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modifica L'agguato

La tecnica utilizzata per l'agguato fu quella denominata "a cancelletto", che le Brigate Rosse copiarono
dall'organizzazione terroristica tedesca RAF. La tecnica comporta l'accerchiamento di una colonna di automobili
attraverso il blocco di quella di testa, immobilizzando poi la colonna bloccando l'auto di coda. Perché l'azione riesca, è
necessario parcheggiare altre auto nel punto dove si svolge l'agguato, per chiudere le vie di fuga laterali.

La colonna con Aldo Moro era composta da sole due auto: quella su cui viaggiava lo statista e quella di scorta, che lo
seguiva. Il piano venne attuato da 11 persone (come emerse dalle indagini giudiziarie, ma il numero e l'identità dei reali
partecipanti è stato messo più volte in dubbio ed anche le confessioni dei brigatisti sono state contraddittorie su alcuni
punti).[2]

Alle 8.45 gli uomini del commando BR, che indossavano uniformi da avieri civili,[3] si disposero all'estremità di via
Mario Fani, una stretta strada in discesa nel quartiere Trionfale, all'incrocio con via Stresa. Mario Moretti si appostò
nella parte alta della strada, sul lato destro, alla guida di una Fiat 128 con targa falsa del Corpo diplomatico. Davanti alla
macchina di Moretti si posizionò un'altra Fiat 128 con a bordo Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. Entrambe le auto
erano rivolte in direzione dell'incrocio.

Sul lato opposto venne parcheggiata una terza Fiat 128, alla cui guida vi era Barbara Balzerani, rivolta invece che verso
via Stresa, nella direzione di provenienza dell'auto di Moro. A qualche metro dall'incrocio con via Fani, lungo via
Stresa, era posizionata la quarta e ultima auto, una Fiat 132 blu guidata da Bruno Seghetti. Il gruppo di fuoco, composto
da quattro persone, era nascosto dietro le siepi di una giardino che fiancheggia la strada.

Moro uscì dalla sua casa, in viale del Forte Trionfale, poco prima delle 9.00, salendo su di una Fiat 130 blu, alla cui
guida vi era l’appuntato Domenico Ricci e, seduto accanto a lui, il maresciallo Oreste Leonardi, capo scorta, considerato
la guardia del corpo più fidata. La 130 era seguita da un'Alfetta bianca, con a bordo gli altri uomini che componevano la
scorta: il vice brigadiere Francesco Zizzi e gli agenti di polizia Giulio Rivera e Raffaele Iozzino.

L'agguato scattò non appena il convoglio su cui viaggiava Moro imboccò via Fani dall'alto, dirigendosi verso il basso e
fu Rita Algranati a segnalare l'arrivo delle due auto, con un mazzo di fiori.

La macchina di Moretti si mise davanti all'auto di Moro e, giunta all'incrocio, si arrestò di colpo in mezzo alla strada (In
base alla testimonianza di Valerio Morucci, smentita nella successiva perizia della Polizia Scientifica, l'auto aveva i
segnali di frenata disattivati, in quanto erano stati tagliati i fili elettrici che collegavano le lampadine).senza fonte e la 130
con all'interno Aldo Moro si fermò dietro all'auto di Moretti, trovandosi bloccata dall'Alfetta della scorta, che la stava
seguendo a breve distanza. Ricci tentò di farsi largo, ma una Mini Minor parcheggiata all'incrocio impedì qualsiasi
manovra di fuga. La macchina di Moro e quella della scorta furono quindi intrappolate dalla 128 di Lojacono e
Casimirri, che si mise di traverso dietro l'auto della scorta di Moro.

A questo punto entrò in azione il gruppo di fuoco: da dietro le siepi sbucarono quattro uomini sparando con mitragliette
automatiche. Dalle indagini giudiziarie questi vennero identificati in: Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero
Gallinari e Franco Bonisoli. L'azione si ispirò a un'analoga tecnica della RAF, i terroristi di estrema sinistra tedesca. C'è
chi avrebbe udito una donna con accento tedesco urlare ad alcuni passanti di affrettarsi a fuggire da via Fani,senza fonte il
che lascerebbe presupporre una presenza logistica della RAF "in loco".[4]

Furono sparati in tutto 91 colpi, 45 dei quali colpirono mortalmente gli uomini della scorta, e 49 di questi vennero
esplosi da una stessa arma, 22 da una seconda arma del medesimo modello (entrambe erano delle pistole mitragliatrici
F.N.A-B Mod.1943) ed i restanti 20 dalle altre 4 armi (tra le quali vi era una Beretta M12).[5] I primi a cadere, dopo che
vennero infranti i vetri anteriori della 130, furono Ricci e Leonardi, seduti sui sedili anteriori, quindi Moro fu prelevato
e costretto a salire sulla Fiat 132 blu guidata da Seghetti, che si era affiancata alla vettura di Moro. Una donna lo sentì
esclamare:

Mi lascino andare! Cosa vogliono da me?


Contemporaneamente i terroristi uccisero i tre poliziotti dell'auto di scorta, Iozzino, Rivera e Zizzi ed ognuno di loro fu
finito con un colpo alla nuca. Solo Iozzino ebbe il tempo di sparare due colpi, ma fu subito freddato dagli assalitori,
precisamente da Franco Bonisoli, con un colpo sparatogli alle spalle.

La 132 con a bordo il sequestrato fu vista fuggire lungo via Trionfale, via Carlo Belli e via Marcello Casale De Bustis,
venendo ritrovata alle 9.40 in via Licinio Calvo, con macchie fresche di sangue all'interno. Anche le altre vetture
impiegate nell'agguato, la Fiat 128 bianca e quella blu, furono poi ritrovate nei giorni successivi nella stessa via e,
secondo le testimonianze dei brigatisti, queste furono parcheggiate nella via nelle ore successive all'agguato, anche se
tale versione risultò incompatibile con il ritrovamento effettuato in giorni diversi[6].

Immediatamente la notizia dell'agguato si diffuse in ogni angolo del paese. Le attività quotidiane furono bruscamente
sospese: a Roma i negozi abbassarono le saracinesche, in tutte le scuole d'Italia gli studenti uscirono dalle aule
scolastiche, mentre le trasmissioni televisive e radiofoniche furono interrotte da notiziari in edizione straordinaria.
L'agguato ed il rapimento furono rivendicati circa 48 ore dopo dalle Brigate Rosse, con il primo dei nove comunicati
che esse inviarono durante i 55 giorni del sequestro.

modifica L'obiettivo delle Brigate Rosse

Chi è Aldo Moro è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino a oggi il gerarca più
autorevole, il "teorico" e lo "stratega" indiscusso di questo regime democristiano che da trenta anni opprime il popolo
italiano [...] la controrivoluzione imperialista [...] ha avuto in Aldo Moro il padrino politico e l'esecutore più fedele
delle direttive impartite dalle centrali imperialiste. »
Brigate Rosse, Primo Comunicato)

Si è detto che Moro fu rapito perché con lui le Brigate Rosse volevano colpire l'artefice della solidarietà nazionale, e
dell'avvicinamento tra DC e PCI, la cui espressione fu il governo Andreotti IV. L'ottica delle BR, in realtà, era un po'
diversa: il rapimento in effetti non fu realizzato per colpire il regista di quella fase politica. Il loro scopo era più generale
e rientrava nella loro particolare analisi di quella fase storica: colpire la DC (regime democristiano), cardine in Italia
dello Stato imperialista delle multinazionali (SIM), mentre il PCI rappresentava non tanto il nemico da attaccare quanto
un concorrente da batteresenza fonte. Nell'ottica brigatista, infatti, il successo della loro azione avrebbe interrotto la "lunga
marcia comunista verso le istituzioni", per affermare la prospettiva dello scontro rivoluzionario e porre le basi del
controllo BR della sinistra italiana per una lotta contro il capitalismo. In questo il loro obiettivo di lotta al capitalismo
era simile a quello della RAF tedesca, come venne indicato in seguito nella ricostruzione del rapimento, fatta nel
fumetto pubblicato dalla rivista "Metropolis"[7], ove viene fatto un parallelo con il sequestro Hanns-Martin Schleyer,
conclusosi anch'esso con l'uccisione del prigioniero.

Stando a quanto ha dichiarato successivamente Mario Moretti, per le BR era rilevante che Moro fosse presidente della
DC e che fosse da trent'anni al governo senza fonte. Sembra, inoltre, che nei mesi precedenti il rapimento di Moro le BR
avessero anche studiato la possibilità di rapire il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, ma che poi avessero
abbandonato questa opzione perché questi godeva di una protezione di polizia troppo forte per le capacità dei brigatisti.
Secondo questa ipotesi dunque, era uguale per le Brigate Rosse rapire Moro o Andreotti: l'importante era colpire un
simbolo del potere[8].

Le conseguenze politiche del rapimento di Moro furono da un lato l'esclusione del PCI da ogni ipotesi di governo per gli
anni successivi, e dall'altro un ridisegno del cosiddetto "regime democristiano": la DC di Andreotti rimase partito di
governo fino al 1992, anno di tangentopoli, partecipando sempre a maggioranze che lasciarono il PCI all'opposizione,
ma queste politiche tuttavia portarono dal 1981, col primo Governo Spadolini ad avere alternanze di presidenti del
consiglio democristiani con altri "laici", rompendo quindi il monopolio democristiano. All'interno del Partito socialista
italiano (PSI), che aveva sostenuto la possibilità di uno scambio di prigionieri per liberare Moro, vinse la linea di
Bettino Craxi per l'esclusione del PCI dal governo, e iniziò una lotta politica con lo stesso per tentare di superarlo nelle
elezioni.
modifica La prigione

Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse

In tempi successivi si ipotizzò che, durante il periodo della detenzione, la "prigione" di Moro fosse conosciuta: si parlò
dell'appartamento, sito in via Gradoli a Roma, utilizzato da Mario Moretti e da Barbara Balzerani, noto da tempo sia alle
istituzioni che alla 'ndrangheta, ma questo era probabilmente troppo piccolo per poter contenere un nascondiglio da
adibire a prigione ed era spesso lasciato incustodito, oltre al fatto che, essendo in affitto, poteva essere soggetto a visite
da parte del padrone di casa.

Durante i processi che seguirono la cattura dei brigatisti risultò dalle loro testimonianze che la prigione del popolo in cui
si trovava Aldo Moro fosse situata in un appartamento di via Camillo Montalcini 8, sempre a Roma, da alcuni anni di
proprietà di uno dei brigatisti, e che ivi sia stato ucciso in un garage sotterraneo. Lo stesso covo pochi mesi dopo venne
scoperto e tenuto sotto controllo dall'UCIGOS, cosa che costrinse i brigatisti, che si erano resi conto di essere pedinati, a
vendere e smantellare l'appartamento entro i primi di ottobre.[9][10][11][12]

Il fratello di Aldo Moro, Carlo Alfredo, magistrato, in un suo libro[13] propone però una teoria secondo la quale l'ultima
prigione di Moro non sarebbe stata quella di via Montalcini, ma sarebbe stata situata nei pressi di una località marina,
basandosi sia sulla sabbia e sui resti vegetali trovati su Moro e sull'auto, sia sulle incongruenze dei tempi tra quanto
dichiarato dai brigatisti e quanto rilevato dall'autopsia. Inoltre, sia secondo Carlo Alfredo Moro che altri, le conclusioni
dell'autopsia sul corpo, che fu trovato in buone condizioni fisiche, soprattutto in merito al tono muscolare generale,
lascerebbero supporre che Moro abbia avuto, durante la detenzione, una certa libertà di movimento e la possibilità di
scrivere la numerosissima mole di documenti, prodotti durante la prigionia, in una situazione relativamente agevole
(sedia e tavolo), condizione ben lontana da quella che si sarebbe avuta nei pochi metri quadrati concessogli nel covo di
via Montalcini. Questi risultati dell'esame autoptico, unite ad alcune contraddizioni nelle confessioni tardive dei
brigatisti lasciano comunque aperti molti dubbi sul luogo o sui luoghi in cui fu detenuto in prigionia Aldo Moro e sulle
dimensioni anguste della presunta cella nella "prigione del popolo".[14]

modifica Lettere dalla prigionia

Zaccagnini

Durante il periodo della sua detenzione, Moro scrisse 86 lettere [1] ai principali esponenti della Democrazia Cristiana,
alla famiglia ed all'allora Papa Paolo VI (che avrebbe poi presenziato alla solenne messa funebre di Stato nella basilica
di San Giovanni in Laterano, peraltro celebrata senza il feretro dello statista, negato dalla famiglia in polemica con la
conduzione della vicenda). Alcune arrivarono a destinazione, altre non furono mai recapitate e vennero ritrovate in
seguito nel covo di via Monte Nevoso. Attraverso le lettere Moro cerca di aprire una trattativa con i colleghi di partito e
con le massime cariche dello Stato.

È stato ipotizzato che in queste lettere Moro abbia inviato messaggi criptici alla sua famiglia ed ai suoi colleghi di
partito. Non immaginando che i brigatisti la renderanno pubblica, in una lettera inspiegabilmente domanda: Vi è forse,
nel tener duro contro di me, un'indicazione americana e tedesca? (lettera di Aldo Moro su Paolo Taviani senza
destinatario, recapitata tra il 9 ed il 10 aprile ed allegata al comunicato delle Brigate Rosse numero 5); altra ipotesi,
avanzata dallo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, è che nelle lettere medesime Moro avesse l'intenzione di inviare
agli investigatori messaggi sulla localizzazione del covo, per segnalare che esso (almeno nei primi giorni del sequestro)
si trovasse nella città di Roma: "Io sono qui in discreta salute." (lettera di Aldo Moro del 27/3/78, non recapitata a sua
moglie Eleonora Moro).

Nella lettera recapitata l'8 aprile scaglia un vero e proprio anatema: "Naturalmente non posso non sottolineare la
cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi
salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in
questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse?
Bisognerebbe dire a Giovanni che significa attività politica. Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io
chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo
immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro".
Dubbi sono stati avanzati circa la completa pubblicazione di queste lettere; il generale dei Carabinieri Carlo Alberto
Dalla Chiesa (successivamente ucciso dalla mafia) trovò copie di alcune lettere ancora non note in una casa che i
terroristi utilizzavano a Milano (noto come covo di via Monte Nevoso) e, per qualche altrettanto ignoto motivo, questo
recupero fu effettuato solo molti anni dopo.

L'opinione del mondo politico di allora riteneva, tuttavia, che Moro non avesse piena libertà di scrittura. Nonostante la
moglie di Moro affermi, durante la deposizione al processo delle BR, di riconoscere lo stile di suo marito, le lettere
sarebbero state da considerarsi se non dettate quantomeno controllate o ispirate dai brigatisti. Anche appartenenti al
comitato di esperti voluto da Cossiga, tra cui il criminologo Ferracuti, in un primo tempo affermarono che Moro era
stato sottoposto a tecniche di lavaggio del cervello da parte delle BR[15][16]. Cossiga ammetterà tuttavia anni dopo di
essere stato lui a scrivere parte del discorso tenuto da Giulio Andreotti in cui si affermava che le lettere di Moro erano
da considerarsi non "moralmente autentiche"[17].

Alcune affermazioni di Moro nelle lettere, per esempio quelle in cui parla di scambi di "prigionieri", al plurale, fanno
supporre che le Brigate Rosse gli avessero lasciato intendere di non essere l'unica persona sequestrata. È possibile che lo
statista ritenesse che anche alcuni uomini della sua scorta o forse altre personalità rapite altrove, fossero nelle sue
medesime condizioni e che quindi gli eventuali tentativi di accordo per la liberazione che cercava di portare avanti
dovessero riguardare tutti gli ipotetici sequestrati.[18]

modifica I comunicati e la trattativa

Muro con manifesto appeso all'indomani del rapimento

Durante i 55 giorni del sequestro Moro le Brigate rosse recapitarono nove comunicati con i quali, assieme alla
risoluzione della direzione strategica, ossia l'organo direttivo della formazione armata, spiegarono i motivi del
sequestro; questi erano documenti lunghi ed a volte poco chiari. Nel comunicato numero 3 si lesse:

L'interrogatorio, sui contenuti del quale abbiamo già detto, prosegue con la completa collaborazione del
prigioniero. Le risposte che fornisce chiariscono sempre più le linee controrivoluzionarie che le centrali imperialiste
stanno attuando; delineano con chiarezza i contorni e il corpo del "nuovo" regime che, nella ristrutturazione dello
Stato Imperialista delle Multinazionali si sta instaurando nel nostro paese e che ha come perno la Democrazia
Cristiana. »

Ed ancora:

Moro è anche consapevole di non essere il solo, di essere, appunto, il più alto esponente del regime; chiama
quindi gli altri gerarchi a dividere con lui le responsabilità, e rivolge agli stessi un appello che suona come
un'esplicita chiamata di "correità". »

Le Brigate Rosse proposero, attraverso il comunicato n. 8, di scambiare la vita di Moro con la libertà di alcuni terroristi
in quel momento in carcere, il cosiddetto "fronte delle carceri", accettando persino di scambiare Moro con un solo
brigatista incarcerato, anche se non di spicco, pur di poter aprire trattative alla pari con lo Stato[19]. Un riconoscimento
venne comunque ottenuto quando papa Paolo VI, amico personale di Moro, in data 22 aprile rivolse un drammatico
appello pubblico col quale supplicava "in ginocchio" gli "uomini delle Brigate Rosse" di rendere Moro alla sua famiglia
ed ai suoi affetti, specificando tuttavia che ciò doveva avvenire "senza condizioni".[20]

La politica si divise in due fazioni: il cosiddetto fronte della fermezza, che rifiutava qualunque ipotesi di trattativa, ed il
fronte possibilista, che comprendeva anche Bettino Craxi), incline a ritenere che un eventuale avvicinamento, allo scopo
di intavolare una trattativa per salvare la vita dello statista, non avrebbe svilito la dignità dello Stato.
Secondo il fronte della fermezza, la scarcerazione di alcuni brigatisti avrebbe costituito una resa da parte dello Stato,
non solo per l'acquiescenza a condizioni imposte dall'esterno, ma per la rinuncia all'applicazione delle sue leggi ed alla
certezza della pena; una trattativa coi rapitori inoltre avrebbe potuto creare un precedente per nuovi sequestri,
strumentali al rilascio di altri brigatisti, od all'ottenimento di concessioni politiche, e, più in generale, una trattativa con i
terroristi avrebbe rappresentato un riconoscimento politico delle Brigate Rosse; di contro la linea del dialogo avrebbe
aperto alla possibilità di una rappresentanza partitica e parlamentare del loro braccio armato, e posto questioni di
legittimità in merito alle loro richieste. I metodi intimidatori e violenti, e la non accettazione delle regole basilari della
politica, ponevano il terrorismo al di fuori del dibattito istituzionale, indipendentemente dal merito delle loro richieste.

Prevalse il primo orientamento, anche in considerazione del gravissimo rischio di ordine pubblico e di coesione sociale
che si sarebbe corso presso la popolazione, ed in particolare, presso le forze dell'ordine, che in quegli anni avevano
pagato un tributo di sangue già insostenibile a causa dei terroristi[21].

L'epilogo anticipò comunque una presa di posizione definitiva dei governanti.

Alcuni autori, tra cui il fratello di Moro nel succitato saggio, fanno notare alcune apparenti incongruenze nei comunicati
delle BR.

Un primo punto riguarda l'assenza di riferimenti al progetto di Moro di apertura del governo al PCI, questo nonostante il
fatto che il rapimento fosse stato effettuato lo stesso giorno in cui questo governo doveva formarsi, e nonostante
l'esistenza di comunicati precedenti e successivi agli eventi dove vi erano espliciti riferimenti e dichiarazioni di
contrarietà al progetto da parte dei brigatisti. Anche una lettera indirizzata a Zaccagnini da parte di Moro, con un
riferimento al progetto, venne fatta riscrivere in una forma in cui questo era omesso.[22]

Un secondo punto riguarda le continue rassicurazioni date nei comunicati da parte dei brigatisti secondo i quali tutto ciò
che riguardava il "processo" a Moro ed i suoi interrogatori sarebbe stato reso pubblico. Tuttavia, mentre nel caso di altri
rapimenti, come quello del giudice Giovanni D'Urso, addetto alla direzione generale degli affari penitenziari, questa
diffusione del materiale era stata effettuata, anche senza essere ribadita in maniera così forte e con materiale ben meno
importante, nel caso Moro questa diffusione non si ebbe mai, e solo con la scoperta del covo di via Monte Nevoso a
Milano diverrà pubblicamente noto, inizialmente in una versione ridotta, il memoriale Moro (presente solo in fotocopia)
e alcune lettere inizialmente non diffuse. Gli stessi brigatisti hanno affermato di aver distrutto le bobine degli
interrogatori e gli originali degli scritti di Moro, in quanto ritenuti non importanti, nonostante in questi vi fossero
riferimenti a Gladio e la connivenza di parte della DC e dello stato nella strategia della tensione[23], che ben sembrano
identificarsi con il tipo di rivelazioni che le Brigate Rosse andavano cercando.[24]

modifica Il rinvenimento del corpo

Ritrovamento del corpo di Aldo Moro

Dalle deposizioni rilasciate alla magistratura è emerso che non tutto il vertice brigatista fosse concorde con il verdetto di
condanna a morte. Lo stesso Moretti[25] telefonò direttamente alla moglie di Moro la sera precedente l'assassinio dello
statista per premere sui vertici della DC al fine di accettare la trattativa: la telefonata fu ovviamente registrata dalle
Forze dell'Ordine. La brigatista Adriana Faranda citò una riunione notturna tenutasi a Milano e di poco precedente
l'uccisione di Moro, ove ella ed altri terroristi (Valerio Morucci, Franco Bonisoli[26] e forse altri) dissentirono, tanto che
la decisione finale sarebbe stata messa ai voti[27].

Il 9 maggio, dopo 55 giorni di detenzione, al termine di un processo del popolo, viene assassinato per mano di Mario
Moretti, anche se - a tutt'oggi - pare che abbiano partecipato materialmente all'omicidio sia Germano Maccari, che -
forse - Prospero Gallinari (quasi certamente Maccari; con diverse riserve si suppone anche Gallinari)[28]. Il cadavere fu
ritrovato il giorno stesso in una Renault 4 rossa in via Caetani, in pieno centro di Roma.

Secondo quanto affermato dai brigatisti più di un decennio dopo l'omicidio, Moro fu fatto alzare alle 6 di mattina con la
scusa di essere trasferito in un altro covo[29]. Secondo una deposizione di Bonisoli, ennesima incongruenza, a Moro
venne riferito di esser stato graziato e - quindi - liberato, una bugia definita dallo stesso brigatista "pietosa", onde "non
far soffrire inutilmente oltre" lo statista. Venne infilato in una cesta di vimini e portato nel garage del covo di Via
Montalcini. Fu fatto entrare nel portabagagli di una Renault 4 rossa targata Roma N56786 e venne coperto con un
lenzuolo rosso. Mario Moretti allora sparò alcuni colpi prima con una pistola Walther PPK calibro 9mm x 17 Corto e
poi (dopo che la pistola si era inceppata) con una pistola mitragliatrice Samopal Vzor.61 (nota come Skorpion) calibro
7,65mm con cui sparò una raffica di 11 colpi che perforarono i polmoni del presidente democristiano, uccidendolo (per
molti anni, fino alla confessione di Moretti, si pensava che a sparare fosse stato Prospero Gallinari). Alcune
incongruenze riguardano le modalità dell'esecuzione: seppur la pistola che inizialmente venne adoperata per sparare a
Moro poteva esser silenziata, difficilmente lo poteva essere la mitraglietta, in quanto il silenziatore non permette la
soppressione totale del rumore.

Roma, Via Caetani: la targa in ricordo di Aldo Moro nel luogo del ritrovamento del corpo

Poi, una volta eseguito il delitto, l'auto con il cadavere di Moro fu portata in Via Caetani, senza effettuare soste
intermedie, vicino alla sede della D.C. e del P.C.I., dove fu lasciata parcheggiata circa un'ora dopo. Poi verso le 12:30
venne effettuata una telefonata al professor Francesco Tritto (l'assistente di Moro)[30] perché annunciasse alla famiglia
dove trovare il corpo (seguendo la richiesta espressa precedentemente da Moro stesso),[31][32] e verso le 13:30, una
telefonata presumibilmente di Valerio Morucci al centralino della Questura aveva avvisato: "In via Caetani c'è un'auto
rossa con il corpo di Moro". Qualche minuto prima delle due, i segretari di tutti i partiti politici sapevano che il cadavere
ritrovato nella Renault rossa targata Roma N56786 era proprio quello di Aldo Moro. La morte risaliva, secondo i
risultati autoptici, tra le 9 e le 10 della mattina stessa[32], orario però incompatibile con la ricostruzione data dai brigatisti
(per cui l'esecuzione sarebbe avvenuta tra le 7 e le 8). È da notare che il buco di alcune ore tra l'abbandono dell'auto
secondo la ricostruzione dei brigatisti e le prime telefonate di rivendicazione sono giustificate dai brigatisti con il fatto
che nessuno dei tentativi di contatto telefonico, per annunciare dove era possibile ritrovare il cadavere, con conoscenti
ed amici di Moro, effettuati prima della telefonata al professor Tritto, era andato a buon fine.[32]

Alcune testimonianze affermano che la macchina sia stata portata in via Michelangelo Caetani nelle prime ore del
mattino, tra le 7 e le 8 e lasciata qui fino a quando gli assassini hanno ritenuto opportuno avvertire. Altre testimonianze,
invece, affermano di aver visto la Renault parcheggiata soltanto intorno alle 12.30 e non prima.

In un angolo del bagagliaio, dalla parte dov'è sistemata la ruota di scorta sulla quale poggiava la testa di Moro, c'erano
anche le catene da neve, e qualche ciuffo di capelli grigi. Ai piedi del cadavere c'era una busta di plastica con un
bracciale e l'orologio.

Il corpo di Moro, quando è stato estratto dagli artificieri, era ripiegato e irrigidito. Indossava lo stesso abito scuro del
giorno del rapimento con la camicia bianca a righine, e la cravatta ben annodata; era macchiato di sangue (ma le ferite
erano approssimativamente state tamponate con dei fazzolettini[33]), e nei risvolti dei pantaloni è stata trovata una
notevole quantità di sabbia e di terriccio e alcuni resti vegetali (i brigatisti sosterranno poi durante i processi di aver
appositamente sporcato le scarpe e i pantaloni di sabbia per depistare eventuali indagini sulla locazione del covo in cui
Moro era tenuto prigioniero[34]). Sotto il corpo e sul tappeto dell'auto c'erano bossoli di cartucce. Furono trovate tracce di
sabbia non solo nel risvolto dei pantaloni, ma anche nei calzini.

Sandro Pertini rende omaggio alla tomba di Aldo Moro (1982)

Il cadavere presentava un'altra ferita, su una coscia, una piaga purulenta mai curata, è probabile che fosse una ferita
d'arma da fuoco ricevuta il giorno dell'agguato di via Mario Fani[35].

Per segnare il decennale della morte di Moro, nell'aprile del 1988, quando già sembrava ormai sconfitto il partito
armato, le Brigate Rosse colpirono ancora, uccidendo, nella sua casa di Forlì il senatore democristiano Roberto Ruffilli,
consigliere di Ciriaco De Mita sul tema delle riforme istituzionali.

Le ipotesi, le indagini e i processi


La strage, il sequestro, la detenzione, i coinvolgimenti e le manovre intorno alle cause ed ai metodi della sua
eliminazione, ancora non sono chiaramente identificabili in tutti i loro dettagli, malgrado parecchi processi e numerose
indagini separate, condotte sia all'interno del paese che a livello internazionale.

Anche, ad esempio, le indagini esperite per verificare eventuali contatti e collegamenti con l'omologa organizzazione
tedesca RAF, che non molto tempo prima aveva realizzato un'azione analoga e dalle inquietanti similitudini (sequestro
dell'industriale tedesco Schleyer, massacro della sua scorta ed infine uccisione dell'ostaggio a seguito di trattative
infruttuose), non ebbero seguito, per quanto l'avvocato Denis Payot venne incaricato dai familiari di Aldo Moro di
tentare una trattativa per la liberazione.

La morte di Moro è stata oggetto di diverse speculazioni e teorie. La stampa ad esempio ipotizzò, a seguito delle
interviste ad alcuni brigatisti catturati, che le BR avessero puntato su Moro ritenendo che l'obiettivo precedentemente
scelto dai terroristi, Giulio Andreotti, risultasse troppo protetto. Lo stesso Andreotti però smentì la fondatezza
dell'assunto, pubblicamente raccontando che ogni mattina abitudinariamente si recava di buon'ora, a piedi e del tutto
solo, a messa in una chiesa vicina alla sua abitazione; come obiettivo, affermò, era anche eccessivamente facile.

Anche il brigatista Valerio Morucci nelle sue deposizioni ai processi Moro ha affermato che l'obiettivo di colpire
Andreotti fu abbandonato non per la protezione di cui lo statista godeva ma per il luogo estramamente centrale di Roma
ove egli abitava che impediva, di fatto, qualsiasi tentativo di fuga del Commando brigatista dopo l'eventuale agguato.
Viepiù la scelta di rapire Aldo Moro con un'azione tanto clamorosa, secondo il Morucci, era dettata dall'impossibilità di
compiere l'azione in altri luoghi frequentati dal presidente della DC. In particolare i brigatisti avevano a lungo progettato
di rapire Aldo Moro nella chiesa dove egli la mattina (intorno alle 8,15 circa) si recava per la preghiera. Stando alle
spiegazioni fornite dal Morucci, l'ingresso e le vie laterali della chiesa davano su una piazza ove era situato un asilo. Ciò
rendeva estremamente problematica l'azione per il grande via vai che c'era: oltre i passanti, infatti, c'erano molti bambini
che, accompagnati dai genitori, si recavano all'asilo. I brigatisti, inoltre, scartarono quasi subito l'ipotesi di rapire Moro
all'Università per il sempre gran numero di studenti presenti.

Cattura e conclusioni dei processi contro i terroristi del caso Moro

Corrado Alunni: Arrestato nel 1978


Marina Zoni: Arrestata nel 1978
Valerio Morucci: Arrestato nel 1979 venne condannato a vari ergastoli. Fu lui a chiamare la famiglia di Moro durante il
sequestro. Rilasciato nel 1994 oggi si occupa di informatica.
Barbara Balzerani: Catturata nel 1985 e condannata all'ergastolo. In libertà vigilata dal 2006.
Mario Moretti: Catturato nel 1981 e condannato a 6 ergastoli. Dal 1994 è in semilibertà e lavora da oltre 14 anni per la
regione Lombardia.
Alvaro Lojacono: Fuggito in Svizzera non ha mai scontato un solo giorno di prigione né per il caso Moro né per
l'omicidio dello studente Miki Mantakas.
Alessio Casimirri: Fuggito in Nicaragua, oggi gestisce il ristorante "La Cueva Del Buzo" a Managua specializzato in
frutti di mare.
Rita Algranati: Catturata al Cairo nel 2004, sta scontando l'ergastolo.
Adriana Faranda: Arrestata nel 1979 è stata rilasciata nel 1994 per la sua collaborazione con le forze dell'ordine.
Prospero Gallinari: Già latitante per il sequestro del giudice Mario Sossi, durante il caso Moro e successivamente
catturato nel 1979 è stato rilasciato nel 1994 per motivi di salute.

Il possibile coinvolgimento della P2 e dei "servizi segreti"

Si ipotizza che nell'omicidio di Moro possa essere stata in qualche modo implicata la loggia massonica coperta P2 di
Licio Gelli, o anche che le Brigate Rosse possano essere state infiltrate dall'intelligence degli Stati Uniti (CIA) o
dall'Organizzazione Gladio, la rete clandestina della NATO destinata a contrastare l'influenza sovietica nei paesi
dell'Europa Occidentale. Secondo queste teorie, Mario Moretti sarebbe stato "eterodiretto" durante il sequestro (vedi su
tutti Sergio Flamigni, La tela del ragno, Edizioni Caos, 2003, 2ª ed.).

Il giornalista Mino Pecorelli, sulla sua rivista Osservatorio politico pubblicò un articolo intitolato "Vergogna, buffoni!",
sostenendo che il generale Dalla Chiesa si fosse recato da Andreotti dicendogli di conoscere la prigione di Moro, non
ottenendo il via libera per il blitz a causa della contrarietà di una certa "loggia di Cristo in paradiso". La probabile
allusione alla P2, i cui affiliati controllavano i punti chiave dello Stato, fu chiara soltanto in seguito dopo il ritrovamento
della lista degli iscritti alla P2, il 17 marzo 1981, quando si scoprirono in questa diversi nominativi di personaggi che
ricoprivano ruoli importanti nelle istituzioni durante il sequestro Moro e le successive indagini, alcuni promossi ai loro
incarichi da pochi mesi o durante il sequestro stesso: tra questi il generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi, il
prefetto Walter Pelosi, direttore del CESIS, il generale Giulio Grassini del SISDE, l'ammiraglio Antonino Geraci, capo
del Sios della Marina Militare, Federico Umberto D'Amato, direttore dell'Ufficio Affari Riservati del Ministero
dell'Interno, il generale Raffaele Giudice, comandante generale della Guardia di Finanza e il generale Donato Lo Prete,
capo di stato maggiore della stessa, il generale dei Carabinieri Giuseppe Siracusano (responsabile per quello che
riguardava i posti di blocco effettuati nella capitale durante le indagini sul sequestro, che vennero considerati ben poco
efficaci dalla Commissione Moro).[39][40][41][42]

Stando a quanto riferito dal professor Vincenzo Cappelletti (uno degli esperti chiamati a formare i comitati durante il
rapimento) alla commissione stragi, il professor Franco Ferracuti, il cui nome risultò tra gli iscritti della P2 e che fu uno
dei sostenitori del fatto che Moro fosse stato colpito dalla sindrome di Stoccolma, aderì alla loggia proprio durante il
periodo del rapimento, su proposta del generale Grassini, per lo meno stando a quanto riferitogli dal Ferracuti stesso.[43]
Licio Gelli ha affermato che la presenza di un elevato numero di affiliati alla loggia nei comitati non era dovuta ad un
coinvolgimento attivo della P2 nella questione, quanto al fatto che molte personalità di primo piano del tempo erano
iscritte alla stessa, quindi era naturale che in questi comitati se ne trovassero diverse. Lo stesso Gelli afferma che alcuni
degli iscritti presenti nei comitati probabilmente ignoravano il fatto che anche altri appartenessero alla stessa loggia P2.
[44]

Altro caso dubbio, che è stato dibattuto in numerose pubblicazioni sul caso Moro, è quello relativo alla presenza del
colonnello Camillo Guglielmi del Sismi nelle vicinanze dell'agguato durante l'azione delle BR. La notizia della sua
presenza nella Via Stresa, tenuta segreta inizialmente, verrà rivelata soltanto nel 1991 durante le indagini della
Commissione Stragi, anche a seguito di una relazione presentata dal deputato di Democrazia Proletaria Luigi Cipriani
(allora membro della commissione) che riferiva di alcune testimonianze sul caso Moro e sul ruolo di Guglielmi come
osservatore, da parte di un'ex agente del SISMI (poi quasi totalmente smentite dal diretto interessato). Guglielmi
affermerà di essere stato realmente in zona, ma perché invitato a pranzo da un collega che abitava nella vicina via
Stresa. Secondo alcune pubblicazioni il collega, pur confermando il fatto che Guglielmi si fosse presentato a casa sua,
negò che il suo arrivo fosse previsto.[45] Secondo alcune fonti (tra cui lo stesso Cipriani) Guglielmi avrebbe anche fatto
parte di Gladio, tesi però fermamente smentita dallo stesso colonnello.[46][47][48][49]

Indagini della DIGOS porteranno poi a scoprire che alcuni macchinari presenti nella tipografia utilizzata dai brigatisti
per la stampa dei comunicati (da quasi un anno prima del rapimento), che era gestita da un brigatista (Enrico Triaca) e
finanziata da Moretti, erano stati precedentemente di proprietà dello Stato: si trattava di una stampatrice AB-DIK260T,
che era di proprietà del Raggruppamento Unità Speciali dell'Esercito (facente parte del SISMI) e che, seppur con un
pochi anni di vita ed un elevato valore, era stata venduta come rottame ferroso, e di una fotocopiatrice AB-DIK 675,
precedentemente di proprietà del Ministero dei trasporti, acquistata nel 1969 e che, dopo alcuni cambi di proprietario,
era stata venduta a Enrico Triaca.[50][51][52]

Anche l'appartamento di Via Gradoli[53] presenta alcune peculiarità. Innanzitutto fu affittato da Moretti sotto lo
pseudonimo di Mario Borghi nel 1975. Inoltre, in quello stabile vivevano anche un confidente della polizia e diversi
appartamenti erano intestati ad uomini del SISMI. La palazzina venne perquisita dai Carabinieri del colonnello Varisco,
ma venne saltato l'appartamento in oggetto, in quanto nel momento del controllo non risultava essere presente nessuno.
Il contratto d'affitto tra Borghi (Moretti) e la controparte (Luciana Bozzi) non venne registrato. Ad aggiungere ulteriori
incertezze sul caso, diversa pubblicistica evidenzia che la signora Bozzi si scoprirà successivamente essere amica di
Giuliana Conforto, il cui padre era nella lista Mitrokhin di agenti del KGB, e nel cui appartamento furono arrestati i
brigatisti Morucci e Faranda. Infine, Pecorelli, nel 1977, si burlò di Moretti -indirizzando a Borghi residente in Via
Gradoli - una cartolina da Ascoli Piceno (Moretti era nato nel 1946 a Porto San Giorgio in provincia di Ascoli Piceno)
recante il messaggio. "Saluti, brrrr".[54]

Nel giugno 2008 il terrorista venezuelano Ilich Ramírez Sánchez, detto Carlos, in un'intervista all'agenzia di stampa
ANSA, dichiarò che alcuni uomini del SISMI, guidati dal colonnello Stefano Giovannone (ritenuto vicino a Moro),
nella sera tra l'8 e il 9 maggio 1978, all'aeroporto di Beirut, tentarono un accordo per far liberare lo statista: questo
accordo avrebbe previsto la consegna di alcuni brigatisti incarcerati ad uomini del Fronte Popolare per la Liberazione
della Palestina sul territorio di un paese arabo. Secondo Carlos l'accordo, che vedeva i vertici del SISMI contrari e
violava la direttiva del governo di non trattare, fallì perché l'informazione fuoriuscì dall'ufficio politico dell'OLP,
probabilmente (secondo lo statista) a causa di Bassam Abu Sharif, e da lì ne vennero informati i servizi di un paese della
NATO che ne informò a suo volta il SISMI. Il giorno dopo Moro venne ucciso. Sempre secondo il terrorista
venezuelano gli ufficiali che avevano effettuato questo tentativo vennero allontanati dai servizi, costringendoli alle
dimissioni o al pensionamento.[55][56] Lo stesso Carlos, a metà degli anni '80, era stato indicato da Kyodo News,
un'agenzia di stampa giapponese, in base ad informazioni provenienti da una fonte non dichiarata, come uno dei
possibili ispiratori del rapimento.[57]
Il possibile coinvolgimento dell'URSS

Alcuni ritengono che le Brigate Rosse siano state efficacemente strumentalizzate da alcuni poteri nascosti (secondo
alcuni le loro azioni dimostrerebbero che effettivamente non hanno realmente combattuto per la pretesa causa
comunista), ma nessuna prova concreta di questa ipotesi è stata mai trovata.

Altri (articolo di Panorama del 2005senza fonte) invece affermano che almeno alcune azioni terroristiche delle Brigate Rosse
erano state richieste dal KGB, il servizio segreto russo. Tra questi il senatore Paolo Guzzanti, giunto a questa
conclusione dopo aver presieduto per 2 anni la Commissione parlamentare d'inchiesta sul dossier Mitrokhin[60]. Nel
novembre 1977 Sergej Sokolov, studente presso l'Università La Sapienza di Roma, avvicina Moro per chiedergli di
frequentare le sue lezioni. Nelle settimane successive, si fa notare per le domande sempre più indiscrete che fa agli
assistenti circa l'auto e la scorta, tanto da suscitare anche qualche sospetto in Moro che raccomandò al suo assistente di
rispondere vagamente ad eventuali domande dello studente. Nel 1999, in seguito allo scoppio dello scandalo Mitrokhin,
si sospetterà che Sergej Sokolov sia in realtà Sergey Fedorovich Sokolov, ufficiale del Kgb avente come copertura un
lavoro come corrispondente della TASS (report Impedian 83), che doveva operare a Roma dal 1981 al 1985, ma era
stato richiamato in patria nel 1982. Sergej Sokolov incontra l'ultima volta Moro la mattina del 15 marzo. Da allora
nessuno lo incontra più.

Nel maggio 1979 i brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, due degli ideatori del sequestro, vengono arrestati a
Roma nell'appartamento di Giuliana Conforto, figlia di Giorgio Conforto, con il rinvenimento nell'abitazione della
mitraglietta "Skorpion" - di marca cecoslovacca - usata da Moretti per assassinare Moro. Nel Dossier (report Impedian
142) si parla di Giorgio Conforto come agente del KGB, nome in codice "Dario", capo rete dei servizi strategici del
Patto di Varsavia, ma si dice anche che sia lui che la figlia erano estranei alle attività dei due terroristi e che, proprio in
seguito alle indagini di cui sarebbe stato probabilmente oggetto dopo l'arresto dei brigatisti, i servizi sovietici decisero di
"congelare" la sua attività di spia.

Francesco Cossiga durante la sua audizione alla Commissione Stragi sostenne che in un primo tempo era anche stato
ipotizzato che il rapimento di Moro fosse stato effettuato su commissione dei servizi segreti degli stati del Patto di
Varsavia, ma che il comando NATO non riteneva che il politico potesse conoscere informazioni riservate sull'Alleanza
Atlantica tali da considerare il suo rapimento un pericolo per la stessa (ma nel suo memoriale Moro parlerà di una
struttura stay-behind simile a Gladio, la cui esistenza allora era ancora ufficialmente segreta). Cossiga sostenne che gli
Stati Uniti, al contrario di altre nazioni alleati come la Germania, si rifiutarono di fornire all'Italia il supporto diretto
delle loro agenzie di spionaggio, proprio per il fatto che il rapimento di Moro, a quanto ritenevano, non costituiva
pericolo per gli interessi americani; gli USA si limitarono quindi, su insistenza di Cossiga, a mandare in Italia Steve
Pieczenik (a volte riportato come Pieczenick), ufficialmente uno psicologo dell'ufficio antiterrorismo del Dipartimento
di Stato statunitense, esperto in casi di rapimento, il quale riteneva si dovesse fingere una trattativa per poter proseguire
le indagini ed individuare i brigatisti che tenevano prigioniero Moro.[61]

Il possibile coinvolgimento degli USA

L'ex vicepresidente del CSM ed ex vicesegretario della Democrazia Cristiana Giovanni Galloni il 5 luglio 2005, in
un'intervista nella trasmissione NEXT di Rainews24[62], disse che poche settimane prima del rapimento, Moro gli
confidò, discutendo della difficoltà di trovare i covi delle BR, di essere a conoscenza del fatto che sia i servizi americani
che quelli israeliani avevano degli infiltrati nelle BR, ma che gli italiani non erano tenuti al corrente di queste attività
che sarebbero potute essere d'aiuto nell'individuare i covi dei brigatisti. Galloni sostenne anche che vi furono parecchie
difficoltà a mettersi in contatto con i servizi statunitensi durante i giorni del rapimento, ma che alcune informazioni
potevano tuttavia essere arrivate dagli USA:

Lo stesso Galloni aveva già effettuato dichiarazioni simili durante un'audizione alla Commissione Stragi il 22 luglio
1998[63], in cui affermò anche che durante un suo viaggio negli USA del 1976 gli era stato fatto presente che, per motivi
strategici (il timore di perdere le basi militari su suolo italiano, che erano la prima linea di difesa in caso di invasione
dell'Europa da parte sovietica) gli Stati Uniti erano contrari ad un governo aperto ai comunisti come quello a cui puntava
Moro:
E pure il fatto di Gladio può aver giocato a favore dell'uccisione di Moro: è stato ipotizzato, anche per via del testo del
memoriale, che Moro avesse accennato ai brigatisti l'esistenza della struttura parallela ed ultrasegreta nota come
"Gladio",[64] molti anni prima che divenisse di pubblico dominio, seppure i brigatisti apparentemente non abbiano colto
la portata della rivelazione. Secondo quanto riportato in un recente libro, che tratta della vita e della morte del falsario
che confezionò il falso comunicato del Lago della Duchessa, le rivelazioni fatte da Moro circa Gladio, intuibili in alcune
sue lettere, ma non esplicite, avrebbero costituito il "Punto di non ritorno" della trattativa, ed il falso comunicato sarebbe
da interpretarsi quale "messaggio" ai brigatisti circa la perdita di valore dell'ostaggio, con blocco conseguente delle
trattative riguardo alla sua liberazione[65].

La vedova dell'onorevole Moro[66], Noretta Chiavarelli, ebbe modo di dichiarare al primo processo contro il nucleo
storico delle BR (1983), direttamente interrogata dal presidente Severino Santiapichi che suo marito era inviso agli Stati
Uniti fin dal 1964, quando venne varato il Governo di Centro-Sinistra e che più volte fosse stato "ammonito" da
esponenti politici d'oltreoceano a non violare la cosiddetta "logica di Yalta". Anche se la signora Moro non citò
espressamente che il marito le avesse fatto rammentare la contemporaneità tra la nascita del primo governo tra DC e PSI
col cosiddetto "Piano Solo" (o "Golpe De Lorenzo"), l'onorevole Moro accennò al fatto che oltreoceano non erano
graditi governi di sinistra sotto alcuna veste. Per bilanciare lo spostamento a sinistra dell'asse di governo[67], Moro favorì
l'elezione di Antonio Segni, contrario ad ogni intesa con le sinistre, alla presidenza della repubblica. Ne conseguì una
serie di intralci alla politica di riforme desiderate dall'esecutivo, tanto che più volte Segni aveva invitato a colloquio al
Quirinale il generale golpista, Giovanni De Lorenzo anche durante le consultazioni di rito nelle crisi di governo, fatto
unico nella storia repubblicana. Le "pressioni" statunitensi sul marito, stante la deposizione della signora Moro,
s'accentuarono dopo il 1973[68],quando lo statista creò un'alleanza stretta col PCI che prese il nome di "Compromesso
Storico". Nel settembre del 1974 fu il segretario di stato americano, a margine di una visita di stato neli USA, Henry
Kissinger ad ammonire severamente Moro della "pericolosità" di tale legame col PCI. E di nuovo, nel marzo 1976 le
minacce si fecero più esplicite. Nell'occasione, egli fu affrontato da un alto personaggio americano che lo apostrofò
duramente. Di fronte alla Commissione parlamentare d'inchiesta, Eleonora Moro rievocherà così l'episodio: "È una delle
pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza svelarmi il nome della
persona... Adesso provo a ripeterla come la ricordo: 'Onorevole (detto in altra lingua, naturalmente), lei deve smettere di
perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di
fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere' ". Si presume che fosse stato nuovamente
Henry Kissinger[69]. Molte di queste teorie si basano sull'ipotesi che il lavoro duro che Moro aveva prodotto per
ammettere i membri del Partito Comunista Italiano in un governo di coalizione, stava profondamente disturbando quegli
interessi (la c.d. Pax Americana); questo, secondo alcuni osservatori, avrebbe considerato che quanto accaduto a Moro
poteva risultare vantaggioso per gli Stati Uniti. Questa posizione era stata espressa per la prima volta nello studio Chi ha
ucciso Aldo Moro? (1978), diretto da Webster Tarpley e commissionato dal parlamentare della DC On. Giuseppe
Zamberletti. Circa le parole riferite dalla moglie di Moro in seguito, durante una sua deposizione, secondo cui, prima del
misfatto, "Una figura politica statunitense di alto livello" disse ad Aldo Moro "O lasci perdere la tua linea politica o la
pagherai cara". Era da ricollegare al timore che “in Italia si giungesse ad una soluzione simile a quella del Cile che in
quel periodo aveva subito l'inizio d'un efferata dittatura militare ad opera del generale Augusto Pinochet (1973). Il
cambiamento era inteso come un abbandono di ogni ipotesi di accordi con i comunisti. Alcuni ritengono che quella
figura fosse Henry Kissinger, che già aveva parlato in termini inquietanti al Ministro degli Esteri Moro in un incontro a
tu per tu nel 1974. Interpellato in merito, Kissinger ha smentito l'accaduto, a cominciare dalla data dell'ultimo "diktat" a
latere di un meeting internazionale il 23 marzo 1976[70]. Si disse anche che Moro tenesse i contatti tra Enrico Berlinguer,
segretario del PCI e Giorgio Almirante, segretario del MSI, rispettivamente i principali partiti di sinistra e di destra, con
lo scopo - secondo questa ipotesi - di "raffreddare la tensione delle rispettive frange estremiste" (Brigate Rosse e Nuclei
Armati Rivoluzionari), l'esatto opposto di quanto volevano gli strateghi della tensione. Di certo, tra Berlinguer ed
Almirante ci furono contatti personali e stima (come dimostrato dalla presenza di Almirante ai funerali di Berlinguer nel
1984, presenza ricambiata da Alessandro Natta ai funerali di Almirante nel 1988)[71].

Il possibile coinvolgimento di Israele

Recentemente è emersa anche l'ipotesi che le Brigate Rosse fossero infiltrate – già a partire dal 1974 – da agenti segreti
di Israele[72]. Franceschini riporta una confidenza[73] fattagli durante l'ora d'aria nel carcere di Torino nientemeno che da
Curcio in persona, secondo cui Mario Moretti era probabile fosse un infiltrato nell'organizzazione terroristica. Mario
Moretti prese in mano le redini dell'organizzazione proprio al momento della cattura di Franceschini e di Curcio,
imprimendo all'organizzazione una struttura di tipo "paramilitare" ed iniziando la guerra aperta contro lo Stato. Curcio
smentì l'ex-compagno e molti altri appartenenti all'organizzazione insurrezionale confutarono le parole di Franceschini a
vario titolo. Il collegamento tra le Brigate Rosse ed i Servizi Segreti sarebbero stati tenuti dalla scuola parigina
"Hyperion"senza fonte e proprio all'Hyperion avrebbe risposto operativamente Moretti.

Inoltre, sembra appurato che l'Hyperion fosse collegato ad un altro istituto di lingue francese che aveva sede in piazza
Campitelli, a 150 metri da via Caetani – dove fu ritrovato il cadavere di Moro. Di più: si sostiene che la scuola parigina
abbia avuto un ruolo attivo nelle fasi del sequestro e per tutto il periodo della detenzione dello statista democristiano.
Infatti, poche settimane prima del sequestro, nel mese di febbraio 1978, l'Hyperion aveva aperto un ufficio di
rappresentanza a Roma, in via Nicotera 26 (in quello stesso edificio, c'erano alcune società coperte del SISMI).
Quell'ufficio fu chiuso subito dopo il sequestro. L'articolo cita espressamente i collegamenti tra Hyperion ed i Servizi
Segreti specialmente quelli israeliani. In sintesi, ad Hyperion facevano capo i tre veri capi delle BR. L'istituto parigino,
con ogni probabilità, era in rapporto col Mossad israeliano e che i suoi appartenenti facessero parte del cervello politico
delle Brigate Rosse. Ma ancor più sconcertante è la storia dei suoi fondatori, tre esponenti della sinistra
extraparlamentare italiana, Vanni Molinaris, Corrado Simioni e Duccio Berio, tra i fondatori anche delle Brigate Rosse
al convegno di Chiavari del novembre 1969. Costoro erano i fautori della "linea dura" in aperto contrasto con Curcio e
Franceschini che appartenevano alla "ala moderata" del movimento. Secondo quanto dichiarato, quasi trent'anni dopo,
da Alberto Franceschini nella sua audizione in Commissione Stragi, Molinaris, Simioni e Berio, malvisti dagli altri
brigatisti perché ritenuti troppo violenti (erano in perfetta sintonia con Moretti e con la linea "dura" che s'impose solo a
partire dal 1975, ma minoritaria nelle prime fasi del movimento, quelle rispondenti all'egida del duopolio Curcio -
Franceschini). È provato che fu Simioni ad introdurre Moretti nel 1971 nelle BR. Entrambi - a detta di Franceschini -
facevano parte di una struttura iperclandestina e dai contorni oggi ancora misteriosi denominata Superclan. Va anche
segnalato che la presenza dei tre fondatori dell'Hyperion a pieno titolo nelle BR è quanto meno azzardata, in quanto essi
mai fecero parte della "Direzione strategica" e men che meno fecero parte dei gruppi di fuoco. Simioni risulta aver preso
le distanze dalle BR proprio nell'anno in cui Moretti si unì al movimento, nel 1971. Notoriamente, Moro teneva una
politica filo - araba che sicuramente non piaceva ad Israele). Si dice anche che fosse stato l'artefice dell'estradizione in
Libia di terroristi palestinesi che a Fiumicino nel 1973 stavano per sparare un missile terra-aria di fabbricazione
sovietica tipo "Streela" contro un aereo di linea della compagnia di bandiera israeliana "ElAl", che fece infuriare i vertici
militari dello stato ebraico e che costò - pare - il sabotaggio dell'aereo militare italiano "Argo 16". Ha dichiarato
Franceschini alla Commissione Stragi, il 17 marzo 1999: «Duccio Berio era il braccio destro di Simioni: suo padre era
un famoso medico milanese a suo dire legato ai servizi segreti israeliani". Franceschini fa riferimento a dei contatti che
alcuni agenti del Mossad avrebbero preso con lui e Con Curcio qualche mese prima della loro cattura (settembre 1974)
alla stazione di Pinerolo. In quell'occasione gli agenti stranieri avevano insistito affinché il movimento brigatista
adivenisse ad intraprendere una campagna "militarista" contro lo Stato, offrendo in cambio appoggi e protezione. La
cattura di Curcio e Franceschini decapitò le "colombe" all'interno della galassia brigatista, permettendo ai "falchi" di
Moretti di emergere. Anche Moretti avrebbe dovuto cadere nella trappola preparata per Curcio e Franceschini, ma una
misteriosa telefonata lo avvertì del tranello[74]. Moretti non si presentò all'appuntamento con Curcio e Franceschini, ma
spiegò dopo qualche tempo di non esser riuscito ad avvisare del tranello i due compagni: Moretti dette spiegazioni
lacunose sulle motivazioni che gli consentirono di evitare l'arresto e si giustificò in vari modi per il fatto di non aver
allertato i compagni). senza fonte

Il falso "comunicato n. 7" e la scoperta del covo di via Gradoli

Altro fatto di nebuloso sviluppo fu il falso comunicato n. 7 delle BR, in cui si annunciava la morte dello statista e la sua
sepoltura presso il Lago della Duchessa, nel reatino. In esso sarebbe stato coinvolto il falsario romano Antonio
Chichiarelli, legato alla Banda della Magliana e successivamente autore di altri falsi comunicati delle Brigate Rosse[75],
ucciso nel settembre 1984 in circostanze misteriose, quando ancora il suo legame con il comunicato non era stato del
tutto accertato[76]. È da notare che lo stesso Chichiarelli parlò del comunicato a diverse persone, tra cui Luciano Dal
Bello, informatore dei carabinieri e del Sisde[77], che riferì la questione ad un maresciallo dei carabinieri, senza che
tuttavia alla segnalazione fossero seguite indagini su Chichiarelli.

Il comunicato venne diffuso lo stesso giorno, il 18 aprile 1978, in cui le forze dell'ordine scoprirono a Roma un
appartamento in via Gradoli 96 usato come covo delle Brigate Rosse: la scoperta avvenuta a causa di una supposta
perdita d'acqua per cui erano stati chiamati i Vigili del fuoco, si rivelerà essere causata invece da un rubinetto della
doccia "misteriosamente" lasciato aperto, appoggiato su una scopa e con la cornetta rivolta verso un muro, quasi a voler
far scoprire il covo, che era usato abitualmente dal brigatista Mario Moretti (il quale avrà notizia della scoperta dai
media che la riporteranno subito e non vi farà ritorno). Moretti aveva affittato l'appartamento nel 1975, con l'identità
dell'"ingener Mario Borghi", e da allora l'aveva usato abitualmente.

Successivamente alla scoperta del covo verranno resi noti alcuni fatti relativi allo stesso e alle indagini su di questo, sui
cui si concentrerà l'attenzione della pubblicistica. Lo stabile in cui si trovava questo covo era stato già perquisito il 18
marzo, pochi giorni dopo il rapimento, su segnalazione di una vicina di casa che aveva sentito dei rumori anomali, simili
al codice Morse[78], ma essendo allora l'appartamento senza nessuno all'interno gli agenti se n'erano andati senza
controllarlo. Nella relazione di minoranza della commissione di inchiesta sulla Loggia P2, viene fatto notare che il vice
capo della Squadra Mobile romana, il dott. Elio Cioppa, che effettuò questa prima perquisizione, poco tempo dopo
l'uccisione di Moro venne promosso a vicedirettore del SISDE, guidato allora dal generale Giulio Grassini, risultato tra
gli iscritti alla P2, e pochi mesi dopo anche Cioppa sarebbe entrato a far parte della loggia massonica.[42] La stessa vicina
che aveva avvertito i rumori provenienti dall'appartamento, Lucia Mokbel, ufficialmente studentessa universitaria di
origine egiziana che conviveva con il suo compagno Gianni Diana, viene indicata in diverse inchieste giornalistiche
come rivelatasi poi essere impiegata come informatrice dal SISDE[79] o dalla polizia[80]. Il verbale della perquisizione,
presente agli atti del processo Moro, rappresenta un altro lato oscuro, infatti risulta essere stato scritto su fogli intestati
"Dipartimento di Polizia", notazione che però iniziò ad essere impiegata solo dal 1981, tre anni dopo la data in cui
questi controlli sarebbero avvenuti[79].

Col passare del tempo diverranno note altre notizie relative al covo e alla zona: nella stessa via, sia prima del 1978 che
dopo, erano presenti numerosi appartamenti utilizzati da agenti (tra cui un sottoufficiale dei carabineri in forza al SISMI,
residente al numero 89, nell'edificio di fronte al 96, che era compaesano di Moretti[80]) e aziende di copertura al servizio
del SISMI[81] e l'appartamento stesso era già stato segnalato e tenuto sotto controllo dall'UCIGOS da diversi anni (quindi
era noto alle istituzioni), in quanto frequentato precedentemente anche da esponenti di Potere operaio e Autonomia
Operaia[78][78][82][83]. Si scoprirà che anche il deputato democristiano Benito Cazora, nei suoi contatti avuti con esponenti
del 'ndrangheta e della malavita calabrese nel tentativo di trovare la prigione di Moro, era stato avvertito che la zona di
via Gradoli (per la precisione l'informazione era stata data in automobile, fermi all'incrocio tra la via Cassia e via
Gradoli) era una "zona calda" e che questo avvertimento era stato comunicato sia ai vertici della Democrazia Cristiana
sia agli organi di polizia.[83][84][85]

Lo stesso Mino Pecorelli nel 1977, un anno prima del sequestro di Moro, avrebbe scritto una cartolina all'indirizzo del
covo, spedendola da Ascoli Piceno (Moretti nacque a Porto San Giorgio, in provincia di Ascoli Piceno), contenente la
frase: "Saluti brrr".[86] Sempre Pecorelli fu l'unico a tacciare di "mistificazione" il falso comunicato delle Br, quando
tutti gli esperti interpellati inizialmente lo ritennero autentico.

Relativamente alla scopera del covo, i brigatisti successivamente catturati hanno sempre parlato di una casualità, dovuta
al rubinetto della doccia lasciato aperto per sbaglio, e hanno affermato che non erano a conoscenza del fatto che il covo
fosse sotto controllo da parte dell'UCIGOS.[12][82]

Non si è mai appurato in maniera definitiva se il ritrovamento dell'appartamento e il falso comunicato fossero connessi o
se la diffusione del falso lo stesso giorno della scoperta del covo sia stata solo una coincidenza, né si è mai risaliti
all'eventuale mandante del falso, e le istituzioni italiane si sono sempre dichiarate estranee ad entrambi i fatti.
La foto allegata al vero comunicato n. 7: Aldo Moro con una copia del quotidiano La Repubblica del 19 aprile

Steve Pieczenik, l'esperto di terrorismo del Dipartimento di Stato americano, in un'intervista rilasciata quasi 30 anni
dopo il sequestro, affermerà che l'idea del falso comunicato era stata presa durante una riunione del comitato di crisi a
cui erano presenti, tra gli altri, lui, Cossiga, alcuni esponenti dei servizi e il criminologo Franco Ferracuti (il cui nome
comparve successivamente tra gli quelli degli iscritti alla loggia P2), con lo scopo di preparare l'opinione pubblica
italiana ed europea al probabile decesso di Moro durante il sequestro, ma di ignorare poi come la cosa sia stata realizzata
concretamente.[87][88]

Sia durante le indagini, sia tra la pubblicistica dedicata al caso Moro, sia durante le audizioni della commissione stragi,
sono state avanzate numerose ipotesi sulla scoperta del covo e sul falso comunicato, tra cui:

• Tra chi ritiene le Brigate Rosse controllate da forze esterne (CIA, KGB, Mossad, servizi deviati, ecc..), la
scoperta del covo effettuata lo stesso giorno del comunicato che annunciava la morte di Moro è stata interpretato come
un messaggio mandato alle BR (o ai referenti/infiltrati di queste "forze esterne" all'interno del gruppo terrorista) su come
doveva concludersi il sequestro (ma le Brigate Rosse avevano già annunciato la condanna a morte di Moro con il
comunicato numero 6, il 15 aprile).
• La scoperta del covo e/o il falso comunicato sarebbero stati un modo per mettere sotto pressione le Brigate
Rosse, attuato dai servizi segreti con o senza l'autorizzazione delle istituzioni.
• Il comunicato sarebbe stata una prova generale da parte dello Stato per testare il comportamento
dell'opinione pubblica alla notizia della morte dello statista (ma le istituzioni hanno sempre negato il loro
coinvolgimento nella realizzazione del falso).
• Il comunicato sarebbe servito a distogliere l'attenzione da Roma, permettendo alle Brigate Rosse di
spostare Moro da una prigione ad un'altra più sicura (per cui si sarebbe trattato di un falso realizzato in realtà per aiutare
le Brigate Rosse).

Chi ritiene i due fatti slegati interpreta la scoperta del covo:

• Come un segnale dato da Moretti per indicare che ormai il covo non era più sicuro (sostenendo quindi che
Moretti avesse mentito relativamente al fatto di essere estraneo alla scoperta del covo).
• Come un tentativo dell'ala "trattativista" delle BR o di altre organizzazioni vicine alla sinistra
extraparlamentare che erano a conoscenza del luogo di far scoprire Moretti, con lo scopo di far prevalere la linea che
riteneva possibile la liberazione di Moro (ma questa versione è sempre stata negata dai brigatisti).
• Oppure ancora, vista la presenza nel covo di prove collegabili all'agguato di via Fani come la targa
originale di una delle auto impiegate o un'uniforme da aviatore, come un modo per far sì che non ci fossero dubbi sul
fatto che il sequestro fosse opera delle sole BR (indipendentemente dal fatto che questo fosse vero o meno e che il covo
fosse stato fatto scoprire dalle BR stesse o da altre forze).
Due giorni dopo le BR diffonderanno il vero comunicato n. 7, con allegata una foto di Aldo Moro con una copia del
quotidiano La Repubblica del 19 aprile, a dimostrare che il politico era ancora vivo e che la notizia della sua uccisione
era falsa.

È da notare infine come la data del 18 aprile 1978, in cui sono avvenuti entrambi questi eventi, avrebbe potuto essere
scelta perché particolarmente significativa, infatti corrispondeva al 30esimo anniversario delle elezioni del 1948, che
sancirono la vittoria della Democrazia Cristiana sul Fronte Democratico Popolare.

La seduta spiritica

Romano Prodi, Mario Baldassarri e Alberto Clò ebbero un ruolo mai del tutto chiarito nel reperimento delle indicazioni
su un possibile luogo di detenzione e resta tuttora alquanto oscura la vicenda della loro presunta seduta spiritica con il
"piattino" effettuata il 2 aprile 1978, da cui sarebbero scaturite prima alcune parole senza senso, poi le parole Viterbo,
Bolsena e Gradoli, quest'ultima ("Gradoli") che appunto coincideva con il nome della strada in cui si trovava il covo
impiegato da Moretti.

Ecco le parole di Prodi, dai verbali della testimonianza davanti alla Commissione Moro il 10 giugno 1981:

Era un giorno di pioggia, facevamo il gioco del piattino, termine che conosco poco perché era la prima volta che
vedevo cose del genere. Uscirono Bolsena, Viterbo e Gradoli. Nessuno ci ha badato: poi in un atlante abbiamo visto
che esiste il paese di Gradoli. Abbiamo chiesto se qualcuno sapeva qualcosa e visto che nessuno ne sapeva niente, ho
ritenuto mio dovere, anche a costo di sembrare ridicolo, come mi sento in questo momento, di riferire la cosa. Se non
ci fosse stato quel nome sulla carta geografica, oppure se fosse stata Mantova o New York, nessuno avrebbe riferito.
Il fatto è che il nome era sconosciuto e allora ho riferito. »

L'informazione fu ritenuta attendibile dal momento che, quattro giorni dopo, il 6 aprile, la questura di Viterbo, su ordine
del Viminale, organizzò un blitz armato nel borgo medievale di Gradoli, vicino Viterbo, alla ricerca della possibile
prigione di Moro.

La vedova di Moro affermò di aver più volte indicato agli inquirenti l'esistenza di una via Gradoli a Roma, senza che
questi estendessero le ricerche anche a questa (avrebbero asserito che non esisteva una simile strada negli stradari di
Roma[89]), circostanza confermata anche da altri parenti dello statista, ma energicamente smentita da Francesco Cossiga,
all'epoca dei fatti ministro dell'interno.[83]

La questione sulla seduta spiritica venne riaperta nel 1998 dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo e
le stragi: l'allora presidente del consiglio Prodi, dati gli impegni politici di poco precedenti alla caduta del suo governo
nell'ottobre 1998, si disse indisponibile per ripetere l'audizione; si dissero disponibili Mario Baldassarri[90] (ex senatore
di AN, ex viceministro per l'Economia e le Finanze dei governi Berlusconi II e Berlusconi III, al tempo del rapimento di
Moro docente presso l'Università di Bologna) ed Alberto Clò[78] (economista ed esperto di politiche energetiche,
ministro dell'Industria nel governo tecnico Dini e proprietario della casa di campagna dove avvenne la seduta spiritica,
al tempo del rapimento di Moro assistente e poi docente di economia all'Università di Modena), anche loro presenti alla
seduta spiritica: entrambi, pur ammettendo di non credere allo spiritismo e di non aver più effettuato sedute spiritiche
dopo quella, confermarono la genuinità del risultato della seduta e dichiararono che né loro né, per quanto ne sapevano,
nessuno dei presenti (partecipanti al gioco del piattino o meno, oltre a loro tre erano presenti il fratello di Clò, le relative
fidanzate, e i figli piccoli dei commensali) aveva conoscenze nell'ambiente dell'Autonomia bolognese o negli ambienti
vicini alle BR. Alla critica relativa al fatto che qualcuno dei presenti avrebbe potuto guidare il piattino, Clò sostenne che
la parola "Gradoli", così come "Bolsena" e "Viterbo", si erano formate più volte e con partecipanti diversi.

Le infiltrazioni mafiose

Un ulteriore mistero riguarda la presenza della 'ndrangheta calabrese in via Fani. È quanto emergerebbe da una
telefonata intercettata tra il segretario di Moro Sereno Freato e Benito Cazora, deputato della Dc, secondo alcune
ricostruzioni incaricato di tenere i rapporti con la malavita calabrese, avvenuta otto giorni prima della morte di Moro,
nella quale Freato cerca di avere notizie sulla prigione di Moro. Dall'intercettazione risulterebbe che la 'ndrangheta
aveva a disposizione alcune foto di via Fani (forse quelle relative al rullino sparito o delle loro copie) e che in una di
queste vi fosse "un personaggio noto a loro".[91] Secondo quanto riferito nel 1991 da Cazora sarebbero stati alcuni
esponenti della 'ndrangheta, in stato di soggiorno obbligato, ad offrire ad alcuni esponenti della DC la propria
collaborazione per individuare il luogo della prigionia di Moro, in cambio della possibilità di riottenere la libertà di
movimento, ma questa collaborazione non venne comunque realizzata.[92]

Secondo il pentito Tommaso Buscetta, alcune componenti dello Stato cercarono di ottenere informazioni sulla possibile
prigione di Moro dalla Mafia, ma successivamente Giuseppe Calò chiese al capo mafia Stefano Bontate di interrompere
le ricerche, in quanto tra gli esponenti della Democrazia Cristiana non vi sarebbe più stata la volontà di cercare di
liberare Moro.[34]. Per la precisione[93] in una tempestosa riunione tra i boss di Cosa Nostra indetta dai fratelli Salvo,
Stefano Bontate – dalla testimonianza processuale resa dal pentito Francesco Marino Mannoia – aveva convocato Pippo
Calò per chiedere il suo intervento al fine di liberare lo statista. Calò avrebbe risposto che la Mafia non avrebbe avuto
alcun interesse a muoversi. All'insistenza di Bontate, Calò avrebbe scosso le spalle, rispondendo: «Stefano, ma ancora
non l'hai capito che sono proprio loro, gli uomini del suo stesso partito, a non voler affatto che sia liberato... ?!». Bontate
aveva ricevuto il mandato di sondare la possibilità di liberare Moro direttamente dal boss Gaetano Badalamenti. Il punto
di svolta di abbandonare Moro al proprio destino sarebbe stato preso dai suoi compagni di partito tra il 9 ed il 10 aprile,
dopo che lo statista prigioniero aveva rivelato segreti molto compromettenti per la CIA e per Andreotti[94].

In una deposizione resa in tribunale, Raffaele Cutolo, capo indiscusso della Camorra napoletana, affermò che la Banda
della Magliana chiese se era interessato alla liberazione di Moro. Contattati i Servizi Segreti, questi gli risposero
letteralmente di "Farsi gl'affari suoi". Cutolo, espressamente cita i "Servizi segreti" e non i "Servizi segreti deviati"[95].

Stando a quanto riferito in generale anche da alcuni collaboratori di giustizia, le varie mafie italiane in un primo
momento si interessarono alla questione, cercando di operare per la liberazione di Moro e/o per individuare il covo dove
veniva tenuto prigioniero, anche su richiesta di alcuni interlocutori appartenenti alle istituzioni, ma dalla metà di aprile
questi tentativi vengono interrotti da richieste opposte (le due posizioni non saranno comunque condivise da tutti i
gruppi e causeranno una spaccatura all'interno di Cosa Nostra tra i Corleonesi, contrari a portare avanti i tentativi di
individuare la prigione di Moro, e i palermitani). Secondo quanto riportato durante uno dei processi dal giornalista
Giuseppe Messina, uno dei suoi contatti con la mafia siciliana gli aveva comunicato che Cosa Nostra aveva cambiato
opinione sulla liberazione di Moro, in quanto questi voleva un governo aperto al Partito Comunista e questo era in
contrasto con l'anticomunismo della mafia stessa.[96]

Il 15 ottobre 1993 un pentito della 'Ndrangheta, Saverio Morabito, ha dichiarato che a Via Fani quel giorno c'era anche
Antonio Nirta, altro appartenente alla mafia calabrese e infiltrato nel commando brigatista[97]. Sergio Flamigni, membro
della Commissione Moro e autore di molti libri sull'argomento, riferisce che quando seppe della deposizione di
Morabito gli vennero alla mente diversi elementi agli atti della Commissione che avvaloravano l'ipotesi della presenza
di un calabrese a Via Fani, tra questi vi era la testimonianza dell'Onorevole Benito Cazora, allora deputato della
Democrazia Cristiana che riferì alla commissione di essere stato avvicinato da un calabrese che in una certa fase ebbe a
chiedergli di un rullino di foto scattate a Via Fani[97].

Il ruolo di Carmine Pecorelli

Il giornalista Carmine Pecorelli, che apparentemente godeva di numerose conoscenze all'interno dei servizi segreti[98],
nella sua agenzia di stampa Osservatorio Politico - OP si occupò più volte sia del rapimento Moro, sia della possibilità
che Moro potesse essere in qualche modo bloccato nel suo tentativo di aprire il governo al PCI[99].

Il 15 marzo, il giorno prima del rapimento, la sua OP pubblica un articolo sibillino che, citando l'anniversario delle Idi di
marzo e collegandolo con il giuramento del governo Andreotti, farebbe riferimento a un possibile nuovo Bruto (uno
degli assassini di Cesare).[100]

Successivamente, durante la prigionia di Moro, Pecorelli nei suoi articoli dimostra di conoscere l'esistenza del
memoriale (mesi prima del suo ritrovamento), di alcune lettere ancor prima che venissero rese pubbliche. Ipotizza la
presenza di due gruppi all'interno delle BR, uno trattativista e uno invece deciso ad uccidere comunque Moro, e fa
trapelare il sospetto che il gruppo che ha materialmente effettuato l'agguato in via Fani non sia poi lo stesso che l'aveva
pianificato e stava gestendo anche il sequestro ("Aspettiamoci il peggio. Gli autori della strage di via Fani e del
sequestro di Aldo Moro sono dei professionisti addestrati in scuole di guerra del massimo livello. I killer mandati
all'assalto dell'auto del presidente potrebbero invece essere manovalanza reclutata in piazza. È un particolare da
tenere a mente.") escludendo peraltro che il gruppo storico delle BR (Curcio e altri già arrestati) avesse a che fare con il
rapimento.[100]

Sul ritrovamento del covo di via Gradoli Pecorelli fa notare come, al contrario di quanto ci si sarebbe aspettato dai
Brigatisti, nel covo tutte le possibili prove della presenza di questi era in bella mostra. Sui possibili mandanti evidenzia
come il progetto di apertura dal governo al PCI di Berlinguer, tra i principali sostenitori dell'Eurocomunismo, sarebbe
stato mal visto sia dagli USA (per via del fatto che avrebbe cambiato gli equilibri di potere sia nazionali che
internazionali) , sia dall'URSS (dato che avrebbe dimostrato che un partito comunista poteva andare al governo in
maniera democratica e senza essere diretta emanazione del PCUS di Mosca).[100]

Il 20 marzo 1979 Pecorelli viene ucciso a colpi d'arma da fuoco davanti alla sua abitazione. Nel 1992 il pentito di mafia
Tommaso Buscetta rivela che l'uccisione fu eseguita dalla mafia - con la manovalanza romana della banda della
Magliana - per "fare un favore ad Andreotti", preoccupato per certe informazioni sul caso Moro: Pecorelli avrebbe
ricevuto dal generale Dalla Chiesa (di cui si conosce una domanda di adesione alla P2, ma apparentemente senza
seguito) copia degli originali delle lettere di Aldo Moro che contenevano pesanti accuse nei confronti di Giulio
Andreotti, e vi avrebbe alluso in alcuni articoli di OP.

Della circolazione in quegli anni a Roma di una versione integrale delle lettere di Moro scoperte dai carabinieri nel covo
milanese di via Monte Nevoso (delle quali solo un riassunto fu nell'immediato reso pubblico, il cosiddetto Memoriale
Moro, mentre il testo integrale saltò fuori solo nel 1991 durante una ristrutturazione dell'appartamento che aveva
ospitato il covo) è prova un episodio verificatosi qualche anno dopo: al congresso di Verona del 1983 Bettino Craxi
diede lettura di una lettera di Aldo Moro, pesantemente critica verso i suoi compagni di partito, il cui testo non risultava
da nessuno degli atti pubblicati fino a quel momento; la cosa fu considerata una sottile minaccia - nell'ambito della
guerra sotterranea tra la DC ed il PSI - e produsse animate critiche che raggiunsero anche l'ambito parlamentare[101].

Nel processo a suo carico, Andreotti in primo grado ebbe l'assoluzione, mentre la Corte d'Assise d'Appello di Perugia il
17 novembre 2002 lo ha condannato a 24 anni di reclusione. Andreotti ha presentato ricorso in Cassazione, che ha
dichiarato annullata senza rinvio la condanna rendendo definitiva l'assoluzione di primo grado.

Il ruolo di Steve Pieczenik

Un altro personaggio che è stato spesso al centro delle ipotesi di giornalisti e politici è l'esperto statunitense giunto su
invito di Cossiga, Steve Pieczenik, al tempo assistente del Sottosegretario di Stato e capo dell'Ufficio per la gestione dei
problemi del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato Statunitense, e rimasto in Italia circa tre settimane.
Dopo la carriera come negoziatore ed esperto di terrorismo internazionale ha iniziato a collaborare con Tom Clancy,
nella stesura di libri e film.

Il suo nome, come quello degli altri "esperti", venne diffuso solo agli inizi degli anni novanta. Dopo che venne reso
pubblica la composizione dei tre comitati, durante le indagini della commissione stragi vennero richiesti i documenti
prodotti da questi: si scoprì che erano presenti solo alcune relazioni di un comitato degli esperti, ma nulla di quanto
prodotto dagli altri due. In una relazione a lui attribuita, Pieczenik analizzava le possibili conseguenze politiche del caso
Moro, l'eventualità che l'operazione delle Brigate Rosse avesse avuto un appoggio dall'interno delle istituzioni oltre che
alcuni consigli su come poter agire per far uscire allo scoperto i brigatisti. Dopo che il contenuto di questa relazione,
intitolata "Ipotesi sulla strategia e tattica delle BR e ipotesi sulla gestione della crisi", è stato reso noto, Pieczenik ne ha
tuttavia negato la paternità, affermando che si trattava di un falso, contenente sia alcune delle teorie ed ipotesi da lui
effettivamente elaborate al tempo, sia alcuni consigli operativi su cui non concordava, che erano "nello stile di
Ferracuti", e che per prassi non aveva lasciato nulla di scritto.[36][102] Il giornalista Robert Katz, che ha intervistato
Pieczenik sul caso, fa anche notare che il supposto rapporto contiene riferimenti al comunicato numero 8 del 24 aprile
relativi allo scambio tra Moro e 13 detenuti, riferimenti impossibili per via del fatto che l'esperto statunitense aveva
lasciato l'Italia il 15 aprile.[15]
Stando a quanto raccontato da Cossiga e dallo stesso Pieczenik, inizialmente l'idea dello statunitense era quella di
inscenare una finta apertura alla trattativa, per ottenere più tempo e cercare di far uscire allo scoperto i Brigatisti, in
modo da poterli individuare.[61]

In alcune interviste rilasciate successivamente a questi fatti, Pieczenik afferma che durante i giorni del sequestro vi
erano notevoli falle che permettevano di far giungere informazioni riservate al di fuori delle discussioni dei comitati e
che non aveva l'impressione che la classe politica fosse vicina a Moro:

Tornato in America venne contattato da un consigliere politico dell'ambasciata argentina (paese al tempo sottoposto ad
una dittatura militare) per chiedere aiuto contro sospetti terroristi. Al rifiuto di Pieczenik questo lo minacciò di fargli
pervenire un ordine ufficiale da parte del Dipartimento di Stato. Secondo il negoziatore, il consigliere avrebbe potuto
essere in realtà un agente segreto, che in qualche modo "era al corrente di ciò che era accaduto nelle stanze romane di
Cossiga. Sapeva esattamente cosa vi avevo fatto nelle ultime tre settimane, anche se avrebbe dovuto trattarsi di segreti.
Non mi spiegò in che modo fosse venuto a conoscenza di tutto ciò, e l'unica cosa che potei fare fu dedurne che la fuga
di notizie faceva rotta diretta verso l'Argentina" e che "Parlava in tono arrogante e pieno di sottintesi, come se a unirci
fosse stata l'affiliazione a qualche misteriosa confraternita"; confraternita e fonte delle informazioni che Pieczenik
identifica, a posteriori rispetto all'evento, con la loggia massonica P2, dopo che la pubblicazione dei nomi degli iscritti e
le successive indagini avevano mostrato come molti degli appartenenti dei tre comitati ne facessero parte e come questa
avesse legami proprio con l'Argentina.[15]

Dopo alcuni accordi per essere sentito dalla Commissione Stragi, in un primo tempo accettò l'invito, ma poi
improvvisamente rifiutò di presentarsi in Italia.[88][102]

A quasi 30 anni di distanza dai fatti, durante la preparazione del documentario francese "Les derniers jours de Aldo
Moro", il giornalista Emmanuel Amara entra in contatto con Pieczenik, che accetta di farsi intervistare. Il contenuto di
questa intervista è poi inserito nel saggio "Abbiamo ucciso Aldo Moro. La vera storia del rapimento Moro" (edizione
originale "Nous avons tué Aldo Moro", Patrick Robin Editions, 2006, ISBN 2-35228-012-5)[103]. Nell'intervista riportata
nel libro stesso riassume quello che sarebbe stato il suo compito durante il rapimento Moro:

Il fatto che Moro fosse ormai sacrificabile in nome della "ragion di stato" sarebbe divenuto chiaro a Pieczenik nel
momento in cui, a fronte di indagini inconcludenti e informazioni riservate che venivano continuamente diffuse, lo
statista democristiano avrebbe iniziato a scrivere lettere sempre più preoccupate, che potevano far supporre che stesse
per cedere psicologicamente.[103]

Pieczenik afferma che appena arrivato in Italia venne informato da Cossiga che le istituzioni italiane non avevano idea
di come uscire dalla crisi[104] e che sia lo stesso Cossiga, sia i servizi segreti Vaticani che avevano offerto la loro
collaborazione, lo avevano informato che in Italia da pochi mesi era stato effettuato un tentativo di colpo di stato da
parte di esponenti dei servizi segreti, principalmente di destra, e di persone che successivamente identificò come legate
alla loggia P2[105], ma che il tentativo era fallito e che lo stesso Cossiga era riuscito a "fare un po' di pulizia e a
riprendere il controllo su una parte di quegli elementi". Lo stesso Pieczenik si diceva stupito della presenza di tanti ex-
fascisti all'interno dei servizi segreti, tanto da avere l'impressione di ritrovarsi "nel quartiere generale del duce, di
Mussolini"[106], ma afferma anche che durante il sequestro la "capacità di disturbo" di questi gruppi non fu così energica
come temeva in un primo tempo. Anche le Brigate Rosse, secondo l'esperto, avevano infiltrati nelle istituzioni, e
godevano di informazioni di prima mano fornite da figli di politici e funzionari italiani che simpatizzavano per il
gruppo, o perlomeno militavano nei gruppi di estrema sinistra. Queste infiltrazioni vennero studiate, pur senza portare a
nessuna individuazione sicura, da Pieczenik con l'aiuto dei servizi Vaticani, che l'esperto statunitense riteneva al tempo
molto più efficienti ed informati di quelli italiani.[107]

Oltre a confermare quanto già detto in precedenti interviste, in questa sostiene di aver partecipato in prima persona alla
decisione di creare il falso comunicato numero 7 e afferma di aver spinto le Brigate Rosse ad uccidere Moro, con lo
scopo di delegittimarle ("Ho permesso che si servissero di questa violenza fino al punto di perdere tutta la loro
legittimità. Piuttosto che riconoscere il loro errore, sono sprofondati in quella spirale che li ha portati alla fine."[108]),
quando ormai era chiaro (dal suo punto di vista) che comunque non c'era la volontà di liberarlo da parte della classe
politica. Pieczenik afferma anche che gli Stati Uniti, pur avendo numerosi interessi in Italia (a cominciare dalle truppe
dislocate), non erano al corrente della situazione del paese, né per quello che riguardava il terrorismo di sinistra, né per
quello che riguardava i gruppi eversivi di destra o i servizi deviati, e che quindi non poté avere aiuti né dalla CIA né
dall'ambasciata statunitense in Italia. Lo stesso Dipartimento di Stato gli avrebbe fornito come informazioni sull'Italia
solo articoli tratti da TIME e Newsweek[15][109].

Secondo l'esperto l'unico modo che avevano le Brigate Rosse di legittimarsi in qualche modo e distruggere i tentativi di
stabilizzazione da lui portati avanti, sarebbe stato il rilascio di Moro, ma questo non avvenne.

Il fatto che fosse tornato in America anzitempo, secondo quanto affermato, era dovuto al fatto che non voleva dare
l'impressione che dietro la ormai prevedibile morte di Moro vi potessero essere pressioni statunitensi.[108]
Precedentemente aveva invece affermato che se ne era andato perché la sua presenza non fosse strumentalizzata per
legittimare l'operato (ritenuto inefficiente e compromesso) delle istituzioni.[15]

L'ipotesi del tiratore scelto

Sul luogo della strage sono stati ritrovati 93 bossoli. Con questo elevato numero di colpi sparati in pochi secondi
vengono colpiti tutti gli uomini della scorta di Aldo Moro: Oreste Leonardi Domenico Ricci, Giulio Rivera, Raffaele
Iozzino e Francesco Zizzi; tuttavia il Presidente della DC resta vivo, il che potrebbe far pensare ad un'elevata esperienza
da parte di chi stava usando quelle armi. Il brigatista Morucci però ha sempre affermato che le BR erano non addestrate
professionalmente ed anzi erano grossolane nell'uso delle armi. Secondo le perizie balistiche presentate al Processo
"Moro - Quater", una sola arma automatica risulta aver sparato più della metà dei colpi quel giorno: 49 colpi in 20
secondi. Tuttavia l'autopsia sul cadavere di Moro ha evidenziato una ferita da arma da fuoco sulla coscia, riconducibile
alla sparatoria dell'agguato; poiché Moro sedeva da solo sul sedile posteriore della sua vettura, non sarebbe risultato
molto difficile per gli aggressori dirigere il fuoco delle loro armi verso la parte anteriore della vettura, dove si trovava
l'autista e la guardia del corpo. I componenti del commando di via Fani indossavano divise da aviazione civile, invece di
indossare vestiti in grado di farli passare inosservati, sia prima dell'operazione, sia durante la fuga; per quanto
l'indossare divise offra il vantaggio di una omogeneizzazione visiva delle persone, rendendole meno distinguibili
singolarmente. Partendo dai dubbi sull'apparente professionalità mostrata nel colpire la scorta senza uccidere Moro,
alcuni hanno ipotizzato che nel commando vi fosse un tiratore scelto armato di mitra a canna corta, che sarebbe colui il
quale ha sparato la maggior parte dei colpi, la cui identità sarebbe ancora sconosciuta. Relativamente a questo ipotetico
"killer" alcuni[110], ipotizzano potrebbe essere stato un componente del servizio segreto (italiano o straniero) o
dell'organizzazione clandestina Gladio estraneo all'organizzazione brigatista e che le divise sarebbero quindi state
necessarie per rendere riconoscibili a prima vista e reciprocamente i brigatisti ed il tiratore scelto. Addirittura, il
settimanale L'Espresso[111] propone un'identità al fantomatico cecchino. Si tratterebbe di un tiratore scelto ex membro
della Legione Straniera, Giustino De Vuono, colui che avrebbe sparato tutti i 49 colpi andati a segno, e – soprattutto –
tutti quelli che hanno centrato gli uomini della scorta, guardie del corpo esperte ed abituate a rispondere al fuoco. Agli
atti della Questura di Roma si trova depositata una testimonianza, contenuta in un verbale datato 19 aprile 1978, in cui il
teste Rodolfo Valentino afferma di aver riconosciuto De Vuono alla guida di una Mini o di un'A112 di color verde e
presente sulla scena dell'eccidio. Durante il periodo del rapimento dello statista – peraltro – De Vuono risulta assente
dalla sua abituale residenza, a Puerto Stroessner (oggi Ciudad del Este, nel Paraguay meridionale, all'epoca dei fatti retto
da una giunta militare trentennale con a capo il generale Alfredo Stroessner). De Vuono era affiliato alla 'Ndrangheta
calabrese e diversi brigatisti testimoniarono che le loro armi venivano acquistate presso i malavitosi calabresi e che De
Vuono era ideologicamente “collocato all'estrema sinistra” ed è stato provato che in Calabria lo stato aveva avviato
contatti con la malavita per ottenere il rilascio dello statista rapito. In alternativa, l'identità del fantomatico tiratore scelto
avrebbe potuto anche essere stata straniera. Un testimone occasionale - che si trovava a passare per via Fani circa
mezz'ora prima della strage - sarebbe stato affrontato da un uomo che aveva l'accento tedesco e che gli ordinò di
scappare via di lì. Si presume che fosse un appartenente alla RAF, l'organizzazione terroristica tedesca che sei mesi
prima aveva pianificato ed eseguito un rapimento simile ai danni del presidente della Confindustria tedesca[112]. Le
perizie[113] hanno appurato che in via Fani vennero usate anche munizioni di provenienza speciale (ricoperte di una
vernice protettiva usata per avere una migliore conservazione), e simili pallottole furono trovate anche nel covo di via
Gradoli. Questo tipo di proiettili non sarebbe in dotazione alle forze convenzionali e munizioni con trattamento simile
sarebbero state trovate anche in alcuni depositi segreti di armi facenti riferimento a Gladio. Inoltre, alcuni testimoni
occasionali dichiararono di aver udito un forte rumore di elicottero sorvolare la zona di Via Fani in concomitanza della
strage, sebbene dai piani di volo risultino solo elicotteri della polizia in volo su quell'area ma a partire dalla tarda
mattinata, a sequestro compiuto[114]. C'è – infine - l'autorevole dichiarazione rilasciata alla stampa da parte del Generale
Gerardo Serravalle, fino al 1974 a capo di Gladio, secondo il quale: “… dietro la "Geometrica Potenza" brigatista
dispiegata in via Fani c'erano killers professionisti: Uno che spara in quel modo, centrando come birilli, tutti gli uomini
della scorta senza lasciar loro il tempo per la fuga o per la difesa, è senza dubbio alcuno un tiratore scelto di altissimo
livello; 49 colpi in una manciata di secondi: un record. In Europa di siffatti uomini si contano sulle dita d'una
mano !”[115].

modifica Dubbi sullo svolgimento del rapimento

Molti sono anche i dubbi che le indagini e la pubblicistica si sono posti circa la dinamica dei fatti di Via Fani[97].

• Il giorno dell'attentato, inspiegabilmente i mitra degli agenti di scorta a Moro si trovavano nei bagagliai
delle auto.[116]

• Gli agenti di scorta dello statista (l'appuntato dei carabinieri Otello Riccioni, il maresciallo di Pubblica
Sicurezza Ferdinando Pallante, il brigadiere Rocco Gentiluomo e gli agenti Vincenzo Lamberti e Rinaldo Pampana) -
che la mattina fatidica del rapimento non erano in servizio - rilasciarono dichiarazioni scritte stranamente molto simili
tra il 13 ed il 26 settembre 1978 ai giudici istruttori Ferdinando Imposimato ed Achille Gallucci. In sostanza, attestavano
che lo statista era un individuo abitudinario a tal punto che usciva di casa sempre alla medesima ora, alle h. 09.00
antimeridiane, cosicché i brigatisti, pedinandolo, avrebbero avuto la certezza dei tempi per l'agguato. Viceversa, la
vedova dello statista smentì questa versione il 23 settembre 1978 interrogata dal giudice istruttore Achille Gallucci.[117]

• La Signora Moro, precipitatasi sul luogo della strage di Via Fani, chiese cosa fosse successo e le venne
risposto dagli agenti che "Era opera delle BR". Ma la rivendicazione giunse qualche ora dopo. Tuttavia in quel periodo,
nel mezzo degli anni di piombo, le azioni di fuoco delle Brigate Rosse contro istituzioni dello stato e persone legate ad
esso erano così frequenti che ogni evento del genere era in prima battuta attribuito loro; ancor oggi nella pubblicistica
relativa a quegli anni certi eventi delittuosi sono sbrigativamente attribuiti alle BR, anche se commessi da appartenenti
ad altri gruppi storicamente di minor rilevanza.

• Di nuovo la Signora Moro fece presente in aula che nelle lettere del marito recapitate dai brigatisti non
risulta il minimo accenno al destino della scorta, ma considerando i legami stretti, umani oltreché professionali tra lo
statista e le guardie del corpo sarebbe - a suo avviso - inimmaginabile che il marito non avesse speso una sola parola per
quelle vittime[118].

• Il 1º ottobre 1993 su incarico della Corte i periti balistici depositarono una nuova perizia dove si afferma
che, contrariamente a quanto dichiarato da Morucci, a sparare sulla 130 ci fosse stato almeno un altro brigatista
collocato sul lato destro dell'auto dalla parte del passeggero[119].

• Che il numero dichiarato dei terroristi presenti quella mattina in Via Fani fosse alquanto esiguo
(inizialmente essi dissero d'esser stati in nove; successivamente in undici) lo affermò anche uno dei fondatori delle BR,
Franceschini[120]: "Quando rapimmo Mario Sossi, nel '74, eravamo in dodici. Esser in undici a dover gestire un
rapimento complesso come quello di Moro mi sembra quanto meno azzardato". Infatti, a detta dei periti[121], il
commando non poteva esser composto da meno di quattordici membri.

• Il giorno del rapimento si trovò a passare in via Fani in motorino l'ingegnere Alessandro Marini, che ha
dichiarato che due persone a bordo di una motocicletta Honda di grossa cilindrata esplosero dei colpi contro di lui. La
motocicletta avrebbe preceduto l'auto di Moretti. Ma le Brigate Rosse hanno sempre negato che quella moto e i suoi due
occupanti facessero parte del commando e neppure viene fornita una ipotesi su dei presunti spari contro Marini.[97]

• Esistevano almeno tre possibili percorsi che, la mattina del rapimento, la scorta avrebbe potuto seguire. Gli
itinerari erano cambiati di volta in volta, eppure i brigatisti tagliarono tutte le gomme del furgone d'un fioraio che aveva
bottega in Via Fani, per non farlo giungere in loco (sarebbe stato un testimone scomodo e avrebbe potuto essere di
intralcio nell'operazione): significa che i brigatisti erano certi che la scorta avrebbe optato per quel preciso percorso.

• Altro dubbio è sul momento scelto per la il rapimento: Moro si recava ogni mattina in chiesa (la Chiesa di
Santa Chiara in Via Forte Trionfale) col nipotino, e - subito dopo - ad una passeggiata con uno solo dei suoi uomini di
scorta. I brigatisti avrebbero potuto rapirlo in quel frangente, non dovendo confrontarsi con la scorta (Moretti dichiarò in
tribunale che già dal 1976 iniziò il pedinamento di Moro, quindi, le sue abitudini erano più che note al commando
brigatista).

• Ad agevolare la fuga del commando un improvviso blackout interruppe le comunicazioni telefoniche della
zona[122]. La SIP per tutto il periodo del sequestro risultò inefficiente: "Si susseguono durante i 55 giorni di prigionia
dell'On. Moro, strane quanto improbabili coincidenze legate all'azienda dei telefoni: il 14 aprile alla redazione de Il
Messaggero, è attesa una telefonata dei rapitori; vengono così raccordate in un locale della polizia, per poter stabilire la
derivazione, le sei linee della redazione del giornale. Ma al momento della chiamata la Digos accerta l'interruzione di
tutte e sei le linee di derivazione e non può risalire al telefonista... L'allora capo della Digos parla, nelle sue
dichiarazioni agli inquirenti, di totale non collaborazione della SIP. ...In nessuna occasione fu individuata l'origine delle
chiamate dei rapitori: eppure furono fatte due segnalazioni…. L'allora direttore generale della SIP, Michele Principe, era
iscritto alla P2[123]."

• In pochi secondi i brigatisti prelevarono solo due delle cinque borse che Moro portava con sé in auto, ma
solo le borse contenenti i medicinali ed i documenti riservati vennero portate via. Risulta assai improbabile che - nei
pochi concitati istanti dell'agguato, i brigatisti avessero portato via proprio le uniche borse che interessavano, lasciando
quelle non essenziali. Vi è chi ha ipotizzato che le borse mancanti siano state prelevate successivamente nel corso delle
prime indagini sul posto.

• In un agguato con stretti tempi d'esecuzione, risulta inspiegabile che si perda tempo a dare il colpo di grazia
a ciascun uomo della scorta, salvo esigenze dettate dal pericolo di lasciare in vita eventuali scomodi testimoni.

• La giornalista Rita Di Giovacchino, in un suo libro[124], scrive di aver avuto accesso alle carte poste sotto
sequestro dalla Magistratura romana a seguito dell'omicidio di Carmine Pecorelli, e ricostruisce la vicenda in modo che
tutti i tasselli possano combaciare. Da testimonianze oculari, al termine della messa mattutina Moro avrebbe annuito ad
un messaggio verbale suggeritogli nell'orecchio da parte del capo della scorta. Moro sarebbe stato affidato ad un'altra
scorta, mentre la scorta originale avrebbe funto da "civetta" imboccando Via Fani, dove sarebbe stata a propria insaputa
massacrata da un tiratore scelto ignoto ai brigatisti, ma - paradossalmente - noto agli agenti uccisi. La scorta sarebbe
stata sacrificata per non lasciare liberi cinque scomodi testimoni. Sarebbe una messinscena postuma anche quella delle
auto della scorta intrappolate nel blocco creato dai brigatisti. Moro non sarebbe stato prigioniero dei terroristi, bensì di
un'altra organizzazione: in pratica i brigatisti avrebbero funto da "prestanome" e questo spiegherebbe le reticenze
emerse tra i terroristi sul nome di colui che effettivamente sparò allo statista, sul fatto che venne trovata della sabbia
sulle suole delle scarpe del cadavere di Moro e sui gettoni telefonici ritrovati nella tasca della sua giacca, nonché sull'ora
della morte e sulla tonicità muscolare del cadavere. Questo spiega anche la sibillina frase che pronunciò Sereno Freato -
segretario particolare dello statista democristiano - dopo il ritrovamento del cadavere di Pecorelli: "Indagate sui
mandanti del delitto Pecorelli e troverete i mandanti dell'omicidio di Moro". E spiega pure le morti di Carmine Pecorelli
e di Antonio Chichiarelli, il falsario della Banda della Magliana che possedeva le Polaroid della prigionia di Moro e che
redasse il falso comunicato brigatista, nell'ottica di un suo tentativo di ricatto (il borsello "distrattamente" dimenticato in
un taxi a Roma nel 1979 e pieno d'indizi riferiti al sequestro dello statista democristiano e la messinscena posta in atto al
termine della rapina plurimiliardaria alla Brink's Securmark di Roma nel 1984). Anche la morte del tenente colonnello
dei Carabinieri, Antonio Varisco, nel 1979, attribuita ai brigatisti - nonostante i dubbi circa la dinamica dell'attentato e le
contraddizioni emerse nelle dichiarazioni di brigatisti al processo - sarebbe riconducibile a questa pista, tanto più che
Varisco fu colui che gestì materialmente il caso del covo brigatista di Via Gradoli. Varisco era amico del generale dei
Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, il coordinatore della lotta al terrorismo, ed anche di Pecorelli. Pecorelli e
Varisco vennero uccisi a distanza di pochi mesi. Dalla Chiesa venne ucciso a Palermo dalla Mafia in assenza di scorta
nel 1982 e molti congetturarono che il suo trasferimento in Sicilia fosse ascrivibile più ad una punizione - con relativa
condanna capitale - che non ad una promozione. E - per terminare - anche la stamperia ed i macchinari con cui venivano
redatti i ciclostilati delle BR appartenevano solo nominalmente al fiancheggiatore brigatistaEnrico Triaca, quando - in
realtà - erano di proprietà dei servizi segreti (i macchinari poi, erano costosissimi e nuovi di zecca).

modifica Altri sospetti e aspetti controversi

• Le stranezze iniziano dai mai stabiliti rapporti tra Brigate Rosse, Servizi Segreti e Malavita, il "Triangolo
delle Bermude", come lo definì Carlo Lucarelli, conduttore della trasmissione televisiva Blu notte nella puntata specifica
dedicata al Caso Moro.
• La Banda della Magliana in quel periodo dettava legge nella malavita della Capitale. A
quest'organizzazione criminale apparteneva Antonio Chichiarelli, l'autore del falso volantino brigatista. Inoltre, il covo
brigatista ove Moro venne tenuto sotto sequestro si trovava nel famigerato quartiere della Magliana ed anche il
proprietario dell'edificio di fronte al covo era vicino alla banda della Magliana.[125]

• All'epoca del ritrovamento del cadavere, e nei giorni immediatamente successivi, alcuni quotidiani a
tiratura nazionale asserirono che nelle tasche dell'abito dello statista fossero stati ritrovati dei gettoni telefonici, il che
avrebbe lasciato adito a dubbi sul fatto che i brigatisti avessero intenzione di rilasciare l'ostaggio. I gettoni telefonici -
infatti - venivano forniti dai brigatisti ai rapiti che avevano intenzione di liberare in modo che potessero comunicare ai
congiunti ove esser prelevati[126].

• Aspetti che non tornano pure sul luogo di detenzione: il cadavere di Moro presentava una buona tonicità
muscolare ed un'igiene incompatibili con le condizioni di detenzione nel "Carcere del Popolo" descritto dai brigatisti
catturati. In esso, poi, era virtualmente assente lo spazio per poter scrivere le missive.

• Dopo la 'condanna' e prima dell'uccisione, l'allora confessore di Moro - in base ad una dichiarazione di
Francesco Cossiga - Don Antonello Mennini entrò nella cella in cui le Brigate Rosse tenevano rinchiuso Aldo Moro per
impartire allo statista i sacramenti. Nessuna replica da parte del religioso[127]

• I giornalisti Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca nel loro libro "Il misterioso intermediario" sostengono
che Moro era vicino alla liberazione, salvato da una mediazione della Santa Sede. Condotto in un palazzo del ghetto
ebraico, stava per essere trasportato in Vaticano su un'auto con targa diplomatica, ma all'ultimo momento qualcuno
all'interno delle BR non avrebbe mantenuto gli impegni, ed avrebbe ucciso lo statista. Dà spazio a congetture l'ambiguo
commento di Francesco Cossiga che definì il libro "bellissimo".

• Altri scenari, addirittura esoterici, sono evocati nel libro di Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca Il
misterioso intermediario che chiama in causa il direttore d'orchestra Igor Markevitch come oscura figura di raccordo sul
caso Moro.

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