. L’acqua è il mio scudo.

    Questo è il momento peggiore della giornata perché sono ostaggio dei miei stessi pensieri. La mente è la pistola puntata alla mia tempia.

    Primo giorno

    1

    Creatura alata

    Mi sporgo dal marciapiede per immortalare il viale fino in fondo. È lungo e accoglie corsie di auto disordinate che si perdono fino all’orizzonte dove la bruma del traffico le confonde come per magia.

    La vita di Napoli è ovunque, nelle cose come nelle persone, nell’aria del mattino che, ancora timida, trattiene una frescura destinata presto a perdersi. La città è un respiro continuo che ha anticipato le prime luci del giorno così come fa con quelle della notte, all’inseguimento di un impulso tutto suo.

    Mi friziono le braccia, ma dell’auto nera, rapace che preleva, trasporta e deposita, non c’è traccia.

    L’asfalto ancora fresco rimbalza il rumore di motori, una creatura che sembra voler emergere dal sottosuolo.

    Un manipolo di curiosi attende il bus di linea nei pressi di una pensilina imbavagliata da manifesti ingialliti. Mi osserva con appetito. Soltanto uno di loro legge un giornale ripiegato su sé stesso come una pizza a portafoglio, mentre gli altri sembrano curarsi solo di me.

    Ho sollevato un dito medio per molto meno.

    Eccola in fondo al viale la creatura alata che emerge a fari spenti, si sposta da un lato per poi guadagnare l’altro e così via ricucendo la strada.

    Si arresta a pochi centimetri da me.

    Una portiera si apre e mi investe una folata di profumo misto a sudore, gomma americana, acqua di colonia, il tutto servito alle mie narici ancora vergini.

    Mi siedo dietro con altre due ragazze di cui Cloè, truccata da donna, ha una malinconia sul viso che la sua giovinezza non merita. Il broncio le appesantisce i lineamenti sottraendola a una bellezza acerba.

    Moira ha un’espressione anonima, chiusa in un cappottino di cotone color pastello che si mantiene tirato su fino al collo e da cui sporgono il mento e il naso aguzzi. Non mi degna di uno sguardo mentre Cloè mi regala il suo sorriso triste e si prende subito la mia mano. La sua è tremante, ma le serve per attirare l’attenzione e assorbire la mia calma apparente.

    A guidare è Remo, pallido in volto, con un maglioncino leggero il cui collo sembra soffocarlo e le maniche tirate su fino ai gomiti. Le mani grosse e callose artigliano il volante come se dovessero strozzarlo. Accanto a lui Madame, la maîtresse, è seduta di sbieco per poterci imbonire con i suoi sorrisi melliflui e frasi vuote.

    – Ricordatevi sempre che chi avrete di fronte ha pagato molto bene per avere il vostro corpo, anche l’anima se necessario – sottolinea il ghigno di Remo. Le sopracciglia si muovono irrequiete come le ali di un gabbiano che frustano l’aria.

    La mia anima non l’avranno mai.

    Madame si sente in obbligo di precisare. – Pensate solo ai soldi. Sono quelli che contano. – Si strofina i polpastrelli delle dita. Gli occhi privi di luce ne fanno una donna assente.

    Ci si accorge di lei più per i profumi o gli odori che si porta dietro.

    Remo la interrompe con un gesto asciutto della mano, mentre da fuori i clacson si fanno sempre più insistenti, e si rivolge a Cloè. – Rossa, preparati che siamo arrivati. – La cerca attraverso lo specchietto retrovisore, la trova e gli occhi gli si assottigliano.

    Remo non usa mai i nostri nomi perché gli piace ferire per ricordarci chi comanda.

    – Mi raccomando – riprende subito – un messaggio con questo quando hai finito, così ti porto in Via Petrarca dove c’è un altro che ti aspetta. Usalo solo a lavoro ultimato e ricordati che deve essere il cliente a farti capire quando te ne puoi andare. Che non succeda più quello che è capitato l’ultima volta.

    Porco schifoso, quel tizio la stava massacrando di botte.

    Cloè si guarda il cellulare che le riempie il palmo piccolo della mano, mi sfila la sua ed esce dal mio lato senza neanche salutare come se stesse evaporando dall’auto.

    La seguo attraversare la strada con un’andatura assente. S’impala sulle punte dei piedi proprio di fronte alla pulsantiera di un citofono cui arriva a stento.

    Quindi scompare divorata dal portone.

    2

    La guerra sul cancello

    Sono quasi le sette.

    Remo ci lancia dietro il maglioncino senza staccare mai gli occhi dalla strada e rimane in canottiera.

    Una zaffata di ascelle e acqua di colonia mi sferza il viso.

    Prego solo che non riaccenda l’aria.

    Anche lui ha seguito Cloè sparire dietro il portone del palazzo. Fa così con tutte noi: le ultime raccomandazioni scontate, ci accompagna con lo sguardo dopodiché riaccende il motore. Gratta la marcia, perché non ha più la sensibilità ai piedi, l’auto stride, sgomma per poi spegnersi al primo semaforo.

    Mi studia per un istante attraverso lo specchietto retrovisore imbrattato dalle sue stesse impronte. Gli occhi sono di nuovo pronti a sparare mentre gli pulsa una vena sotto la palpebra. La voce segue subito il suo sguardo lascivo, come il tuono sta dietro al lampo.

    – Amore, tra poco tocca a te. Si direbbe il tuo giorno fortunato. Il cavalier Somma sta in un posto magnifico proprio sopra Posillipo. – Si tossisce nel pugno e riprende ancora più energico. – Da lì potrai vedere tutto il mare che vuoi dopo averlo ripagato – sogghigna e mi mostra gli incisivi che addentano il labbro inferiore. Il collo taurino lo fa sembrare un molosso in procinto di azzannare la sua preda.

    Resto aggrappata al mio silenzio rassegnato in attesa della pantomima puntuale di Madame che si sistema l’ombretto sulle palpebre cadenti e si gira verso di me.

    – Sono sicura che Somma ti piacerà – miagola e alza gli occhi al cielo in attesa che le piovano le parole giuste. – Ne deve avere proprio tanti. – Si solleva i capelli con mèche argento e castane e se li lascia ricadere sulle spalle.

    Penso che Madame sia troia anche dentro ma almeno il suo odore di borotalco respinge quello animalesco di Remo.

    Fisso la nuca di Remo solcata da pieghe di grasso che si arrotolano le une sulle altre fino a quando i nostri sguardi non si incontrano nello specchietto retrovisore.

    Mi rivolgo a lui. – Perché Cloè la tratti così?

    – Non mi sembra che la cosa ti riguardi!

    – Da quando una di noi fa doppie marchette nello stesso giorno?

    Mi indirizza un bacio. – Da quando lo decido io, Amore.

    – Fai così solo perché la vuoi punire.

    Remo decide di tacere, io no.

    – Chi c’è in via Petrarca? Dammelo a me.

    – Mi dispiace. Hanno chiesto espressamente carne fresca, anzi molto fresca – ride Remo sguaiato senza più rivolgermi lo sguardo.

    – Sei un porco. Fai che le capiti qualcosa e…?

    – … e? – mi sfida, pronto a fermare l’auto.

    Sarebbe capace di farlo.

    Madame mi sciabola un’occhiataccia.

    Il mio volto amareggiato torna a posarsi sul finestrino.

    Oltrepassato il porticciolo di Mergellina, si fa spazio un mercatino di ortofrutta con il suo seguito di avventori che si alternano e si spostano da un banco all’altro mentre sullo sfondo barche colorate di pescatori dondolano sulla cresta del mare e sembrano accarezzarsi le une alle altre. Nugoli di gabbiani si bisticciano e si rubano pezzi di pesce dal becco. I loro garriti inconfondibili bucano l’aria.

    La strada comincia a salire.

    Maledetto porco, se capita qualcosa a Cloè ti uccido. Vi uccido tutti e due, ve lo giuro che lo faccio.

    A ogni tornante i palazzi lasciano spazio ad abitazioni che preludono a villette dalle entrate misteriose. Di alcune si intravedono i viali all’ombra di pini marittimi i cui cappelli s’intrecciano: il tutto sotto il vigile sguardo di una macchia mediterranea che offre varie tonalità di verde.

    Per ora vedo solo sprazzi di mare che sembrano aprirsi tra la vegetazione. Mi arriva la sua aria fin dentro l’abitacolo.

    – Amore. – Remo mi strappa al paesaggio. – A proposito di questo Somma: non sa che cosa siano i problemi di soldi. Chiaro?

    Muovo il capo ma resto attaccata al finestrino. Soltanto così quello che mi dice viene subito soppiantato da quello che vedo.

    – Non ho sentito – abbaia Remo – la tieni la lingua per rispondere? Una volta tanto che te la faccio usare come si deve. – Scoppia di nuovo a ridere buttandosi contro la portiera e addentandosi il labbro.

    Sì, penso proprio che un giorno te la farò pagare, porco maledetto.

    E tu Madame, brutta troia, perché resti in silenzio?

    Madame, con una mano che sembra di cartapesta, morde il braccio di Remo e scuote il capo facendo risuonare i suoi orecchini multicolori e tribali. Moira se ne resta in un angolo del sedile con le sue emozioni sospese, ogni tanto si guarda le mani e poi appoggia anche lei il viso al finestrino come se fosse un animale in cattività.

    Remo inchioda l’auto per lasciar passare una comitiva di ragazzi.

    – Mamma mia quante belle creature – si lascia sfuggire.

    Non resisto più: abbasso il finestrino mentre imbocchiamo un viale lungo e odoroso il cui aroma di glicine impregnato di aria frizzante di mare mi riempie le narici e satura l’abitacolo.

    Osservo Moira e capisco perché la mia compagna di viaggio sia così restia a muoversi: sotto il capottino è completamente nuda.

    Pronta all’uso e all’abuso sarebbe una delle solite frasi di Remo.

    È probabile che il suo cliente la voglia così e non si sia fatto alcuno scrupolo al riguardo.

    Si stacca le mani dal grembo solo per mangiarsi le unghie. La mia diffidenza iniziale nei suoi confronti scema all’istante: le allungherei una mano se solo volesse prendermela.

    Ci si para di fronte un cancello in ferro battuto che accenna ad aprirsi con uno sbadiglio lento. Sulla sommità si riconoscono delle scene di caccia ritagliate nel ferro che si completano soltanto quando questo si chiude alle nostre spalle.

    Remo arresta l’auto poco dopo averlo oltrepassato: della villa non c’è traccia.

    Un silenzio irreale entra fin dentro l’abitacolo. Sembriamo piovuti in un altro mondo.

    – Il nostro viaggio finisce qui. – Un’altra sua risata catarrosa mi spinge a uscire. Non si gira nemmeno ma tamburella le sua dita tozze sul volante e rimane in attesa.

    Dopodiché l’auto fa più manovre alle mie spalle e sgomma mentre mi incammino lungo il viale come ho visto fare a Charlot nel finale di Tempi Moderni.

    Io però sono sola e appena all’inizio.

    3

    Pausilypon

    Il viale riceve ombra da una fila disciplinata di pini marittimi schierati sulla sinistra le cui chiome frondose si toccano. Affiorano da dietro una siepe lunga di bosso che impedisce ogni altra visuale. Sulla destra c’è una panchina in marmo bianco, isolata, rivolta verso la siepe, di cui mi sfugge il senso, e dietro di essa una distesa immensa di prati interrotta, in lontananza, dalla punta del Monte Epomeo.

    Del mare non c’è traccia e se non fosse per la salsedine dell’aria con cui il maestrale mi schiaffeggia, dubiterei addirittura della sua esistenza.

    La cosa eclatante di questo posto è la frescura commestibile e il silenzio solido contro cui rimbalza anche Napoli con tutto il suo fermento.

    Sembra un piccolo mondo a sé che non ha intenzione di rinunciare alla sua identità.

    Mi giro per osservare il cancello oramai lontano e seminascosto dalla chioma balbettante di qualche pino. É l’unica cosa che mi tiene ancorata al presente cui si aggiunge il latrato annoiato di un cane che sembra provenire da un altro mondo.

    Impossibile che gli siano sfuggiti i mille odori che mi porto addosso, penso tra me e me ma per cautela affondo la mano nella borsetta alla ricerca dello spray urticante.

    Ecco lì sulla destra apparire il mare, con il suo turchese ancora smorzato dalla foschia mattutina. Procida ne emerge sdraiata davanti a Ischia la cui cima del Monte Epomeo buca il cielo.

    Non mi accorgo che il viale curva sulla sinistra, abbandona pini e bosso e si concede a un prato curato, dalle sfumature argentee, che odora di erba appena tagliata, sul quale giacciono attrezzi ginnici disseminati come giocattoli nella stanza di un bambino. Quel fazzoletto di prato è recintato e vi si accede da un bersò in legno.

    Penso che posti come questo esistano per riconciliare gli uomini tra loro e con la natura e ora capisco perché i latini lo chiamavano Pausilypon, luogo dove cessano tutti gli affanni.

    Anche Napoli si è arresa in buon ordine, prona ai piedi di quella collina magica, e per zittire Napoli ce ne vuole sorrido divertita.

    Mi accoglie un casale in pietre a vista color mattone che spicca sul turchese del mare. Il cortiletto da cui vi si accede è una colata di sampietrini che ricordano le cellette di un alveare mentre cascate di edera carnosa coprono fette di muro per arrivare fino alle finestre.

    Mi massaggio le braccia perché avverto brividi improvvisi di freddo nonostante il sole faccia di tutto per scaldarmi. Poi capisco il perché: un’ombra immobile sulla destra sporca appena il mio campo visivo ma questo è sufficiente a inquietarmi.

    E quello chi cazzo è? Da quanto tempo è lì fermo a osservarmi?

    La sagoma si muove e mi viene incontro senza proferire parola.

    Stringo la borsetta con una mano e con l’altra preparo lo spray.

    4

    Sfogliatella riccia

    Giunto a un paio di metri di distanza l’uomo mi mostra il palmo aperto della mano che dovrebbe tranquillizzarmi se non fosse per le dimensioni.

    – Mi segua – sono le sue uniche parole.

    È alto più di un metro e novanta, con spalle larghe e spioventi le cui braccia penzolano ai lati del corpo. Mi precede con un andatura annoiata. Le mani sono davvero impressionanti e ogni tanto le chiude serrando le dita: ne esce un rumore di noci spezzate. Il capo ruota su di un collo robusto, a sinistra e poi a destra.

    Non deve essere un avversario semplice.

    – La velocità, Virginia, è il segreto per restare in piedi durante un combattimento e per non dare punti di riferimento all’avversario. Ricordati che più sono alti e più sono lenti. Tu sei piccola, veloce, asciutta nei movimenti. Impara a portare i colpi sfruttando le tue armi. Un colpo e via, un colpo e via. Ti devi convincere che tu sei l’arma, Virginia.

    Le parole di mio padre mi si allineano nella testa come fossero un rosario e, anche se scuoto il capo per respingerle, so che gli darò ascolto perché oramai fanno parte di me.

    Ho già abbandonato lo spray sul fondo della borsetta per avere entrambe le mani libere.

    Entriamo in un salone con una vista a picco sul mare.

    L’uomo, che per un attimo pensavo evaporato, si è solo defilato per godersi la mia espressione.

    Al suo posto avrei fatto lo stesso.

    Ora che lo osservo meglio noto che indossa un paio di bretelle fucsia ancorate a dei bermuda jeans e una camicia bianca che risalta un tronco e avambracci possenti che affiorano dalle maniche arrotolate.

    Alla mia destra un camino in pietra a vista dona un tocco di rustico alla modernità dell’ambiente mentre nell’aria aleggia un odore di pulito, di gelsomino, come se la natura ne fosse parte integrante.

    Mi lascio andare. – Che figata!

    Barcollo nel vedere l’immensità del mare che in questo momento sembra ricamato dalla costiera Amalfitana, dal Vesuvio e dal Castel dell’Ovo sdraiato nel mezzo. Si riconosce perfino la cicatrice rossa della Nunziatella nel cuore del quartiere di Pizzofalcone.

    Mi giro verso l’uomo che mi sta fissando curioso. Devo apparirgli molto divertente perché mi regala un sorriso genuino.

    Penso che chi abita un posto del genere deve amare il mare almeno quanto lo amo io.

    Ma perché uno che possiede tutto questo ha bisogno di me?

    Forse, proprio perché possiede tutto questo?

    – Signorina, si serva pure. Il dottor Somma sarà qui a breve. – Il lungagnone si riappropria della versione – sorriso robotico – e mi indica una madia in legno su cui ci sono vassoi con ogni prelibatezza.

    In uno specchio ampio, proprio di fronte al camino, vedo riprodotta la mia sagoma incredula. Le mie mani piccole e forti mi sfuggono da sotto gli occhi per accanirsi su ciuffi di capelli neri già lisci che rischio di strapparmi. Me li arrotolo e mi avvicino allo specchio che mi restituisce un viso stanco che nemmeno l’ovale perfetto o le tinte scure di carnagione, ciglia, sopracciglia e occhi sono in grado di ingannare: forse gli uomini ma non me.

    La mole dell’uomo, oramai di spalle, sparisce dietro una porta.

    Provo a rilassarmi e mi metto un solo auricolare confidando che James Morrison con I Won’t Let You Go mi farà uscire da quella stanza e sfiorare in volo il mare turchese che ho davanti agli occhi. Mi lascio sedurre dall’idea che chiunque abiti in un posto del genere non possa né puzzare né essere troppo violento: sono due cose che non sopporto.

    Addento una sfogliatella riccia ancora tiepida e accenno un ballo con le dita a nacchere, mi porto le mani sopra il capo quando da quello stesso specchio vedo sopraggiungere alle mie spalle ciò che non avrei mai immaginato.

    Mi strappo l’auricolare e mi giro all’improvviso come se lo specchio mi avesse mentito.

    – Piacere, Romolo Somma – mi dice alquanto divertito un uomo che mi allunga la sua mano abbronzata in attesa che sia io a fare qualche passo verso di lui.

    Mi asciugo la mia sul fianco e mi avvicino a lui con un boccone per metà fuori dalla bocca.

    Non sono abituata a guardare un uomo dall’alto in basso ma chi mi sta di fronte si dà il caso che sia seduto su una sedia a rotelle.

    L’uomo solleva il fermo della ruota e si avvicina con flemma alla madia.

    – Hai già favorito? – mi domanda oramai di spalle.

    Biascico e gli mostro un moncone di sfogliatella che ho ancora in mano.

    Si gira verso di me e mi regala un sorriso a labbra serrate, studiato, ma che gli riesce molto bene. – Quella è fantastica. Peppino Scanna è il re incontrastato delle sfogliatelle.

    Cosa cazzo ci faccio qui?

    – Sei davvero incantevole – mi anticipa lui.

    Questa volta decido di credere all’uomo che ho di fronte, che smorza il suo sorriso per tenerselo dentro, pronto per un’altra occasione.

    Vorrei spingermi oltre e rispondergli la stessa cosa ma non lo faccio.

    Non devo mai perdere il controllo di me stessa e della situazione in cui mi trovo.

    5

    Ghigliottina

    Il mondo rallenta all’improvviso, anzi sembra fermarsi. I rumori sono suoni che sfumano divorati dall’oblio del tempo, gli odori si confondono gli uni con gli altri ma i più sgradevoli hanno sempre il sopravvento. Anche i contorni delle cose sembrano fondersi come se il buio se ne appropriasse. Ogni istante viene amplificato, si raccoglie attorno all’azione per ossidarla e farla diventare pausa, paura: cicatrice infinita. Tutto ovattato in giro, screziato da luci di fuori che vorrebbero fare di più per entrare in quella sala, in quella casa. Ma non gli è consentito perché qualcuno decide di zittire tutte le finestre facendo calare la ghigliottina delle persiane.

    Buio quasi totale se non fosse per un piccolo bagliore di cui Cloè ignora la natura. Non riesce nemmeno a capire se quella fiamma? è lì ferma a guardarla da tempo oppure…

    – Ascoltami bene stronza, o bevi oppure ti faccio bere io. – Una fiamma di accendino le si avvicina al volto per poi giocare con le sue ciglia fino a quando Cloè non viene investita dal lezzo nauseabondo di un fiato alcoolico che le scalda la guancia, mentre il sesso duro le preme dietro e le mani quante? oltraggiano irrequiete la sua terra divenuta di nessuno. Cloè ignora da quanto tempo è in quel posto, senza luce, senza pietà. La mente si rifiuta di ricordare perché lei sta imparando a usarla come Virginia: il meno possibile. Si ricorda solo che ha provato a urlare ma è stato come farlo con un cuscino premuto sulla bocca. La sua testa fatica a contenere una girandola di immagini che si sovrappongono e fondono le une con le altre. Alcune nascono dal suo passato altre sono parto dei suoi incubi.

    – Marko vieni giù

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