Docsity Semiografia Musicale
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Premessa
Bibliografia
Nel mondo classico, le notazioni musicali furono essenzialmente alfabetiche: in entrambi i sistemi della
tradizione greca a noi noti, lo strumentale e il vocale, i simboli grafici atti a denotare l’altezza dei suoni erano
perlopiù lettere, disposte in posizioni diverse a indicarne le possibili alterazioni, oppure intercalate ad altri segni
convenzionali, relativi al parametro della durata. I Romani sostituirono via via ai caratteri ionici quelli del
proprio alfabeto, che da quindici (dalla “A” alla “P”) diventarono infine sette intorno al IX secolo. Frattanto,
con la diffusione del canto gregoriano, si affermavano sempre più i neumi, sorta di derivazioni evolutive dagli
accenti quantitativi e dai simboli della prosodia latina, e remoti antenati, a loro volta, delle note che ancor oggi
sono in uso. Nel nostro appunto, perdurantemente attuale sistema standard, la presenza e funzione
dell’originario fattore logosemeiotico quale mezzo di de- notazione dell’altezza (ossia della frequenza) sonora è
del tutto venuta meno, ma è si è sviluppata un’area d’utilizzo degli elementi verbali che, dapprima circoscritta
all’aspetto agogico, a partire dalla seconda metà del Settecento si è vieppiù estesa anche al dinamico e
all’espressivo. Il che comporta, in una prospettiva d’ermeneusi filosofica (post-)analitica, alla riflessione di
Nelson Goodman una duplice serie di difficoltà e incongruenze, fra loro collegate.
La questione preliminare inerisce alla risaputa ripartizione delle tipologie artistiche fra autografiche e
allografiche: le une (per esempio, dipinti e sculture lapidee) la cui identità è connessa in maniera stringente alle
rispettive condizioni di creazione e conservazione nel tempo, al supporto fisico e all’inestricabile intimo
connubio di forma e materia (si ricordi Cesare Brandi), sicché presuppongono l’esistenza di un “originale”,
oggetto unico e irripetibile dotato perciò, secondo Walter Benjamin, di “aura”; le altre pensiamo alle opere
letterarie e musicali che, invece, non implicano affatto il problema dell’“autenticità”, essendone possibile, senza
che vi sia falsificazione o perdita d’identità, la produzione e replicazione in un numero infinito di esemplari, tra
ognuno dei quali non si dà alcuna sostanziale differenza. Un melodramma e una sonata pianistica, però, benché
allografiche al pari di un romanzo o un racconto, non constano soltanto di una pagina scritta, di uno “spartito”,
ma trovano il loro compimento ed estrinsecazione precipua nell’esecuzione; ognuna delle quali, ça va sans dire,
è inevitabile che sia diversa dall’altra, dipendendo da fattori non omologabili né interamente controllabili.
Nondimeno, queste opere restano sempre le medesime, e come tali sono ravvisate dagli ascoltatori-spettatori:
ciò avviene perché, secondo Goodman, esse possiedono un’identità a “istanza multipla”, che consente al
percepente di riconoscerle attraverso le innumeri potenzialità d’interpretazione.
La prima delle difficoltà cui accennavo è legata alla progressiva crescita sotto il profilo sia della quantità, sia
della rilevanza della sfera logosemeiotica nelle partiture musicali, principiata negli ultimi decenni del XVIII
secolo e accentuatasi soprattutto in coincidenza dell’epoca romantica: quando, in conformità a un’incipiente
tendenza all’iper-codificazione, non solo si allargò a dismisura il vocabolario delle indicazioni agogiche, ma si
sviluppò una terminologia di “prescrizioni” dinamiche ed espressive dalla vastissima e inesauribile casistica.
Dunque, ai tradizionali e invalsi «allegro», «andante» e «adagio», si aggiunsero precisazioni complementari
(«allegro vivace», «andantino mosso» etc.) relative al tempo o velocità di movimento dei brani, e ulteriori
diciture la cui minuziosità si accompagnava alla totale soggettività e a un’inversamente proporzionale
razionalità funzionale: da un «con la massima intensità» a «sempre diminuendo fino a spegnersi», da
«affettuoso» ad «amabile», da «appassionato» ad «agitato», sino agli ironici e ineffabili estremi di un Satie, che
non si peritava di chiedere al suo interprete di suonare «avec une légère intimité», «sans orgueil», «sur la
La scrittura musicale ha una funzione importantissima: fissa l'altezza assoluta dei suoni e le loro durate.
La prassi della scrittura musicale fu un fenomeno molto tardivo rispetto alla nascita della pratica musicale. Nel
mondo greco la musica era tramandata oralmente e tale pratica rimase in uso fino ai primi secoli dell’era
cristiana.
Nel medioevo l'esigenza di avere una scrittura musicale, come la intendiamo oggi, si rivelò relativamente tardi.
Il canto gregoriano nasceva spontanenamente dalla parola del testo sacro, la struttura melodica era suggerita
dalle parole dei canti da intonare e l'altezza e la durata erano determinati dall'intonazione del testo sacro.
Ad interessarsi del problema furono i teorici che volevano stabilire un rapporto tra la musica latina e quella
greca.
Severino Boezio fu il primo trattatista del medioevo che impiegò le lettere dalla A alla P per indicare i punti di
suddivisione del monocordo di Pitagora.
La notazione si definì con Oddone da Cluny il quale applicò le lettere dell'alfabeto al sistema perfetto dei greci.
Tale notazione è ancora usata nei paesi anglosassoni.
La scrittura più importante fu la notazione neumatica, nella quale ci sono pervenuti i canti del repertorio
liturgico.
i neumi sono dei segni grafici, posti sulle sillabe del testo, senza nessuna linea che ne fissi l'altezza (per questo
sono detti neumi in campo aperto).
Tra i sec. VII-IX, la rapida diffusione del canto gregoriano favorì la notazione neumatica. Il valore di questa
scrittura era mnemonico, ciè serviva per ricordare ai cantori, aiutati dal magister che con i gesti della mano. tale
scrittura è definita chironomica.
I neumi fondamentali sono: virga (una nota ascendente), punctum (nota discendente), pes (due note ascendenti),
clivis (due note discendenti), scandicus (tre note ascendenti), climacus (tre note discendenti) e porrectus (tre
note ascendeti-discendenti). questi neumi erano combinati tra di loro formando gruppi articolati. Ogni scuola
europea adottava una sua grafia. Ricordaimo S. Gallo, Chatre, Mets.
Quanto al ritmo solo nel sec. XII si inizi a sentire l'esigenza, per due ragioni principali: la nascita dell forme
polifoniche e lo sviluppo della monodia popolare.
Si iniziarono ad usare i Modi ritmici, ripresi dalla tradizione greca, basati sulla combinazine di tempi lunghi e
tempi brevi e che dalla metrica greca riprendevano i nomi: trocheo, giambo, dattilo, anapesto, spondeo, tribaico.
A differenza dei modi greci, i modi ritmici latini erano solo ternari, perchè il tre è il simbolo della trinità.
La teoria dei modi ritmici risultava insufficiente e pertanto si svilupperà la notazione mensurale con Francone
da Colonia e il suo "Ars Cantus mensurabilis". Il principio di questa notazione è quello di allargare le
possibilitàè offerte dalla teoria dei modi ritmici. Oltre alla longa e alla brevis, Francone introdusse altri due
valori: la maxima o duplex longa e la semibrevis.
Combinando quattro valori e scomponendoli in due oppure tre più piccoli, era possibile ottenere combinazioni
ritmiche maggiori. La polifonia fu determinante per lo sviluppo della scrittura musicale: nel 1300 in Francia fu
introdotta la minima che compare per la prima volta in un trattato di Philippe de Vitry.
Le suddivisioni fondamentali che si potevano ottenere erano principalmente 3:
MODUS: divisione della longa in 3 brevi (modus perfectus)
TEMPUS: divisione della brevis in 3 semibrevis (tempus perfetum) o in 2 brevi (tempus imperfectum)
PROLATIO: divisione della semibrevis in 3 minime (prolatio major) o in 2 minime (prolatio minor).
Ci sono delle considerazioni da fare: le suddivisioni ternarie erano ritenute perfette mentre quelle binarie
imperfette. Inoltre, la notazione antica era mensurale ma non isometrica, cioè non conosceva le battute
concepite come ugulai per numero di movimenti.
Il pentagramma è figlio del Rinascimento, rimasto invariato fino ai nostri giorni, e dobbiamo la sua adozione al
grande teorico Gioseffo Zarlino.
Anche le Chiavi utilizzate da Guido d'Arezzo hanno subito delle modifiche nel corso dei secoli:
Come si è detto, almeno la prima metà del settecento fu interessata sul piano stilistico dall’ultima fase del barocco,
lungo la quale l’uso del basso continuo era ancora regolare, se non altro nei contesti che non precorrevano l’avvento
del classicismo.
La “Passione secondo Giovanni” è una composizione della prima metà del settecento. Il recitativo, in quest’epoca,
Inizio del secondo brano delle Davidsbündlertänze per pianoforte di Robert Schumann (1810 - 1856)
La tonalità d’impianto del brano è si minore (il che comporta naturalmente la presenza di due diesis in chiave). Si
noti che l’unico strumento traspositore del quintetto è il clarinetto in la: la sua parte, quindi, è scritta in tonalità di
re minore, in maniera che l’effetto tonale dell’esecuzione sia appunto si minore. Si osservi, inoltre, che la notazione
degli strumenti più gravi del quartetto d’archi, la viola e il violoncello, è contraddistinta rispettivamente dalla chiave
di contralto e dalla chiave di basso.
Si tratta di una composizione destinata all’orchestra sinfonica. La tonalità d’impianto è fa maggiore (1 bemolle
in chiave). In partitura si ritrovano le caratteristiche notazionali dei vari strumenti: ad esempio l’uso delle
chiavi e delle tonalità trasposte. Gli strumenti (dall’alto): ottavino (Kleine Flöte = flauto piccolo), 2 flauti, 2
oboi, 2 clarinetti in si bemolle (la lettera B nella notazione alfabetica tedesca, come già ricordato a pag. 12,
esprime il si bemolle), due fagotti, quattro corni (di cui il primo e il secondo in re, il terzo e il quarto in fa), due
trombe in re, tre tromboni (Posaune = trombone), un basso tuba, timpani (Pauken) in re e la, primi violini,
secondi violini, viole (Bratsche = viola), violoncelli, contrabbassi.
Anche sul piano della notazione musicale il novecento è una fucina inesauribile di innovazioni e sperimentazioni,
spesso conseguenze dell’inquieta ricerca di nuovi linguaggi che possano costituire un’alternativa credibile al
linguaggio tonale. Le tecniche seriali, inaugurate a Vienna dalla Dodecafonìa di Schönberg, Berg e Webern, hanno
ricoperto un ruolo significativo almeno nella prima metà del novecento, seppur messe seriamente in discussione per il
loro essere “inorganiche” da personalità d’autorevolezza assoluta come Wilhelm Furtwängler.
La Scuola di Darmstadt, nel cuore del secolo, è stata un crocevia di fondamentale importanza per l’evoluzione dei
linguaggi musicali in divenire e per la nascita di nuovi idiomi. Aspetti davvero peculiari del novecento, inoltre, sono
la ricerca e la sperimentazione attuate individualmente dagli autori proprio sui fronti linguistici, che hanno portato
spesso ad apparati notazionali ampiamente personalizzati, al punto che per molte opere di compositori del novecento
(Stockhausen, Boulez, Sciarrino, Penderecki…), nelle rispettive edizioni a stampa, si rende necessaria la presenza di
istruzioni per la corretta interpretazione dei segni e dei simboli impiegati.
In tutto ciò il ruolo della scrittura strumentale è di enorme importanza, poiché anche su questo versante il novecento
è stato un secolo di formidabili evoluzioni: le tecniche strumentali, in generale, hanno incrementato
abbondantemente il loro bagaglio e i compositori hanno sfruttato a fondo tutte le nuove risorse disponibili.
Si noti l’assenza di pentagramma: in questo caso si potrebbe tornare a parlare di “notazione adiastematica”.
La notazione musicale contemporanea, aspetti semiotici estetici, Andrea Valle, EDT, 2003.
Volume 1 di Storia della musica occidentale, Mario Carrozzo e Cristina Cimagalli, Armando Editore, 2001.