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I vizi di Attila
I vizi di Attila
I vizi di Attila
E-book354 pagine5 ore

I vizi di Attila

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Info su questo ebook

Uno scheletro trovato in un canale d’irrigazione, una donna tagliata a metà, un uomo lasciato morire dissanguato in pieno centro, una clochard sottoposta a un rudimentale elettroshock… sono solo alcuni dei casi in cui si imbatte Cosma Brusco, ex promessa del giornalismo bruciatosi durante Tangentopoli. Mentre cerca di sopravvivere a un doloroso divorzio e a una serie di sfortune giudiziarie, Attila – così chiamato per farsi terra bruciata intorno, rovinandosi la vita – affronta in modo rocambolesco, per dovere o semplice curiosità, una serie crimini sullo sfondo della città scaligera, seguendo, o subendo, l’evolversi del suo rapporto con l’ex moglie e la figlia, tra amici accorati e nemici giurati.
LinguaItaliano
EditoreNero Press
Data di uscita16 lug 2024
ISBN9791281435148
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    Anteprima del libro

    I vizi di Attila - Emannuele Delmiglio

    immagini1immagini2

    I vizi di Attila

    di Emanuele Delmiglio

    Revisione ed editing: Simona Focetola

    Le immagini di copertina sono state realizzate tramite la piattaforma Discord secondo i termini di servizio previsti dall’abbonamento a Midjourney.com

    ISBN: 979-12-81435-14-8

    © 2024, Associazione Culturale Nero Cafè

    Nero Press Edizioni

    https://nerocafe.net

    https://neropress.it

    I fatti narrati in questo romanzo sono frutto di fantasia. Ogni eventuale riferimento a eventi o persone realmente esistenti è puramente casuale.

    immagini3

    Alle mie figlie, Valentina e Alice,

    comproprietarie di maggioranza del mio cuore.

    Vizio I

    Tuo per sempre

    Ancipiti plus ferit ense gula

    Ci sono persone che cercano il sublime nell’arte, altre che si rivolgono alla religione o alla filosofia; alcuni ritengono di aver toccato le vette più alte dell’esistenza dedicandosi al prossimo, altri osservando, nella solitudine dei propri uffici, i rendiconti del fatturato in crescita; e c’è chi considera il massimo della vita il gioco della seduzione e dell’erotismo.

    Per quanto mi riguarda, ho sempre provato momenti di breve ma significativa estasi nell’addentare un panino caldo imbottito di mortadella.

    Proprio ciò che stavo facendo quella mattina, seduto su una panchina sotto gli alberi dei giardini di piazza delle Poste, quasi completamente ricoperto di briciole, incurante del mondo e dei suoi perversi meccanismi.

    Il sole primaverile non riusciva ancora a mitigare la temperatura rigida dell’aria, ma io non ci facevo caso, così come non mi curavo dei pochi altri frequentatori della piccola oasi verde nel cuore della città: sfaccendati, barboni, gente ai margini della società; miei simili, insomma.

    Mentre stavo dando gli ultimi morsi, tuttavia, una presenza anomala attirò la mia attenzione. La studiai con la coda dell’occhio, senza farmi notare. Era una donna sui trenta, trentacinque anni, lunghi capelli di un biondo stanco, pettinati con cura; l’abbigliamento e il portamento la qualificavano come una persona di un certo livello sociale. Il disagio di trovarsi in un ambiente così inconsueto era evidente: appoggiava il didietro sul bordo di una panchina come se stesse per scattare in avanti e muoveva ritmicamente le gambe snelle.

    Mi guardava. Controllai: non me lo stavo immaginando.

    Mi fissava per qualche secondo, pareva che stesse per alzarsi e venirmi incontro, poi distoglieva lo sguardo e rinunciava, rimanendo nervosamente pensosa; la cosa andò avanti per un po’ e io, vagamente incuriosito, stavo per decidermi a guardarla in faccia apertamente per aiutarla a prendere una decisione, magari con una battuta del tipo «Sono un ammiratore di Nero Wolfe e sto cercando di diventare grosso come lui». Prima che potessi farlo, lei d’un tratto si alzò e se ne andò senza voltarsi.

    Ecco un bel mistero di prima mattina, pensai, anche se mi rendo conto quanto la definizione temporale prima mattina sia suscettibile di interpretazioni soggettive.

    Insomma, erano circa le undici.

    Colto dall’improvvisa consapevolezza di essere osservato, gettai un’occhiata all’edificio che ospita il giornale, proprio dirimpetto ai giardini pubblici: la figura di Bellotti, il caporedattore, si stagliava nitida e minacciosa a una delle finestre del terzo piano.

    Gli feci un timido saluto con la mano e lui, per tutta risposta, batté teatralmente l’indice sul proprio orologio da polso.

    «Attilaaa… sei riposato?» L’urlo mi accolse non appena entrai dalla porta principale e rimbombò per tutta la redazione. Quando è arrabbiato, Bellotti fa il sarcastico.

    Passai tra le scrivanie, tra rapidi cenni imbarazzati e fugaci borbottii di saluto. Mi pareva di sentirli: i nuovi collaboratori chiedere sottovoce chi fossi e i vecchi giornalisti spiegare di rimando «È Brusco, quello che durante Tangentopoli…», oppure «Lo chiamano Attila perché è bravissimo a rovinarsi la vita», e qualcuno «Scriveva bene, un vero peccato…» Rari questi ultimi.

    Sapevo di suscitare disprezzo ai più e pena a pochi; a tutti, stranamente, una sorta d’invidia per la libertà che davo l’impressione di avere, ovvero una sorta di franchigia che il mio precario stato professionale mi consentiva. Avessero saputo a quale prezzo! E, tuttavia, le mie rare apparizioni contribuivano a creare intorno alla mia disadorna figura una specie di alone di mistero che non mi dispiaceva.

    Quando fui davanti al caporedattore, rinunciai a difendermi e scelsi l’atteggiamento inoffensivo, mossa che si rivelò vincente. Bellotti, infatti, mi fece chiudere la porta, mi redarguì con una peculiare occhiata che, tradotta, suonava più o meno come: Faccio di tutto per farti lavorare, per quel poco che mi riesce, scontrandomi col mondo, e tu arrivi anche in ritardo…. Aveva ragione, naturalmente, anche se ero lontano dall’ammetterlo. Attribuivo il suo carattere irascibile soprattutto alla dieta vegetariana alla quale la moglie lo obbligava. Pure io sarei stato intrattabile se mi avessero fatto vivere a cavoli bolliti, senza contare che lo ero lo stesso.

    Infine Bellotti passò al sodo.

    «Hanno dragato il canale Camuzzoni, nella zona industriale» cominciò, cercando qualcosa di imprecisato nella montagna di carte sulla sua scrivania, senza peraltro trovarlo, e lanciandomi qualche breve e intensa occhiata «Hanno trovato un po’ di tutto, come sempre: motorini, sedie da bar, rottami, una pistola arrugginita…»

    Mentre parlava, non potei fare a meno di osservare come le spesse lenti rotonde ingigantissero gli occhi, rendendo fanciullesco il suo sguardo da giornalista affermato e facendo assomigliare il movimento delle sue ciglia al rapido battere d’ali di un insetto.

    «Tra le tante cose, c’era anche uno scheletro. Dovresti andare a vedere se vale la pena di buttare giù un pezzo serio».

    «Un po’ di mistero?» chiesi.

    «Sì, vedi se c’è qualcosa. Fai tu. Ma chiamami».

    Scrivere per un settimanale garantisce una certa libertà dalla cronaca quotidiana e permette di lavorare all’approfondimento, con un minimo di tempo a disposizione, cosa che mi era congeniale. Bellotti confidava nel fatto che, se c’era sostanza, io avrei potuto tirar fuori qualcosa di buono. La sua fiducia quasi mi commuoveva. Repressi l’impulso di baciare l’ampio cranio pelato e me ne uscii seguito dal suo urlo stridulo: «Possibilmente prima di Natale!»

    Cara, vecchia zucca pelata…

    Verona è una bella città, specie in primavera, ma nella zona nella quale mi stavo recando sembrava di essere in un qualsiasi agglomerato di fabbriche del fantastico e operoso Nord-est.

    Il luogo del ritrovamento era ancora picchettato, anche se non ce n’era più motivo. Il letto del canale, a sezione trapezoidale col vertice rovesciato, era quasi del tutto sgombro, salvo un rigagnolo di acqua maleodorante sul fondo. Alcuni poliziotti camminavano in giro e sembravano prendere delle misure, altri setacciavano le fasce di vegetazione incolta ai lati del canale, raccogliendo solo siringhe e profilattici usati.

    Tutto intorno il grigio della zona industriale, capannoni, cemento, il rombo delle automobili e dei camion che sfrecciavano sulla vicina circonvallazione.

    Lo scheletro era stato trovato a ridosso delle griglie, dove il canale scende sotto terra, per poi sbucare fuori città e gettarsi nell’Adige.

    Sapevo che, se mai qualche oggetto importante c’era, ormai era stato rimosso e catalogato, ma mi trattenni a respirare l’atmosfera della scena nella speranza di farmi un quadro della faccenda. Credo che stati d’animo ed emozioni, specie quelle che si generano in momenti drammatici, permangano nei luoghi che ne sono stati teatro anche per molto tempo. Se avete mai visitato le segrete di vecchi castelli, capite cosa intendo: il dolore e la sofferenza sembrano aver permeato perfino la nuda roccia.

    Così mi guardai attorno respirando polveri sottili con un’aria che, mi rendo conto, doveva apparire abbastanza ridicola. Il corpo, con ogni probabilità, era entrato nelle acque del canale, vivo o morto che fosse in quel momento, molto più a monte; eppure guardando quelle grate che davano sull’oscurità, provavo una strana sensazione, qualcosa di pesante che andava oltre il normale senso del macabro.

    Suggestione? Forse. Dato che mi pagavano un tanto a pezzo, poteva essere il mio cronico bisogno di soldi a crearmi l’impressione che lì ci fosse una storia da scrivere.

    Eppure sentivo una specie di costrizione ai polmoni e respiravo a fatica.

    Trovai nelle tasche una scheda con ancora qualche spicciolo e la usai per chiamare Carmen da una cabina, giusto il tempo per invitarla a bere un caffè sotto la questura.

    «Non ce l’hai un cazzo di telefonino?»

    «Ecco una vera signora!» esclamai.

    Scoppiò a ridere e le andò quasi di traverso il caffè.

    Carmen era una forza della natura. Capelli neri, occhi furbi, risata irresistibile. Un fisico che non passava inosservato, specie se vi piacciono le donne in carne.

    Io non ho mai avuto un gran numero di amici e lei faceva parte della ristretta cerchia di sfortunati. Ci eravamo conosciuti anni prima, quando ero un giornalista vero. Avevano trovato dei cadaveri di clandestini in un camion frigorifero abbandonato nei pressi del Quadrante Europa. Quando ero arrivato, stavano estraendo le salme.

    «Fai piano, che si rompe!» urlava uno dei vigili del fuoco.

    Lei era lì, con un fazzoletto sul naso, tranquilla e beata, come niente fosse, mentre altri colleghi maschi erano scappati via, qualcuno a vomitare, per il tanfo incredibile che ammorbava l’aria.

    Guardandola estasiato le avevo detto: «Chanel numero 5!». E lei per poco non era soffocata tra risate e tosse.

    Ecco, Carmen era una persona in grado di affrontare qualsiasi cosa con piglio energico, senza mai demoralizzarsi. Riusciva sempre a mettermi di buon umore.

    Anche quel giorno, al bar, non potevo fare a meno di sorridere guardandola lasciare ampie tracce di rossetto sulla tazzina.

    «Come ti vanno le cose?» mi chiese.

    «Come al solito, forse un po’ peggio. E tu?»

    Mi raccontò qualche scorcio di vita in questura. Le avevano cambiato il capo e quello nuovo, l’ispettore Calò, l’aveva presa in simpatia. Suo figlio stava bene, il marito pure. Sull’argomento famiglia glissai in maniera poco elegante e lei, comprendendo, cambiò argomento.

    «Parlami dello scheletro».

    «Ah, sì. Te ne stai occupando?»

    «Forse».

    «Non si sa molto, ancora» disse accendendosi una sigaretta e porgendomi il pacchetto «Stiamo verificando tra le persone scomparse. Ma c’è una cosa strana».

    Staccai il filtro, mi ficcai in bocca il corto cilindro rimanente, sputacchiai qualche pagliuzza e accesi a mia volta.

    «A quanto pare, si tratta di un maschio adulto» riprese lei «Curiosamente, sembra che le ossa siano scarnificate e pulite, come se fossero state in acqua per decenni».

    Digerii l’informazione.

    «Quando è stato dragato il canale l’ultima volta?»

    «Meno di sei mesi fa, ho controllato. Questo, invece, poteva essere in acqua da anni; quindi, quando è stato gettato nel canale, era già uno scheletro. Almeno così dice il medico legale».

    «Fammi capire…» ora ero incuriosito «ci sono state violazioni di tombe o sottrazioni di salme?»

    Scosse la testa.

    «Allora vuoi dire che qualcuno si è tenuto in casa un cadavere, magari sepolto in giardino per qualche anno, e poi…»

    Carmen strinse le spalle.

    «Sei tu quello che ha fantasia. Sapremo qualcosa di più preciso quando avranno terminato le analisi».

    Sì, ero io quello che aveva fantasia. Le turbine diesel del mio cervello iniziarono a ronzare.

    Recitai la solita pantomima, facendo finta di tirare fuori il portafoglio e lasciando, poi, che pagasse lei. Sapevamo tutti e due che non avevo uno spicciolo, ma le apparenze andavano salvate.

    Il giorno dopo ero a casa, seduto a tavola. Una rapida ispezione del frigorifero mi aveva rivelato che – escludendo alcuni avanzi di vario genere, giunti a differenti stadi di decomposizione e che mi decisi a gettare non senza rammarico – erano rimaste poche cose commestibili, per di più con un basso grado di compatibilità tra loro. L’unica combinazione che mi riuscì di ottenere fu: fette di pan carré con maionese e acciughe.

    Stavo facendo ricorso, con scarsi risultati, a profondi pensieri taoisti e a una vecchia cassetta dell’album Vienna degli Ultravox per sedare le proteste del mio stomaco e affrontare il magro pasto, quando qualcuno suonò alla porta.

    Mi alzai cautamente e, camminando con circospezione tra i detriti della mia vita, raggiunsi in punta di piedi lo spioncino. Mi ci volle qualche minuto per collegare l’immagine distorta dalla lente all’indecisa signora che mi aveva spiato il giorno prima mentre mangiavo un panino ai giardini.

    Mi guardai intorno: il mio loculo – definirlo appartamento mi sembra un’iperbole – era in condizioni pietose e così doveva essere il mio aspetto. Peggio per lei.

    Aprii la porta e accolsi la visitatrice con uno sguardo sospettoso e poco invitante.

    «Il signor Cosma Brusco?» chiese titubante

    «Cosa c’è scritto sul campanello?» feci io di rimando, tanto per metterla a suo agio.

    Arrossì e abbassò gli occhi mentre, con ogni probabilità, si stava pentendo di essere lì.

    «Mi scusi se la importuno, il fatto è… Posso parlarle per qualche minuto?»

    Mi feci da parte per lasciarla entrare.

    Lo stoico tentativo di reprimere il disgusto per la mia dimora mi diede la misura della sua determinazione e, quindi, della serietà delle sue motivazioni.

    «Si accomodi» le indicai una sedia «Beve un bicchiere d’acqua?» Altro non avevo.

    «No, grazie».

    Scansò di poco una pila di libri e si appollaiò sulla parte anteriore della sedia, tentando di condividere lo spazio disponibile con i volumi.

    Scostai il piatto e liberai una parte del tavolo: il lauto banchetto poteva attendere.

    «Di cosa voleva parlarmi? Sta facendo una tesi sui giornalisti vittime di Tangentopoli?»

    Abbozzò un sorriso, ma solo per un attimo.

    «Signor Brusco, mi rivolgo a lei per una questione molto delicata…» era visibilmente imbarazzata «So che è una persona seria e che posso contare sulla sua discrezione».

    «Guardi che, tra le altre cose, io sono un giornalista. Parlare di discrezione con un giornalista è come chiedere pacatezza agli organizzatori del Carnevale di Rio».

    Si mordicchiò il labbro inferiore.

    «Facciamo così» cercai di andarle incontro «mi accenni senza entrare nei dettagli e io le dirò con franchezza se posso esserle d’aiuto».

    «Si tratta… Diciamo così: una persona è scomparsa. Una persona che mi è cara. Vorrei che lei mi aiutasse a cercarla».

    «Mi scusi, signorina…»

    «Elisabetta, ma non sono signorina».

    «Allora, Elisabetta, io non sono un investigatore privato. Nel caso di persone scomparse, le posso assicurare che la cosa migliore è rivolgersi alla polizia. Se vuole, le posso presentare un funzionario di mia conoscenza, di grande competenza…»

    «No, la ringrazio, non posso… no» scosse la testa, contrita «Non ho, come dire, non ho titolo per reclamare la persona in questione. E i motivi che mi spingono a cercarlo… sarebbe bene rimanessero…»

    «Capisco» dissi osservando il cerchietto dorato che faceva gironzolare attorno all’anulare.

    «Anche la persona scomparsa era sposata» chiarì la donna accorgendosi del mio sguardo.

    «Perché parla al passato?»

    «Perché temo…» le mancò la voce.

    «Guardi, Elisabetta, in questo caso, davvero, le conviene rivolgersi alla polizia. Se non vuole essere implicata, mandi avanti il suo avvocato».

    «Ma è stato proprio lui a consigliarmi di venire da lei».

    «Ah, sì? Di chi si tratta?»

    Per tutta risposta, abbassò lo sguardo e io ebbi un presentimento.

    «Girardello?»

    Lei annuì senza alzare lo sguardo.

    «Cristo, no! Quella merda d’uomo!»

    Mi alzai e cominciai a imprecare: Girardello era stato anche il mio legale, prima di portarmi via moglie e figlia. Era la seconda persona che odiavo di più al mondo. Dopo Cinzia, la donna con cui ero stato sposato, ovviamente.

    Camminavo su e giù, cercando di calmarmi.

    «Ma lui la stima…»

    Quello che le risposi, meglio non ripeterlo, ma lei ne fu molto intimorita.

    «Se ne vada, per favore» le dissi alla fine con tono molto deciso.

    Solo che lei scoppiò in lacrime. Dopo tutti quegli improperi non era scappata, si era solo messa a piangere, e questo significava che aveva veramente bisogno d’aiuto.

    Mi misi a rovistare negli armadietti imprecando tra me e me, fino a quando trovai un po’ di caffè, col quale preparai la cuccuma che misi sul fuoco.

    Lei aveva smesso di piangere, ma non si era mossa.

    Rimase in silenzio fino a quando le ebbi ficcato in mano un bicchiere con due dita di liquido scuro esortandola a raccontarmi tutto.

    Cominciò a dipingermi un quadro futurista, con affermazioni a metà, scarsi collegamenti e sequenza cronologica casuale, ma il succo era il seguente: Elisabetta era sposata con un grosso produttore vinicolo della Valpolicella. Un anno prima del nostro colloquio, la semplice conoscenza di un collega di Rotary del marito si era trasformata in una simpatia e, dopo qualche incontro segreto, in una relazione. Il tale in questione, Giacomo Martoni, era un commerciante di carni all’ingrosso, persona aitante, piena di vita ma dai modi garbati e gentili, almeno a detta della signora. Nel corso dei mesi la relazione tra i due si era intensificata, fino a portarli a prendere in considerazione l’idea di lasciare i rispettivi consorti per formare una nuova famiglia. Elisabetta era la più determinata: nessuno dei due aveva figli e la situazione patrimoniale di entrambi era tale da poter facilmente appianare qualsiasi tipo di difficoltà. Giacomo, invece, era più titubante. Lo impensierivano le conseguenze che quella loro decisione avrebbe avuto sul già precario equilibrio mentale di Angela, la moglie. Definito il proposito comune, avevano stabilito che Giacomo avrebbe dovuto agire per primo, risolvendo la situazione più difficile; una volta appianata la questione su quel versante, Elisabetta avrebbe informato il marito, chiudendo in via definitiva il discorso.

    Dopo aver pianificato quei passi, i due si erano incontrati un’altra volta, circa un mese prima del nostro colloquio; in tale occasione, Giacomo le aveva detto che voleva aspettare il momento giusto per parlare con la moglie ma che lo avrebbe fatto presto.

    Da allora non si erano più visti e nemmeno sentiti. Ogni tentativo da parte della donna di contattare Giacomo era stato vano. Dopo qualche tempo, Angela aveva denunciato la scomparsa del marito.

    «E lei è convinta che sia morto e che sia stata la moglie…»

    «Ne sono sicura… Lo sento».

    «La polizia che cosa dice?»

    «Non ho potuto informarmi direttamente, ma, da quel poco che so, non hanno trovato niente che colleghi la scomparsa alla moglie…»

    «Forse, se lei rivelasse quello che ha detto a me, ci sarebbe l’ombra di un movente…» provai a suggerire.

    «Ma io non posso!» Quasi urlò.

    La guardai fisso negli occhi. Il suo matrimonio era indubbiamente finito ma, ora che era convinta che Giacomo non ci fosse più, lei avrebbe fatto di tutto per tenere in piedi il legame coniugale, anche a costo di lasciare un delitto impunito.

    Parve leggere nella mia mente e percepire il sottile disprezzo che provavo: arrossì, raddrizzò la schiena e indurì lo sguardo.

    «Le mie motivazioni non possono essere oggetto di valutazione da parte di nessuno, tanto meno da parte sua».

    Tacqui e calò un silenzio imbarazzante, specie per lei.

    «Allora? Che farà, adesso?» mi apostrofò.

    Andrò alla polizia e dirò tutto, poi farò un giro da quel cretino di suo marito, pensai.

    Ma non dissi niente del genere.

    «Mi dica perché dovrei sobbarcarmi delle lunghe e magari costose indagini…»

    Capì l’antifona e tirò fuori un mazzetto di banconote, avvolto in una busta spiegazzata.

    Diedi un’occhiata e constatai che era una cifra consistente ma, invece di accettare, come il mio stomaco mi avrebbe imposto, dissi che volevo almeno il doppio.

    Batté le palpebre perplessa e rifletté per qualche secondo.

    «Non ho la cifra qui, domani potrei…»

    «No» la interruppi «Adesso e qui, o non se ne fa niente».

    Sul suo volto passarono varie espressioni, nessuna delle quali amichevole.

    Alla fine, estrasse con fare nervoso il blocchetto degli assegni, ne compilò uno –mentre le sillabavo lentamente il mio nome affinché intestasse in modo corretto il biglietto– e lo lasciò scivolare sul tavolo con un certo disgusto. Lo esaminai con cura, poi lo piegai e lo misi in tasca.

    «Un’altra cosa» dissi «Io scrivo storie e pubblicherò tutto quello che scoprirò… senza fare nomi, ovviamente. Questo è il massimo della discrezione che posso offrirle».

    «Mi prometta che non citerà mai il mio nome, lo giuri».

    «Glielo prometto. Niente nomi veri».

    Rimase in sospeso per qualche secondo esaminando la possibilità che le stessi rifilando una fregatura, infine mi guardò con durezza.

    «Scoprirà chi è stato ad ammazzarlo? Mi metterà subito al corrente?»

    «Avrà una copia del o degli articoli che scriverò prima che arrivino in stampa».

    Un attimo prima era sembrata un agnellino implorante, ora aveva lo sguardo freddo e sospettoso di un rapace. In nessuna delle due interpretazioni suscitò una mia benché minima partecipazione emotiva nei suoi confronti, così la lasciai uscire senza particolari convenevoli, ma con una sensazione di inquietudine riguardo all’intera faccenda.

    Appena chiusa la porta, raccolsi di nuovo il coraggio e tornai alle mie acciughe con la maionese.

    Carmen imprecava a bassa voce scuotendo la macchinetta del caffè che le aveva fregato lo zucchero.

    «Da’ qua, lo bevo io» dissi per tranquillizzarla.

    «Insomma» continuò inserendo delle nuove monete dopo avermi passato il bicchierino di plastica «abbiamo fatto una ricerca sulle persone scomparse negli ultimi mesi in tutta la regione. Per fortuna, di maschi alti un metro e novanta non ce n’erano molti. Una volta ristretto il campo, abbiamo comparato le impronte dentali e… bingo!»

    «Be’?»

    Da una cartelletta che aveva appoggiato sul distributore automatico, Carmen prese una foto e me la mostrò. Ritraeva un uomo grande e grosso, dal viso sorridente.

    «Lo vittima del canale è un certo Giacomo Martoni…»

    Eccolo qua, pensai. Non ero affatto stupito.

    «Com’è morto?»

    «Lo scheletro» Carmen mescolava il caffè «lo stanno analizzando per cercare di capire, tra le altre cose, come ha fatto a ripulirsi in quel modo in meno di un mese; da quando, cioè, è stato visto per l’ultima volta».

    «E come potrebbe essere?» chiesi.

    «Che ne so, mica sono un dottore! Vedremo cosa dirà l’esame».

    «Ma per quale motivo l’hanno conciato così?»

    «La prima cosa che mi viene in mente è per impedirne il riconoscimento. Ma allora perché non gli hanno tolto i denti o non gli hanno fracassato il cranio?» la mia amica scuoteva la testa, perplessa «Se uno vuole, ce ne sono di sistemi per far sparire un cadavere. Il fatto che l’abbiano lasciato intero fa pensare a una specie di segnale, un avvertimento o forse a una specie di rituale».

    «Qualche pista?» chiesi.

    «Più di una. Commerciava in bestiame e carni, aveva un suo macello e un allevamento di bovini in Argentina. Ricordi il caso della mafia delle carni di una decina di anni fa?»

    «Come, no?! C’entrava anche lui?»

    «Pare di sì, anche se non hanno mai dimostrato nulla. A ogni modo, bazzicava anche in Bielorussia e in Russia, terra d’origine della moglie. Non era precisamente uno stinco di santo, forse più uno stinco di maiale… ah, ah, ah!»

    Sorrisi alla battuta, scuotendo la testa: era fatta così, non prendeva niente sul serio.

    «Quindi un tipo losco?»

    «Così sembra, ma tienilo per te. Sono intervenuti i NAS, per verificare la qualità delle carni. Potrebbe aver spacciato per argentina della mucca pazza proveniente dall’Est o magari contaminata dalle radiazioni in Bielorussia, priva di qualsiasi controllo medico, ricavandone un bel po’ di quattrini. Un giro grosso, in cui non mi stupirei se fossero coinvolti funzionari pubblici, veterinari e insospettabili».

    «Uno stronzone, insomma».

    «Eh, sì. Probabilmente si era messo a fare il furbo per guadagnare di più oppure voleva cambiare fornitori, chissà; e i suoi soci in affari lo hanno eliminato».

    «Battete la pista della malavita organizzata, quindi…»

    «Anche…»

    «E che altro?»

    «Sembra fosse un accanito giocatore… ma di questo non so ancora molto, è tutto da verificare».

    «Debiti di gioco?»

    Carmen fece le spallucce soffiando nel bicchierino di caffè per raffreddarlo.

    «Il modo in cui è stato spolpato potrà, forse, aiutarci a risalire agli autori. Non escludiamo la possibilità che si tratti dell’opera di qualche maniaco o di qualche setta».

    «E nella vita privata?» provai a sondare.

    «Mmh… No, questo non sembra un delitto passionale. Non è una coltellata, un colpo di pistola. Qui c’è un lavoro freddo, organizzato e non facile da mettere in scena. Niente passione, capisci? E poi la sua casa è stata perquisita accuratamente…»

    Sembrava improbabile anche a me.

    «Il tizio era sposato, senza figli. La moglie è abbastanza strana, una po’ nevrotica… Anzi, vieni su in ufficio, così la vedi».

    Mi prese per un braccio e trotterellò su per le vecchie e ampie scale della questura, imboccando il corridoio color panna e verdino, sul quale si aprivano vari uffici. Non è che in quell’ala facciano salire tutti, ma io godevo di una certa popolarità grazie all’aiuto dato in passato a qualche indagine. Più per le cose che avevo taciuto che per quelle pubblicate, per capirci.

    «Ecco, mettiti qua e stai fermo» mi sussurrò «Vedi quella ragazza vestita di nero?»

    Facendo finta di niente e continuando a chiacchierare, gettai lo sguardo sulla donna.

    Era minuta e sembrava una ragazzina. Indossava un paio di jeans neri attillati, una maglietta dello stesso colore e un giubbotto largo, anch’esso nero, le cui maniche le arrivavano alla punta delle dita, dando l’impressione che si fosse ritirata all’interno dalla giacca.

    Aveva la carnagione bianchissima, una piccola bocca evidenziata dal rossetto violaceo e, se non ci si soffermava sulle borse sotto gli occhi, esageratamente dipinte di nero, sarebbe potuta passare per una bambina.

    I capelli corvini sparavano in tutte le direzioni, come un ciuffo di foglie di palma. Portava numerosi anelli e braccialetti, tutti d’argento, orecchini lunghi e un cerchietto alla narice sinistra.

    Sembrava muoversi in un mondo irreale. Prima di andarsene, indossò degli auricolari con movimenti lenti e indecisi, lo sguardo trasognato e apatico. La seguii con lo sguardo mentre usciva trascinando l’ampia borsa di similpelle nera per il corridoio.

    «Non mi sembra il tipo passionale…» osservò Carmen.

    «Lui magari lo era» commentai io «E forse qualche amichetta…»

    «In effetti, da quel che si sa del carattere di lui, sembra incredibile fosse sposato con un tipo del genere…»

    Sì, era strano.

    Come capitava di frequente, il mio frigorifero stava piangendo amaramente miseria ma i contanti che avevo a disposizione non erano sufficienti a porvi rimedio.

    In questi casi, faccio ricorso a tecniche assai

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