Diritto - Amministrativo Gallo
Diritto - Amministrativo Gallo
2005/2006
Diritto Amministrativo
Prof C.E. Gallo
Appunti di lezione integrati con libro “Compendio di diritto amministrativo”
IL DIRITTO DELL’AMMINISTRAZIONE
Affrontando il tema della pubblica amministrazione bisogna soffermarsi su due grandi ambiti: da un
lato l’organizzazione dei pubblici uffici, dall’altro i rapporti tra i cittadini e la pubblica
amministrazione.
Mentre in ambito privatistico non rileva come un soggetto sia strutturato al suo interno, a livello di
pubblica amministrazione ciò è fondamentale, perché bisogna sapere se il soggetto che ci si
contrappone sia o meno legittimato.
Nel corso degli ultimi tempi entrambi questi ambiti hanno subito riforme molto importanti e anche
molto rapide, il che ha determinato una forte contraddittorietà del sistema.
• Per quanto riguarda l’organizzazione, la Costituzione aveva predisposto un assetto a
carattere monolitico ed accentrato. La PA era un insieme di piramidi (ministeri) con a capo
il ministro cui tutto faceva riferimento. Comuni e province avevano ambiti di libertà molto
ristretti e non erano autonome, ma autarchiche (ossia non si davano norme da sole, ma si
gestivano da sole). In questo modo era garantita l’unicità legislativa e il pari trattamento di
tutti i soggetti che avessero a che fare con la PA. Vi era però al contempo una continua
dipendenza nei confronti di chi, al centro del sistema, doveva prendere le decisioni, e quindi
i tempi e l’inerzia aumentavano. Per tale ragione il legislatore ha scelto la strada del
decentramento, riconoscendo autonomie agli enti locali e anche alle regioni, che vennero
finalmente riconosciute. Conseguenza estrema del decentramento è, però, il rischio di una
fortissima disomogeneità e di diversità di trattamenti.
• Relativamente al rapporto pubblica amministrazione-cittadino, si deve parlare del potere
peculiare dell’amministrazione che consiste nell’emettere provvedimenti capaci di
modificare la sfera dei diritti del destinatario. La pubblica amministrazione è l’unico
soggetto che possa modificare con un atto unilaterale la condizione giuridica del
destinatario.
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Tomaso Ferrando – Diritto Amministrativo Gallo – A.A. 2005/2006
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solo per specifiche ragioni. A questo proposito emerge il problema dell’esistenza o meno di una
riserva di amministrazione, ossia di un ambito di attività riservato alla PA e nel quale il legislatore
non può ingerirsi: l’esistenza di tale riserva parrebbe andare contro una serie di principi del nostro
ordinamento quali la preferenza della legge. Allo stesso tempo però una legge provvedimento che
intervenga in presenza di una molteplicità di interessi senza tener conto di essi e senza dare la
possibilità del ricorso al giudice amministrativo determinerebbe sicuramente la violazione del
principio di imparzialità e del buon andamento (anche se di tale avviso non è stata la Corte
Costituzionale).
Allo stesso modo ci si chiede, allora, se l’amministrazione possa agire in maniera più generica,
ossia adottare provvedimenti generali ed astratti: originariamente si pensava che di volta in volta il
legislatore dovesse autorizzare l’amministrazione. Oggi si pensa che questo potere spetti
autonomamente all’amministrazione perché ormai il provvedimento ha ampliato la sua
portata data la previsione di sussidiarietà, il decentramento e l’esigenza di autonomia dei
soggetti della PA. Attualmente devono infatti essere le PA stesse a darsi piani generali entro i quali
agire. Si è quasi arrivati all’eccesso, molto vicini all’autonomia legislativa, con gli statuti che sono
fonti sub-primarie. Un caso di amministrazione che agisce attraverso atti generici è quello della
regolamentazione dell’attribuzione di licenze commerciali.
IL POTERE DELLA PA
Nel nostro ordinamento esistono due schemi che vedono coinvolti le norme e le fattispecie che alle
norme sono collegate. La loro diversità determina due diverse modalità di produzione degli effetti
giuridici.
• Norma-fatto-effetto: la norma prevede che al verificarsi di una data fattispecie vi sia una
determinata conseguenza. Atti e fatti sono semplici presupposti per la produzione
dell’effetto. La norma disciplina direttamente il fatto e vi collega un effetto. Se la legge
prevede la produzione di effetti non per tutte le fattispecie di un certo tipo, ma solo per
alcune, si parla di legge provvedimento.
• Norma-potere-effetto: la norma attribuisce, a certe condizioni, ad un soggetto il potere di
produrre vicende giuridiche e riconosce l’efficacia dell’atto da questo posto in essere.
L’effetto non deriva automaticamente dalla previsione di legge, ma vi è l’interposizione di
un soggetto, legittimato, che attraverso un atto regolamenta il fatto e produce la
vicenda giuridica.
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DISCREZIONALITA’ TECNICA
Diversa è, invece, la discrezionalità tecnica: essa infatti si riferisce alla discrezionalità di soggetti
che pongono in essere perizie o valutazioni nelle quali non si possa applicare una scienza esatta: in
questi casi la discrezionalità è assoluta e la valutazione dipendere da numerosissimi fattori diversi.
Tanta discrezionalità del tutto insindacabile: il giudice eventualmente investito della questione
infatti potrà esclusivamente controllare se i ragionamenti alla base siano o meno corretti non
potendo in nessun caso contestare i dati tecnici raccolti né l’esito della valutazione stessa.
ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA
Quando la PA opera, si trova sempre a porre in essere attività materiali e atti giuridici: non solo il
provvedimento finale quindi, ma un lungo procedimento fatto di tanti atti, rigorosamente
disciplinati dalla legge sul procedimento amministrativo 241/1990.
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lediamo un diritto altrui, la PA è vincolata dalla presenza di tali interessi, ed è obbligata a prevedere
che i portatori di tali interessi prendano parte alla sua attività: al contempo i cittadini che si trovano
ad essere “inglobati” nelle procedure della PA hanno l’interesse a sapere cosa stia facendo la PA ma
soprattutto come lo stia facendo. La PA è infatti, come si è visto, regolata nel suo procedere da
norme di azione: i destinatari dell’attività hanno la pretesa che essa agisca nel rispetto di tali norme
di azione.
Dal 1889 ogni soggetto vanta inoltre una posizione giuridica soggettiva nel caso in cui
l’amministrazione violi norme che la regolano: è questo l’interesse legittimo, definibile come
la pretesa del cittadino che la PA rispetti le norme di azione, ossia quelle disposte relativamente
al suo agire. Ogni cittadino può pretendere che la PA, nello svolgere il suo compito, rispetti le
norme che la regolano, dando così la possibilità al cittadino stesso di godere della “missione” che la
PA stessa si prefigge.
Data la presenza di un interesse legittimo che si manifesta nei confronti del corretto agire della PA,
si capisce che la PA è come servente l’interesse pubblico.
Il fatto che la PA sia poi più o meno autoritaria dipende, in ogni caso, dal periodo storico nel quale
ci si trova: a volte la PA ha dovuto dare poco spazio agli interessi dei cittadini a vantaggio degli
interessi pubblici: altre volte, come in quest’ultimo periodo, invece, ha preferito lasciare più spazio
ai cittadini e porre le proprie controparti (in particolare per via della privatizzazione) su un piano
quasi paritetico. La vera e propria parità non è però quasi mai raggiunta in quanto la PA conserva
nei confronti del privato la possibilità di derogare norme del diritto privato sulla base di mutati
interessi pubblici: in particolare il caso della concessione per il servizio di illuminazione delle
strade, quando si passò dal gas all’elettricità la PA potè risolvere il contratto solo sulla base delle
sopravvenute esigenze pubbliche (senza che dal punto di vista del diritto vi fosse una vera e propria
condizione che la legittimasse a farlo). Per questo motivo conviene quando si concludono contratti
con la PA inserire clausole contrattuali di adeguamento nel caso in cui mutino gli interessi della PA,
e clausole contrattuali di risoluzione quando il mutamento dell’interesse della PA sia tale da
imporre come miglior soluzione la risoluzione del contratto.
L’articolo 1-bis l 241/90 dispone che <la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di
natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga
diversamente>: a partire da tale articolo è nato un intenso dibattito volto a sostenere che la PA
dovesse, al di fuori degli atti autoritativi, comportarsi come il privato, ed essere sul suo stesso
piano. La PA non dovrebbe solamente utilizzare strumenti di diritto privato (che, come abbiamo
visto, impiega ampliamente) ma anche sottostare alle norme di diritto privato. L’idea che
nell’emanare atti non autoritativi la PA perda tutte le sue prerogative di supremazia pare però poco
realizzabile: il fatto che la PA si venga a trovare nella condizione di un privato cittadino, sottoposto
alle stesse norme e dotato degli stessi poteri, priverebbe infatti il cittadino stesso delle garanzie che
derivano dal fatto che la PA debba perseguire interessi pubblici ed abbia i poteri per perseguire tali
interessi anche scavalcando interessi legittimi dei singoli. L’articolo 1-bis della legge 241/90 va
allora intesa in modo diverso, ossia come ulteriore apertura all’impiego di strumenti privatistici,
senza però che venga eliminata la necessità di un procedimento di formazione della volontà
amministrativa che rispetti i vincoli pubblicistici, a favore della pubblicità e della trasparenza.
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Se dunque prima era solo l’emanazione del provvedimento che determinava la nascita di un
interesse legittimo, adesso si ritiene che l’interesse legittimo nasca nel momento in cui inizia il
procedimento o in cui il legislatore immagina che PA e cittadino potrebbero venire in
contatto.
Ad esempio, al giorno d’oggi il cittadino che veda emanato un provvedimento di diniego del
permesso di costruire, qualora si accorga del fatto che il procedimento è viziato non dovrà attendere
l’emanazione del provvedimento stesso, ma potrà intervenire quando questo è ancora in
svolgimento.
Nel caso di provvedimento basato su di un atto precedente, il cittadino potrà invece intervenire nel
momento in cui sia stata data forma all’atto che sta alla base del provvedimento (ad esempio
provvedimento basato su piano regolatore). L’interesse legittimo nasce nel momento in cui si ha
l’adozione dell’atto anteriore: il cittadino avrà infatti il potere di fare osservazioni.
L’interesse legittimo è così definito perché legittima il soggetto che ne è titolare ad agire e
soprattutto di reagire a violazioni di norme che lo riguardino: presupposto essenziale perché vi sia
interesse legittimo è che vi sia rapporto personale, diretto ed attuale tra PA e soggetto.
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• Diritto soggettivo: si parla di diritto soggettivo, invece, tutte le volte nelle quali il
legislatore ha dato al cittadino la possibilità di soddisfare pienamente ed in modo non
mediato il proprio interesse, ossia indipendentemente dalla soddisfazione dell’interesse
pubblico curato dall’amministrazione. È diritto soggettivo, quindi, una situazione che
potrebbe essere definita di immunità dal potere. I diritti soggettivi sono tutelati dalle
norme dell’ordinamento stesso: la violazione di un diritto soggettivo è competenza del
giudice ordinario.
• Interessi: il cittadino può avere nei confronti della PA un diverso tipo di interesse: si parla
infatti di interesse pretensivo quando il privato pretende qualcosa dall’amministrazione al
fine di ottenere il soddisfacimento di una propria aspirazione (il quale dipende dal
comportamento attivo della PA), mentre si avrà interesse oppositivo tutte le volte nelle
quali il soggetto provato opporrà all’esercizio di un potere un proprio interesse al fine di
bloccare l’attività della PA volta a dar vita ad una vicenda giuridica svantaggiosa per il
privato.
• Potere dell’amministrazione: la peculiarità dell’amministrazione pubblica deriva dal fatto
che ad essa sia attribuita la potenzialità astratta di tenere un certo comportamento e di
produrre modificazioni di vicende giuridiche unilateralmente. Il potere è, di norma,
autoritativo e unilaterale.
• Poteri dei privati: il nostro ordinamento riconosce al titolare dell’interesse legittimo dei
poteri di cui si può servire in determinate occasioni. In particolare si avrà un potere di
reazione il cui esercizio si concretizza nei ricorsi amministrativi e nei ricorsi giurisdizionali
volti ad ottenere l’annullamento dell’atto amministrativo. Vi sarà poi un potere
partecipativo che consente al titolare di un interesse legittimo di prendere parte al
procedimento amministrativo non solo per opporvisi, ma per fare in modo che esso prenda
in considerazione tutto quanto possa essere nel suo interesse.
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LEGITTIMAZIONE AD AGIRE
Sicuramente è legittimato ad agire nei confronti di un atto o di un procedimento amministrativo è
colui che è titolare di un interesse legittimo (quindi che è direttamente, personalmente e
attualmente colpito dal procedimento o dall’atto stesso). Si è visto poi il problema della
legittimazione di titolari di interessi collettivi e di interessi diffusi adottata nel 90 dal legislatore.
Relativamente agli interessi diffusi è però il caso di fare un esempio molto significativo.
Il legislatore, di fronte ad una situazione di diffuso abusivismo edilizio si è posto il problema di
legittimare anche soggetti che non avessero un interesse diretto, ad agire contro situazioni nelle
quali sia la PA sia i titolari di interesse legittimo fossero inermi. Così una legge degli anni 70, al
numero 767, diede la possibilità a chiunque di ricorrere in giudizio contro situazioni di
abusivismo edilizio: in questo modo l’interesse legittimo veniva a trovarsi in capo a chiunque,
indipendentemente dal suo rapporto con il fatto. Chiunque poteva ricorrere contro un abuso
edilizio o contro permessi di costruire che violassero le norme. In questo modo il legislatore
aveva dato ai titolari di interessi diffusi la legittimazione ad agire, sulla base di un generale
interesse alla tutela, anche se titolari di un mero interesse di fatto, che ha preso il posto
dell’interesse ad essere tutelati tipico del titolare di interesse legittimo.
Il consiglio di Stato si era adeguato alla strada prescelta dal legislatore del 70, e allora si arrivò al
ricorso in cassazione: gli sconfitti sostennero infatti che chi aveva agito non fosse legittimato ad
agire perché privo di qualunque interesse legittimo o di uni diritto soggettivo. La cassazione
interpretò la norma alla luce dell’art. 111 Cost (ricorso solo se c’è interesse legittimo o diritto
soggettivo) e interpretò il “chiunque” contenuto nella legge come “chiunque abbia un interesse
legittimo”: in questo modo la norma del 70, che doveva essere innovativa, si trovò a non dire nulla
di più di quanto già si sapesse.
La palla passò allora nuovamente al Consiglio di Stato, il quale è normalmente più elastico della
cassazione, che intese il “chiunque” come “chiunque risieda stabilmente nell’insediamento
abitativo”, ossia chiunque abbia un collegamento stabile con il luogo ove l’edificio venga costruito.
Il titolare di un interesse diffuso veniva quindi legittimato ad agire in un ambito di situazioni più
ampio rispetto al titolare di interesse legittimo, ma la legittimazione ad agire perdeva il carattere
assoluto che la norma del 70 aveva invece disposto.
Si venne però a creare il problema di soggetti che richiedevano a persone risiedenti in maniera
stabile in un luogo di agire contro abusi edilizi posti in essere da concorrenti economici: il TAR
cercò allora di limitare questa pratica riducendo il più possibile l’estensione del concetto di “stabile
collegamento”.
Un’eccezione è costituita, come si è visto, da coloro che sono preposti alla tutela ambientale: dal
1986, infatti, la legittimazione ad agire contro atti o procedimenti che ledano l’ambiente è attribuita
in capo a enti ed associazioni riconosciute dal ministero e iscritte in una specifica lista.
DIRITTI FONDAMENTALI
La giurisprudenza ha riconosciuto il rilievo, anche di fronte alla PA, dei diritti fondamentali. Alcune
posizioni (diritto alla salute, all’istruzione…) possono essere sempre fatte valere per opporsi alla
PA, ed essa, di fronte a tali diritti, non potrà fare altro che interrompere il procedimento o ritirare
l’atto. Un provvedimento amministrativo che leda un diritto fondamentale è nullo.
Un diritto fondamentale si trasforma invece in un interesse legittimo quando lo si utilizzi per
ottenere qualcosa: il diritto alla salute supera i provvedimenti che lo ledano, ma la pretesa di cure
gratuite sulla base del diritto alla salute trova l’ostacolo dell’interesse collettivo a che lo Stato non
spenda eccessivamente.
IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
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tempo limiti di legge stabilito a 30 gg. Per aggirare la situazione molte amministrazioni prevedono
termini anche superiori agli 800 giorni.
Con la legge 15/2005 è stato invece tolto l’obbligo di diffida, ma da 30 giorni come termine di
legge si è passati a 90. Sono dati però al cittadino 365 giorni di tempo per ricorrere contro la
formazione del silenzio.
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La motivazione è l’espressione del fatto e del diritto che sono emersi nell’istruttoria, ossia nella fase
nella quale la PA individua sia lo stato di fatto sia di diritto della situazione nella quale sta
procedendo. Con la motivazione deve far risultare tali dati, che sono alla base del provvedimento
stesso.
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L’iniziativa ad istanza è caratterizzata dal fatto che il dover procedere sorge a seguito d’impulso
proveniente da un soggetto privato oppure da un soggetto pubblico diverso dall’amministrazione
cui è attribuito il potere di procedere.
A seconda del fatto che la domanda provenga da un soggetto pubblico o da un soggetto privato
si parlerà di richiesta (o proposta) o di istanza vera e propria: l’istanza si ha infatti solamente nel
caso in cui sia il cittadino a far sorgere nell’amministrazione il dovere di procedere.
Nel caso di istanza erronea o incompleta, sempre il T.U. ha disposto a carico del responsabile del
procedimento il compito di richiedere la correzione, l’integrazione o comunque la rettifica
dell’istanza: è stato così introdotto il principio di sanabilità delle istanze dei privati.
Si ha iniziativa di ufficio, ossia da parte dello stesso soggetto che ha il potere di procedere, quando
il tipo di interessi pubblici affidati alla cura dell’amministrazione siano tali da esigere che questa si
attivi automaticamente al ricorrere di alcuni presupposti, indipendentemente da istanze, richieste o
proposte.
Si parla di dovere di procedere perché, a seguito dell’introduzione del T.U. proc amm del 90,
l’amministrazione ha il dovere di arrivare ad un provvedimento, e di arrivarvi entro lo scadere del
termine imposto dal legislatore.
In realtà, con riferimento ai procedimenti su istanza di parte, l’art. 20 l 241/90 ammette l’istituto del
silenzio assenso: unico modo per l’amministrazione di esprimere il suo diniego è, in questo caso,
l’emanazione di un provvedimento di diniego o attraverso l’indizione di una conferenza di servizi.
Vi sono dei casi, in particolare quelli espressamente previsti dalla legge, ma in ogni caso i
procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la difesa
nazionale, la pubblica sicurezza e l’immigrazione, la salute e la pubblica incolumità, nei quali
il silenzio dell’amministrazione è, per previsione comunitaria, equiparato al rigetto
dell’istanza.
In altre ipotesi a seguito di decorso del termine senza che l’amministrazione abbia emanato il
provvedimento, non si ha né silenzio assenso né silenzio diniego, bensì silenzio inadempimento,
che non produce effetti equipollenti a quelli di un provvedimento di accoglienza o di rigetto
dell’istanza. Di fronte al silenzio inadempimento il cittadino ha a disposizione lo strumento del
ricorso, che mira ad ottenere un provvedimento specifico: l’amministrazione infatti non decade dal
potere di agire, ma potrà essere considerata responsabile per lesioni di interessi meritevoli di tutela.
Il ricorso avverso il silenzio può, secondo la disciplina corrente, essere proposto anche senza
necessità di diffida ad adempiere.
I termini del procedimento amministrativo possono essere interrotti e sospesi da parte
dell’amministrazione procedente: in particolare prima dell’adozione formale di un
provvedimento negativo, l’amministrazione interrompe i termini e comunica agli istanti i
motivi che ostano l’accoglimento della domanda, che iniziano nuovamente a decorrere dal
principio a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni.
Mentre per quanto riguarda la sospensione si vedrà in seguito della possibilità di sospendere il
termine per esigenze istruttorie quando l’amministrazione sia richiesta di formulare pareri o
di esprimere valutazioni tecniche.
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contrario tale compito è temporaneamente svolto dal dirigente dell’unità organizzativa preposta a
tale procedimento.
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DESTINATARI DELL’ATTO
• diretti: coloro che sono titolari di interessi oppositivi o pretensivi (che devono
quindi difendersi o vogliono collaborare con la PA).
• coloro che per legge devono intervenire: coloro che devono dare pareri obbligatori,
non obbligatori, vincolanti o non vincolati, coloro che devono svolgere attività
consultiva, e altri soggetti, come ad esempio coloro che devono collaborare
all’istruttoria.
• Inoltre qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti
individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari,
l'amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell'inizio
del procedimento. Si tratta dei c.d. controinteressati, la cui paretecipazione ha
funzione deflativa del contenzioso.
• Non hanno diritto alla comunicazione coloro che dal provvedimento potrebbero
ricevere effetti favorevoli
COMUNICAZIONE DIFFERITA
Nel caso in cui si trovi a dover adottare provvedimenti cautelari prima dell’inizio del procedimento,
la PA si riserva la facoltà di non comunicarlo, ma di differire tale comunicazione al momento della
comunicazione di avvio del procedimento. Ciò può avvenire solo se il cautelare sia giustificato da
motivi di urgenza.
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Il legislatore non ha posto limiti al tipo di interesse che giustifica un intervento in un procedimento
amministrativo: titolari di interessi legittimi, pubblici, provati, di interessi diffusi o di mero fatto cui
possa derivare pregiudizio dal provvedimento hanno facoltà di intervenire.
Chiunque partecipi al procedimento ha poi il diritto di prendere visione degli atti del procedimento
e di presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove
siano pertinenti all’oggetto del procedimento.
Nelle memorie il soggetto di norma indica i propri diritti: ciò che più di tutto andrebbe inserito nelle
memorie è, però, l’indicazione di una soluzione alternativa per la soddisfazione del pubblico
interesse. A nulla serve opporre un proprio diritto, a meno che sia un diritto fondamentale, se non si
propone una strada alternativa, economicamente o tecnicamente migliore alla PA.
Non si ha partecipazione in ambito tributario.
Non si applica il regime della partecipazione neanche nel caso di atti normativi, generali, di
pianificazione e di programmazione.
Non vi sarà partecipazione nemmeno nel caso di procedimenti iniziati prima dell’approvazione
della legge 241/90.
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In pratica, il titolare di tali facoltà potrà sempre farle valere oppure il suo interesse potrà essere
temperato da esigenze pubbliche? Se è diritto soggettivo l’amministrazione non ha potere
discrezionale nel consentire o negre l’accesso: s così fosse il rifiutare l’accesso sarebbe illegittimo e
potrebbe determinare ricorso al giudice civile. Se fosse invece interesse legittimo, la PA potrebbe
negare l’accesso e il privato potrebbe solamente ricorrere entro 30 giorni nei confronti
dell’amministrazione stessa, pena conferma del diniego.
Si capisce quindi che per il privato conviene che sia considerato diritto soggettivo, mentre
all’amministrazione pubblica conviene che sia considerato interesse legittimo.
Il dettato normativo parla di diritto di prendere visione e di estrarre copia: per il legislatore,
quindi, l’accesso è un diritto soggettivo. Per giurisprudenza e dottrina, invece, è un interesse
legittimo.
Il legislatore lo ha definito un diritto perché a suo avviso è tale da favorire l’imparzialità, la
trasparenza e la pubblicità della PA e quindi assume le vesti di un diritto fondamentale del cittadino
nei confronti della PA: in particolare sarebbe, secondo il legislatore, un elemento fondamentale
del diritto di difesa. Senza poter accedere agli atti, infatti, il cittadino si troverebbe limitato nella
sua possibilità di esprimersi e di far valere le proprie ragioni a propria difesa.
Inoltre disporre che il diritto di accesso è costituzionalmente riconosciuto, in quanto rientrante
nell’ambito di quei diritti sociali di cui lo Stato deve garantire un livello essenziale, vuol dire far
sì che non sia riconosciuto solo a livello di amministrazioni statali, ma anche a livello di
amministrazioni regionali e locali.
La riforma del 2005 ha definitivamente sancito l’approdo del diritto d’accesso tra i diritti
fondamentali disponendo chiaramente che si parla di diritto d’accesso come diritto degli
interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi.
Costituzionalizzando tale principio, all’art. 22.2 T.U. proc. amm. sancisce che <L'accesso ai
documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce
principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di
assicurarne l'imparzialità e la trasparenza, ed attiene ai livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai
sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione. Resta ferma la potestà
delle regioni e degli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, di garantire livelli
ulteriori di tutela>, mentre, tornando sull’ambito di applicazione del diritto di accesso, prevede che
<Il diritto di accesso di cui all'articolo 22 si esercita nei confronti delle amministrazioni dello
Stato, ivi compresi le aziende autonome, gli enti pubblici ed i concessionari di pubblici
servizi>.
La giurisprudenza dovrebbe quindi ricredersi.
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• non si può poi chiedere alla PA di elaborare dati (di dire qualcosa in più rispetto a quanto
contenuto negli archivi)
Si è visto che i diretti destinatari del provvedimento, chi deve partecipare per legge e coloro ai quali
potrebbe derivare pregiudizio (controinteressati) sono legittimati ad esercitare il diritto di accesso.
Vi sono poi tre casi specifici di soggetti che, seppur non rientranti in queste categorie, possono
esercitare il diritto d’accesso:
1. componenti organi collegiali locali, senza necessità di ulteriore qualificazione, nei
confronti degli atti procedimentali dello stesso organo di cui sono parte
2. chiunque ha diritto di accesso nei procedimenti in cui è coinvolta la tutela ambientale
3. chiunque, sulla base di una legge regionale piemontese, può accedere agli atti relativi
a qualunque permesso di costruire rilasciato in Piemonte.
Ci si chiede se è necessario che chi voglia esercitare il diritto di accesso sia ancora in una
situazione tale da poter esercitare la propria pretesa soggettiva nei confronti della PA oppure
se il diritto di accesso è indipendente dal poter ancora far valere la propria posizione
soggettiva (interesse legittimo o diritto soggettivo). Colui il cui diritto di ricorrere contro un
provvedimento amministrativo è decaduto, può ugualmente accedere agli atti relativi al
procedimento che ha determinato quel provvedimento?
La giurisprudenza sostiene che la posizione soggettiva è tutelata in sede di diritto d’accesso
anche se non c’è più la possibilità di ricorrere in giudizio.
Per alcuni, ancora, il diritto di accesso è esercitatile addirittura da chi abbia un interesse di mero
fatto, il che lascia capire che la possibilità di ricorrere in giudizio non è vista come un requisito per
l’esercizio dell’accesso (perché l’interesse di mero fatto non è posizione giuridicamente tutelata).
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richiedente può presentare ricorso al tribunale amministrativo regionale ai sensi del comma 5,
ovvero chiedere, nello stesso termine e nei confronti degli atti delle amministrazioni comunali,
provinciali e regionali, al difensore civico competente per ambito territoriale, ove costituito, che sia
riesaminata la suddetta determinazione>
<Se il difensore civico o la Commissione per l'accesso ritengono illegittimo il diniego o il
differimento, ne informano il richiedente e lo comunicano all'autorità disponente. Se questa non
emana il provvedimento confermativo motivato entro trenta giorni dal ricevimento della
comunicazione del difensore civico o della Commissione, l'accesso è consentito>
Nel caso in cui l’originale dell’atto non sia da essa conservato, dovrà consentire l’accesso presso il
luogo ove è custodito l’originale.
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dei propri interessi giuridici deve essere ancora più forte che nel caso di dati personali relativi a
soggetti terzi.
Nel caso di dati supersensibili (ossia dei dati relativi alla vita sessuale ed allo stato di salute) è
invece necessario che la situazione giuridicamente rilevante che si vuole tutelare attraverso
l’accesso a questo tipo di dati sia almeno di rango pari ai diritti di colui cui i dati si
riferiscono, ovvero consista in un diritto della personalità o di un altro diritto o libertà
fondamentale e inviolabile.
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• Fonti non legislative: importanti, ma ormai in secondo piano dato che ormai tutto
viene deciso a livello statale o a livello regionale con atti legislativi. Il
procedimento di delegificazione che è in atto a partire dagli anni ’90 sta però
dando nuova linfa e nuovo vigore alle fonti secondarie a favore di una maggior
adattabilità e di una maggior tecnicità rispetto alle leggi. Si pensi ad esempio alle
norme di ordinamento speciale, norme che regolano la PA al suo interno, nello
svolgimento delle proprie attività, e la cui violazione determina la nascita di un
interesse legittimo. L’Unione Europea è però intervenuta bloccando il processo
di delegificazione a livello statale, sostenendo che i regolamenti possano essere
emanati solo in materie di competenza esclusiva dello Stato.
• Statuti: fonte normativa sempre più importante. Statuto vuol dire testo che
raccoglie le regole fondamentali, e rispetto al secolo scorso ha guadagnato grande
importanza. A partire dalla legge 142/90 (da non confondere con la 241 sul proc
amministrativo) a comuni e province si è dato il potere statutario, ossia il potere di
adottare disposizioni che prevalgono sulle disposizioni dello statuto base dettato
dal legislatore. La legge 142/90 ha infatti predisposto uno statuto contenente
principi generali e disposizioni specifiche. Nel rispetto di tali principi i comuni
e le province possono intervenire per dotarsi di uno statuto proprio. Mentre gli
statuti regionali dovevano rispettare la costituzione e le leggi, gli statuti provinciali
e comunali dovevano solamente rispettare i principi della 142 e la costituzione. A
partire dalla riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione, gli statuti
provinciali e comunali devono solamente rispettare la Costituzione.
• Regolamenti: atti normativi statali, regionali e di altri enti pubblici. L’attività
normativa dell’amministrazione è soggetta al principio di preferenza della legge
(nel caso di compresenza di legge e regolamento) e al principio di legalità, in base
al quale non può contraddire una legge né uscire dai limiti da essa posti. Sono atti
normativi, e quindi espressione di potere diverso da quello amministrativo, anche
se promanano dalla PA stessa. A seconda del soggetto da cui provengono, si potrà
poi parlare di regolamenti governativi, ministeriali, regionali e degli enti locali.
1. Dei regolamenti governativi bisogna ricordare la previsione del parere
obbligatorio del Consiglio di Stato e che sono emanati con Decreto del
Presidente della Repubblica.
2. i regolamenti ministeriali ed interministeriali (ossia che coinvolgono
materie di competenza di più ministeri) non possono dettare norme
contrarie a quelle dei regolamenti governativi e debbono trovare il loro
fondamento in una legge che espressamente conferisca il relativo potere al
ministro ed essere attinenti alle materie di sua competenza.
3. i regolamenti regionali saranno prerogativa delle amministrazioni
regionali in tutte le materie non di competenza legislativa specifica
dello Stato.
4. per quanto riguarda i regolamenti degli enti locali, l’autonomia
regolamentare è stata espressamente riconosciuta, insieme a quella
regolamentare dalla l 241/90 che, dettando le linee di fondo
dell’organizzazione dell’ente locale, lascia alle scelte autonome la
possibilità di arricchire ed integrare tale disegno. Esse hanno, in base anche
all’art. 117.6 Cost potestà regolamentare in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, nel
rispetto delle norme statutarie. Ma l’attuale T.U. enti locali prevede svariate
materie che debbono essere disciplinate con regolamento: accesso ai
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Tomaso Ferrando – Diritto Amministrativo Gallo – A.A. 2005/2006
PROCEDIMENTO CONSULTIVO
L’amministrazione richiesta del parere obbligatorio ha 45 giorni di tempo per rispondere a tale
richiesta. Se entro tale termine non provvede, l’amministrazione procedente può procedere
senza tener conto del parere. Si procede quindi “a prescindere”: è però possibile che
l’amministrazione interpellata richieda, per una volta soltanto, ulteriore tempo per la propria
istruttoria, e allora le sarà concesso di avere 15 giorni in più dal momento della richiesta. Qualora il
parere sia comunque fornito prima che la decisione sia presa sarà però considerato essere
pervenuto in tempo. Diverso è il discorso per il parere postumo, ossia formulato a seguito della
decisione presa dall’amministrazione procedente: di questo non si dovrà tener conto.
Lo stesso discorso può essere fatto nel caso di parere facoltativo: la differenza è solo data dal fatto
che è l’amministrazione richiesta del parere che deve fissare il termine entro il quale formulerà il
proprio parere.
Un parere obbligatorio tardivo diviene quindi un parere facoltativo nel rispetto del principio di
non aggravamento del procedimento.
Se l’amministrazione che deve fornire il parere è un’amministrazione preposta alla tutela
della salute, dell’ambiente, del territorio o del paesaggio il parere deve necessariamente essere
atteso: le esigenze istruttorie in questo caso superano le esigenze di celerità.
CONFERENZA DI SERVIZI
La conferenza di servizi è uno strumento che può rivestire sia caratteri istruttori, in quanto può
consentire di raccogliere contestualmente più interessi (conferenza di servizi istruttoria), o caratteri
decisori, in quanto permette di arrivare ad una decisione (conferenza di servizi decisoria) qualora
vi siano più interessi amministrativi coinvolti nello stesso procedimento. In un unico momento, in
un unico luogo i rappresentanti delle varie amministrazioni che devono intervenire nel
procedimento vengono sentiti.
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CONFERENZA ISTRUTTORIA
<Qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un
procedimento amministrativo, l’amministrazione procedente indìce di regola una conferenza
di servizi.>
Per alcuni la ratio di questo istituto dovrebbe essere tale da consentire anche la partecipazione di
privati portatori di interessi coinvolti nel procedimento in questione. Nella pratica, però, il privato
può solo depositare memorie e documentazione, e non essere direttamente ascoltato dai
rappresentanti delle varie amministrazioni.
Si pongono a questo punto alcune domande sulla natura della conferenza di servizi:
1. obbligatoria o facoltativa: l’articolo 14 dice che la conferenza deve essere indetta di regola,
quindi non pone un obbligo, ma fa in modo che il non indirla sia una situazione derogatoria
e che quindi vada motivato.
2. determinazione nella conferenza: il punto di arrivo della conferenza, la determinazione della
conferenza, viene trasmesso all’amministrazione procedente. Ci si chiede se essa debba
attenersi a tale punto di arrivo (che non è una decisione e che non segue ad una votazione)
o se si possa distaccare da esso: è opinione diffusa che l’amministrazione possa non tener
conto della determinazione della conferenza istruttoria solo motivando idoneamente la
sua scelta, in particolar modo facendo riferimento a fatti sopravvenuti.
3. conferenza trasversale: <La conferenza di servizi può essere convocata anche per l’esame
contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti amministrativi connessi,
riguardanti medesimi attività o risultati. In tal caso, la conferenza è indetta
dall’amministrazione o, previa informale intesa, da una delle amministrazioni che curano
l’interesse pubblico prevalente.. L’indizione della conferenza può essere richiesta da
qualsiasi altra amministrazione coinvolta.>. in questo caso la conferenza non è indetta
perché all’interno dello stesso procedimento vi sono più interessi coinvolti, bensì perché più
procedimenti sono connessi tra di loro e vedono coinvolti interessi comuni.
CONFERENZA DECISORIA
<La conferenza di servizi è sempre indetta quando l’amministrazione procedente deve acquisire
intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche
e non li ottenga, entro trenta giorni dalla ricezione, da parte dell'amministrazione competente,
della relativa richiesta. La conferenza può essere altresì indetta quando nello stesso termine è
intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate>.
Quando l’amministrazione debba acquisire atti che incidono nella sua decisione e nell’emanazione
del provvedimento finale, e quando anche solo una delle amministrazioni interpellate non abbia
provveduto a fornire il proprio assenso entro 30 gg dalla richiesta da parte dell’amministrazione
procedente, quest’ultima deve convocare una conferenza di servizi decisoria.
A differenza della conferenza istruttoria il fatto che un’amministrazione dia o no il proprio assenso
non può non essere tenuto in considerazione da parte dell’amministrazione procedente.
Dal dettato legislativo si evince che anche la conferenza di servizi decisoria è, di norma, facoltativa,
ma diviene obbligatoria quando si verificano le particolari condizioni di mancato ottenimento
dell’assenso entro 30 gg dalla richiesta alla singola amministrazione.
La conferenza è obbligatoria se anche una sola delle amministrazioni non provvede entro 30 gg, ma
anche se provvede e dissente rispetto al procedimento su cui l’amministrazione procedente l’ha
interpellata.
La conferenza di servizi non è quindi solo un modo per accelerare i procedimenti, ma anche per
superare il singolo dissenso.
Infatti la conferenza di servizi decide a maggioranza: in questo modo il singolo dissenso può essere
superato dall’assenso delle altre amministrazioni coinvolte nella conferenza di servizi. Se senza
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CONFERENZA PRELIMINARE
Una particolare forma di conferenza di servizi è la conferenza preliminare: essa può essere indetta o
su richiesta di un cittadino quando sia sul punto di dar vita a progetti di particolare complessità e
di insediamenti produttivi di beni e servizi o su richiesta dell’amministrazione procedente nel
caso di procedure di realizzazione di opere pubblico e di interesse pubblico.
Nel primo caso <La conferenza di servizi può essere convocata per progetti di particolare
complessità e di insediamenti produttivi di beni e servizi, su motivata richiesta dell'interessato,
documentata, in assenza di un progetto preliminare, da uno studio di fattibilità, prima della
presentazione di una istanza o di un progetto definitivi, al fine di verificare quali siano le
condizioni per ottenere, alla loro presentazione, i necessari atti di consenso. In tale caso la
conferenza si pronuncia entro trenta giorni dalla data della richiesta e i relativi costi sono a carico
del richiedente>
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Nel secondo caso, invece, <Nelle procedure di realizzazione di opere pubbliche e di interesse
pubblico, la conferenza di servizi si esprime sul progetto preliminare al fine di indicare quali
siano le condizioni per ottenere, sul progetto definitivo, le intese, i pareri, le concessioni, le
autorizzazioni, le licenze, i nullaosta e gli assensi, comunque denominati, richiesti dalla
normativa vigente. In tale sede, le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-
territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, si
pronunciano, per quanto riguarda l’interesse da ciascuna tutelato, sulle soluzioni progettuali
prescelte. Qualora non emergano, sulla base della documentazione disponibile, elementi
comunque preclusivi della realizzazione del progetto, le suddette amministrazioni indicano, entro
quarantacinque giorni, le condizioni e gli elementi necessari per ottenere, in sede di
presentazione del progetto definitivo, gli atti di consenso>.
In entrambi i casi, quindi, la conferenza preliminare prende in esame i progetti preliminari delle
opere che stanno per essere poste in essere: in entrambi i casi la conferenza mira ad indicare
quali siano le condizioni per ottenere, al momento della presentazione del progetto definitivo, i
relativi atti di consenso, in maniera tale da non rischiare di vederseli negati. Entrambi i tipi di
conferenza hanno la finalità di consentire eventuali aggiustamenti ed eventuali correzioni del
progetto preliminare in maniera tale che si presenti un progetto definitivo che non possa non essere
accolto: sono infatti le stesse amministrazioni che presiedono alla conferenza preliminare che
dovranno dare o meno il loro consenso al definitivo. Chi si adegui alle richieste delle
amministrazioni formulate in conferenza preliminare è quasi sicuro di vedere il progetto
definitivo approvato: ciò non accadrà, però, nel caso di fatti sopravvenuti.
Le funzioni concernenti realizzazione, ampliamento e cessazione di impianti produttivi di beni e di
servizi spettano, dalla riforma del 1998, allo sportello unico delle attività produttive istituito presso
ciascun comune: una sola struttura competente e responsabile per tutti questi procedimenti. Il
privato si trova a dover effettuare una sola istanza e si relazionerà solo con lo sportello unico, anche
se la sua domanda coinvolge più di un’amministrazione.
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Si parla poi di controllo preventivo quando il controllo viene effettuato prima dell’acquisto di
efficacia da parte del provvedimento stesso.
La recente tendenza in materia di controllo ha determinato che si sia ridotto il controllo sui
provvedimenti a favore di una maggior responsabilizzazione del responsabile del procedimento e
del dirigente dell’ufficio responsabile che, proprio come avviene in un’impresa, pagheranno
personalmente per i propri errori e allora sono tenuti ad un miglior controllo.
In ogni caso si può distinguere tra controlli preventivi antecedenti l’emanazione dell’atto e
controlli preventivi susseguenti l’emanazione dell’atto, ma comunque antecedenti
all’acquisizione di efficacia.
Al momento si è scelta la strada di minori controlli preventivi e di correre un maggior rischio di
provvedimenti illegittimi, in modo da far ricadere il peso di un provvedimento illegittimo sul
destinatario, il quale non avrà più il controllo amministrativo, ma solo la tutela giurisdizionale.
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momento in cui sono a lui comunicati. Gli atti limitativi della sfera giuridica di un soggetto, anche
se unilaterali, sono sempre recettizi. Sono parimenti recettivi tutti gli atti normativi.
Alcuni provvedimenti limitativi della sfera giuridica possono, a determinate condizioni, essere
immediatamente efficaci: si tratta dei provvedimenti che abbiano una motivata clausola di
immeditata efficacia e dei provvedimenti aventi carattere cautelare ed urgente. Il carattere
recettizio rileva anche in ordine al termine di impugnazione.
In più il destinatario deve essere avvisato individualmente (ma l’amministrazione è libera di
scegliere lo strumento attraverso il quale avvisarlo).
PROVVEDIMENTI AUTORIZZATORI
La prima categoria è quella dei provvedimenti autorizzatori, in cui rientrano:
1. autorizzazioni: ad esempio nel caso di licenze commerciali. La PA valuta la coerenza
dell’interesse privato rispetto all’interesse pubblico e autorizza l’esercizio di un diritto,
quello di iniziativa economica privata, che sarebbe altrimenti limitato. L’autorizzazione
consiste quindi nel togliere le limitazioni di esercizio di un diritto di cui il soggetto è in
ogni caso già titolare. Secondo la nostra Costituzione, infatti, il diritto di iniziativa
economica può essere soggetto a limitazioni perché non può andare a danno della collettività
e degli interessi pubblici: la prevalenza degli interessi pubblici rispetto a quelli privati fa in
modo che il diritto sia presente in capo ad ogni cittadino, ma che il suo esercizio sia
vincolato dall’autorizzazione della PA. L’autorizzazione per l’esercizio di un’attività
commerciale rientra poi all’interno di un programma redatto dall’amministrazione che
garantisce l’imparzialità di fronte alle richieste dei cittadini. Mentre in passato si
riteneva che un privato potesse fare tutto tranne quanto dannoso, adesso invece si cerca di
indirizzare l’esercizio del suo diritto di iniziativa privata a qualcosa di utile per la
collettività, ossia a quanto previsto dal programma che non sia ancora stato attuato. Nel
1971 era stata emanata una legge che richiedeva che ogni comune predisponesse un piano
triennale per la programmazione dell’attività economica: questa fu però molto lenta e
non portò a nulla di concreto né tanto meno di utile. Allora nel 1998, con il d.lgs Bersani si è
deciso di eliminare la programmazione a favore del compito delle regioni di dettare delle
linee di indirizzo. Il diritto del singolo è visto come un diritto astratto, per esercitare il quale
c’è bisogno di qualcosa di più, qualcosa che completi il diritto stesso: questo quid pluris è
l’autorizzazione. L’autorizzazione quindi non è un provvedimento costitutivo, perché il
diritto è già esistente ed in possesso del cittadino.
2. abilitazione: provvedimento con il quale l’amministrazione valuta solo il dato tecnico,
senza alcun tipo di discrezionalità. Dopo aver riscontrato lo stato di fatto concede o meno
l’abilitazione qualora i risultati rientrino entro i parametri richiesti. Ad esempio il
rilascio della patente di guida è un provvedimento abilitativo alla guida: riscontrato il
possesso dei requisiti per guidare (ossia dell’idoneità tecnica), l’amministrazione abilita a
guidare da quel momento in avanti.
3. nullaosta: atto conclusivo di un subprocedimento, esso è emanato da un’amministrazione
diversa da quella procedente, con cui si dichiara che, in relazione ad un particolare
interesse, non sussistono ostacoli all’adozione del provvedimento finale.
4. dispensa: provvedimento che l’ordinamento attribuisce all’amministrazione in modo tale
che, in alcune situazioni, essa possa derogare all’osservanza di determinati divieti o obblighi
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Tomaso Ferrando – Diritto Amministrativo Gallo – A.A. 2005/2006
5. approvazione: provvedimento permissivo che può essere richiesto per far sì che un
provvedimento acquisiti efficacia.
6. licenza: all’opposto dell’abilitazione si trova la licenza, che è un provvedimento
assolutamente discrezionale dell’amministrazione. Come accade per il porto d’armi,
l’amministrazione attua una valutazione discrezionale, non un mero accertamento dello stato
di fatto, e decide se concedere o meno tale licenza, in base alla valutazione della sua
corrispondenza ad interessi pubblici o della sua convenienza.
PROVVEDIMENTI CONCESSORI
Vi sono poi i provvedimenti concessori: un cittadino che vuole svolgere una determinata
attività non rientrante nella sua sfera giuridica chiede alla PA di concedergli, invece, di
utilizzare un bene in modo diverso da quanto la sua condizione giuridica gli consentirebbe di
fare. Ad esempio colui che vuole aprire un benzinaio deve chiedere alla PA la concessione di
impiegare parte della strada non ai fini del passaggio dei veicoli, ma al fine di installarci il
distributore. La concessione è quindi un provvedimento costitutivo, perché il soggetto che la riceve
si vede attribuito dalla PA un diritto di cui prima non era titolare.
In particolare la concessione può essere:
1. traslativa: la PA assume dei servizi e poi li fa svolgere ad altri soggetti privati:
distribuzione di acqua, luce, gas e servizi pubblici garantiti dall’autorità locale, che vengono
posti in essere da privati attraverso concessioni che l’amministrazione pubblica ha loro
concesso. Questa è una delle soluzioni attraverso le quali l’amministrazione può erogare tali
servizi: le altre sono costituite dal servizio diretto da parte dell’amministrazione attraverso
uffici interni all’ente stesso e dalla costituzione di aziende pubbliche (come l’ATM) separate
dall’amministrazione ma da essa controllate. La scelta della concessione traslativa a soggetti
privati è quella ultimamente più seguita. L’ente pubblico trasla sui privati il proprio
stesso potere: i privati, quindi, si potranno comportare come soggetti di dir pubblico,
potendo, ad esempio, comminare sanzioni ed esercitare il potere di controllo. Ma allo
stesso tempo la PA, che concede il proprio potere, si riserva di controllarne l’esercizio e
anche di revocare la concessione per interesse pubblico sopravvenuto. I rapporti tra
concedente e concessore (PA e privato) sono poi regolati da una serie di pattuizioni che
disciplinano nel dettaglio la concessione, chiamate generalmente disciplinare di
concessione. Ed è proprio la presenza di un disciplinare di concessione che ha fatto dire ad
alcuni che non ci si trova più di fronte ad un provvedimento amministrativo di concessione,
ma bensì di fronte ad un contratto di diritto privato, per cui si dovrebbe parlare di
concessione contratto. Per tale ragione il legislatore ha sostituito le concessioni traslative
con contratti di gestione del servizio. È quindi in particolare in questo settore che si
riscontra la rilevanza di un articolo del T.U. proc amministrativo, ossia di quello che dispone
che la <pubblica amministrazione nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce
secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente>. A riguardo
bisogna ricordare che non si può pensare all’amministrazione come soggetto eminentemente
di diritto privato.
2. costitutiva: il diritto attribuito è totalmente nuovo, nel senso che l’amministrazione non
poteva averne la titolarità (cittadinanza od onorificenze).
Ulteriori provvedimenti concessori sono le sovvenzioni: queste consistono in provvedimenti con le
quali l’amministrazione eroga al cittadino un beneficio economico (incentivi per l’attività
imprenditoriale, culturale o sportiva). I termini impiegati dal legislatore sono molto vari: egli infatti
a volte parla di contributi, altre volte di sussidi. Se in prima della l 241/90 si riteneva che questo
tipo di provvedimento fosse espressione di un amplissimo potere discrezionale, tanto che il
giudice non poteva mai sindacare i criteri in base ai quali l’erogazione era stata eseguita,
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determinando l’impossibilità per chi non riceveva tali sovvenzioni di ricorrere in giudizio e di
ottenere ragione, la legge del 90 ha cambiato tutto. È stato infatti previsto che quando
l’amministrazione deve erogare delle sovvenzioni deve predeterminare i criteri di massima e
pubblicarli. In questo modo chiunque rientri entro questi criteri avrà diritto di ricevere la
sovvenzione ed in caso contrario potrà impugnare il provvedimento che gli abbia negato la
sovvenzione a favore di soggetti non rientranti in tali requisiti
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• indennità
La legge 2359/1865 è stata fino a pochi anni fa la legge di riferimento sull’espropriazione di
pubblica utilità: essa, che risponde al requisito di riserva relativa di legge in quanto dettava i
limiti entro i quali si muoveva l’amministrazione, è infatti stata abrogata solamente nel
2001.
La legge del 1865 mirava ad essere un punto di equilibrio tra esigenze statali ed esigenze
liberali: la PA poteva espropriare per ragioni di pubblica utilità senza possibilità per
l’espropriato di opporsi, ma doveva corrispondere una “giusta indennità” pari al valore
venale (ossia commerciale) del bene, da accettare prima amichevolmente e poi a seguito di
giudizio. L’indennità doveva quindi consistere in una reintegrazione della perdita
economica.
Verso la fine dell’800 si pose però il problema del risanamento di Napoli: una legge del
1885 si inserì sullo schema predisposto dalla legge del 1865 prevedendo che lo Stato
trovasse come valore di indennità una via di mezzo tra il valore venale e la somma degli
affitti di dichiarati nell’ultimo anno: dato che quasi nessuno aveva dichiarato di aver
percepito affitti, le case vennero espropriate sulla base della metà del loro valore venale, ma
comunque continuava ad essere un giusto indennizzo.
Al momento di varare la Costituzione, l’Assemblea Costituente accettò di sopprimere
l’aggettivo “giusto” al fianco del termine indennizzo, sulla base del fatto che un
indennizzo non potesse che essere giusto.
A metà degli anni 90 il legislatore si avvia sulla strada dell’edilizia popolare: la legge
167/1962 introdusse un’indennità di espropriazione molto basso, molto più basso del valore
venale. La Corte Costituzionale venne investita del problema ed essa dichiarò che non
era detto nella Costituzione che l’indennità dovesse corrispondere al valore venale del
bene: la mancanza dell’aggettivo giusto, secondo la Corte, voleva dire che l’indennità non
doveva essere pari al valore venale, ma in ogni caso doveva costituire un “serio ristoro”.
Così nel 1971 il legislatore dispose che gli edifici fossero espropriati al valore venale, i
terreni agricoli al valore agricolo ed i terreni edificabili al valore agricolo della coltura
maggiormente redditizia nella zona.
C’era evidente disparità tra trattamento di terreni già edificati e terreni edificabili: allora si
tornò davanti alla Corte Costituzionale, la quale chiese di sapere quante fossero state le
espropriazioni in Italia negli ultimi 5 anni: nel frattempo però intervenne il legislatore del
1977 con la famosa legge che disponeva che costruire fosse una concessione della PA e
non un diritto del proprietario autorizzato dalla PA. In questo modo tutti i terreni
venivano a vedersi scorporato il diritto di costruire, e quindi nessuno era edificabile. Se è la
PA che dà il diritto di costruire, il terreno non può essere edificabile di per se stesso, e
per tale ragione il valore dell’indennità è il valore agricolo moltiplicato per poche volte.
La Corte Costituzionale, interpellata sulla legittimità costituzionale della legge del 1977,
sentenziò che c’era stato un errore nell’impiego del termine concessione, e che in realtà si
trattava sempre di un’autorizzazione. Quindi si torna ad avere terreni edificabili, quindi la
disparità di trattamento tra terreni edificabili e terreni edificati era costituzionalmente
illegittima (ciò accadeva nel 1980).
Il legislatore provvisoriamente lasciò in piedi la legge del 1971 dichiarata illegittima,
promettendo futuri conguagli.
Si arriva nel 1983 senza nessuna nuova legge e senza conguagli: allora la Corte
Costituzionale, nuovamente investita della questione sentenziò l’illegittimità costituzionale
della legge che predisponeva un conguaglio, perché eludeva una sentenza della Corte (quella
del 1980 che ne aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale).
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Cosa si poteva fare? La legge del 1971 era stata tacciata di incostituzionalità e quindi ci si
trovava formalmente in una situazione in cui mancava una legge di riferimento: la Corte
Costituzionale però sentenziò che la legge del 1971 non aveva abrogato la legge del 1865,
bensì solamente derogato: abrogando la legge del 1971 tornava quindi in vigore la legge del
1865 che prevedeva un’indennità pari al valore venale.
Tutti gli enti protestarono: allora nel 1992 il Presidente del Consiglio, Amato, con un
decreto delegato rispolverò la legge di Napoli del 1885 dandole ampiezza nazionale.
Vi furono allora molti ricorsi in quanto la legge di Napoli non prevedeva un serio ristoro
(come la Corte Costituzionale aveva previsto che fosse nel caso di espropriazioni, con la
sentenza del 1962). La Corte però modificò il suo atteggiamento, sentenziando che non
fosse il ristoro a dover essere serio, quanto il parametro impiegato: allora sostiene che il
decreto delega del 1992 era costituzionalmente legittimo, ma però ne richiedeva la
provvisorietà.
Il D.p.r. 2001, che contiene l’attuale regolamentazione in tema di espropriazione, consacra,
invece, la legge di Napoli, anche se la Corte aveva sentenziato che la legge del 1992 sarebbe
dovuta essere provvisoria.
Tutti i procedimenti pendenti, quindi, sarebbero stati risolti con la legge di Napoli del 1865,
riprese nel D.p.r. 2001 in quanto ogni legge sull’espropriazione aveva effetto retroattivo.
In più il D.p.r. 2001, che quindi prevede un’indennità calcolato in base a quanto dichiarato
nella dichiarazione dei redditi, dispone che non si possa avere più di quanto dichiarato a fini
ICI e che se non si accetta la proposta amichevole, il la proposta viene automaticamente
abbassata del 40% nel momento in cui si va in corte d’Appello, che è il giudice competente.
PROCEDIMENTO DI ESPROPRIAZIONE
Testo Unico sul procedimento espropriativi, D.p.r. 2001
Imparzialità e buon andamento vengono, in questa circostanza, a configgere tra loro.
• Per il D.p.r. l’opera pubblica deve essere presente in uno strumento di pianificazione
edilizia.
Non si può prevedere un’opera pubblica da realizzarsi a seguito di espropriazione se
non inserendola all’interno di un piano programmatico, a meno che non sia posta in
essere una pluralità di atti attraverso una conferenza di servizi (come è avvenuto, ad
esempio, per le opere olimpiche).
È poi necessaria una dichiarazione di pubblica utilità del terreno che si va ad
espropriare.
In particolare <Il decreto di esproprio può essere emanato qualora:
a) l'opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale, o in un atto di
natura ed efficacia equivalente, e sul bene da espropriare sia stato apposto il vincolo
preordinato all'esproprio;
b) vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità;
c) sia stata determinata, anche se in via provvisoria, l'indennità di esproprio>
Inserimento nella pianificazione, sottoposizione a vincolo preordinato all’esproprio,
dichiarazione di pubblica utilità e determinazione, anche in via provvisoria dell’indennità di
esproprio sono i requisiti che il D.p.r. 2001 pone perché si possa avere espropriazione.
• Bisogna poi procedere alla comunicazione di avvio del procedimento (in quanto
procedimento negativo per il cittadino) nei confronti di coloro che risultino proprietari
dai registri catastali. I registri catastali però hanno funzione solamente dichiarativa, e non
costitutiva, e quindi non sono quasi mai aggiornati. Nel caso di comunicazione dell’avvio di
procedimento a soggetto non proprietario, colui che l’ha ricevuta dovrà informare la PA e
indicare il nuovo proprietario, pena la possibilità di vedersi addebitati i danni. Il privato
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viene quindi a trovarsi onerato di un incarico pubblico per via della pubblica utilità che è
alla base del procedimento.
• Una volta effettuata la dichiarazione di pubblica utilità il proprietario è praticamente,
anche se non formalmente, privato del diritto di sfruttarlo e di alienarlo: il vincolo di
inedificabilità che viene posto sul terreno infatti determina la possibilità esclusiva di
sfruttarlo come terreno agricolo, e contemporaneamente ne rende molto difficile, se non
impossibile, l’alienazione.
• La PA non paga un indennità ulteriore per via del fatto che l’apposizione del vincolo di
inedificabilità comporta in pratica l’impossibilità di servirsi del bene, a meno che entro 5
anni dall’imposizione del vincolo non si arrivi a decreto di espropriazione.
• Un vincolo su di un terreno dura 5 anni: se dopo 5 anni la PA non ha provveduto
all’esproprio vero e proprio (con decreto di esproprio) deve trovare nuovi motivi se vuole
nuovamente imporre il vincolo allo stesso terreno.
• Il T.U. prevede che nel momento in cui è dichiarata l’espropriazione debba essere pagato
l’indennità.
• Il normale procedimento prevedrebbe: programmazione, apposizione del vincolo
dichiarazione di pubblica utilità, espropriazione, costruzione opera pubblica. Ma non sempre
capita così.
• A volte, infatti, la PA dichiara la pubblica utilità del terreno e appone il vincolo, ma dato il
poco tempo costruisce l’opera prima di aver emesso il decreto espropriativi: secondo il
D.p.r. 2001 la PA diviene proprietaria del terreno a titolo originario nel momento in cui
il terreno è irrimediabilmente alterato dalla presenza dell’opera pubblica. Da questo
momento il cittadino ha 5 anni per far valere il proprio diritto al risarcimento. Il principio
adottato in questo caso è quello dell’accessione inversa a seguito di occupazione
acquisitiva, con il proprietario di ciò che sta sopra il suolo che diviene proprietario anche
del suolo stesso. Fino al 1995 vigeva la regola che l’indennità di espropriazione equivalesse
alla somma corrisposta a titolo di risarcimento dei danni nel caso di accessione inversa: la
Corte Costituzionale sentenziò, però, che le due somme non potevano essere identiche,
perché l’occupazione di fatto è un’attività illecita, mentre l’espropriazione è un’attività
lecita: nel primo caso, quindi, la somma da corrispondere sarebbe dovuta essere più alta. Nel
1996 il legislatore determinò che il risarcimento dei danni fosse pari all’indennità di
espropriazione più il 10%, a questo punto la Corte Costituzionale, nonostante la chiara
elusione della sua sentenza, non potè più dire nulla. A ciò si aggiunge il legislatore del 2001
che ha previsto che l’amministrazione qualora abbia occupato un terreno, possa sempre
emettere il decreto di espropriazione e pagare soltanto l’indennità di espropriazione.
Si ricordi che il D.p.r. 2001, sulla base della legge di Napoli, dispone che <L'indennità di
espropriazione di un'area edificabile è determinata nella misura pari all'importo, diviso per
due e ridotto nella misura del quaranta per cento, pari alla somma del valore venale del
bene e del reddito dominicale netto, rivalutato ai sensi degli articoli 24 e seguenti del
decreto legislativo 22 dicembre 1986, n. 917, e moltiplicato per dieci>
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dell’utilizzo della cosa che viene requisita. Inoltre, mentre la requisizione in proprietà è
irreversibile, la requisizione in uso è temporanea.
3. ordini: si distingue tra comandi e divieti. In ogni caso essi limitano la sfera giuridica del
destinatario, però in cambio ne determinano uno scarico dalla responsabilità. Chi riceve un
ordine è infatti tenuto a seguirlo senza per questo essere responsabile, a meno che l’ordine
sia adottato in violazione della legge penale o di un ordine manifestamente illegittimo, che
determina a carico di chi lo riceve un’opposizione alla sua attuazione (ma egli non potrà fare
nulla in caso di conferma per iscritto di tale ordine)
4. ordinanze di necessità ed urgenza: di solito hanno effetti limitativi della sfera giuridica dei
destinatari. Si caratterizzano per il fatto di essere determinati da motivi, come dice il nome,
di necessità ed urgenza. A differenza delle requisizioni in uso o in proprietà, le ordinanze di
necessità ed urgenza non aprono le porte all’indennità. La legge non predetermina in
modo compiuto il contenuto della statuizione in cui il potere può concretarsi. Sembra quindi
che questo potere vada al di là della tipicità dei poteri amministrativi. Per tale ragione la
Corte Costituzionale ha fissato alcuni limiti, come un’adeguata motivazione ed un’efficace
pubblicazione, cui si aggiunge la necessaria limitatezza nel tempo della loro efficacia. Tra
gli esempi più rilevanti di ordinanze troviamo le ordinanze con tingibili e urgenti del
sindaco, le ordinanze di pubblica sicurezza e le ordinanze che possono essere adottate per
ragioni sanitarie o di igiene pubblica. Le ordinanze (con contenuto variabile e non tipizzato)
non vanno confuse con i provvedimenti d’urgenza, che hanno contenuto predeterminato dal
legislatore.
5. Confisca: provvedimento sanzionatorio che però si attua attraverso uno strumento ablatorio,
essa è infatti la conseguenza di un illecito amministrativo e determina la sottrazione dalla
disponibilità del reo di un bene.
6. sequestro: provvedimento ablatorio di natura cautelare, mira in genere a salvaguardare la
collettività dai rischi derivanti dalla pericolosità del bene.
PROVVEDIMENTI SANZIONATORI
Si avrà emanazione di un provvedimento sanzionatorio quando un soggetto porrà in essere un
comportamento in contrasto con l’ordinamento. Sarà la legge a stabilire quando ci sarà
comminazione di una sanzione a seguito di una violazione di un precetto, e sarà sempre la legge
a stabilire quando si tratterà di una sanzione amministrativa e quando, invece, di una sanzione
penale (ammenda o multa). La sanzione costituisce quindi la misura retributiva nei confronti del
trasgressore.
Attualmente si assiste ad un procedimento di depenalizzazione della maggior parte delle violazioni
amministrative (in passato la violazione degli statuti regionali era reato penale).
Non è sanzione la misura, di carattere preventivo e cautelare, che non presuppone l’accertamento
della violazione della legge, a meno che non sia fondata sull’accertato pericolo della violazione
della stessa da parte del soggetto.
Non è sanzione la dichiarazione di nullità o la rimozione dell’atto invalido.
Non è sanzione la reintegrazione dello stato antecedente all’atto se ad essa non si accompagna
nessuna finalità afflittiva.
Sono amministrative le sanzioni, residuali perché non sono né sanzioni civili né sanzioni penali, che
vengono comminate nell’esercizio della potestà amministrativa come conseguenza di un
comportamento assunto da un soggetto in violazione di una norma o di un precetto
amministrativo.
Le sanzioni amministrative possono essere pecuniarie ed interdittive.
Sono sanzioni disciplinari quelle che colpiscono soggetti che si trovino in un peculiare rapporto con
l’amministrazione (in particolare i dipendenti).
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POTERI DICHIARATIVI
Tra i vari poteri dell’amministrazione vi è quello di pronunciare esternazioni che rafforzano una
situazione giuridica preesistente (dopo che sia stata correttamente accertata) o che sono tali da
attribuire certezza giuridica ad un dato (fatto, atto, stato, qualità o rapporto). Atti di questo tipo sono
i c.d. atti di certazione, che rafforzano la situazione esistente e le danno connotazione di
certezza legale.
Documento tipico attraverso il quale gli atti di certazione vengono messi in circolazione sono i
certificati.
Da certazioni e certificati occorre distinguere gli attestati che sono atti amministrativi tipici, ma
insuscettibili di creare la medesima certezza legale creata dalle certazioni e che, a differenza dei
certificati, non mettono in circolazione una certezza creata dall’atto di certazione.
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espressioni della soggettività di colui che le pone in essere. Per tale motivo il giudice potrà
sindacare una valutazione tecnica non solo nella forma, ma anche nel contenuto.
L’art. 17 l 241/90 dispone inoltre che <Ove per disposizione espressa di legge o di regolamento sia
previsto che per l'adozione di un provvedimento debbano essere preventivamente acquisite le
valutazioni tecniche di organi od enti appositi e tali organi ed enti non provvedano o non
rappresentino esigenze istruttorie di competenza dell'amministrazione procedente nei termini
prefissati dalla disposizione stessa o, in mancanza, entro novanta giorni dal ricevimento della
richiesta, il responsabile del procedimento deve chiedere le suddette valutazioni tecniche ad altri
organi dell'amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione e
capacità tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari>
A differenza di quanto avviene con i pareri obbligatori, quindi, il responsabile del procedimento
che, dopo aver richiesto la valutazione tecnica ad un organo o ad un ente apposito non riceva
risposta entro il termine fissato dalla disposizione o dalla legge (90 gg e non 45 come per i pareri),
non può procedere a prescindere dalla valutazione tecnica stessa, ma deve rivolgersi ad organi
dell’amministrazione o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica
equipollenti per ottenere una loro valutazione tecnica.
Un ulteriore rafforzamento del principio di infungibilità è dettato nel caso di valutazione tecnica
da effettuarsi a cura di enti od organizzazioni preposti alla tutela dell’ambiente, del paesaggio,
del territorio o della salute pubblica: in questo caso, infatti, il responsabile non può non
attendere la valutazione tecnica che essi devono formulare (non potendo quindi rivolgersi ad
altri enti o organi amministrativi). Si parla in questa circostanza di infungibilità della valutazione
tecnica.
È sempre possibile che l’organo o l’ente incaricato di formulare la valutazione tecnica faccia
richiesta di una proroga per esigenze istruttorie: in questo caso si applica quanto detto a riguardo
della formulazione dei pareri.
AUTOCERTIFICAZIONE
La legge 241/90, richiamando una legge del 1968, prevede l’entrata in funzione di un meccanismo
di dichiarazioni sostitutive di certificazione: la dichiarazione del cittadino sostituisce in questo
modo, in molti casi, un certificato normalmente rilasciato dalla PA (titolo di studio, stato di
famiglia, residenza), anche solo se rilasciata su carta libera.
In questo modo il controllo che la PA effettuava prima di rilasciare tali certificazioni è stato
posticipato al momento successivo alla ricezione delle autocertificazioni.
Un altro ambito molto importante delle autocertificazioni è quello relativo alle dichiarazioni
sostitutive dell’atto di notorietà: attraverso tale dichiarazione l’interessato dichiara stati o qualità
riguardanti sé medesimo o altro soggetto di cui abbia conoscenza. In particolare nel caso di
documenti presentati in copia, l’interessato dichiarerà che essa è, per quanto egli possa dire,
conforme all’originale.
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