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anno ventesimo 2012 uno

Il pensiero
economico
italiano
Rivista semestrale

ESTRATTO

Fabrizio Serra editore


Pisa · Roma
Direttore
Massimo M. Augello (Università di Pisa)

Comitato scientifico
Marco Bianchini (Università di Parma), Piero Bini (Università di Roma iii), Valerio
Castronovo (Università di Torino), Duccio Cavalieri (Università di Firenze), Francesco Di
Battista (Università di Bari), Riccardo Faucci (Università di Pisa), Antonio M. Fusco (Uni-
versità di Napoli «Federico II»), Vitantonio Gioia (Università di Macerata), Augusto Graziani
(Università di Roma i), Jean-Pierre Potier (Università di Lione ii), Riccardo Realfonzo
(Università del Sannio), Eugenio Zagari (Università di Napoli «Federico II»)

Redazione
Marco E. L. Guidi (Università di Pisa · redattore capo), Fabrizio Bientinesi (Università di Pisa),
Carlo Cristiano (Università di Pisa), Pasquale Cuomo (Università di Pisa), Daniela Giaconi
(Università di Pisa), Terenzio Maccabelli (Università di Brescia), Luca Michelini (Università
di Pisa), Rosario Patalano (Università di Napoli «Federico II»),
Giovanni Pavanelli (Università di Torino)

Sede della redazione


Dipartimento di Scienze Economiche, Università di Pisa, Via C. Ridolfi 10, i 56124 Pisa,
tel. +39 050 2216206, fax +39 050 2216384

Corrispondenza e materiali vanno inviati a Massimo M. Augello,


Dipartimento di Scienze Economiche, Università di Pisa, Via C. Ridolfi 10, i 56124 Pisa,
tel. +39 050 2216296, fax +39 050 2216384

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«Il pensiero economico italiano» · xx/2012/1

LA T EORI A DEL SA L A RI O CO R P O R AT I VO
I N GU GL I EL MO M A S CI
Guglielmo Forges Davanzati
Università del Salento
Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo
e
Rosario Patalano*
Università di Napoli «Federico II»
Dipartimento di Economia

1. Introduzione

È noto che il movimento corporativista italiano si articolò su un ampio spettro di posi-


zioni analitiche. La posizione estremistica e minoritaria, rappresentata da Ugo Spirito,
negava in toto la valenza dell’economia ortodossa, rappresentata in Italia dall’eredità dottri-
nale edonistica di Pantaleoni e di Pareto, per proporre una nuova dottrina scientifica basa-
ta sull’identificazione tra Stato e individuo, secondo le linee delineate dall’idealismo di Gio-
vanni Gentile. La posizione nazionale o mercantilistica, rappresentata soprattutto da Gino
Arias,1 puntava invece a identificare il corporativismo con il perseguimento di interessi di
potenza nazionale, riferendosi direttamente alla tradizione mercantilistica, alle teorie di Fe-
derich List e della Scuola storica tedesca.2 Una terza posizione maggioritaria, che potrem-
mo definire di edonismo corporativo,3 si muoveva su linee di conciliazione tra l’economia pu-
ra e la dottrina politica del corporativismo, attribuendo a quest’ultima una valenza di
carattere normativo. Il corporativismo forniva la cornice istituzionale entro la quale si muo-
vevano gli attori economici guidati dal principio della razionalità edonistica. Il corporativi-
smo in definitiva si riduceva ad essere per questi economisti una sorta di nuova politica eco-
nomica basata sui principi dell’economia pura che ne forniva l’apparato analitico.4
L’approccio dell’edonismo corporativo fu prevalente nell’ambito dell’insegnamento della
nuova disciplina dell’economia corporativa nell’Università di Napoli. Sia Guglielmo Masci
che Giuseppe Ugo Papi,5 successori di Augusto Graziani come titolari della cattedra di Eco-
nomia politica dell’Ateneo napoletano (denominata dal 1935 Economia generale e corpora-
tiva), dopo il forzato allontanamento di quest’ultimo dall’economia politica alla scienza del-

* Si desidera ringraziare il prof. Piero Bini e due anonimi referees per le preziose indicazioni offerte. La re-
sponsabilità di eventuali errori o omissioni resta degli autori.
1 Arias 1930. Faucci usa il termine «conservatore» per definire questo gruppo (cfr. Faucci 2000, p. 301).
2 Sulla diffusione internazionale delle dottrine corporativiste, con particolare riferimento alla Francia, si rinvia
a Mornati 1997.
3 Arias definiva questo approccio come neo-edonismo corporativo (cfr. Arias 1937, p. 8).
4 In questa posizione si collocano i contributi di Fovel 1930, Demaria 1937, Amoroso, de’ Stefani 1934.
5 Guglielmo Masci, allievo di Augusto Graziani, gli succederà nella titolarità dell’insegnamento nel 1934, Giu-
seppe Ugo Papi subentrerà a Masci nel 1935 e reggerà la cattedra napoletana di Economia generale e corporativa
fino al 1938.
36 Guglielmo Forges Davanzati · Rosario Patalano
le finanze, confermarono la validità dei teoremi dell’economia pura inserendoli nella nuo-
va cornice istituzionale rappresentata dall’ordinamento corporativo.
In questo saggio ci si propone di individuare il nucleo analitico dell’approccio dell’edoni-
smo corporativo che fu alla base dell’insegnamento nell’Ateneo napoletano, con particola-
re riferimento al pensiero di Guglielmo Masci1 e alla sua teoria del salario corporativo.2
L’ipotesi interpretativa adottata fa riferimento all’idea che, almeno per questi aspetti del
pensiero corporativo (e, in particolare, per quanto riguarda la teoria del salario), si registra
una sostanziale continuità fra il pensiero degli economisti meridionali dei primi decenni del
Novecento e quello degli economisti corporativisti loro successori all’Università di Napoli.
In entrambi i casi, come si avrà modo di rilevare, si fa propria una visione conflittualista dei
rapporti di produzione, assumendo, cioè, che le relazioni industriali siano caratterizzate dal
confronto di poteri contrattuali fra datori di lavoro e lavoratori e che, dunque, la categoria del
potere sia di massima rilevanza nell’analisi dei fenomeni economici.
L’esposizione è organizzata come segue. Nel paragrafo 2 si fornisce una ricostruzione del
dibattito sulla determinazione del salario e sulle politiche del lavoro nei primi due decenni
del Novecento, a partire dalla teorie di Francesco Saverio Nitti e di Augusto Graziani. Nel
paragrafo 3 si ricostruisce criticamente la teoria del salario corporativo di Guglielmo Masci,
e il paragrafo 4 fornisce alcune considerazioni conclusive.

2. L’eredità teorica di Francesco Saverio Nitti e Augusto Graziani


Il contributo analitico di Guglielmo Masci sul problema della determinazione del salario
non può essere pienamente compreso se non si fa riferimento alla tradizione teorica napo-
letana che, come è noto, all’inizio del secolo, su questo tema, si fondava sull’impianto teo-
rico della dottrina degli alti salari.
Dalle colonne della «Riforma sociale» fu Nitti ad elaborare una peculiare teoria del mer-
cato del lavoro, a partire dall’analisi delle caratteristiche fisico-psicologiche del lavoro uma-
no. L’argomentazione si muove su due piani distinti: un piano analitico, nel quale Nitti mo-
stra gli effetti positivi sulla produttività derivante da una politica di elevate retribuzioni, e
un piano normativo, nel quale l’autore individua gli strumenti legislativi di intervento ido-
nei a garantire aumenti dell’efficienza del lavoro. Gli alti salari generano un aumento della
produttività del lavoro e dei profitti sia per l’operare di effetti nutrizionali e psicologici, sia
anche perché incentivano l’introduzione di innovazioni. «Il vile prezzo della mano d’opera»
– osserva infatti Nitti – «fa sì che l’industriale stesso non sia spinto dalla necessità di ricorre-
re ai perfezionamenti industriali» e, d’altra parte, «tutte le grandi scoperte industriali sono
state fatte ogni giorno o almeno sono applicate nei paesi ad alti salari e a brevi giornate di
lavoro» (Nitti 1893, p. 24).3

1 Guglielmo Masci nacque a Napoli il 18 novembre 1889. Laureatosi in Giurisprudenza a Napoli con una tesi
sulla Dottrina del valore di concorrenza: vecchie e nuove teorie, seguita da Augusto Graziani, conseguì la libera docen-
za in Economia politica nel 1915 all’Università di Perugia. Insegnò successivamente alle Università di Sassari e di
Palermo e, dal 1931, all’Università di Napoli. Nel 1935 fu chiamato a insegnare Economia politica all’Università di
Roma. Morì a Roma il 13 gennaio 1941.
2 Sulla concezione del salario corporativo di Masci cfr. Bini 1982, pp. 260-262, 272-273.
3 Occorre richiamare l’attenzione sul fatto che nell’opera di Nitti non vi sono chiare indicazioni su come vie-
ne determinato il salario corrente. Dalla sua argomentazione, mentre si deduce chiaramente che il principio di
fondo è dato da una teoria del potere contrattuale (dove quest’ultimo è fatto dipendere dalla minore possibilità di
attesa del lavoratore rispetto al datore di lavoro), non altrettanto chiaramente risulta determinato il limite
all’espansione del monte salari. Ciò a ragione del fatto che l’autore non sviluppa una teoria della domanda di
La teoria del salario corporativo in Guglielmo Masci 37
L’aumento della produttività del lavoro può verificarsi anche a seguito di una riduzione
della durata della giornata lavorativa: su questo aspetto, Nitti osserva che «quegli stessi eco-
nomisti i quali mettevano a base dell’economia individualista e pessimista tre pretese leggi
economiche: la legge di Malthus, la legge del fondo-salari e la legge dei compensi decrescenti,
non abbiano poi pensato che la legge dei compensi decrescenti si applica ben più all’uomo
che alla terra e che, dopo un certo numero di ore lavoro – variabile secondo le industrie, le
razze e i Paesi – è necessario uno sforzo molto maggiore per produrre risultati molto mino-
ri» (ivi, p. 21). Vi sono rendimenti decrescenti delle ore lavoro sia in ragione di un fatto fisio-
logico (il sopravvenire della stanchezza), sia in ragione di un fatto psicologico («quando la-
vorano a malincuore, gli uomini hanno il cuore in sciopero»). Oltre certi limiti, allora,
l’aumento della durata della giornata lavorativa non implica crescita della produzione.
Quale visione di policy è allora possibile riscontrare al fondo delle argomentazioni del-
l’economista lucano?
Io credo fermamente – è lo stesso autore a precisare – che la risoluzione del problema sociale, se mai
una risoluzione completa potrà esservi, più che nella legge, più che nella costrizione, deve essere nel-
la libera associazione, cioè nello sviluppo dei sentimenti di solidarietà. Ma credo pure che, nei paesi
economicamente e socialmente poco progrediti, la legge deva avere, oltre che una funzione sociale
ed economica, anche una funzione educativa […]. È solo mediante [la legge] che i forti comprendo-
no che vi è qualcosa di superiore e di più elevato della forza; da principio l’obbedienza non è che l’ef-
fetto della costrizione, ma passa man mano nelle abitudini ed entra presto o tardi nei costumi.
(Nitti, enon, 1966, pp. 14-15)

La legge si rende necessaria, a parere dell’autore, per una duplice ragione.


i. Perché il potere contrattuale dei capitalisti è di gran lunga superiore al potere contrat-
tuale dei lavoratori: «Quasi sempre» – scrive Nitti – «l’operaio non può né discutere, né pro-
testare […]. Egli non solo non è nello stato di discutere il suo salario e deve accettarlo: ma
deve, e ciò è più grave ancora, quando la legge non lo tutela, accettare che questo salario gli
sia pagato nel modo più ingiusto». L’asimmetria nel potere contrattuale fa sì che – in assenza
di un intervento esterno – il salario verrebbe a essere sistematicamente compresso al livel-
lo di sussistenza; il che genera, da un lato, una riduzione dell’efficienza dei lavoratori, per-
ché questi sono costretti a un regime nutritivo prossimo alla pura sopravvivenza e perché,
essendo pagati poco, provano avversione al lavoro, dall’altro, una riduzione dell’efficienza

lavoro, limitandosi a criticare la teoria del fondo-salari e la teoria marginalistica (vi è però da notare che Nitti non
fa riferimento al fatto che un aumento del salario possa generare disoccupazione – cosa che, va da sé, costituirebbe
una seria controindicazione a una politica di alti salari –, il che esclude – ragionando a contrario – che egli consi-
deri implicitamente una domanda di lavoro decrescente al crescere dell’occupazione e che induce a ritenere che
assuma una domanda di lavoro inelastica). Se l’aumento del saggio del salario non genera disoccupazione (se cioè
la domanda di lavoro è inelastica), ciò che si può inferire è che l’aumento dei salari produce una riduzione dei pro-
fitti. E, allora, il limite massimo all’espansione del monte salari sarebbe dato dal punto in cui i profitti si annullano.
Nitti non chiarisce, però, quale sia il limite socialmente efficiente all’espansione del monte salari, ovvero quale sia
il valore che il monte salari deve assumere per rendere massima la produttività dei lavoratori.
Merita anche di essere osservato che, per Nitti, gli alti salari producono l’ulteriore effetto benefico di frenare la
dinamica demografica. Si tratta di un effetto benefico nella misura in cui una ridotta crescita della popolazione
comporta una bassa crescita dell’offerta di lavoro, un conseguente aumento dei salari, dunque un miglioramento
progressivo delle condizioni delle classi lavoratrici: nelle sue parole, ciò dovrebbe accadere perché: «Costringete un
uomo a lavorare 12 o 14 ore al giorno, a contentarsi di un salario tenue; impeditegli di partecipare ai beni superiori
della civiltà, e vedrete se egli potrà avere altri piaceri al’infuori di quelli del senso, e se potrà avere altra tendenza
fuori di quella di proliferar molto» (Nitti 1893, p. 27). Si è di fronte a una posizione fermamente antimalthusiana,
che appare in linea con i contemporanei sviluppi della riflessione in materia all’estero (ci si riferisce, in particola-
re, alla teoria demografica dei coniugi Webb).
38 Guglielmo Forges Davanzati · Rosario Patalano
dell’impresa, perché – prevalendo bassi salari – questa non è forzata a introdurre migliora-
menti tecnici e organizzativi.
ii. Perché, in secondo luogo, il capitalismo è un sistema intrinsecamente conflittuale, nel
quale vi è una immanente tendenza del più forte a ‘sfruttare’ il più debole: nelle parole di
Nitti, «il padrone non resiste al desiderio di sfruttare il lavoratore: questi […] si crede sem-
pre ingannato e vede crescere nel suo cuore il sospetto e l’odio. Se tace, tace perché teme di
essere mandato via, non già perché non sospetti e non odi» (Nitti, enon, 1966, pp. 12 e 13).
Questa conflittualità si accompagna alla contraddizione fra interessi di breve e interessi di
lungo periodo. I datori di lavoro, per Nitti, sono tendenzialmente – e per effetto della con-
correnza – interessati ai profitti di breve periodo, che essi possono agevolmente accrescere
riducendo i salari (o opponendosi alla riduzione del tempo di lavoro). Nel lungo periodo,
tuttavia, a tale strategia fa seguito una riduzione della produttività del lavoro e, dunque, un
volume di produzione minore di quello che si potrebbe avere accordando un trattamento
retributivo migliore ai lavoratori.
Se, allora, il lavoratore trae incentivi dal ricevere un trattamento migliore, se tali incenti-
vi si traducono in guadagni di efficienza e se questo miglior trattamento non viene sponta-
neamente accordato dai datori di lavoro, ne segue che il miglioramento delle condizioni del-
le classi lavoratrici può essere soltanto demandato all’intervento delle autorità pubbliche.
Conclusione, questa, che Nitti coerentemente trae dalla propria indagine e che lo induce a
scrivere: «quante volte veggo che una misura legislativa incontra le resistenze della classe
industriale, e che questa la respinge dicendola dannosa agli operai, io […] comincio subito
a temere che sia al contrario molto utile» (ivi, p. 17).
Le rivendicazioni delle classi lavoratrici non appagano un interesse di parte ma produco-
no effetti benefici per l’intera società.
In relazione alle modalità di intervento, Nitti propone i seguenti strumenti:
a) In primo luogo, egli si dichiara favorevole all’intervento della legge nel contratto di
lavoro. Questo intervento dovrebbe essere volto a impedire quell’insieme di strategie at-
traverso le quali i datori di lavoro peggiorano il trattamento non retributivo dei propri di-
pendenti al fine di accrescere i profitti di breve termine: l’intervento nel rapporto di lavo-
ro ha il fine di accrescere l’efficienza «di sistema», poiché queste strategie messe in atto
dalle imprese accrescono la disaffezione al lavoro o peggiorano la qualità della forza-la-
voro e riducono, nel medio-lungo periodo, la produttività. D’altra parte, l’intervento del-
la legge si rende necessario perché i datori di lavoro – in quanto interessati ai profitti di
breve termine – non hanno immediata convenienza ad agire in tal senso. Andrebbe disci-
plinata, per Nitti, la pratica del truck system, andrebbe ridotto l’orario di lavoro, andrebbe
introdotta una legislazione sugli infortuni del lavoro,1 andrebbe, infine, sancito il princi-
pio che egli definisce della «insequestrabilità» dei salari, a partire dalla constatazione stan-
do alla quale «la nostra legislazione sociale è poverissima» (ivi, p. 484).2 Il prolungamen-

1 Su questo aspetto Nitti oscilla fra due posizioni contrastanti, poiché non nasconde il rischio che il costo del-
l’assicurazione obbligatoria venga posto dai datori di lavoro a carico dei salari dei propri dipendenti. Cfr. Nitti,
enon, 1966, pp. 497 sgg.).
2 Sulle argomentazioni che l’autore propone contro il truck system (cfr. Nitti 1893); sulle argomentazioni po-
sposte per «l’insequestrabilità dei salari» (in sostanza l’obbligo del pagamento settimanale) cfr. Nitti, enon, 1966,
pp. 42-51). Nitti rileva che i datori di lavoro comprimono le retribuzioni e accrescono i propri profitti anche per vie
indirette, utilizzando opportune modalità di pagamento: in primo luogo, obbligando i propri dipendenti ad ac-
quistare con i salari monetari ricevuti merci vendute da negozi di proprietà dei padroni dell’impresa (truck system),
lucrando o sul prezzo di vendita di tali beni (che viene fissato al livello di monopolio), o sulla (peggiore) qualità
La teoria del salario corporativo in Guglielmo Masci 39
to della giornata lavorativa è un ulteriore fattore di deterioramento della qualità della
forza-lavoro. Per Nitti una legislazione sociale che impedisca questi abusi non risponde
soltanto a un criterio di giustizia, ma anche a un criterio di efficienza, giacché, miglio-
rando il trattamento non retributivo dei lavoratori, ne riduce la disaffezione al lavoro e ne
accresce l’impegno. In più, rileva Nitti, la norma giuridica tende a trasformarsi, nel tem-
po, in norma etica; viene interiorizzata nelle condotte individuali e consente di ottenere
– a lungo andare – esiti socialmente efficienti anche per il solo spontaneo conformarsi ad
essa dei datori di lavoro.
b) Nitti ritiene anche necessario l’intervento diretto nel mercato del lavoro, da realizzarsi
prevalentemente attraverso una legislazione sociale favorevole all’azione sindacale. La ri-
vendicazione di salari più elevati di quelli che vengono spontaneamente accordati dai dato-
ri di lavoro ha, infatti, come effetto – si è visto – di accrescere la produttività del lavoro e la
qualità della forza-lavoro nel lungo periodo. Nitti immagina, a riguardo, un effetto cumu-
lativo, così schematizzabile: un aumento dei salari genera, da un lato, un aumento della pro-
duttività e, dunque, della produzione nel lungo periodo, dall’altro, una maggiore disponi-
bilità del lavoratore al tempo libero. Non essendo infatti costretto a lavorare per soddisfare
i propri bisogni essenziali, il lavoratore rivendica una riduzione del proprio tempo di lavo-
ro. La fruizione di maggior tempo libero induce, nel lavoratore, la percezione di nuovi bi-
sogni (è ciò che Nitti definisce l’«incontentabilità» delle masse operaie) e ciò genera ulteriori
rivendicazioni salariali necessarie a soddisfarli. L’incontentabilità rappresenta, allora, la va-
riabile chiave che consente a un sistema regolamentato di percorrere un circolo virtuoso di
sviluppo, giacché fa sì che non si esaurisca mai la spinta a ulteriori rivendicazioni salariali.
Come è stato messo in evidenza, in Nitti, «l’‘incontentabilità’ non [è] un generico senti-
mento umano, bensì un elemento distintivo di una determinata civiltà economica, [così che]
cause ed effetti degli ‘alti salari’ si autodefiniscono in una logica di mutua dipendenza, per-
mettendo a Nitti di convalidare che nei Paesi anglo-sassoni, dove tale civiltà è più sviluppa-
ta, «la causa dell’alto salario è generalmente in essa» (Bini 1995, p. 38).
Più in generale, Nitti pensa a un ampliamento delle funzioni dello Stato nell’economia,
proponendo un disegno organico di politica economica di segno marcatamente ‘interventi-
sta’ (cfr. Barbagallo 1976, 1987). Una prescrizione, questa, che riflette, in ultima analisi,
una visione riformista, nella quale, assumendo il capitalismo come una formazione sociale
intimamente conflittuale, la ricomposizione degli interessi viene attribuita all’operatore
pubblico per il tramite di una incisiva legislazione sociale, oltre che della gestione diretta di
alcune attività produttive. La legislazione sociale, ponendosi programmaticamente a favo-
re delle masse operaie, è finalizzata ad acquisire tre principali risultati: soddisfare una fon-
damentale esigenza di giustizia sociale; consentire (attraverso l’aumento dell’efficienza del
lavoro connessa alla ridistribuzione) aumenti di produttività; incentivare, nel lungo perio-
do, attraverso una progressiva trasformazione della norma giuridica in norma etica, la tran-
sizione a un assetto sociale meno individualistico, più solidale.
Due rilievi meritano di essere posti:
i. Lo schema di Nitti prefigura un modello di sviluppo, nel quale – per il tramite degli in-
crementi salariali – vengono ‘selezionate’ le imprese più efficienti, o più precisamente, quel-
le in grado di far fronte all’aumento dei costi di produzione senza incorrere in perdite;

dei beni venduti ai dipendenti; in secondo luogo, posticipando il pagamento dei salari. La posticipazione del pa-
gamento dei salari consente all’impresa di lucrare interessi nell’intervallo che intercorre fra la stipula del contrat-
to di lavoro e il pagamento effettivo dei salari.
40 Guglielmo Forges Davanzati · Rosario Patalano
ii. Da questo schema, e peraltro in linea con il pensiero dell’autore, può farsi discendere
una strategia di politica economica stando alla quale la politica del lavoro diventa uno strumento
di politica industriale, giacché – data la condizione i. – è ragionevole supporre che siano pro-
prio le imprese industriali a poter trarre benefici relativi, rispetto ad altri settori produttivi,
da interventi esterni. Poiché, in quel settore, le imprese mantengono di norma impianti inu-
tilizzati,1 lo shock sui salari può avere effetti immediati in quel settore, riducendo il grado di
sottoutilizzazione del capitale fisso e favorendo, conseguentemente, incrementi di produ-
zione.2 In tal senso, le politiche di alti salari orientano il modello di sviluppo verso una spe-
cializzazione fondata sull’uso di tecniche produttive più avanzate e possono conseguente-
mente costituire uno dei presupposti del disegno nittiano di industrializzazione del
Mezzogiorno.3 È da rilevare che, contrariamente agli schemi neoclassici dominanti in quel
periodo, lo schema di Nitti propone un approccio dinamico allo studio del funzionamento
del mercato del lavoro; fa propria una prospettiva di lungo periodo e fa uso di variabili di de-
rivazione psicologica e sociologiche.4
Queste tesi vennero in larga misura recepite da Augusto Graziani.5 Per Graziani, vi è in-
nanzitutto da riconoscere che l’aumento del salario tende generalmente ad accompagnarsi
all’aumento del prodotto, «l’uno per l’aumento di forza produttiva, l’altro perché l’operaio
meglio nutrito e più educato può prestare una somma più intensa di attività personale: an-
che la tranquillità maggiore, conferitagli da un salario, il quale valga a procacciargli un te-
nore di vita relativamente elevato, lo induce ad energia e volontà più salde ed efficaci» (Gra-
ziani 1908, p. 477). In più, il pagamento di alti salari è normalmente per le imprese indotto
dall’azione conflittuale dei lavoratori: «quando il profitto sia lontano dal minimo» – egli os-
serva – «anche la minaccia di sciopero potrà essere efficace, poiché l’imprenditore contrap-
porrà i danni derivanti dalla cessazione del lavoro, cioè la perdita temporanea di profitti, al-
la perdita permanente che da un incremento di salari gli sarebbe inflitta e cederà quando la
prima sarà più ragguardevole della seconda» (ibidem). In sostanza, un’elevata retribuzione
può diventare uno strumento attraverso cui porre fine all’azione conflittuale e la retribu-
zione è tanto più elevata quanto più elevati sono, per l’impresa, i costi dell’industrial unrest,6

1 Il che accade – come rilevato, in particolare, nei successivi sviluppi soprattutto in ambito postkeynesiano – o
per erigere barriere all’entrata in contesti oligopolistici o, più in generale, per far fronte a incrementi di domanda
attesi.
2 Si può ritenere che, nello schema di Nitti, la ricomposizione del conflitto capitale-lavoro sia spontaneamen-
te risolta dall’aumento dei salari, in un circolo virtuoso che si attiva in campo dinamico, articolato nella sequen-
za aumento dei salari-aumento della produttività-aumento del tasso di crescita-aumento dei salari. Questa se-
quenza, tuttavia, nell’interpretazione qui fornita, non costituisce un superamento dell’assunto base dello schema
di Nitti – ovvero della strutturale asimmetria dei poteri contrattuali fra datori di lavoro e lavoratori – dal momento
che i datori di lavoro disporranno sempre di risorse maggiori rispetto ai secondi. Ciò accade a ragione del fatto
che – fermo restando l’assetto istituzionale e la normativa che regola le relazioni industriali – il superiore potere
contrattuale dei datori di lavoro dipende, in ultima analisi, dalla maggiore disponibilità di risparmi (e, dunque, dal-
la possibilità di aspettare più tempo per la stipula del contratto). In una condizione nella quale i salari sono cre-
scenti – per effetto dell’aumento della produttività – aumentando i profitti (e, dunque, i risparmi accumulabili dai
capitalisti) l’asimmetria dei poteri contrattuali viene al più attenuata, ma mai azzerata.
3 Sulla riflessione di Nitti su salari e questione meridionale si rinvia, fra gli altri, a E e P. Zagari 2008.
4 La teoria economica è, in questa prospettiva, anche teoria sociologica, in quanto è basata sulla selezione di
‘fatti rilevanti’ che non necessariamente si identificano con fenomeni strictu sensu economici
5 Le tesi di Nitti generano un ampio dibattito fra gli economisti italiani del tempo, con immediate ricadute di
politica economica. Sul tema si rinvia a Forges Davanzati 1999.
6 In quel periodo, i rischi di scioperi divennero progressivamente maggiori, a seguito, da un lato, della forma-
zione di un proletariato rurale di massa e di una classe operaia di fabbrica che acquisirono in quegli anni una più
sentita coscienza di classe e, dall’altro, del diffondersi delle dottrine socialiste e anarchiche. Fu a partire dalla metà
degli anni ottanta che i lavoratori ricorsero allo sciopero su scala sempre più ampia, sospinti dal mito dello scio-
La teoria del salario corporativo in Guglielmo Masci 41
e le rivendicazioni salariali sono tanto più efficaci quanto maggiori sono i profitti. Graziani
attribuisce al sindacato e al conflitto che esso promuove una funzione socialmente efficien-
te: in assenza di conflitto, i salari sarebbero più bassi e ciò disincentiverebbe le imprese dal
perseguire una politica di riduzione degli altri costi di produzione (i costi non da lavoro). Ciò
è possibile «quando i profitti sono lontani dal minimo», ovvero quando le imprese non
operano in condizioni di concorrenza perfetta: se fossero in concorrenza perfetta, infatti, il
profitto – in un equilibrio di lungo periodo – sarebbe già nullo e il soddisfacimento delle ri-
chieste di aumenti salariali porterebbe queste imprese a conseguire perdite e a fallire. Ma se
il conflitto è uno strumento di allocazione efficiente delle risorse (perché, producendo un
aumento delle retribuzioni, obbliga le imprese a ‘razionalizzare’ la loro struttura produtti-
va e organizzativa) e se esso è efficace solo quando le imprese non si trovano in mercati
concorrenziali, allora il monopolio è da considerarsi una forma di mercato socialmente più
efficiente della concorrenza. Tale è, infatti, l’opinione di Graziani.1
Queste teorie possono essere collocate in un orizzonte teorico di matrice ‘conflittualista’,
stando al quale i. nel mercato del lavoro si confrontano attori con differenti poteri contrat-
tuali; ii. un mercato del lavoro deregolamentato genera squilibri distributivi e produttivi e
il ruolo dello Stato diventa decisivo per raggiungere esiti socialmente efficienti; iii. il con-
flitto sociale è un dispositivo efficace per accrescere l’occupazione e trainare la crescita eco-
nomica. Come si avrà modo di constatare, sebbene in un orizzonte teorico diverso e di ma-
trice corporativista, questa impostazione verrà sostanzialmente recepita da Guglielmo
Masci. In tal senso, e almeno per quanto attiene allo studio delle relazioni industriali, si può
far riferimento a una «cultura economica»2 che si alimenta nell’Università di Napoli, dotata
delle proprie peculiarità, che è sottostante la riflessione teorica degli economisti campani
della prima metà del Novecento. Considerando essenziale l’intervento pubblico in econo-
mia – soprattutto nella forma di regolamentazione del mercato del lavoro – questo approc-
cio presenta oggettivi elementi di affinità il nucleo analitico del corporativismo (ma non ov-
viamente con i suoi presupposti politico-ideologici), fino a costituirne per molti aspetti una
premessa teorica.

3. La teoria del salario corporativo


Nella Carta del lavoro del 1927 si legge la seguente definizione di salario corporativo: esso è
corrispondente alle «esigenze normali di vita, alle possibilità di produzione e al rendimen-
to del lavoro». Si trattava di una definizione piuttosto vaga, che si prestava a differenti in-
terpretazioni. Interpretazioni che comunque si muovevano al di fuori degli schemi neo-
classici. La teoria neoclassica del mercato del lavoro, come è noto, è basata sull’idea che il
salario di equilibrio, in un mercato del lavoro concorrenziale, deriva dall’interazione fra la
domanda di lavoro espressa dalle imprese e l’offerta di lavoro espressa dai lavoratori. In que-
sto contesto, non solo non vi è nessun aggancio fra il salario corrente e il salario di sussi-
stenza, ma – ed è ciò che qui maggiormente conta – nulla garantisce che il salario così de-

pero generale; sciopero generale, tuttavia, spesso attuato con scarsa partecipazione (per lo più limitata alle zone
con più antica tradizione organizzativa, quasi sempre senza il sostegno della forza-lavoro meridionale) e ancora
più spesso represso nel sangue (con le prime vittime nell’eccidio di Conselice, Ravenna).
1 Una posizione, questa, che trovò consensi nel dibattito del tempo. Fra gli economisti che maggiormente si
riconobbero in questa posizione, va segnalato Camillo Supino, per il quale sarebbe proprio la concorrenza a
provocare le crisi e gli eccessi di produzione.
2 Per una trattazione estesa della nozione di cultura economica, si rinvia a Barucci 2009.
42 Guglielmo Forges Davanzati · Rosario Patalano
terminato sia un salario ‘giusto’. La determinazione del salario risponderebbe, in un ordi-
namento corporativista, all’obiettivo di fissarlo al valore tale da garantire un tenore di vita
commisurato alle «esigenze normali di vita».1 Stando all’interpretazione fornita da Vera Za-
magni (Zamagni 1976), l’obiettivo ultimo della regolamentazione del mercato del lavoro,
come sancita dal Patto di Palazzo Vidoni del 1925, era di garantire ai lavoratori un salario mi-
nimo almeno capace di assicurare la sussistenza, e pari a 15 lire mensili (a prezzi del 1938).
Va, tuttavia, rilevato che l’assetto delle relazioni industriali voluto dal fascismo non neces-
sariamente dava luogo a un livello dei salari pari a quello di sussistenza. Ciò a ragione del
fatto che, come rilevato in ambito corporativista, il mercato del lavoro (così come il mer-
cato dei beni) tende spontaneamente ad allontanarsi sempre più da una configurazione con-
correnziale, e – anche a ragione delle crescenti concentrazioni industriali2 – il potere con-
trattuale dei datori di lavoro tende a crescere. In altri termini, in contrapposizione con
l’orientamento marginalista, viene qui evidenziato il fatto che sussiste, di norma, asimme-
tria dei poteri contrattuali fra lavoratori e datori di lavoro, così che, in regime di contratta-
zione ‘atomistica’, il salario tenderebbe a essere fissato al livello tale da eguagliare la pro-
duttività marginale del lavoro. La regolamentazione del mercato del lavoro operata dal
fascismo rende quest’ultimo assimilabile, sul piano teorico e fattuale, a un assetto di mo-
nopolio bilaterale, ponendo ope legis le associazioni datoriali nella medesima posizione con-
trattuale delle organizzazioni dei lavoratori: in un tale assetto, il salario risultante dalla con-
trattazione risulta fissato a un valore più alto di quello che si genererebbe in un assetto
concorrenziale.3
Sgombrato il campo dalla possibilità che il salario fosse determinato in un mercato con-
correnziale dall’interazione fra domanda e dall’offerta di lavoro, restava il problema di co-
me determinarlo.
Una parte degli economisti corporativisti accolse la tesi della determinazione politica del sa-
lario. Autori come Arias, Fovel e Ferri sostennero che, data l’impossibilità di lasciare la de-
terminazione dei salari ai meccanismi di mercato, il salario non poteva che risultare da in-
terventi esterni al mercato e, segnatamente, dalla regolamentazione politica. In tal senso, il
salario diventava una ‘variabile indipendente’ (Zagari 2004, p. 64). L’esogeneità del salario
lasciava, tuttavia, irrisolte due questioni. In primo luogo, questa proposta poteva incorrere
nell’obiezione, di segno liberista, stando alla quale un salario più alto di quello concorren-
ziale avrebbe determinato disoccupazione. In secondo luogo, si poteva rilevare che l’au-
mento dei salari, riducendo i margini di profitto, avrebbe ridotto gli investimenti, dunque il
tasso di crescita e l’occupazione. Occorreva allora individuare un nesso fra politiche salariali
e obiettivi di politica del lavoro o, più in generale, di politica economica, che sgombrasse il
campo da queste critiche. Un primo passo in questa direzione fu compiuto stabilendo che
il salario esogenamente determinato doveva essere un ‘giusto salario’; il che rinviava a una

1 Nei suoi termini generali, questa concezione del salario è legata all’idea che il salario debba essere tale da ri-
durre la probabilità dell’attivarsi di fenomeni di conflittualità sociale.
2 Giordano, Piga, Trovato 2008 rilevano che il fenomeno della ‘cartellizzazione’ non fu spontaneamente
generato dalle dinamiche di mercato, ma fu essenzialmente un prodotto di decisioni di politica economica (negli
Stati Uniti e in Italia, in particolare), per far fronte alla Grande Depressione. A fronte della propaganda di regime,
viene rilevato che l’Italia degli anni trenta non fuoriuscì dalla crisi e che questa fu semmai accentuata dalle politi-
che del lavoro e dalla rigidità dei salari reali. Sul tema, si rinvia a Maddison 1991.
3 Il potere monopolistico concesso a entrambe le parti determina una condizione nella quale esse hanno il po-
tere di fissazione del prezzo di offerta e di domanda, con conseguente formazione di rendite che vengono riparti-
te tra i due contraenti.
La teoria del salario corporativo in Guglielmo Masci 43
dimensione etica del funzionamento del mercato del lavoro le cui basi lato sensu filosofiche
non venivano del tutto chiarite. E, in ogni caso, in assenza di una completa teoria del fun-
zionamento del mercato del lavoro, il perseguimento di obiettivi di giustizia distributiva po-
teva confliggere con il perseguimento di obiettivi di efficienza (in particolare, con l’obietti-
vo del pieno impiego della forza-lavoro). Una seconda opzione consisteva nel considerare il
salario corporativo come funzionale all’«equilibrio corporativo». Anche in questo caso, co-
me rileva Zagari (ibidem), ciò «rimase sul piano delle enunciazioni senza passare per il va-
glio della congruenza logica». In particolare, occorreva dimostrare che il salario corporati-
vo tale da generare condizioni di equilibrio macroeconomico fosse fissato in modo da non
determinare disoccupazione, in un contesto nel quale continuava a vigere la proprietà pri-
vata dei mezzi di produzione, ovvero da non generare una compressione dei profitti e degli
investimenti. Gli economisti che si riconoscevano in questo orientamento non si confron-
tarono con queste possibili obiezioni, probabilmente convinti che l’obiettivo dell’aumento
dell’occupazione e degli investimenti spettasse, in ultima analisi, alle imprese pubbliche.
Una risposta rigorosa, ma al di fuori del contesto teorico propriamente corporativista, ep-
pure formulata considerandola pertinente con tale contesto, venne da Marco Fanno. Nella
sua Introduzione alla teoria economica del corporativismo (Fanno 1935), l’autore rilevò che il sa-
lario corporativo è tale da uguagliare la produttività marginale del lavoro.1 Ma, nel far que-
sto, l’autore si allontana dal progetto teorico di rendere esogeno, e politicamente determi-
nato, il salario corporativo, riconducendo quest’ultimo nell’ambito del meccanismo di
mercato previsto dalla teoria marginalista.
La tesi di Fanno è rilevante sul piano della storia delle idee economiche per due ragioni.
In primo luogo, perché evidenzia la difficoltà per molti economisti del tempo di superare gli
schemi concettuali derivanti dalla teoria economica allora dominante. In secondo luogo,
perché rileva quanto fosse difficile porsi completamente al di fuori di questi schemi, proba-
bilmente anche per evitare di far propria una pseudo-teoria che rinviava la determinazione
del salario a decisioni esclusivamente politiche.
Un altro gruppo di economisti fu consapevole di questi limiti e volle evitare di ridurre il
problema della determinazione del salario a termini esclusivamente politici, mantenendo
un contatto con i principi dell’economia pura. A sostenere tale approccio furono soprattut-
to Celestino Arena e Guglielmo Masci. Celestino Arena, in particolare, propose un approc-
cio critico alla teoria marginalista del salario, considerata troppo astratta e priva di quelle
necessarie determinazioni giuridiche e istituzionali che caratterizzavano nella realtà il
mercato del lavoro e di cui una corretta analisi teorica doveva necessariamente tenere con-
to. Pur individuando la peculiarità istituzionale del mercato del lavoro, Arena tuttavia non
«fu interessato alla formulazione di una nuova teoria del salario», preferendo assumere una
posizione eclettica nel proporre una sintesi «tra analisi teoriche ed analisi storiche già note»
(Bini 1982, p. 264).
La posizione di Guglielmo Masci fu invece più articolata sul piano analitico, spingendosi
su un terreno autonomo rispetto all’analisi tradizionale marginalista. Come si avrà modo di
vedere nel prossimo paragrafo, ricorrendo al modello del monopolio bilaterale, Masci defi-
niva il contesto di mercato in cui il salario corporativo trovava le condizioni della sua de-
terminazione analitica.

1 Sul tema si rinvia a Faucci 1999.


44 Guglielmo Forges Davanzati · Rosario Patalano

4. Il contributo di Guglielmo Masci alla teoria del salario corporativo


Per Masci la logica marginalista, essendo basata sull’assioma dell’individualismo
metodologico, risultava incompatibile con gli assunti e gli obiettivi di politica del lavoro
corporativisti, essendo questi stabiliti sulla base di una visione ‘olistica’, dalla quale doveva
farsi derivare l’obiettivo del massimo benessere per i contraenti e, più in generale, per la
nazione.
La pars destruens dell’analisi di Masci è costituita dal rifiuto dell’individualismo metodo-
logico, e del connesso assioma del self-interest; rifiuto che si sostanzia in una censura etica:
Se un individuo, dedito solo al conseguimento di fini materiali, non è che un povero essere, ancora
più ignobile è un paese il quale sia privo di ideali nazionali; cioè di quegli ideali che riconoscono nel-
la vita di un popolo qualcosa di più della somma delle vite individuali. Ora, come la vita individuale,
così la vita del paese è largamente costituita di rapporti sociali. Un sano orgoglio nazionale si è con-
nesso al primato industriale.
(Masci 1934, p. 23)

L’esistenza di «ideali nazionali» è così posta a fondamento delle relazioni industriali, o quan-
tomeno del modo in cui esse dovrebbero svolgersi. Più in particolare,
I datori di lavoro ed i lavoratori di ogni singola industria costituiscono, per così dire, un comparti-
mento verticale con interessi in certo grado ad esso peculiari. Il problema consiste in tal caso nel rag-
giungere un equilibrio che sia quanto più possibile vantaggioso per l’intero paese senza riuscire trop-
po gravoso per alcun singolo compartimento.
(Ivi, p. 27)

L’autore rileva che il normale funzionamento di economie di mercato deregolamentate


conduce, per contro, a sistematiche deviazioni dall’equilibrio, data l’incertezza che le carat-
terizza.1 In tal senso, egli rileva che occupazione e salari hanno un andamento pro-ciclico:
L’operaio alle dipendenze di un industriale, che lavora per un mercato incerto, attraverserà probabil-
mente periodi di lavoro intenso e di alte remunerazioni, analoghi a quelli che si verificano nell’agri-
coltura, seguiti da lunghi intervalli di lavoro scarsamente retribuito o di disoccupazione.
(Ivi, p. 83)

Sebbene incidentalmente, Masci fa osservare che, particolarmente per il lavoro qualificato,


in condizioni nelle quali la disoccupazione non viene spontaneamente riassorbita, la dina-
mica capitalistica, in regime di deregolamentazione, produce spreco di capitale umano (ibi-
dem). A fronte di questo rilievo, viene esplicitamente teorizzata l’esistenza di un legame fra
scolarizzazione, ricerca scientifica e sviluppo economico, così articolato.
a) La ricerca scientifica produce invenzioni che possono essere tradotte in innovazioni,
soprattutto in contesti nei quali (come la Germania del tempo) le imprese sono di grandi di-
mensioni e competono attraverso il miglioramento della qualità dei processi organizzativi
e del prodotto.
b) La scolarizzazione accresce il senso civico: «l’educazione conferisce sobrietà e forza al-
la condotta del cittadino nella vita quotidiana: essa sviluppa le virtù civiche, e spinge […] ad
aderire al costume di un basso tenore di vita e di un alto livello spirituale» (Idem 1936, p. 131).

1 Scrive Masci al riguardo: «L’intero meccanismo della società riposa sulla fiducia […]. Quando la fiducia viene
scossa da rumori di guerra o di lotte civili, o di una legislazione sociale inceppante, o di vaste frodi ed imprese av-
ventate da parte di ditte importanti, la vita del commercio è soffocata» (Masci 1936, p. 159).
La teoria del salario corporativo in Guglielmo Masci 45
Quest’ultima tesi merita di essere commentata. La teoria contemporanea del capitale
umano è fondata, in tutte le sue varianti, sull’ipotesi stando alla quale i lavoratori più istrui-
ti tendono a rivendicare (e a ottenere) salari più alti dei lavoratori con minore dotazione di
conoscenze generali e tecniche. Ciò a ragione del fatto che l’istruzione comporta costi, in
termini di moneta e di tempo, e, conseguentemente, accresce il salario di riserva (cfr. Bec-
ker 1993). Di norma, non si ammette che l’accumulazione di capitale umano modifichi la
propensione al consumo, così che ci si attende che – a fronte di più alti salari – gli individui
con maggiore scolarizzazione tendono a consumare di più dei loro colleghi con minore sco-
larizzazione. Per contro, per Masci, ad alti livelli di istruzione tendono a corrispondere bas-
si livelli di consumo. Sebbene l’autore non fornisca ulteriori motivazioni a sostegno di que-
sta tesi, si può congetturare che il nesso che viene stabilito rifletta la convinzione – un topos
della retorica del regime – che la ‘morigeratezza dei costumi’ e, dunque, un basso livello di
consumi costituisca un valore in quanto tale.
Per quanto attiene alle modalità di formazione dei prezzi, l’autore parte dalla constata-
zione secondo la quale il capitalismo dei suoi tempi è caratterizzato non più da assetti con-
correnziali (in particolare nel mercato dei beni), ma da condizioni oligopolistiche o mono-
polistiche:
Le tecniche produttive dell’età moderna – osserva – hanno la caratteristica della prevalenza del capi-
tale fisso e degli impianti di grandi dimensioni.
(Masci 1936, p. 223)

Questo assetto tecnico consente di accrescere la divisione tecnica del lavoro e, conseguen-
temente, di accrescere la produttività:
La grande impresa suddividerà il lavoro fra tanti uomini, e specializzerà ciascuno di loro così stretta-
mente al suo compito particolare che con la pratica costante egli sarà in grado di adempierlo meglio
e molto più rapidamente di un nobile artigiano, di ben maggiori capacità, il quale è ugualmente esper-
to di molte altre mansioni.
(Ivi, p. 225)

L’autore individua un possibile rischio e un possibile beneficio connessi alle trasformazioni


dell’assetto produttivo del primo Novecento. Da un lato, imprese di grandi dimensioni, o
coalizioni di imprese, detenendo potere di mercato, hanno la possibilità di tenere sistemati-
camente alti i prezzi, in assenza di meccanismi endogeni correttivi che li portino ai loro va-
lori concorrenziali. Dall’altro, potendo beneficiare di economie di scala, queste imprese pos-
sono espandere la produzione con costi decrescenti e prezzi decrescenti. A ciò Masci
aggiunge l’operare di ‘economie di agglomerazione’:
Le maggiori industrie e specialmente quelle che richiedono impianti pesanti, sono sempre più loca-
lizzate in regioni industriali, le cui città centrali si dedicano sempre maggiormente a un lavoro diret-
tamente od indirettamente connesso con la vendita dei prodotti.
(Ivi, p. 257)
Ciò accade soprattutto per l’operare di effetti di network, in considerazione del fatto che i
«contatt[i] personal[i] fra clienti, commercianti e produttori» si rendono più agevoli in spazi
relativamente ristretti. La tendenza «naturale» alla concentrazione determina la scomparsa
delle piccole e medie imprese cancellando così «la condizione essenziale perché possa fun-
zionare il meccanismo autoregolatore della concorrenza, vale a dire la polverizzazione
(Idem 1940, p. 21).
All’interno delle grandi concentrazioni di imprese prevarrà il capitale fisso sul capitale cir-
colante con l’effetto di rendere più difficile «la piena fluidità dei mercati», limitando «il pron-
46 Guglielmo Forges Davanzati · Rosario Patalano
to adattamento della produzione alle fluttuazioni dei gusti e della domanda» (Masci 1940,
p. 21). In tale situazione di rigidità il rischio per ciascuna impresa aumenta e ciò stimola la
formazione di accordi collusivi tra imprese al fine di controllare il mercato e ridurre al
minimo gli effetti negativi di eventuali fluttuazioni della domanda.
Le coalizioni industriali (trusts, cartelli, ecc.), mirano insomma a sanare il conflitto immanente fra le
esigenze tecniche, che tendono a rendere gli organismi produttivi sempre meno adattabili alle flut-
tuazioni economiche, e le vicende del mercato che esigono invece un certo grado di elasticità nel fun-
zionamento delle imprese.
(Ibidem)
La struttura del sistema capitalistico risulta così trasformata: i trusts non sono più manife-
stazioni patologiche dovute «all’appoggio colpevole degli Stati», ma
rappresentano un elemento insostituibile del funzionamento dell’organismo economico, essendo la
loro origine strettamente connessa con gli accennati, insopprimibili caratteri della moderna tecnica
produttiva: dilatazione progressiva dei costi costanti in generale e degli impianti fissi in particolare nel-
l’organismo dell’impresa.
(Ivi, p. 23)
L’effetto di questa trasformazione della struttura del capitalismo porta al superamento del-
la «forza regolatrice e stabilizzatrice della concorrenza» e la sostituzione del profitto con la
rendita («ossia della remunerazione al di là del costo»), a beneficio di alcuni gruppi sociali e
a danno di altri. Il fenomeno della rendita «precedentemente circoscritto, di regola, al set-
tore fondiario dell’economia, finisce per dominare, sotto forma di rendita di monopolio,
l’intero campo della distribuzione della ricchezza» (ivi, p. 24).1
Il capitalismo dei suoi tempi non è più, dunque, ‘atomistico’, essendo superata la fase nel-
la quale le forme di mercato prevalenti erano di tipo concorrenziale. Un fattore di ordine
collettivo e sociale influenza la sfera produttiva,
in virtù del quale le grandi società industriali finiscono almeno tendenzialmente per avvicinarsi piut-
tosto alle corporazioni pubbliche […]. Al processo di ingrandimento dell’organismo produttivo si ac-
compagna poi sempre la dissociazione degli azionisti dalla direzione dell’azienda, onde essi cessano
di aver parte alcuna nella destinazione di masse di capitali che pure ad essi appartengono.
(Ivi, p. 26)
Per effetto di questo carattere ‘sociale’ dell’impresa capitalistica (che non resta limitata alla
sfera della produzione industriale, ma riguarda anche il settore dei servizi, in particolare
quelli bancari), lo Stato non può evitare di stabilire un controllo,
al fine di prevenire o reprimere le gravi perturbazioni, che potrebbero risultare dall’esercizio arbitra-
rio di una potenza economica senza precedenti, e di surrogare alla situazione di precarietà e di insta-
bilità, determinata dall’elisione storicamente necessaria della piena concorrenza, un assetto stabile e
armonico, organizzato dai pubblici poteri.
(Ivi, pp. 26-27)
Il corporativismo è quindi una forma di regolazione e disciplina pubblica dei poteri econo-
mici che non annulla completamente né la libera iniziativa privata, né il ruolo del mercato,
a differenza del regime di pianificazione collettivista o comunista che sostituisce completa-
mente ad essi «un principio sociale o statuale di organizzazione economica» (ivi, p. 33). La
corporazione è

1 Su questo punto non si può non rilevare una certa affinità con la riflessione che negli stessi anni sta com-
piendo Schumpeter.
La teoria del salario corporativo in Guglielmo Masci 47

lo strumento che sotto l’egida dello Stato attua la disciplina integrale, organica e unitaria delle forze
produttive, in vista dello sviluppo della ricchezza, della potenza e del benessere del popolo.
(Ivi, p. 36)

Nell’opera L’organizzazione industriale questi temi vengono ulteriormente approfonditi. In


particolare, la trattazione è in larga misura finalizzata a comprendere, anche attraverso in-
dagini dirette che l’autore effettua negli stabilimenti industriali, se la riduzione dei costi di
produzione derivante dall’aumento delle quantità prodotte nelle grandi imprese si traduca
in una riduzione dei prezzi o in un aumento dei margini di profitto. La risposta che l’auto-
re fornisce fa riferimento, in ultima analisi, al tasso intertemporale di sconto:1 in condizio-
ni nelle quali i capitalisti sono interessati a profitti di lungo periodo, essi tenderanno a rea-
gire alla riduzione dei costi di produzione riducendo i prezzi, a fronte del fatto che in
condizioni di ‘miopia’ accade il contrario. Masci scrive a riguardo:
Il vendere ad un prezzo inferiore a quello che renderebbe massimo il reddito netto immediato del mo-
nopolista, allo scopo di familiarizzare con i consumatori col suo prodotto, costituisce un investimen-
to di capitale diretto al conseguimento di guadagni differiti.
(Idem 1936, p. 358)

Poiché evidentemente l’andamento dei prezzi influisce sui salari reali, occorre indagare due
aspetti.
a. Il primo attiene all’individuazione degli effetti delle concentrazioni industriali sul po-
tere d’acquisto delle retribuzioni. A riguardo, Masci osserva:
Quanto ai salari, i fatti mostrano che, in regime di coalizione, gli operai […] hanno visto migliorarsi
la loro situazione. I trusts, riducendo i costi di produzione, hanno fatto aumentare nello stesso tem-
po i profitti e i salari. Di più, essi hanno reso più stabile la condizione degli operai.
(Ivi, p. 630)

Occorre rilevare che la posizione di Masci, su questo aspetto, si pone in sostanziale conti-
nuità con quanto già teorizzato da Augusto Graziani, sotto un duplice aspetto. In primo luo-
go, vale per entrambi l’idea che un assetto non competitivo nel mercato dei beni costituisca
la premessa per la crescita economica, sia perché imprese di ampie dimensioni possono
sfruttare economie di scala, sia perché – anche a fronte dei maggiori profitti che ottengono
– possono finanziare innovazioni, accrescendo – per questa via – la produttività del lavoro.
In secondo luogo, a fronte dei maggiori profitti realizzati in regime di monopolio o oligo-
polio rispetto a quelli ottenibili in assetti concorrenziali, i datori di lavoro sono maggior-
mente propensi ad accordare trattamenti retributivi migliori ai propri dipendenti. In più, es-
sendo le imprese di grandi dimensioni meno esposte al rischio di fallimento, esse riescono
a garantire maggiore stabilità dell’occupazione, rispetto a imprese di più piccole dimensio-
ni operanti in mercati concorrenziali.
b. Il secondo aspetto da indagare riguarda l’individuazione delle condizioni istituzionali
necessarie affinché il salario reale sia commisurato al ‘salario corporativo’. A tal fine, il punto
di partenza dell’analisi di Masci2 è costituito dalla constatazione secondo la quale la subor-
dinazione dell’iniziativa privata all’interesse collettivo richiede come contrappeso che l’azio-
ne dei lavoratori per la tutela dei propri interessi non sia diretta contro l’apparato produtti-
vo, sotto forma di lotta di classe, ma sia invece improntata ad una collaborazione fra classi.

1 Ciò che l’autore definisce l’«impiego lungimirante del potere monopolistico». 2 Cfr. Masci 1932.
48 Guglielmo Forges Davanzati · Rosario Patalano
Anche il sindacato deve essere quindi concentrato e assumere un carattere corporativo in
modo da poter far prevalere gli interessi, legati ad un solo fattore di produzione e in un solo
mercato (il mercato del lavoro), in conformità con l’azione regolatrice dello Stato (Masci
1940, p. 48).
I poteri economici regolamentati appaiono quindi sotto la forma di interessi corporativi
nazionali a cui corrisponde «una determinata organizzazione del mercato del lavoro, per cui
il mercato stesso risulta costituito da una duplice serie di gruppi, padronali e operai»1 (Idem
1941, p. 104): da un lato le organizzazioni padronali di ogni ramo produttivo che fanno capo
ad un’unica confederazione nazionale, dall’altro i lavoratori tutelati e rappresentati da un
unico sindacato.
In ogni ramo di produzione, dunque, l’attuale organizzazione del mercato del lavoro mette capo, nel-
la contrattazione fra datori di lavoro e lavoratori, ad una situazione che in prima approssimazione, di-
remo di reciproco monopolio: monopolio della domanda di lavoro, da parte dell’organizzazione na-
zionale dei datori di lavoro, monopolio dell’offerta di lavoro da parte dell’organizzazione nazionale
dei lavoratori appartenenti a quella certa categoria. Una situazione contrattuale, insomma, che, at-
traverso lo strumento del contratto collettivo di lavoro, rientrerebbe in quello schema teorico che va
sotto il nome di monopolio bilaterale.
(Ivi, p. 106)

La determinazione del salario corporativo non è quindi il risultato di una scelta politica, ma
la conseguenza di un equilibrio che emerge mercato del lavoro, in un assetto che «si avvici-
na abbastanza»2 alle condizioni teoriche previste dal modello del monopolio bilaterale. Il ri-
sultato di questo equilibrio è ottenuto nel contratto collettivo di lavoro.
Gli ultimi sviluppi della teoria del monopolio bilaterale, secondo Masci, consentono di
superare l’esito analitico a cui era approdato Edgeworth (Edgeworth 1925, p. 116), per il
quale «when two or more monopolists are dealing with competitive groups, economic
equilibrium is indeterminate».
Nella teoria del baratto di Alfred Marshall, che è una estensione di una tesi già delineata
da Jevons, i limiti di indeterminatezza sono molto ridotti e la condizione di equilibrio può
emergere «non appena il problema si esamina con riferimento ai suoi dati marginali, ossia
dal punto di vista dei concreti vantaggi e guadagni realizzabili dai contraenti man mano che
lo scambio procede». La posizione finale di equilibrio sarà caratterizzata dal punto in cui
le utilità marginali delle ricchezze scambiate risultino eguali per entrambi i contraenti […]. L’egua-
glianza delle utilità marginali delle due ricchezze scambiate per ciascuno dei due contraenti rappre-

1 Il che ha ovviamente effetto sull’offerta di lavoro e rinvia al più ampio problema «della quantità complessiva
di lavoro impiegato, che è in sostanza il problema stesso della occupazione e della disoccupazione operaia» (ivi,
p. 118). Cfr., su questo importante snodo analitico, Bini 1982, p. 272.
2 Per alcuni economisti come Pigou non si poteva completamente assimilare il monopolio bilaterale alle con-
dizioni del mercato del lavoro, in quanto le organizzazioni operaie tendono a fissare solo il saggio di salario e non
la quantità di lavoro. Questa obiezione perde di significato in un regime corporativo perché l’offerta di lavoro non
è frammentata in più organizzazioni e non completamente rappresentata (Masci 1941, p. 121). L’elemento che im-
pedisce la piena identificazione del monopolio bilaterale con il mercato del lavoro, anche nelle condizioni più fa-
vorevoli del regime corporativo, è dato dal fatto che «il lavoro non è regolabile nella sua quantità come una mer-
ce qualsiasi, anche dalla più potente e universale organizzazione». Una disciplina stretta del turno di lavoro
implicherebbe costi enormi «che potrebbero assorbire anche più del guadagno differenziale considerato; che di-
sciplinare il turno di lavoro diventerebbe assai difficile quando si trattasse, in conformità dell’ipotesi monopolisti-
ca, di sindacati raggruppanti la totalità degli operai di una nazione in un determinato ramo d’industria; che, spe-
cialmente, non è indifferente, né dal punto di vista morale né dal punto di vista economico, l’esistenza o meno di
una certa quota di operai disoccupati, i quali, per quanto disoccupati a turno, finirebbero per subire tutti i con-
traccolpi morali ed economici, che derivano dall’ozio remunerato» (ivi, pp. 123-124).
La teoria del salario corporativo in Guglielmo Masci 49
senta un maximum di beneficio per l’uno e per l’altro, giacché entrambi tendono a ricavare dallo
scambio tutta l’utilità compatibile con le condizioni di mercato; e noi sappiamo che ciò si consegue
appunto quando è stato realizzato l’equilibrio delle utilità marginali.
(Masci 1941, p. 111)
Il raggiungimento di questo punto di equilibrio è legato da un lato alla generale condizione di per-
fetta uguaglianza economica fra i due contraenti; dall’altro, ad una serie di postulati concernenti il fi-
ne che i contraenti si propongono di conseguire.
(Ivi, pp. 113-114)

Alcuni punti di equilibrio potranno essere raggiunti solo sostenendo dei costi, che com-
portano perdite di utilità e di ricchezza, in tal caso queste posizioni saranno evitate a favore
di quelle in grado di conferire al soggetto «bensì un vantaggio minore, ma anche di evitar-
gli dei costi o attriti, che siano tali da assorbire e sorpassare la misura del beneficio diffe-
renziale» (ivi, p. 114).
Tale è precisamente il caso del contratto di lavoro, perché può talora accadere che la parte, poniamo,
padronale, abbia bensì la possibilità di imporre un dato punto di equilibrio, e di assicurarsi in tal mo-
do una certa somma di vantaggio, ma solo esponendosi a una lotta, affrontando uno sciopero o una
serrata, e perdendo così più del vantaggio differenziale che il saggio del salario, che si tratterebbe di
imporre, possa assicurarle, in confronto di un altro saggio di transazione.
(Ibidem)

Si può quindi definire all’interno della zona del contratto, una cosiddetta ‘zona di arbitra-
to’, caratterizzata da tutti i punti di vantaggio raggiungibili senza passività, in cui i contra-
enti hanno evitato la lotta necessaria per far prevalere massimi vantaggi lordi rimettendosi
ad un arbitro esterno.
La ‘zona di arbitrato’ nelle economie di mercato capitalistiche si contrappone così ad una
‘zona di conflitto costoso’, ma nell’economia corporativa essendo vietato lo sciopero e la
serrata, strumenti del conflitto sul mercato del lavoro, i punti di equilibrio raggiungibili so-
no tutti compresi nella zona d’arbitrato, o per accordo diretto delle parti, o per intervento
della Magistratura del Lavoro:
il che significa che la funzione dell’arbitro ha, nell’ordinamento corporativo, un senso diverso in quan-
to che al giudizio arbitrale le parti non ricorrono nell’intento di evitare le perdite derivanti dalla lot-
ta, e quindi, in ultima analisi, di assicurarsi un massimo vantaggio netto, ma ricorrono solo quando,
non potendo raggiungere l’accordo mercé le trattative dirette, diventa indispensabile l’intervento del-
lo Stato, che dirima in qualche modo la controversia.
(Ivi, p. 115)

Il ricorso all’arbitro in regime corporativo può inoltre essere determinato da due casi ulte-
riori:
a. le parti non agiscono sotto il presupposto di una perfetta conoscenza di tutte le condi-
zioni del problema contrattuale. In questo caso, queste condizioni possono essere meglio
accertate da un soggetto terzo. La Magistratura del Lavoro garantisce così la perfetta egua-
glianza tra le parti contraenti eliminando quelle cause che tendono a rendere struttural-
mente più debole una parte rispetto all’altra.1
b. esiste una differenza rilevante di fini tra i due contraenti. In questo caso la decisione ar-
bitrale è «richiesta dalla necessità di unificare i presupposti in un modo qualsiasi, o contem-
perandoli fra loro, o sostituendo ad essi un terzo presupposto» (ivi, p. 117). In questo caso la

1 In presenza di eguaglianza tra le parti, come aveva già dimostrato Jannaccone, lo spazio di arbitrato si ridu-
ce fortemente (Jannaccone 1907, pp. 645-675). Cfr. anche Masci 1932.
50 Guglielmo Forges Davanzati · Rosario Patalano
Magistratura del Lavoro è portatrice di un movente autonomo rispetto alle parti e che coin-
cide con il supremo interesse nazionale.1
Masci pone così in evidenza l’importanza dell’esistenza (e dell’efficacia) di meccanismi
istituzionali che attengono alla sfera politico-giuridica al fine del raggiungimento di una
configurazione di equilibrio in regime di monopolio bilaterale, come risultante dalla nego-
ziazione in regime corporativo.2 Ancora una volta lo Stato è chiamato ad intervenire per ri-
solvere una situazione di conflitto sul mercato del lavoro. A differenza di altri teorici cor-
porativisti che ideologicamente nascondevano l’elemento conflittuale proprio delle
dinamiche delle relazioni industriali, Masci, sulla linea delle posizioni già espresse da Nitti
e da Graziani, ritiene che l’esistenza di relazioni conflittuali fra le parti sia una caratteristica
essenziale del mercato del lavoro nelle economie contemporanee. E ritiene altresì che ne sia
possibile la neutralizzazione mediante opportune modifiche istituzionali che rinviano, in ul-
tima analisi, all’intervento pubblico di regolamentazione del mercato del lavoro.
Ammettendo la possibilità di un equilibrio raggiungibile nel mercato duopolistico, Ma-
sci elabora una particolare teoria del salario di equilibrio che è il risultato del confronto con-
trattuale tra le parti. In linea teorica, Masci ammette la possibilità che si possano formare
equilibri «diversi da quelli corrispondenti ai massimi strettamente economico-individuali-
stici» che dipendono da considerazioni di natura extraeconomica, legati al perseguimento
di interessi generali e nazionali (Masci 1941, p. 118). Tuttavia il raggiungimento di questi
equilibri, anche di natura extraeconomica o politica, deve essere frutto di un contratto tra
le parti: «nei limiti degli insopprimibili interessi individuali, ossia nella zona del contratto,
esiste insomma tutta una serie di punti di equilibrio, determinabili alcuni in base a premes-
sa di natura individualistico-utilitaria, determinabili altri, benché non ancora in sede teori-
ca generale, in base a premesse d’altra natura» (ivi, p. 119).3
A questo stadio dell’analisi, si pongono due possibili interpretazioni in merito ai legami
fra l’elaborazione teorica di Masci e quella dei suoi predecessori.
a) Secondo Macchioro (Macchioro 2006, p. 462, nota 45), l’elaborazione teorica di Ma-
sci «è riconducibile al caso di determinazione di prezzo in regime di monopolio bilaterale
già esaminato da Edgeworth. Siamo in piena affermazione di continuismo teorico e di quan-
to chiamiamo astoricismo metodico». In tal senso, Masci non avrebbe introdotto alcun ele-
mento di sostanziale novità rispetto a quanto già elaborato nell’ambito della teoria econo-
mica neoclassica.
b) Stando all’interpretazione qui proposta, per contro, si può rilevare una significativa di-
scontinuità teorica fra la riflessione di Masci e quella marginalista, quantomeno con riferi-
mento alla determinazione del salario. Come si è avuto modo di rilevare, per Masci il sala-
rio corporativo ha una duplice componente: una propriamente endogena, derivante dalla
possibilità di accordo fra datori di lavoro e lavoratori; e una potenzialmente esogena, deri-
vante dal caso in cui si ricorra a istituzioni esterne al mercato in assenza di accordo fra le
controparti. Quest’ultima componente è del tutto assente nei modelli neoclassici del pe-

1 Cfr. Masci 1932.


2 La presenza di un terzo soggetto, la magistratura del lavoro, è secondo Bini l’elemento che determina la so-
luzione dell’indeterminatezza del monopolio bilaterale. Cfr. Bini 1982, p. 260.
3 A riguardo, Giuseppe Palomba (Palomba 1956, p. 154) farà rilevare che, a suo giudizio, il fallimento del-
l’esperienza corporativa era da imputare alla «mancanza di solidarietà d’interessi fra lavoratori e datori di lavoro»,
a sua volta riconducibile al fatto che, nel corporativismo fascista, i legami di solidarietà erano indeboliti dall’as-
senza di un culto condiviso da parte di entrambe le categorie e dalla tutela della proprietà privata dei mezzi di pro-
duzione e della libertà d’impresa.
La teoria del salario corporativo in Guglielmo Masci 51
riodo o, se presente, concepita come fonte di ‘distorsione’ del corretto funzionamento del
mercato del lavoro.
Più in generale, si può argomentare che l’analisi di Masci si muove semmai in continuità
con le riflessioni di Nitti e Graziani, su due piani. In primo luogo, come per Graziani, per
Masci la crescente concentrazione industriale non è soltanto un dato di fatto da recepire sul
piano teorico, ma è anche e potenzialmente un assetto capace di generare maggiore cresci-
ta economica rispetto a un’economia nella quale prevalgano forme di mercato perfetta-
mente concorrenziali. In secondo luogo, il riconoscimento dell’asimmetria dei poteri con-
trattuali nel mercato del lavoro e la considerazione del fatto che nulla implica che vi sia
spontanea convergenza di interessi fra datori di lavoro e lavoratori (così che si rende neces-
sario un intervento esterno di regolamentazione) costituiscono due aspetti teorici che – mo-
vendosi nell’ambito di una visione ‘conflittualista’ delle relazioni industriali (come definita
supra) – marcano la forte affinità fra il pensiero di Nitti e Graziani sulla determinazione dei
salari e il contributo di Masci alla teoria del salario corporativo. In più, gli autori qui consi-
derati concordano sul fatto che un mercato del lavoro regolamentato è tale da produrre esi-
ti efficienti (esiti che non sono generati – si ritiene – in condizioni concorrenziali) e, al tem-
po stesso, di garantire condizioni di scambio ‘eque’, ovvero non sbilanciate a danno della
parte padronale, come avverrebbe in un assetto socialista.

5. Considerazioni conclusive
In questo saggio, si è proposta una ricostruzione critica delle teorie del salario elaborate agli
inizi del Novecento da parte dei principali economisti operanti in quel periodo all’Universi-
tà di Napoli. Ci si è soffermati, in particolare, sulle tesi di Francesco Saverio Nitti e di Au-
gusto Graziani, ponendo in evidenza il fatto che questi autori configurano il funzionamen-
to del mercato del lavoro in una prospettiva ‘conflittualista’, nella quale – per l’obiettivo
della crescita della produzione, e stante l’asimmetria dei poteri contrattuali fra datori di la-
voro e lavoratori – si rende necessario un intervento esterno di regolamentazione del sala-
rio e del contratto di lavoro. Si è successivamente ricostruita la teoria del salario corporati-
vo, con particolare riferimento al contributo di Guglielmo Masci, ponendo in evidenza la
sostanziale continuità della sua riflessione rispetto a quella maturata, nel medesimo Ateneo,
nella fase precedente l’avvento del fascismo. Tale continuità è stata riscontrata sotto un du-
plice profilo. In primo luogo, per Masci, così come per Nitti e Graziani, il capitalismo a lui
contemporaneo è caratterizzato da crescente concentrazione industriale, e la crescita di-
mensionale delle imprese è tendenzialmente associata a migliori condizioni di lavoro e a più
alti salari. In secondo luogo, Masci – come Nitti e Graziani – fa propria una visione ‘conflit-
tualista’ delle relazioni industriali, rilevando – nel contesto storico e culturale proprio del fa-
scismo – che il conflitto fra capitale e lavoro può essere risolto solo mediante l’intervento
pubblico di regolamentazione, che, attraverso in particolare la Magistratura del Lavoro,
ponga le controparti in condizione di negoziare in regime di monopolio bilaterale. Si affer-
ma, così, la convinzione che un mercato del lavoro regolamentato è tale da non incorrere
nelle inefficienze generate in condizioni concorrenziali e, al tempo stesso, di non produrre
le iniquità inevitabilmente generate in un assetto socialista, a danno della parte padronale.

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Sommario
Questo saggio si propone di offrire una ricostruzione del dibattito sulla questione sociale nell’ambi-
to della teoria economica corporativa. L’attenzione viene concentrata sul contributo di Guglielmo
Masci, autorevole esponente di questo indirizzo di ricerca all’Università di Napoli, con particolare
attenzione agli aspetti analitici connessi alla sua teoria del salario corporativo.
Parole chiave: corporativismo italiano; teoria del salario; questione sociale.

GUGLIELMO MASCI’S THEORY OF CORPORATIST WAGE

Abstract
The aim of this paper is to provide a critical reconstruction of the Italian debate on the social ques-
tion in the corporativist economic doctrine. Particular attention will be paid to the economic thought
of Guglielmo Masci, a prominent exponent of this line of research at the University of Naples, with
specific reference to the analytical issues arising from his theory of the ‘corporative wage’.
Keywords: Italian corporativism; theory of wages; social question.
jel Classification: B1, E24, H1
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SOMMARIO

saggi
Claudio Bargelli, Pietas cristiana e felicità pubblica. Pauperismo e pensiero assisten-
ziale in due Ducati padani nel secolo dei Lumi 11
Guglielmo Forges Davanzati, Rosario Patalano, La teoria del salario corpo-
rativo in Guglielmo Masci 35
Silvia Pochini, State intervention in Italy during the nineteen-seventies and eighties:
‘the heresy’ of Federico Caffè 55

scienza economica e opinione pubblica:


gli economisti torinesi e la stampa quotidiana
dagli anni venti al miracolo economico

Giovanni Pavanelli, Introduzione 81


Fabrizio Bientinesi, Una svolta difficile: il passaggio dall’economia di guerra all’eco-
nomia di pace negli articoli di Riccardo Bachi sulla stampa quotidiana 85
Luca Tedesco, Gino Borgatta e la crisi economica degli anni trenta tra protezionismo
condizionato e autarchia inderogabile 91
Stefano Adamo, Le lezioni in edicola. La collaborazione di Pasquale Jannaccone con
«La Nuova Stampa» 109
Fabio Masini, Jannaccone come intellettuale pubblico: l’integrazione internazionale e
l’idea di Europa 129
Giovanni Lepore, Il declino economico di Trieste negli interventi di Diego de Castro
sulla «Stampa» (1948-1981) 143

note critiche e rassegne


Terenzio Maccabelli, Luigi Einaudi e l’uguaglianza dei punti di partenza 171

recensioni
Giuliana Arena, Pasquale Saraceno commis d’État. Dagli anni giovanili alla ricostru-
zione (1903-1948) (Rosario Patalano) 189
Maria Luisa Cavalcanti, La politica monetaria italiana fra le due guerre (1918-1943)
(Giuseppe Conti) 190
Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi. Studi e saggi (Luca Michelini) 192
Paolo Prodi, Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente (Terenzio
Maccabelli) 193

Gli autori di questo numero 197

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