Didaxis Comunicazione Apprendimento
Didaxis Comunicazione Apprendimento
di Angelo M. Franza
Traggo dalla mia recente esperienza di ricercatore due casi che mi sembrano utili per
far progredire il ragionamento riguardanti rispettivamente il primo le complesse questioni
relative alla formazione del medico, e il secondo inerente ai problemi posti dalla
realizzazione di un progetto di formazione a distanza di insegnanti, di operatori pedagogici
e personale direttivo nella scuola.
Per quanto riguarda il primo caso, l'occasione mi è stata fornita da un seminario di
studio recentemente costituitesi presso l'«Istituto Mario Negri» diretto dal professor Nordio
a cui partecipano medici, pedagogisti, filosofi, antropologi. Lo scopo di questo seminario è
appunto lo studio delle difficoltà che la formazione del medico oggi pone sul piano sia
dell'organizzazione dei percorsi formativi che sul piano della qualità e della utilizzazione
dell'apprendimento e dei suoi oggetti nella pratica professionale.
In particolare l'attenzione era polarizzata su un vero e proprio problema didattico: come
passare dallo studio delle materie di base (chimica, fìsica, istologia, biologia) alla cllnica e
alla pratica cllnica, cioè come promuovere nello studente di medicina dopo «l'indigestione»
di materie di base il passaggio alla pratica e all'esercizio della professione sui singoli
pazienti. Le prime riunioni sono state incentrate intorno ad una domanda che il Professor
Nordio si è posto e ci ha posto; come mai e perché mai un corso di formazione-formatori in
ambito medico altamente qualificato e finanziato dalla Smith & Kline, pur avendo riscosso
un notevole successo nei partecipanti, abbia fatto invece registrare un completo
insuccesso dal punto di vista dei cambiamenti che ci si aspettava sul piano della pratica
formativa e dei suoi esiti. Il corso era stato svolto essenzialmente sui metodi didattici
guilbertiani: schede, unità didattiche, selezione dei contenuti per concetti e famiglie di con-
cetti, lucidi, tavole sinottiche, schemi analitici. I destinatari del corso, quasi sempre
professori universitari, erano entusiasti di questa attrezzatura didattica, rassicurati dal potere
di queste tecniche e convinti di aver così risolto buona parte dei problemi relativi al loro
lavoro di formazione.
Il rilevamento successivo operato con tests, interviste e questionari, non aveva mostrato
alcuna modificazione significativa nel tipo e nella qualità dell'apprendimento dei formandi,
e ciò si accompagnava ad una comprensibile e notevole delusione dei formatori. Perché
mai, dunque questo successo dei nuovi metodi guilbertiani sui formatori dei formatori, e
invece totale insuccesso sulla formazione?
Il secondo caso lo traggo da una recente riunione tenutasi presso il mio dipartimento in
cui una commissionaria a capitale misto, Shentev, proponeva di realizzare un progetto di
Open University, cioè formazione a distanza per operatori sociali e pedagogici nel mondo
della scuola e dell'extra. L'idea in gioco era quella di far fare delle belle lezioni ad un
gruppo di docenti, di videoregistrarle e di riversarle poi in cassette da distribuire via posta.
Bene, questi due casi hanno in comune una rappresentazione della formazione definita
dalla «metafora del travaso» o della trasmissione. Il formando è un vaso vuoto che deve
essere riempito dal formatore, detentorc del sapere, il quale lo versa secondo tempi e
modalità da lui stesso prestabiliti. Anche la più moderna ed oggi in voga metafora
cibernetico-informazionale non si discosta dalla metafora del travaso, anzi a ben guardare
ne è una versione mascherata. Le unità didattiche, le schede, le tavole sinottiche dovrebbero
essere come dei fìles che una volta memorizzati potranno essere richiamati, manipolati e
interpolati alla bisogna. Qual è il dato truffaldino che accomuna queste due metafore? E che
il formando non è ne un vaso da riempire, ne la sua testa è un computer da programmare. E
questa è già una prima risposta da dare al Prof. Nordio. Ma andiamo oltre. Che cosa vuoi
dire filmare una lezione invece che imprimerla su un supporto cartaceo? Rendere più
bevibile e più palatabile ciò che si intende trasmettere?
Già un primo problema si da nella transposizione di un dato contenuto da un
linguaggio scritto. E chiunque ha una minima esperienza di traduzione, sa che non si tratta
mai di una transposizione, neanche nel caso della cosiddetta traduzione letterale. Si da
sempre un grado, sia pur minimo di oscillazione interpretativa in cui chi traduce deve
metterci qualcosa di sé medesimo se vuole rendere meglio ciò che l'autore ha inteso dire.
Ma al di là dei problemi posti dalla traduzione del linguaggio scritto nel linguaggio parlato e
filmico, dal punto di vista dell'apprendimento, né la lezione scritta, né la lezione fìlmica
portano inscritte in sé le istruzioni per l'uso. Non contengono cioè, per chi deve apprenderle,
le istruzioni sul come apprenderle; non è l'indice o il cosiddetto menù. Dal punto di vista
dell'apprendimento, ed è ciò che deve interessarci di più in quanto formatori, ciò che
avviene nei processi di apprendimento dei formandi non è obiettivabile per iscritto, ne
filmabile con una telecamera. Che cos'è l'apprendimento se non l'effetto di ciò che dico su
ciò che passa in quel momento nella testa del formando, sulle dinamiche che innesco, sulle
strategie che attivo, sulle evocazioni che produco? Chi sa che cosa succede nella mente del
mio interlocutore? Non è visibile, non è filmabile, non è obiettivabile, registrabile;
forniscono il cibo ma non gli strumenti, cucchiaio, forchetta e coltello, per raccoglierlo,
disarticolarlo, riconnetterlo, in breve per metabolizzarlo. Ne vale fingere una platea; una
cosa è stare in aula, altra cosa è stare davanti a una TV.
Quel che succede nella mente del formando rimane consegnato al formando, alla sua
mente, e poi e poi, sempre che quel che succede risulta presente alla sua coscienza. Poco o
nulla possiamo fare per controllare tutto ciò. Nel vedere, nel sentire, nel toccare, nel capire
io vedo, sento, tocco, capisco qualcosa ma non sono consapevole dei processi che si
attivano per vedere, sentire toccare, capire. Ma su questo torneremo più avanti.
3. Mimesi
Pardossalmente è proprio questa separatezza tra formatore e formando che rende la
perspicuità della metafora del travaso e della trasmissione. “Tu sei un vaso vuoto, avverti il
vuoto della tua ignoranza», ed è proprio la percezione di questo vuoto, con le valenze
psicologiche che questo vuoto evoca, horror vacui, che spinge il formando a passare dalla
parte del vaso pieno, il formatore, e attraverso l'imitazione e tutti i processi con cui si
realizza imitazione.
Imitazione adesiva, imitazione introiettiva e imitazione proiettiva, sono le tre forme
finora individuate e studiate di imitazione. L'imitazione adesiva è quella tipica degli
imitatori di professione, di spettacolo, in cui l'imitatore aderisce alle fattezze, alle movenze,
alle caratteristiche della voce del personaggio da imitare, come se fosse un francobollo.
L'imitazione adesiva implica una mimesi che ricorda il vecchio adagio per cui «si impara
solo ciò che si fa», ed il mostrare come si fa implica da parte di chi apprende «il rubare il
mestiere con gli occhi», altro vecchio adagio. L'imitazione introiettiva è una forma più
elaborata e profonda di quella adesiva. Qui non ci si limita ad aderire al modello proposto
come un francobollo, ma anzi lo si assorbe, lo si porta dentro di sé, ed agisce dall'interno
come un criterio regolatore ed ordinatore delle nostre azioni.
L'introiezione di un modello di azione spiega la forza pedagogica da sempre affidata e
riconosciuta all'esempio. L'imitazione proiettiva indica il movimento inverso e cioè una
parte di sé viene proiettata all'esterno ed affidata inconsapevolmente al maestro, al
formatore, al collega; pensiamo alle frequenti idealizzazioni o, all'inverso, alle valenze
persecutorie a cui allievi e maestri, formatori e formandi sono esposti lungo l'itinerario dei
percorsi formativi. Pensiamo ai transfert erotico pedagogici, agli innamoramenti a cui tutti
siamo stati esposti e ai processi di rispecchiamento che abbiamo subito nell'arco della nostra
personale formazione. «Io ero come tu sei, io sono come tu sarai»: questa è l'essenza di quel
processo non privo di una sua magicità che noi chiamiamo di «rispecchiamento». Il maestro
rispecchia se stesso giovane nell'allievo ed il giovane rispecchia se stesso, da adulto, nel
vecchio maestro.
Quindi imitazione, rispecchiamento, innamoramento. Non si dice che il bravo maestro
è colui il quale sa fare innamorare gli allievi della propria materia? Ci sono dunque processi
di imitazione, di rispecchiamento, di innamoramento che servono a far superare agli allievi
quel vuoto, riempiendolo. Non la didattica, semmai sono proprio quei processi che
permettono di far funzionare una didattica, una qualsiasi didattica. Ecco forse una seconda
risposta alle domande del Prof. Nordio che si interrogava circa il successo avuto sui
formatori dall'armamentario didattico guilbertiano. E che schede, tavole, schemi, lucidi
rassicuravano le ansie e le preoccupazioni dei formatori, davano loro la sicurezza di con-
trollare e di possedere tutto il contenuto del loro insegnamento, il che con valenza magica si
trasformava in una totale palatabilità del contenuto stesso e li garantiva circa una totale
versabilità o trasmissibilità dello stesso ai formandi. Ha funzionato l'abuso di un principio di
analogia «come io controllo la materia con questa procedura didattica, così anche tu puoi
apprenderla e controllarla»; è presupposto un principio automatico di imitazione o di mi-
mesi della prassi. «Come faccio io, così fai tu».
Bisognerebbe premettere, per correttezza comunicativa l'espressione «per come l'ho
capita io», ma questo introdurrebbe un elemento di diversificazione tra maestro e allievo, tra
formatore e formando che rende meno automatico e meno plausibile il processo di
imitazione.
Che forse questi processi dovrebbero essere innescati direttamente dal setting di
formazione o di apprendimento? Basta essere in aula o in un altro setting di apprendimento,
basta essere definiti allievi per automaticamente imitare ed apprendere?
Le motivazioni, le rappresentazioni, i vissuti, le strategie di comprensione, i giudizi ed i
pregiudizi dei formandi dove vanno a finire? Non sono questi forse determinanti per
l'imitazione e dunque per l'apprendimento?
Non si può dare una forma di imitazione passiva e dunque di apprendimento degna di
questo nome. Ecco dunque un'altra risposta all'interrogativo del Prof. Nordio circa
l'insuccesso formativo dei corsi della Smith & Kline. Quali erano le motivazioni che
spingevano i formandi? Quali erano le rappresentazioni che ognuno di loro aveva della
professione del medico? Quale era la nozione di medicina cui si rifacevano? Quale era il
grado di condivisione consapevole di tutto ciò nel gruppo dei formandi?
Questi formandi erano stati scelti come interlocutori o erano stati considerati solo come
vasi vuoti da riempire o come computers da programmare? E stato Darwin in epoca
moderna, sul finire del XIX secolo, a formulare il problema della comunicazione con un
saggio dedicato alla espressione delle emozioni negli uomini e negli animali. La tesi di
Darwin in proposito si può riassumere così: quando nel contatto tra due esseri senzienti, uno
di essi riesce con un gesto, con un suono o una certa mimica facciale ad esprimere un
barlume di significato e questo fatto viene afferrato dall'altro, si costituisce un modello di
comunicazione imitabile che sarà poi destinato a perfezionarsi, a stilizzarsi ed infine ad
articolarsi.
La funzione comunicativa del linguaggio, quindi, si comprende come imitazione di una
espressione. L'abitudine e la specializzazione fanno poi il resto. La teoria di Darwin fu
ripresa poi da molti linguisti e da molti psicologi del linguaggio, in particolare Wundt che
sviluppò un voluminoso lavoro sul linguaggio dei sordomuti. Scopo evidente, dichiarato di
questi studi era quello di imbrigliare in una griglia più fine, il fenomeno della produzione
del significato fondato sullo scambio imitativo tra parlante e ascoltante.
Ma qual è il difetto principale della teoria di Darwin e di Wundt? E che la
comunicazione non è fondata sullo scambio delle parti tra parlante ed ascoltante, più il tratto
in comune della imitazione, caso mai è quest'ultima che regge il fatto comunicativo, ma
presupporla significherebbe aver risolto già tutto il problema.
Giova piuttosto tenere ben distinti i due fatti della comunicazione; l'espressione da
parte di chi parla e la ricezione da parte di chi ascolta, poiché il fatto di essere
interscambiabili negli attori non li rende di per sé identici, infatti l'atto espressivo della
comunicazione non ha nulla a che vedere con il reciproco atto ricettivo della sua
comprensione. L'espressione è un fatto in senso lato, retorico, fondato sulla efficacia
dell'emissione, ma questa è solo una metà della comunicazione la quale deve completarsi
con la comprensione dell'udienza che è un atto squisitamente ermeneutico, interpretativo,
fondato sulla effettiva ricezione del messaggio. Insomma il fatto che io ora fungo da
emittente e magari successivamente da ricevente, vuoi semplicemente dire che io compio in
due occasioni diverse, due diverse operazioni, una retorica e una ermeneutica che, per la
circostanza di essere scambievoli non diventano certo l'una l'inverso dell'altra. In sé le due
operazioni sono molto diverse e quindi ognuna richiede di per sé un'analisi peculiare.
Questo è il punto debole della teoria di Darwin e Wundt che vorrei chiamare «teoria
coordinativa». Coordinativa perché essa si fonda su un elemento comune, l'imitazione, il
quale rimanendo identico sia per l'emittente che per il ricevente, costituisce appunto la
coordinazione tra i due poli. Dunque esiste una retorica dell'emittente ed una ermeneutica
del ricevente che non sono immediatamente sovrapponibili. Per retorica dell'emittente
intendiamo il modo in cui l'emittente costruisce il suo discorso mentre per ermeneutica del
ricevente intendiamo il modo in cui il ricevente assorbe, comprende ed elabora il discorso
che ha ascoltato.
Dobbiamo riconoscere che si tratta di due procedimenti diversi, l'uno di codifica e l'altro di
decodifica con regole diverse e con una propria peculiare specificità. E proprio una teoria
della comunicazione basata sul principio coordinativo tra emittente e ricevente che tenta di
appiattire l'ermeneutica del ricevente sulla retorica dell'emittente, e che con ciò finisce con
lo svilire la comunicazione in trasmissione o nel trasporto del contenuto sotto forma di
derrate alimentari. Ma c'è un'alternativa? C'è un'altra teoria della comunicazione capace di
evitare questo appiattimento, questa riduzione, questa distorsione e che ci permetta di
rendere conto meglio dei meccanismi che intervengono quando si dà comunicazione? Prima
di cominciare anche un semplice abbozzo di risposta a questa domanda, credo sia necessario
tornare a riflettere sul linguaggio.
Abbiamo detto che il linguaggio non è pensiero bensì ciò attraverso cui il pensiero si
esprime, tanto meno il linguaggio è nella realtà e ancor meno le parole contengono la realtà.
Si riconosce dunque un certo grado di eterogeneità del linguaggio sia rispetto al pensiero
che rispetto alla realtà, ma il pensiero si adatta anche agli strumenti che usa ad esempio al
linguaggio stesso. Possiamo dire che in un certo qual modo il pensiero è parlato dal
linguaggio che usa.
Se uso il linguaggio scritto, e la tavoletta di cera e lo stilo sono gli oggetti concreti di
questa obiettivazione, io posso pensare appunto che la mia mente funzioni come una tabula
rasa. Se uso il computer per le mie obiettivazioni, per le mie creazioni penserò che la mia
mente funzioni come un computer che programma i suoi programmi.
Ma è la mia mente come una tabula rasa o un computer? O viceversa è la tabula rasa o
il computer come la mia mente? O piuttosto la mia mente non è ne l'uno ne l'altro? Tabula
rasa, computer, vaso vuoto sono solo modelli che servono a renderci astrattamente intuibili
stati di cose e complessi di relazioni appartenenti a realtà eterogenee; ma questo fatto non
comporta che stati di cose e complessi di relazioni si adeguino al modello. Se questa ade-
guazione si compie, è magica ed illusoria, e questa illusione, questa magia è dovuta proprio
al linguaggio. E l'uso del linguaggio che ci permette di operare proiezioni, distinzioni,
riduzioni anche dove nulla si può separare e ridurre. Il linguaggio attraverso le parole
costruisce entità ed identità riconoscibili, e sempre attraverso le parole riesce a stabilire
correlazioni, omologie, analogie anche dove non c'è nulla di correlabile. L'eterogeneità del
linguaggio rispetto alla realtà esterna o fisica, e rispetto alla realtà interna o psichica, fa sì
che gli schemi di pensiero, i modelli di cui è veicolo e costruttore al tempo stesso dicano
contemporaneamente molto meno e molto più di quanto si vorrebbe.
Molto meno perché il medium linguistico non è altro che un appiattimento per così dire
bidimensionale, un quadro verbale di un insieme infinito di stati e di relazioni che trovano
espressione nelle regole e nelle restrizioni poste dal linguaggio. Molto di più poiché il
linguaggio aggiunge a quanto rappresenta la struttura del suo modo di esprimere le cose,
che non esiste in realtà, ma che nel quadro che ci viene presentato non si distingue da ciò
che in esso vorrebbe essere simbolo di fatti esterni, e che quindi il linguaggio stesso finisce
per arricchire per virtù propria.
Ora, il separare il contenuto reale di un discorso dalle forme rappresentative che lo
veicolano è un tentativo in gran parte destinato al fallimento; costringerebbe infatti lo
studioso ad un interrogativo controfattuale del tipo: «come si potrebbe esprimere quel
pensiero se non lo si facesse con queste parole?» Sarebbe necessario forse un altro
linguaggio, altre forme rappresentative ma allora anche il pensiero ne sarebbe deformato se
è vero, come è vero che anche la forma è contenuto.
Magia del linguaggio, commenterebbe Gorgia, il più grande dei retori antichi, il quale
attacca il suo famoso Encomio di Elena pressappoco così: «Gran signore è il Logos che, in
minutissimo corpo ed assolutamente invisibile, porta a compimento imprese per eccellenza
deputate agli Dei, dato che è in grado di far cessare la paura, di portar via la tristezza, di
provocare il piacere, di accrescere la pietà. Com'è che questo avvenga io cercherò di
dimostrarlo, ma va dimostrato a chi ascolta anche secondo la sua esperienza». Quest'ultimo
è il punto forte; è chiamato direttamente in causa l'ascoltatore e la sua esperienza. Dovremo
tenere ben a mente questo punto perché ci sarà utile più avanti. A ben vedere questa magia
non è solo del linguaggio, anzi è ancor più primitiva e meno stupefacente di quanto lo stesso
Gorgia non pensasse. Questa magia ha a che fare con il modo che la nostra mente ha di
rendersi conto dei fenomeni ad essa esterni già a partire dalla percezione.
Gli schemi estesiologici dei nostri sensi ci forniscono quadri compatti, completi,
omogenei della realtà circostante, senza buchi, vuoti, smagliature. Eppure vuoti, buchi,
smagliature ci sono perché dovuti a ciò che è al di sotto e al di sopra delle soglie limi-nari,
ma di essi non vi è alcuna traccia nei quadri percettivi che ci vengono forniti dai nostri
organi di senso. I vuoti sono riempiti, normifìcati, azzerati dalla particolare struttura
circolare dei criteri ordinatori dei nostri schemi estesiologici. Un esempio per tutti: lo
schema estesiologico della percezione dei colori.
Lo spettro fisico dei colori presenta secondo la frequenza un ordinamento lineare;
rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, violetto. Al di là del rosso c'è l'infrarosso, fino al
minimo di frequenza delle onde hertziane, e al di là del violetto c'è l'ultravioletto fino al
massimo di frequenza dei raggi gamma. Tra il rosso e l'infrarosso, tra il violetto e
l'ultravioletto c'è la soglia, rispettivamente inferiore e superiore della percezione delle onde
elettromagnetiche sotto la forma della specie sensibile dei colori.
L'ordinamento lineare delle onde elettromagnetiche è noto anche come fenomeno
dell'ottava luminosa. L'ordinamento è lineare perché aperto da entrambi i lati, subliminare
inferiore e superliminare superiore, rispetto alla percezione cromatica.
Dalla parte dell'infrarosso, l'ordinamento recede fino al limite fisico assoluto della
frequenza zero che è poi la mancanza stessa del fenomeno elettromagnetico. Dalla parte
dell'ultravioletto l'ordinamento procede fino al limite fisico assoluto della condensazione
dell'onda in particella che di nuovo elimina il fenomeno elettromagnetico. Questo è lo
schema fisico, ma come si comporta lo schema estesiologico del nostro apparato percettivo?
Compiendo una magia, rendendo circolare ciò che è lineare.
Il precedente schema lineare viene curvato secondo una struttura circolare; il violetto sfuma
nel rosso senza soluzione di continuità, ogni scarto è azzerato, non si da vuoto tra
l'ultravioletto e l'infrarosso che sono come cancellati dalla nostra percezione, e non si da
neanche il segno della cancellatura. Essi letteralmente non esistono per la nostra percezione.
Lo schema circolare del nostro apparato percettivo normifica lo schema lineare fisico delle
onde elettromagnetiche; il violetto sfuma nel rosso proprio come avviene per gli altri colori
contigui e la sequenza circolare può essere letta nei due sensi cominciando da dove si vuole.
Secondo l'opposizione diametrale i colori si elidono due a due e scompare la qualità
cromatica: il rosso elide il verde, l'arancio elide l'azzurro, il giallo elide il violetto.
Questa normificazione circolare dello schema estesiologico lineare è comune a tutti i
nostri sensi anche se con caratteristiche peculiari ad ognuno di essi. Ad esempio mentre
l'ottava luminosa è circolare come abbiamo visto, quella dei toni acustici è spiraliforme.
Ordinando i suoni secondo la frequenza delle onde di compressione otteniamo la ripetizione
delle stesse note in antifonia; nell'ordinamento lineare dello spettro fisico tutti i toni sono di-
stinti perché hanno una diversa frequenza d'onda.
Ma noi percepiamo gli accordi non le note, la stessa nota singola può essere ascoltata
come accordo di ottava che corrisponde al rapporto tra una data lunghezza d'onda e la sua
metà o il suo doppio. Ma mentre nello schema estesiologico dei colori il rosso sfuma nel
violetto e viceversa, in quello estesiologico dei suoni la nota più alta non sfuma in quella
più bassa. Lo schema come dicevo non è proprio circolare, ha una forma a spirale, al di là
della nota più bassa troviamo gli infrasuoni e al di là della nota più alta gli ultrasuoni, ma
per il nostro orecchio entrambi sfociano nel silenzio.
Ottava luminosa e ottava sonora sono i criteri ordinatori attraverso cui i nostri apparati
percettivi normifìcano la realtà visiva ed acustica per fornirne una rappresentazione alla
nostra mente. Bianco-nero, interno-esterno, alto-basso, destra-sinistra, conscio-inconscio,
dinamicamente intesi sono concetti relativi; è il nostro modo di comprensione del mondo
che ne fa la differenza e non una qualità, magari occulta, inerente alle cose di cui ci
occupiamo. Consideriamo il fenomeno delle figure cosiddette ambigue; la magia non sta
tanto nel fatto che in una stessa figura se ne può scorgere una per volta [figg. 1-2].
6. Normificazione
7. Anamnesi