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La casa delle anime dannate
La casa delle anime dannate
La casa delle anime dannate
E-book412 pagine6 ore

La casa delle anime dannate

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Info su questo ebook

Nell’agosto del 1988 nella proprietà dei Conroy, a Wellfield, nel Maine, il pastore Benjamin stermina la sua famiglia, dopo aver messo in atto un arcano rituale.
Nell’agosto del 2005 Johnny Petrie, un giovane studente di Manhattan, riceve una lettera inaspettata da un avvocato di Wellfield. Il legale lo informa che, ormai maggiorenne, è divenuto proprietario della casa e delle terre dei Conroy, di cui risulta essere l’ultimo discendente.
Johnny scopre così che quelli che ha sempre creduto essere i suoi genitori in realtà non lo sono e, desideroso di indagare sulle sue vere origini, coglie l’occasione per fuggire dalla vita monotona e dalla rigida educazione religiosa a cui è stato costretto.
È l’inizio della sua discesa nell’incubo. L’eredità che lo aspetta, infatti, non è costituita soltanto dalla casa e dai terreni, ma anche – e soprattutto – dalla maledizione che vi grava sopra. Un'entità antica e oscura sta aspettando proprio lui, l’ultimo dei Conroy.
 
LinguaItaliano
EditoreNero Press
Data di uscita16 lug 2024
ISBN9791281435179
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    Anteprima del libro

    La casa delle anime dannate - Michael Laimo

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    La casa delle anime dannate

    di Michael Laimo

    Titolo originale: Dead Souls

    Traduzione: Michelangelo Marzano

    Revisione alla traduzione: Daniele Picciuti

    Layout e grafiche: Laura Platamone

    Copertina elaborata a partire da

    Adobe stock #109803722 © Dark Illusion

    ISBN: 979-12-81435-17-9

    © 2024, Associazione Culturale Nero Cafè

    Nero Press Edizioni

    https://nerocafe.net

    https://neropress.it

    immagini3

    Prologo

    IL MALE TORNA A WELLFIELD

    24 agosto 2005

    È giunto il momento dell’ora d’aria.

    Gli è concesso uscire una volta al giorno, almeno per adesso, finché è estate, finché il tempo lo permette. Durante l’inverno è tutta un’altra storia. Non riesce mai ad andare fuori. Fa troppo freddo.

    Ma oggi, che bella giornata! Può sentire il calore del sole sulla faccia mentre viene portato in cortile. Di fianco a lui, un’infermiera. Lo accompagna tenendogli il braccio con gentilezza. Con un sorriso aperto. A passo lento, per assecondarne il movimento, dato che è zoppo a una gamba, senza una parte del cranio e con un occhio solo.

    Volge lo sguardo al cortile, così ben curato. È circondato dai quattro edifici di tre piani dell’Istituto di igiene mentale Pine Oak. Ci sono molti alberi. Alcuni hanno bei fiori. Le foglie mormorano appena nella brezza leggera. Sotto gli alberi ci sono panchine dove siedono pazienti che parlano da soli.

    L’infermiera lo conduce proprio a una delle panchine.

    L’uomo si siede.

    «Tra quarantacinque minuti si pranza, David» gli dice sorridendo.

    David sorride. Lei gli piace, è carina.

    L’infermiera va via, ma lui non è solo. Ci sono guardie nel cortile. Uomini grossi con calzoni e magliette bianche, con su appuntati dei cartellini di riconoscimento. Controllano tutti i pazienti, alcuni più di altri. Prestano poca attenzione a David, perché è lì da diciassette anni e non ha mai dato problemi.

    Dopo un po’ una voce lo chiama…

    «David».

    È sommessa. Un sussurro.

    Lui si guarda attorno, ma non vede nessuno.

    «David» ripete la voce.

    Si accorge che proviene dalla sua testa. Ha paura, perché non ha mai avuto questo problema prima. Altri pazienti sì, ma non lui. Abbassa lo sguardo. Sul sentiero, distante pochi passi, c’è un grosso merlo. Lo guarda.

    David strizza il suo unico occhio.

    L’uccello si avvicina a piccoli balzi.

    La voce torna a sussurrargli nella testa: «È ora, David».

    «Ora di cosa?» chiede a voce alta, aggrottando la fronte.

    «L’uomo che ha ucciso i tuoi genitori» insiste la voce nella sua testa «L’uomo che ti ha ridotto così… il suo sangue sta per tornare a Wellfield… alla casa».

    Anche se David ha paura, si sente comunque trascinato dall’entusiasmo, da… una forza improvvisa, potente. Aspetta questo momento dal suo primo giorno nel reparto di Stabilizzazione crisi di Pine Oak, diciassette anni fa.

    «Vai alla casa, David».

    Lui scuote e dondola la testa. Le ossa del collo scricchiolano. Riserva all’uccello un’occhiata interrogativa. Poi fa un cenno del capo.

    «Quando?» mormora con voce rotta.

    «Adesso».

    «Signor Mackey?»

    Lui distoglie lo sguardo dal merlo. L’infermiera lo osserva. Ha l’aria preoccupata.

    «Tutto a posto?»

    David fa un cenno col capo.

    «Mi era sembrato di sentirla parlare con qualcuno».

    Lui indica il sentiero.

    «Stavo guardando quel bellissimo merlo»

    Riabbassa lo sguardo. L’uccello è sempre là. Solo che adesso è morto. Gli occhi e la testa brulicano di vermi. Ha le piume strappate e sporche.

    L’infermiera scuote la testa. Sorride senza convinzione.

    «Su, David. Rientriamo. È ora di pranzo».

    «Eccoci qua, signor Mackey» lo saluta un infermiere.

    Questa volta è un uomo. È più giovane di David, che pensa di avere cent’anni anche se ne ha solo trentuno. Lo guarda con il suo unico occhio. L’infermiere gli sorride. Tutti gli infermieri sorridono. Le guardie no. Non sorridono mai. Sono fin troppo serie.

    L’infermiere appoggia un vassoio sul tavolo da pranzo. Lì vicino ci sono altri pazienti, ma nessuno parla con David. Non parlano con nessuno se non con se stessi. Tranne quando si arrabbiano. Allora gridano a tutti.

    Sul vassoio c’è il pranzo: un panino al tonno, una coppetta di gelatina e dei biscottini con un panetto di burro. Di solito David mangia tutto. Ma oggi non ha fame. Sta pensando all’uccello e alla voce dentro di lui che gli ha detto di andare alla casa. Per aspettare che arrivi… il sangue di chi sa lui.

    Così, quando nessuno guarda – non prestano molta attenzione a David perché non ha mai dato problemi – toglie il coltellino di plastica dal vassoio e se lo nasconde nei calzoni.

    A David è consentito andare in bagno quando vuole. Ha il bagno in camera. La condivide con un vecchio che si lamenta tutta la notte e scaccia moscerini invisibili tutto il giorno.

    Quando spengono le luci, David esce dal letto, va in bagno e chiude la porta. Ha con sé il coltellino di plastica e comincia a strofinarlo contro il dado di acciaio che collega lo scarico al lavandino. La plastica inizia a tagliuzzarsi. Si assicura di recuperare tutti i trucioli.

    Continua quest’attività per due giorni, senza trattenersi in bagno mai più di pochi minuti per volta. Alla fine riesce a rendere il coltellino affilato come un rasoio.

    Lo nasconde di nuovo nella biancheria.

    E attende.

    Di notte ci sono solo un’infermiera e due guardie in servizio a ogni piano del reparto. Passano quasi tutto il tempo a guardare la TV o a leggere libri. Solo l’infermiera a un certo punto fa un giro delle degenze e, quando accade, David fa finta di dormire.

    Sente la donna entrare nella stanza, sistema le lenzuola del vecchio lamentoso e poi scribacchia un appunto sulla sua cartella. Subito dopo la sente uscire.

    Toglie il coltello da sotto il materasso, tocca la punta e si punge il dito.

    Affilatissimo, pensa.

    Scende dal letto e, in punta di piedi, attraversa la camera. Si affaccia nel corridoio in penombra. Non vede nessuno. L’infermiera dev’essere in una delle altre stanze. Avanza zoppicando più veloce che può, fino alla guardiola. Il guardiano di notte, un uomo muscoloso con capelli neri e occhiali, è seduto alla scrivania. Sta leggendo una rivista da cui s’intravedono immagini di belle donne. Dà le spalle a David.

    A un tratto l’uomo si volta e sgrana gli occhi nel trovarselo di fronte. David fa un balzo in avanti e gli affonda il coltello nell’occhio destro. La guardia si alza in piedi barcollando. Tende le braccia. Cerca di gridare, ma non emette che un sibilo. Cade a terra con un tonfo. David si abbassa e tira via il coltello. Un fiotto di sangue, scuro e oleoso, inonda il pavimento.

    David estrae la chiave magnetica dalla cintura dell’uomo. Zoppicando, si affretta verso l’uscita di sicurezza. Striscia la chiave magnetica. La porta si apre e lui può accedere alla reception. Alle sue spalle, l’infermiera urla. David si volta. La donna è in fondo al corridoio che si copre la bocca con la mano, gli occhi stralunati.

    L’uomo corre verso la porta d’ingresso. È chiusa. Striscia la tessera. Un ronzio e subito dopo si apre l’accesso al mondo esterno. Si precipita fuori, attraverso il parcheggio scuro e vuoto, inseguito da passi veloci, con i quali la sua gamba zoppa non riesce a competere.

    Di nuovo la voce nella sua testa: «Vai alla casa…»

    Luci alogene all’esterno dell’edificio rischiarano il parcheggio. Adesso è illuminato come uno stadio durante una partita di baseball in notturna. Risuona l’allarme. David riesce a sentire le sirene in lontananza. Un veicolo bianco della sicurezza spunta da dietro l’edificio e taglia a tutta velocità per il parcheggio. Verso di lui.

    Stridio di pneumatici.

    Un uomo grida. Si sente uno schiocco orribile, qualcosa che si rompe.

    David si volta. Illuminata dalle luci di sicurezza, vede una guardia che rotola sull’asfalto. Quando si ferma, ha le gambe piegate a L. Il veicolo della sicurezza si arresta. C’è una macchia di sangue sul cofano. Il paraurti anteriore è ammaccato. Una guardia, a pochi passi di distanza, si agita agonizzante sull’asfalto.

    «Vai alla casa» ripete la voce nella testa di David. Lui alza lo sguardo e riconosce il merlo solitario di quel pomeriggio, che volteggia in alto, come se gli indicasse la via.

    Una piuma cade leggera. Lui l’afferra a mezz’aria.

    David Mackey contempla la piuma e sorride un’ultima volta all’uccello che volteggia sopra di lui, prima di fuggire nei boschi oscuri che circondano l’Istituto di igiene mentale Pine Oak.

    PRIMA PARTE

    I MORTI, IN VITA

    Il primo giorno della settimana, al mattino presto, esse si recarono al sepolcro. Trovarono che la pietra era stata rimossa dal sepolcro e, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù.

    Luca 24

    1

    24 agosto 1988, 5:00

    Tutto ebbe inizio con quattro campane che rintoccavano all’unisono, nella grande casa colonica nota in città come casa Conroy. Risuonarono una volta, le vibrazioni più alte del solito, per annunciare un evento unico. Tredici secondi dopo, lo fecero di nuovo, svegliando gli abitanti della casa dal loro sonno agitato.

    Sul far del mattino, un quarto di luna brillava orgoglioso nel cielo, i venti soffiavano gentili da sud-ovest portando con loro le grida dei merli alla ricerca dei primi vermi del giorno. Nuvole cariche di pioggia avevano dominato i cieli per le prime due settimane di giugno, nell’estate del 1988, lasciando Wellfield grigia e bagnata. Due giorni più tardi era andata via la corrente e, in alcune parti della città, le abitazioni erano ancora al buio. L’interruzione dell’energia elettrica aveva interessato casa Conroy solo per dodici ore, un evento che venne subito considerato un piccolo dono di Dio.

    Al rintocco della terza campana, esattamente ventisei secondi dopo il primo, un uomo sui quarantatré anni era ritto sul letto. Buttò i piedi oltre il bordo della trapunta e li posò all’interno del perfetto cerchio bianco dipinto sul parquet di quercia. Le lenzuola infeltrite scivolarono sulle sue forme nude. Giunse le mani, poi chiuse gli occhi e, in silenzio, recitò due preghiere: la prima al Signore Gesù Cristo e la seconda al dio Osiride. Muoveva le labbra con grazia mentre le parole gli uscivano di gola, separandole in versi con la lingua riarsa, un aiuto per assorbire le secche vibrazioni dei rintocchi.

    Finite le preghiere, l’uomo restò in piedi nel cerchio. Posò lo sguardo sulle linee intricate, sul bordo esterno e sulle linee delle stelle a sei punte, poi sul bordo interno e sui vari nomi sacri di Dio incisi nella vernice brillante. In corrispondenza dei poli magnetici del cerchio, s’irradiavano pentagrammi dal cui centro si levavano rosee candele come nudi rami di frassino. Sopra il cerchio, dipinto sul pavimento proprio di fronte a lui, era disegnato un triangolo con il nome di Osiride diviso in tre parti: tre lettere accanto al vertice inferiore destro, tre al vertice sinistro e la O al vertice estremo rivolto verso sud.

    I rintocchi delle campane continuavano.

    Alzò lo sguardo oltre la finestra affacciata sul vasto appezzamento di terreno che portava al fienile. Frullando le ali, un merlo solitario entrò a far parte dell’immoto paesaggio e si posò sul davanzale, l’occhio minuscolo, in cui si rifletteva la pallida luce della luna, fisso sull’uomo. Abbassò la testa una volta, poi un’altra, poi picchiettò un messaggio contro l’angolo della finestra, producendo un suono non dissimile da quello, rassicurante, di un coltello da cucina passato su un tagliere di legno. L’uccello saltellò sul davanzale, poi batté le ali ancora umide e volò via, lasciando dietro di sé una sola piuma nera: un dono di Osiride.

    Al tredicesimo rintocco delle campane, l’uomo percorse a piedi nudi la circonferenza del cerchio, consapevole che, in tre delle altre camere da letto, una donna, una ragazza e un ragazzo stavano facendo la stessa identica cosa. Percorse sedici giri, poi si allontanò e si avvicinò alla finestra. L’aprì con un movimento secco e tolse la piuma dal davanzale. Dopo aver richiuso la finestra, si avvicinò alla scrivania e accese un fiammifero e poi una candela bianca. Una fiamma gialla si levò guizzando verso l’alto, rilasciando una sottile e tremula voluta di fumo. L’uomo sollevò la parte superiore di un incensiere di ottone piramidale posto di fianco alla candela. All’interno – preparato la sera precedente – si trovava un cono di legno di sandalo. Depose la piuma vicino al cono, poi accese l’incenso e inalò l’aroma sprigionato come se annusasse una pentola di zuppa fumante.

    Continuando a contare i rintocchi delle campane, l’uomo aprì un cassetto e ne estrasse una pergamena. Tornò quindi al cerchio, accese le quattro candele e s’inginocchiò al suo interno con le mani adagiate sul ventre, i palmi rivolti in alto a sostenere la pergamena come se fosse un’offerta. Rilassò le spalle rivolto verso il triangolo. Cominciò a respirare piano, ispirando e trattenendo l’aria nei polmoni finché la campana non suonò tredici secondi dopo. Quindi, espirò per lo stesso lasso di tempo. Ripeté questo esercizio finché il suo respiro non si fece ritmico.

    Concentrandosi sullo spirito di Osiride, l’uomo svolse la pergamena e la posò, stendendola, all’interno del triangolo. Lesse l’iscrizione del sigillo in inchiostro nero riportata sulla pelle consunta, spogliando la mente da ogni pensiero e da ogni preoccupazione. Ripeté il nome della divinità a ognuno dei tredici rintocchi di campana. La sua voce formava una cantilena all’unisono con quella della donna, della ragazza e del ragazzo che, nelle rispettive stanze, stavano eseguendo lo stesso rituale.

    Dopo aver ripetuto il nome della divinità al rintocco della tredicesima campana, l’uomo recitò una preghiera, pronunciando ogni parola in tono monocorde: «Ti prego, o spirito di Osiride dal vasto piano astrale, in nome della suprema maestà di Dio, permetti al piccolo Bryan Conroy di unirsi al nostro cammino, in modo che anche lui possa beneficiare del tuo supremo dono…»

    Al termine della preghiera, la campana rintoccò ancora.

    Casa Conroy si fece subito più calda. La fronte dell’uomo si imperlò di sudore. Chiuse gli occhi e gli apparve, nel buio delle palpebre serrate, una calda sfera luminescente. Cercò di raggiungerla stendendo le dita come piccoli rami. La luce della sfera filtrò verso di lui in una linea sottile, quasi liquida. Gli avviluppò le dita, riempì in fretta tutto il suo corpo – ed era così calda e piacevole – mentre il corpo stesso, le gambe e la testa ne assorbivano il fluido. Quando ne fu saturo, una lenta vibrazione lo inondò e il suo corpo si lasciò pervadere da quel battito possente. Lo sentiva nella testa, nelle orecchie e, al risuonare di ogni rintocco, questo si rifrangeva in limpidi echi che, inconfondibili, gli risuonavano dentro. Due sfere scure e nebbiose si formarono nello spazio attorno alla sua testa. Finestre verso il piano astrale.

    Le sfere oscure si espansero e al centro apparvero delle pallide stringhe grigie. Riusciva a sentire il ritmo cadenzato che ne fuoriusciva, come i passi distanti di un gigante – enorme e possente – che si avvicinavano, all’unisono con le vibrazioni nel suo corpo. Le sue labbra si mossero senza che lui lo volesse, la voce mutata in un’unica e piatta sonorità mentre ripeteva le preghiere allo spirito del dio Osiride.

    La luce dorata dinnanzi a lui crebbe, e così le sfere oscure, i cui nuclei grigi erano cresciuti sino a inghiottire la parte d’ombra più esterna. Nella luce dorata apparve una porta con un’immagine blu luminescente impressa sulla superficie metallica. L’immagine divenne più definita sino a farsi un intrico di linee curve sovrastanti un triangolo capovolto, diviso in parti uguali da una freccia ricurva.

    Piano piano, la porta si aprì. Le vibrazioni si riversarono, esplodendo, dall’oscurità del piano astrale fin sul piano fisico.

    L’uomo fissò lo sguardo nei gorghi scuri che ondeggiavano di fronte a lui, una tempesta di venti impetuosi che pareva respingere quel battito lento e possente. Dal tetro abisso da cui essa proveniva, l’uomo udì, nitido, il messaggio dello spirito, ogni parola pronunciata, sillaba per sillaba, all’unisono con le sue pulsazioni.

    «Benjamin Conroy… procedi con il rituale».

    2

    7 settembre 2005, 12:56

    Nonostante la pioggia persistente e i pensieri dolorosi che gli avevano fatto compagnia durante il viaggio di ritorno nel New England, Johnny Petrie si sentiva le farfalle nello stomaco e fremeva, con il cuore colmo di entusiasmo, al pensiero di ciò che lo attendeva. Era una sensazione dolce amara: aveva passato la maggior parte dei suoi diciotto anni – o, quanto meno, di quelli che riusciva a ricordare – al sicuro nella sua elegante casa di Manhattan nell’Upper East Side, sulla Ottantottesima Strada tra Lexington e Park.

    Ora, davanti a lui, c’era tutto questo: file e file infinite di alberi, i fianchi verdi e marroni delle montagne, un sole che, nascosto, continuava a irrorare di luce il terreno ancora umido. Nonostante la sua semplicità, era una tale festa per i suoi occhi abituati alla città. Appena poco più a sud di Providence, sulla I-95, scorse un procione o un opossum che era andato incontro al suo destino sotto le ruote di qualche veicolo distratto, ma persino quello spettacolo era qualcosa di nuovo ed emozionante. Era solo campagna, certo – niente di più – ma maledisse se stesso e i suoi genitori per non essersi mai spinti oltre la contea di Westchester.

    Buon Dio, i miei genitori, pensò, e gli si riempirono gli occhi di lacrime.

    Purtroppo, prima di allora non si era mai presentata l’occasione giusta. Mary Petrie lo aveva tenuto sotto stretta sorveglianza per tutta l’adolescenza. Con la scusa che la città era un luogo pericoloso e tutto il resto, Johnny era stato costretto a rispettare i piani e i programmi che erano stati decisi per lui. Aveva frequentato, conseguendovi il diploma, la scuola cattolica di St. Anthony – la scuola dell’obbedienza, così la chiamava lui – anziché quella pubblica che era distante appena più di dieci isolati. La verità era che, per quanto ne sapeva, avrebbe potuto trovarsi anche all’altro capo del mondo. Era stato costretto a continuare gli studi alla St. Anthony anche d’estate, e così aveva fatto, obbedendo solerte, nonostante avesse implorato di poter studiare in un college. Durante il fine settimana gli era concesso un po’ di svago a Central Park, ma solo se Mary o Ed erano con lui, o se con lui c’era un adulto, preferibilmente il genitore timoroso di Dio di un compagno di scuola che i suoi conoscevano. Mary Petrie aveva fatto tutto per il bene di Johnny, almeno secondo lei, trattandolo con tutto l’amore e la protezione che un bambino dovrebbe aspettarsi da un genitore. E anche di più.

    Molto di più.

    Pensò a sua madre, a cosa gli diceva ogni volta che lui le rinfacciava di essere troppo protettiva: Ricorda, Johnny, che ogni cosa che faccio, la faccio per te. I genitori sanno molte più cose dei loro figli. Dio ci ha creato affinché ti tenessimo lontano dal Male, per insegnarti a riconoscere il bene dal male. Per proteggerti dai pericoli del mondo… e farlo è il mio solo scopo, sia lode a Dio.

    Nonostante le idiosincrasie materne e lo zelo religioso, lui le voleva bene… gliene avrebbe sempre voluto. Si rese conto adesso, dopo aver passato tutta l’infanzia e l’adolescenza sotto il controllo della sua disciplina repressiva, che sua madre aveva agito così per paura, una paura che lei non era in grado di comprendere.

    Ma poi si chiese: Davvero non riesce a comprendere le sue paure? C’è ben altro di cui non mi ha mai parlato, tante ferite, tanto dolore. Ha passato tutta la vita cercando di tenermi all’oscuro da qualcosa. No, lei conosce le sue paure e le ha tenute nascoste, in ombra, da che sono nato. Ora, Dio mio, sono venute alla luce e lei ha troppa paura per affrontarle e dirmi la verità.

    Ironia della sorte, Johnny aveva trascorso tutta la sua vita a obbedire a ogni richiesta di sua madre perché la temeva. Così, in una maniera un po’ complicata e contorta, era in grado di mettersi nei suoi panni. Riusciva a capire la strada tortuosa che aveva percorso in tutti quegli anni. Eppure c’era una grossa differenza tra loro: alla fine Johnny era riuscito a trovare la forza per affrontare le sue paure e fuggire via, cosa che Mary Petrie non era mai stata in grado di fare, nonostante l’aiuto di Gesù, dei dottori e del gruppo della Chiesa.

    Sono fuggito dalle mie paure, da quelle e da… molto altro. Davvero molto altro.

    Il pullman cambiò corsia distogliendolo dai suoi pensieri. Sorpassarono un cartello che diceva DOVER, USCITA 43. Johnny continuò a guardare fuori dal finestrino, lo scenario della natura che andava offuscandosi mentre ripercorreva gli eventi che gli avevano cambiato la vita – e quella dei suoi genitori – meno di ventiquattro ore prima…

    6 settembre 2005, 15:38

    Rientrò dalla biblioteca – l’unico posto dove non si sentiva in colpa ad andare all’insaputa di sua madre – e ritirò la posta dalla cassetta nell’atrio. Salì tre rampe di scale anziché prendere l’ascensore, perché il vecchio dell’appartamento 4F, che puzzava di cavolo, ci era appena entrato e Johnny non aveva voglia di sottoporsi a quella tortura. Una volta arrivato al terzo piano, entrò in casa e buttò la posta sul tavolo della cucina, senza neanche guardarla, perché tanto non c’era mai niente per lui se non il magazine mensile Catholic Digest, una delle poche riviste approvate da Ed e Mary.

    Andò in camera sua, posò lo zaino sul letto e indossò un paio di calzoni corti e una maglietta, pensando a come godersi l’ultima ora e mezza. Alle cinque sua madre sarebbe rincasata. Magari poteva iniziare a leggere la copia de La Guerra dei Mondi di H. G. Wells che aveva preso in biblioteca, o guardare qualche talk show trasmesso su uno dei canali che aveva sintonizzato di nascosto dai suoi genitori sulla banda UHF. Era un rito quotidiano, ormai, quel lasso di tempo che passava da solo e durante il quale poteva assaporare i semplici piaceri della vita – peccati condannati da Dio, secondo Mary – prima di dover obbedire ai capricci di sua madre. Avrebbe dovuto fare la sua parte, perché ci si aspettava che ogni diciottenne facesse qualcosa, o portare fuori la spazzatura o aiutare a preparare la cena. Ma Mary si spingeva oltre con Johnny: assicurarsi che il bagno fosse pulito dai germi che di certo si erano accumulati mentre in casa non c’era nessuno; o pulire i ripiani del frigo, Dio non voglia che qualche briciola errante esca dal sacchetto del pane. E poi, dopo cena, al ragazzo sarebbe toccato studiare la Bibbia, seduto al tavolo della cucina, in bella vista, in modo che non si distraesse.

    «Ce n’è abbastanza da tenerti occupato fino all’ora della nanna» diceva Mary, e non importava che lui avesse anche i compiti da fare. E poi aggiungeva, il più delle volte: «E non dimenticare di dire le preghiere prima di addormentarti!»

    Andò in bagno, si lavò, poi aprì l’armadietto delle medicine e fu pervaso dalla stessa disarmante sensazione che provava ogni volta che doveva farlo. La nuova boccetta del giorno era qualcosa che si chiamava Lexapro, ma Johnny non aveva idea di cosa curasse, non ancora, almeno. Era di fianco a una dozzina di altre boccette, raccolte da Mary Petrie alla fine delle sue sedute giornaliere nello studio di qualche medico compiacente dell’Upper East Side dove, alle tre e un quarto precise, dopo aver concluso i suoi doveri da assistente legale alle tre, la donna andava in cerca delle magiche pillole per curare tutte le proprie sventure.

    Il giovane aveva fatto delle ricerche sui guai di sua madre, scrivendo i nomi delle medicine che aveva trovato sulle boccette marroni – Valium, Darvocet, Xanax, Celexa tra gli altri – per cercarli poi in Rete in biblioteca. Quello che aveva scoperto era che sua madre aveva un discreto numero di problemi personali di cui non le era mai piaciuto parlare, almeno non con Johnny. Disturbo ossessivo compulsivo, disturbo d’ansia generalizzato, attacchi di panico – non l’aveva mai vista in stato di panico, quindi non era sicuro di cosa si trattasse – disturbo da deficit di attenzione e altri disturbi dai nomi preoccupanti. Si era chiesto se ci fosse una pillola che sua mamma poteva prendere e che avrebbe alleviato il suo disturbo da controllo con pugno di ferro e il disturbo da adorazione ultrafervente di Gesù.

    Tirò fuori una boccetta di Ibuprofene – uno dei tanti flaconi da banco relegati nello scaffale più basso nella scala gerarchica dell’armadietto delle medicine – l’aprì e trangugiò due pillole, senza bere acqua, come misura preventiva contro il mal di testa che di sicuro gli sarebbe venuto quando sua madre fosse rientrata.

    Chiuse l’armadietto e lanciò uno sguardo accigliato alla faccia che lo fissava: mansueta e scialba, crivellata dall’acne; i capelli, corti e ricci, cominciavano a stempiarsi minacciando una calvizie precoce magari già tra sei o sette anni. Si stropicciò gli occhi, poi uscì dal bagno, mentre il parquet scricchiolava forte sotto i suoi passi.

    Aprì lo zaino e tirò fuori i libri di scuola, pensando a suo padre, fatto che non accadeva spesso. Guardò la foto dei suoi genitori sul comodino, una scelta d’arredamento voluta da sua madre: «Si abbina alla perfezione con il ritratto di Gesù sulla parete» aveva detto una volta. La foto l’aveva scattata Johnny un paio di mesi prima, un giorno che dovevano andare al funerale di una collega di sua madre. Un momento strano, aveva pensato Johnny, per farsi una foto da lasciare ai posteri.

    Ed Petrie era un uomo grande e grosso, che cominciava a perdere i capelli scuri e ricci che Johnny doveva aver ereditato. Questa caratteristica, tuttavia, era l’unica somiglianza tra loro due. A differenza del fisico asciutto del ragazzo, Ed aveva una pancia enorme, che straripava dalla cintura come fosse una mongolfiera, rendendogli quasi impossibile, pensava Johnny, tirare fuori le sue parti intime per farsi una pisciata. Portava la camicia sempre fuori dai pantaloni, come nella fotografia, e aveva sempre la barba lunga. Aveva un lavoro – un posto sicuro, si vantava lui – come scaricatore di porto al molo 121, proprio sotto il ponte di Brooklyn. Beveva spesso e fumava ancora di più.

    Ed Petrie era un gran codardo quando si trattava della madre di Johnny: assecondava tutte le sue idiosincrasie e il suo furore religioso rispondendo «Sì, cara» o «Certo, tesoro». Johnny pensava che lui avrebbe voluto solo chiudere gli occhi ogni volta che lei parlava per riaprirli e non ritrovarsela davanti. Ma lei era sempre lì, in tutta la sua gloria biblica, a recitare il Padre Nostro o il Salmo 23, e lui non aveva altra scelta se non cedere e darle tutta la libertà nel gestire la casa in base alle sue regole restrittive, almeno finché lui era in grado di andarsene a lavorare dodici ore al giorno, dal lunedì al venerdì, e di guardarsi lo sport in TV alla Glen’s Tavern il fine settimana. Ed aveva passato la maggior parte del tempo a evitare la furia di Mary. E a evitare Johnny.

    Il rapporto del ragazzo con suo padre era trascurabile e la conversazione tra i due si riduceva al minimo indispensabile. A volte passavano settimane senza che si scambiassero una sola parola. Il fatto era che Johnny vedeva suo padre solo il fine settimana, tra mezzogiorno e le tre, dopo che Ed si era svegliato e prima che se ne andasse da Glen tra la Seconda e la Sessantaquattresima. A Johnny era sembrato ovvio che Ed Petrie non avesse mai voluto davvero un figlio: quell’uomo era un fannullone di prim’ordine, che mostrava attenzione per lui solo quando tornava dal supermercato carico di roba da mangiare. Stranamente, Johnny aveva il permesso di andare al supermercato da solo, ma Mary gli faceva sempre la predica dicendogli di non perdersi e facendosi infine il segno della croce; sembrava che avere cibo in casa fosse una cosa per cui valesse la pena far rischiare la vita al proprio figlio. Strano a dirsi, a Johnny faceva sempre piacere il sorriso che suo padre aveva quando gli passava i sacchetti della spesa.

    Distolse lo sguardo dalla fotografia, quindi tirò fuori il libro di Wells dallo zaino. Lo lanciò sul letto e tornò in cucina, dove prese il latte dal frigo per berne un po’ direttamente dalla confezione, azione per cui, secondo Mary, avrebbe meritato la dannazione eterna. Mentre beveva, lo sguardo gli cadde sul tavolo della cucina, dove una busta chiara spuntava dalle pagine del volantino di un supermercato. Riusciva a vedere l’indirizzo del mittente in caratteri scuri e antichi:

    ANDREW JUDSON, AVVOCATO

    14 MAIN STREET

    WELLFIELD, ME 12789

    Stette così, con il latte in mano, a fissare la busta e a chiedersi che cosa mai un avvocato del Maine potesse volere dai suoi genitori. Subito dopo, tuttavia, cominciò a pensare che la lettera fosse stata inserita nella cassetta sbagliata e che fosse destinata a qualcun altro nel palazzo. Rimise il latte in frigo, quindi si avvicinò al tavolo.

    Guardando la busta, si trovò a esitare, come se si stesse avvicinando a uno scarafaggio con un fazzoletto di carta in pugno. Si fermò, allungò la mano e strinse tra le dita l’angolo della busta, con respiri sempre più veloci.

    Si ritrovò a chiedersi, incredulo: Perché mai sono così agitato? Forse perché mi sto impicciando di qualcosa che non mi riguarda per niente? O è qualcos’altro? Forse ho ereditato un po’ dei disturbi della mamma? Gesù, che mi prenda un colpo se è così!

    Estrasse la busta dalle pagine del volantino e si rese conto all’istante, leggendo l’indirizzo, che quella strana preoccupazione che l’aveva colto era, con suo grande stupore, giustificata, ben radicata in qualcosa di intuitivo che non avrebbe saputo spiegare a parole.

    La busta… era indirizzata a lui.

    3

    24 agosto 1988, 05:17

    Benjamin Conroy aprì gli occhi. La luce dorata che aleggiava in aria davanti a lui svanì lenta, come dopo lo scatto di un proiettore che giri ormai a vuoto. Al rintocco della campana successiva, si alzò piano, tenendo i piedi all’interno del cerchio sul pavimento, lo sguardo rivolto alle fiammelle allungate dei ceri al centro dei pentagrammi. Piegò le mani, sentendo le gocce di sudore scendere dal suo corpo nudo, mentre in silenzio recitava una preghiera di ringraziamento a Osiride.

    Fletté i muscoli delle braccia, poi le gambe, e fece un passo

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