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A la faggeta
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E-book112 pagine1 ora

A la faggeta

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“A la faggeta” è un racconto avvincente di Anna Vertua Gentile, ambientato in un paesino dove la vita quotidiana segue i ritmi delle stagioni. Al centro della narrazione troviamo una giovane donna, la cui esistenza è segnata da eventi misteriosi e dalle tradizioni locali che affondano le radici in un passato dimenticato. Attraverso una prosa evocativa e poetica, l’autrice esplora temi come l’amore, la solitudine e il potere della natura, creando un’atmosfera sospesa tra realtà e magia. Perfetto per gli amanti dei racconti intrisi di mistero e suggestioni popolari.
LinguaItaliano
EditoreVentus
Data di uscita19 ago 2024
ISBN9791256330263
A la faggeta

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    Anteprima del libro

    A la faggeta - Anna Vertua Gentile

    copertina.jpg

    A LA FAGGETA

    Anna Vertua Gentile

    Il paese, grosso, se si tien conto delle molte frazioncelle sparse, piccolo, se si guarda alle poche case raggruppate intorno alla chiesa parrocchiale, lo chiamano così per via dei faggi, che si innalzano diritti, ramosi e fitti da formare una boscaglia, nel largo rispiano a mezza costa della montagna, a un quarto d’ora appena dalla verde zona dÈ pascoli.

    È paese che si sveglia tardi dal sonno invernale; ma gode d’una estate così fresca, così verde, pittoresca e maestosa per la veduta del lago sottoposto e della superba corona di monti che lo cingono in torno, che, ai primi disgeli, i villeggianti vi accorrono ad abitare le palazzine disseminate nel bosco, sopra i grandi massi sporgenti, nelle tranquille insenature.

    Vi accorrono stanchi dell’affannosa vita cittadina, smaniosi di quiete verde e sana. E per tre mesi, respirano l’aria vibrata della costa boscosa, bevono acqua pura e latte profumato, si divertono ritrovandosi in date ore del giorno, riunendosi per gite, escursioni, serate e balli.

    Poi, a la prima nevata d’ottobre, ai primi soffi gelati della vallata, come un volo di rondini, lasciano il nido estivo e tornano in città.

    Partono alla spicciolata; una famiglia oggi, un’altra domani; e si lasciano con un affettuoso arrivederci; perchè si ritroveranno in città.

    Quell’anno, per la metà di ottobre, già nevoso e freddo, le palazzine sparse erano tutte chiuse; meno una. Una casetta svizzera, piccolina, civettuola, che si sarebbe detto un balocco creato da una fantasia gentile e buttato dal capriccio in vetta d’un poggio, sorgente bizzarro nella valle, fra le montagne alte, ripide, imponenti.

    La casetta svizzera era tutt’ora aperta; dal camino, di sopra il tetto d’ardesia, usciva ancora il fumo, a spire nere e pigre, che stavano immote nell’aria morta della giornata nebulosa.

    Su l’uscio della casetta era un gruppo di persone. La famiglia dell’industriale Stalzi, padre, madre, e due bambine; Ida Flammi, una bella e gentile giovinetta; l’istitutrice; poi il dottore Roberto De Noto con le sorelle Anna e Milda; una signorina la prima; la seconda una fanciulletta.

    Si scambiavano i saluti, le strette di mano.

    I signori Stalzi scendevano in ritardo quell’anno; non reggeva loro l’animo di lasciare soli in quella mesta solitudine, gli amici. Fino allora avevano sempre fatto il viaggio insieme; andando a la Faggeta e tornando a Milano. Ma allora, le cose erano cambiate; i signori Stalzi dovevano partire soli; il dottore Roberto De Noto, rimaneva come medico condotto del paese e con lui restavano le figlie della seconda moglie di suo padre, Anna e Milda. Un rovescio di fortuna impediva ormai al dottore di vivere a Milano; e poichè lì a la Faggeta, il vecchio medico era morto, egli aveva cercato e ottenuto di sostituirlo.

    Il dottore Roberto, un bell’uomo di trent’anni, alto, smilzo, bruno, con un sorriso un po’ forzato su la bocca, salutava l’amico e antico compagno di scuola e di Università; mentre ogni tanto volgeva uno sguardo al gruppo delle donne e dei fanciulli e fermava gli occhi su la figurina slanciata e sottile di Ida Flammi, dal visuccio pallido quasi illuminato dagli occhioni scuri, espressivi, bellissimi.

    Le bambine Stalzi, impazienti, volevano partire; Emma aveva paura di non arrivare a tempo alla corsa del treno; giù a’ piè del monte.

    Ci fu uno scambio di baci; ci fu qualche lagrimuccia; e le famiglie amiche si separarono.

    Roberto e Anna stettero su l’uscio finchè li videro. Prima di scomparire nel viottolo della discesa, giù in fondo al rispiano verde, Ida Flammi, come se si sentisse addosso gli occhi che la seguivano, si volse, sventolò il fazzoletto; poi scese a precipizio, per raggiungere la compagnia, che l’aveva sopravvanzata.

    Roberto e Anna dopo d’aver risposto al saluto della giovine amica, stettero un momento a guardarsi. La sorella di diciott’anni, indovinò nella espressione del fratello, già uomo fatto, uno sforzo violento della volontà sopra tutto sè stesso; non gli buttò le braccia al collo come avrebbe desiderato il suo cuore; capì che quello non era il momento delle tenerezze che infiacchiscono; gli stese invece bravamente, virilmente la mano e gli disse, quasi scherzosamente:

    — A noi due, adesso, caro dottore! A te la cura dei malati, a me quella della casa e della sorellina. Mancheranno gli amici, bisognerà staccarsi dalle vecchie abitudini; ma resta il nostro affetto, resta il lavoro; e... e il pensiero degli assenti! — soggiunse fissando gli occhi in quelli del fratello, con intensità, quasi a volergli trasmettere nell’anima la sua speranza, la sua fiducia.

    Roberto le sorrise stringendole la manina; e poi che Milda, in quel punto scendeva dalle camere superiori cantarellando, la prese per le braccia facendola saltare nell’aria, giuoco che piaceva assai alla piccina e le strappava risate a non più finirne.

    — E adesso, a colazione! — disse Anna.

    Entrarono in cucina; una cucina dal gran camino con i panconi ai lati, appesi alle pareti gli utensili lucenti, la tavola greggia nel mezzo, due finestre che guardavano il fianco boscoso della montagna. Su la tovaglia candida, distesa sopra la tavola, erano le tazze del caffè e latte, un piatto di burro fresco, un vasetto di miele, le fette di pane casalingo arrosolate a la bragia.

    Milda mangiava con appetito; divorava il pane, beveva con gusto il caffè e latte.

    — Non pare più la piccola schifiltosa di Milano! — osservò Roberto — quando apriva la bocca all’imbeccata come un passero!

    — E si è fatta rosea e robusta che fa piacere a guardarla! — soggiunse Anna.

    — È perchè qui è bello e si sta bene! — spiegò la fanciullina.

    — Ma verrà la neve; e quando sarà alta, che cosa farà la piccola innamorata della montagna? — chiese Roberto.

    — Quando la neve sarà alta, andrò in islitta! — rispose seriamente Milda. — La signora Marietta ha fatto a Gino e a Rachelina due mantelli foderati di pelle di pecora. Ah! ah! ah!... dice che sembrano due orsacchiotti. Ma ci stanno sotto caldi come in una stufa. Anna!... lo farai anche a me un mantello foderato di pelle di pecora?

    — Ecco l’arciprete! — disse Roberto guardando dalla porta a vetri.

    — Ed è con lui la sorella con i figliuoli. Buona gente!... hanno pensato che appunto adesso sono partiti i nostri amici! — osservò Anna, andando incontro ai visitatori.

    L’arciprete, un uomo sulla cinquantina, piccoletto, esile, dalla faccia buona e la fronte intelligente, aveva una grande tenerezza per Anna e Milda e una grandissima stima di Roberto, che aveva in conto di amico.

    E sua sorella Marietta, vedova d’un ufficiale, che dopo la morte del marito, si era ritirata a vivere con lui insieme con i figliuoletti, era già stata amica della mamma delle fanciulle e le amava con cuore materno.

    Il cielo, di imbronciato che era stato fino allora, si andava rasserenando; l’aria dalla valle soffiava nelle nuvole, che si spezzavano e fuggivano a lembi, a frastagli, variando di forma, dileguando, perdendosi dietro le vette. Il sole d’improvviso, avvolse nella sua luce d’oro la casetta, il poggio, parte della valle.

    — Siamo venuti a pregarvi di venire oggi a mangiare la minestra da noi! — pregò l’arciprete.

    Roberto capì la delicata intenzione. Non si voleva lasciarli soli, lui e le sorelle, quel giorno. Si pensava che in compagnia avrebbero sentito meno la mancanza degli amici partiti.

    Strinse la mano all’ottimo prete; accettavano senza dubbio e con grande piacere. E in tanto, poi che il tempo si era messo bello, egli proponeva di fare tutti insieme una passeggiata, che forse sarebbe stata l’ultima quell’anno, con quella continua minaccia di neve, che c’era pericolo di rimanere bloccati da un momento all’altro. La proposta fu accettata subito.

    Anna chiuse la porta della casetta, intascò la chiave, mise il cappello in testa a Milda, e via tutti; i bambini innanzi; poi la signora Marietta e Anna; ultimi l’arciprete e Roberto.

    — Si va a trovare l’eremita? — propose Anna.

    — Sì! sì! sì!

    I fanciulli si rivolsero a gridare il loro sentimento di affermazione.

    — Ci darà le castagne! — disse Gino.

    — Ci farà vedere l’aquila addomesticata! — fece Rachelina.

    L’eremita era un uomo singolare. Era stato soldato parecchi anni di seguito; e si era ritirato con il grado di sergente.

    Tornato al paese s’era trovato sperso in mezzo a gente che quasi più non lo conoscevano; senza amici, senza parenti. Aveva qualche cosa del suo; si ritirò a vivere in una

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