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Diritto del lavoro

Lezione del 18/09/2023


Date parziali
18 dicembre parziale
10 gennaio parziale
29 gennaio parziale
14 febbraio parziale

Di diritto del lavoro si parla ogni giorno, la frequenza aiuta a concretizzare ciò di cui si parla.
Il diritto non è certo, la certezza del diritto è un dogma che da decenni aleggiava, ma da accantonare, il
diritto non è certo, va interpretato...etc.… quasi tutte le letture nell’ambito del diritto del lavoro sono anche
ideologiche, quindi, il prof consiglia da diffidare dalle interpretazioni certe; quasi sempre l’interpretazione
serve, ma vedremo come per tanti istituti, queste divergono in modo clamoroso.
Il prof esporrà quali sono le opinioni prevalenti e raramente si darà una certezza, darà la sua opinione,
sottolineandone la confutabilità, e noi, come cittadini, dobbiamo formare la nostra idea, non influenzata da
chi parla.

Il diritto del lavoro conosce una tripartizione tradizionale, il diritto dei rapporti di lavoro (diritto del
lavoro in senso stretto), il diritto sindacale, il diritto della previdenza sociale.
Quest’ultimo non verrà trattato, ma brevemente riguarda il complesso delle misure protettive di chi
si trova in una situazione di bisogno, questo cuore è composto dalle pensioni, ma può succedere
anche nel corso del rapporto di lavoro, come per maternità, infortunistica, quando il lavoratore
perde il lavoro; di questi temi non ci occuperemo se non in modo marginale/incidentale, ci
occuperemo invece del rapporto individuale del lavoro e del diritto sindacale.

Rapporto di lavoro, il contratto di lavoro rappresenta la genesi del rapporto di lavoro e studieremo il
rapporto di lavoro dalla sua genesi alla sua estinzione, che può avvenire con licenziamento,
dimissioni, accordo fra le parti...etc....
Terminologia corretta!

Il rapporto di lavoro riguarda la vita, attiene a tutte le regole che disciplinano il rapporto di lavoro
dalla sua genesi ed estinzione, ma è diventato importante ciò che concerne il mercato del lavoro in
senso lato, ciò che precede e ciò che segue il lavoro, come l’attività di ricerca del personale,
l’attività di promozione di nuova occupazione, di formazione (pubblica/privata) al fine di favorire
l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro.

Trattiamo nel primo semestre il diritto sindacale, in quanto più ostico dello studio del diritto del
lavoro in senso stretto, è quello che riguarda i rapporti collettivi, cioè, le regole applicabili ai
gruppi che tutelano chi offre e chi domanda lavoro, e questi gruppi sono i sindacati. (cgil, ugl, etc)

Anche i datori di lavoro si associano, come confindustria, confcommercio.

Il diritto sindacale è caratterizzato da dialettica forte che a volte arriva al conflitto, ossia lo sciopero.
Gli accordi che si concludono fra associazioni di imprenditori e di lavoratori sono i contratti
collettivi di lavoro.
In mancanza di una legge (in Italia non c’è una legge sindacale, uno dei pochi casi in Europa), vi è
una costruzione fortemente giurisprudenziale o rimessa al piano delle decisioni raggiunte
unilateralmente/consensualmente fra associazioni imprenditoriali ed associazioni sindacali.
Ecco che questo rende più difficile lo studio di questa parte di diritto del lavoro.
Perché si incomincia dal sindacale? Perché la formazione delle regole che disciplinano i rapporti di
lavoro, non sono soltanto di fonte legislativa, ma anche (per non dire soprattutto) di fonte
contrattual-collettiva.
Di conseguenza non possiamo partire dal rapporto di lavoro se non sappiamo gli ambiti di applicazione e le
regole
I CCNL di categoria, oggi in Italia, sono oltre 900, quindi, dobbiamo capire prima che cos’è il CCL,
quale si applica, a chi...etc.... da tutti
L’avvocato dovrà capire quale ccl, quale efficacia, soggettivo ed oggettivo, la forza del contratto rispetto alla
legge, al contratto individuale, etc.…etc....

Per diritto del lavoro UE bastano gli appunti.


Codici  non esiste un codice del lavoro (a differenza che in Francia); per il primo semestre non
serve, ci serve solo la costituzione, il codice civile, lo statuto dei lavoratori; questo in quanto è un
diritto poco legificato; il diritto dell’UE sui rapporti collettivi interviene abbastanza poco perché è più
facile farlo sulle soluzioni tecniche (licenziamenti collettivi, insolvenza imprese e tutela dei
lavoratori), la regolamentazione dei rapporti collettivi è più complicata perché calare dall’alto delle
regole vincolanti nei rapporti collettivi è decisamente complicato, perché queste regole necessitano
largamente di consenso, come ad esempio ad una legge su uno sciopero.
Lo sciopero è un diritto non regolato dalla legge, ci sono regole di genesi giurisprudenziale, l’UE
non ha mai pensato di introdurre regole sullo sciopero in quanto l’esperienza dei vari paesi è
diversa l’una dall’altra e sarebbe difficile trovare regole comuni, lo vedremo ancora di più parlando
del tema della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese (la “cogestione); in
Germania è una cosa; in altri paesi un’altra.
In Germania ci sono rappresentanti dei lavoratori nelle imprese.

Da ricordare  art 46  norma non attuata, ma esiste  Ai fini della elevazione economica e sociale
del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a
collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.

Transazione, contratto con il quale le parti prevengono l'insorgere di una lite o pongono fine ad
una lite facendosi reciproche concessioni, fin da adesso, alla domanda (secondo semestre) che
cos’è una transazione, se non risponde si rifà l’esame.
Una buona parte delle controversie in materia di lavoro si compongono con transazioni, non si va
dal giudice, e se si va si chiude con accordo transattivo.
Bisogna abituarsi a pensare con approccio pratico.

Lezione del 19/09/2023


Introduzione sulle caratteristiche essenziali/sistemiche del diritto del lavoro ed è un’introduzione
che non distingue tra diritto sindacale e rapporto di lavoro  in realtà la bipartizione di cui abbiamo
parlato tra diritto lavoro in senso stretto e diritto sindacale, è una bipartizione “accademica”, per
organizzare il corso, ma le due parti del diritto del lavoro sono strettamente compenetrare; il diritto
sindacale esamina soprattutto le fonti di regolamentazione del rapporto di lavoro.
Ovunque, soprattutto Europa occidentale, presentano stratificazioni, segmentazioni, pluralismo, ed
emergono una serie di elementi comuni, allora, per parlare del diritto del lavoro in modo
schematico, ad avviso del prof, è opportuno partire dalla delimitazione del diritto del lavoro, poi
parlare della segmentazione del diritto del lavoro, del pluralismo, la specialità del diritto del
lavoro, la relatività e la sua formazione.
Innanzitutto, delimitazione  di che cosa si occupa il diritto del lavoro? Gli ambiti sono cambiati in
quanto l’ambito del diritto del lavoro è cambiato da due punti di vista:
 tipologia dei rapporti di lavoro (contratti di lavoro)
 estensione del diritto del lavoro anche al settore pubblico

Con riguardo alla tipologia dei contratti di lavoro, lavora il lavoratore, chi dipende da altri, il
lavoratore autonomo, il libero professionista, la summa divisio si fondava fino ad una decina di anni
fa, fra lavoro subordinato e lavoro autonomo, i rapporti di lavoro subordinato ancora oggi
costituiscono un numero preponderante dei rapporti presi in considerazione, però si assiste ad una
tendenza espansiva, chiariamo subito:
-il singolo che svolge una prestazione di lavoro, due tipi  lavoro subordinato e lavoro autonomo

Cenno per capire i confini del diritto del lavoro, un tema chiave però del secondo semestre.
Cos’è un tipo contrattuale? Il tipo di qualunque contratto è caratterizzato dalla causa, ossia
funzione economico sociale, nei contratti di lavoro la causa è lo scambio fra una prestazione
lavorativa ed una controprestazione economica, detta retribuzione.
Nel lavoro subordinato la prestazione di lavoro è svolta sotto le dipendenze e sotto la direzione
del datore di lavoro, art 2094 cc.
Il lavoro autonomo è definito dall’articolo 2222 codice civile, è un lavoro NON subordinato, svolto
senza vincolo di subordinazione.
Entrambi nascono da un contratto a titolo oneroso (vi è un corrispettivo, nel lavoro subordinato
retribuzione, in quello autonomo compenso, onorario, in qualunque modo, quello che conta è la
sostanza).
Rapporti a titolo gratuito? Sì, ma solo a condizioni ben precise e limitato, questo per via dei
valori costituzionali (sia lavoro che retribuzione); quindi può essere gratuita se è svolta per
perseguire valori ed interessi di rango costituzionale, ad esempio il valore della solidarietà.
Domanda tizia
I tirocini? I tirocini hanno una componente di onerosità, è previsto un corrispettivo, anche se basso, non è
prestazione gratuita, certamente non è considerato un contratto di lavoro perché (in teoria) la formazione
prevale sull’attività lavorativa.

Il diritto del lavoro è caratterizzato dal principio di effettività, ossia, sul nomen iuris (formula
giuridica usata dalle parti) prevale l’effettiva natura dei rapporti posti in essere, l’effettivo svolgimento
del rapporto di lavoro.
Se quindi il lavoro nel tirocinio prevale sulla formazione, quella persona può far valere davanti al giudice i
propri diritti, che presuppongono l’accertamento della natura del rapporto.

Il lavoratore subordinato è colui che lavora sotto le dipendenze e sotto la direzione del datore del
lavoro, e questo cosa significa? La subordinazione di inizio 900 e comunque anche quella del
1960/70, erano cose molto diverse dalla subordinazione anni 2000, il prof condivide quanto scritto
da alcuni autori in dottrina, bisogna parlare al plurale, le subordinazioni, e cambia molto,
proviamo a pensare al lavoro agile, che si svolge al di fuori dei locali aziendali, scelti dal lavoratore,
lo stesso orario di lavoro poi non ha le stesse caratteristiche di chi va in fabbrica, egli lavora dove
vuole in fasce orarie, tutte quelle nelle quali non è disconnesso, ed ha un diritto alla
disconnessione.
La subordinazione del lavoratore agile è diversa da quella del lavoratore che si presenta in azienda.

Oppure pensiamo ai rider, che lavoratori sono? Dipende, a seconda dei tribunali, a Torino
classificati come co.co.co, a Palermo come lavoratori subordinati.
La subordinazione è un assoggettamento ai poteri del datore di lavoro.
Questi poteri sono tre:
- il potere direttivo, il potere di dare ordini (legittimi) che riguardano lo svolgimento della
prestazione
- il potere di controllo, il potere di controllare lo svolgimento della prestazione
- il potere disciplinare, è un potere “anomalo” nei rapporti che traggono origine da un contratto,
però risponde al fatto che il datore di lavoro è il titolare dell’organizzazione; quindi, il potere
disciplinare è il potere di irrogare una sanzione disciplinare (purché proporzionata...vedremo nel
secondo semestre) nel caso in cui il lavoratore non adempia ai suoi obblighi contrattuali. Da un
semplice rimprovero al licenziamento.

A volte è difficile capire in concreto se si è esercitato il potere direttivo o di controllo, ci sono molti
casi limite dove non si capisce fino a che punto si è esercitato il potere direttivo, magari con
indicazioni e non ordini, sfumate dal punto di vista quantitative e qualitative.
Il diritto del lavoro nasce per dare tutele e garanzie ai lavoratori subordinati.
È una risposta all’industrializzazione (e sfruttamento), quindi è nato in Inghilterra un secolo prima
che in Italia.
Sul piano individuale il singolo lavoratore è più debole rispetto al datore di lavoro, invece, il
fenomeno collettivo, l’aggregazione, l’associazione, il sindacalismo (trade unions in eng), valgono
di più.
Se il lavoro non è subordinato non è autonomo, inizialmente non vi erano tutele per i lavoratori
autonomi o, meglio, era ciò che il singolo poteva ottenere con il suo contratto individuale.

Con la terziarizzazione, lo svilupparsi di rapporti anche a distanza, diventa sempre più difficile
vedere in concreto quelle direttive e quel controllo che caratterizzano il lavoro subordinato, allora,
qualcuno potrebbe dire, perché si pone il problema? Se il diritto del lavoro nasce per tutelare il
lavoro subordinato e nulla dice per decenni sul lavoro autonomo, per aggirare e limitare il diritto del
lavoro basterebbe predisporre contratti di lavoro autonomo per ogni lavoratore, anche se non si
sfugge dal principio di effettività.
Qualunque tipo di prestazione lavorativa può essere oggetto di un contratto di lavoro subordinato
come di un contratto di lavoro autonomo, dipende tutto dalle modalità di svolgimento della
prestazione e del rapporto; il medico che lavora presso una casa di cura privata può essere
subordinato come autonomo.

Negli anni 60 e negli anni 70, guarda caso, quando aumentano le tutele per i lavoratori subordinati,
incomincia nei fatti il tentativo di fuggire dal lavoro subordinato, stipulando contratti di lavoro autonomo
caratterizzati da una prestazione/rapporto continuativo con l’impresa a carattere prevalentemente personale
ed in qualche modo coordinato con l’organizzazione del committente, come i co.co.co.
Emerge in questo contesto la figura dei contratti di collaborazione continuativa e coordinata (cococo) a
carattere strettamente personale, sono contratti di lavoro autonomo, purché siano realmente autonomi.
Il problema della distinzione fra autonomia e subordinazione non lo si trova per l’artigiano, il professionista,
per colui che svolge una prestazione veramente autonoma e distinta dall’organizzazione del committente,
ma il problema della qualificazione del rapporto lo troviamo per i co.co.co, allora, questi collaboratori sono
davvero lavoratori autonomi o sono lavoratori subordinati con un contratto che dissimula qualcos’altro? La
risposta deve essere  dipende  dipende da come si svolge realmente l’attività.
Il giudice come farà a decidere? Dipende in concreto da quello che emergerà davanti al giudice e già da
questo momento bisogna richiamare all’attenzione di come poi le cose in concreto possono essere decise, il
giudice non sa nulla di come si è svolto quel rapporto, di conseguenza spetterà alle parti dimostrare (2967
cc).
Al datore di lavoro conviene respingere la domanda adducendo prove contrarie.
Qui incomincia il processo espansivo del diritto del lavoro  ci si pone il problema di estendere delle tutele a
questi lavoratori autonomi che assomigliano ai lavoratori subordinati pur non essendolo.
Quali tutele? Dalla metà degli anni 70 in poi è incominciato il dibattito ed è incominciato un processo
espansivo di tutela, dapprima contenuto, poche tutele, un po’ alla volta invece le tutele sono aumentate.
La dottrina ha elaborato una nozione sintetica, quella di para-subordinazione, è un’immagine, non un
genus esistente, il lavoro para-subordinato lo si colloca nel lavoro autonomo, ma con una serie di tutele che
incominciano ad essere estese a partire dal 1973 quando con la legge di riforma del processo del lavoro, le
controversie in materia di co.co.co sono portate alla competenza del giudice del lavoro.
L’artigiano invece dal giudice civile.
Le tutele vengono poi estese con la riforma Biagi del 2003, quella monti-Fornero del 2012, ma il vero salto di
qualità lo si ha con il Jobs Act (riforma Renzi), tra le tante cose fatte, estende le tutele del lavoro subordinato
ai contratti di co.co.co etero-organizzati, nel senso che sono organizzati da altri.
Dopo la riforma Renzi i co.co.co sono di due tipi:
 quelli in cui l’organizzazione dell’attività è fatta dal committente  etero organizzati, disciplina lavoro sub.
 se l’organizzazione dell’attività è fatta dallo stesso lavoratore o concordata tra lavoratore e committente, a
questi co.co.co non si applica tutta la disciplina del lavoro subordinato ma solo quelle ancora non molte
norme di tutela dei parasubordinati

Etero-diretto  direzione del lavoro da parte del datore  lavoro subordinato

Caso tribunale Torino, poi corte appello Torino, poi cassazione in febbraio 2020 – rider di fudora –
Giudice dice che non è subordinato in quanto non vi è la prova dell’assoggettamento, ma c’è la prova
dell’organizzazione tramite le app, di conseguenza la corte di appello (confermata dalla cass.) ha esteso
comunque le discipline del lavoro subordinato.
Ecco qui l’importanza dell’art 2 del d.lgs 81/2015 (uno degli 8 decreti della riforma Renzi).
Non si può più dire quindi che il diritto del lavoro si occupa solo del lavoro subordinato.

Il conflitto per i lavoratori subordinati c’è e si chiama sciopero, quando sentiamo parlare di sciopero
degli avvocati, è sbagliato, in quanto sono lavoratori autonomi e di conseguenza si astengono.

Seconda antinomia fra privato e pubblico; I rapporti di lavoro con le PA erano oggetto di studio del
diritto amministrativo perché il rapporto di lavoro nasceva non da un contratto, ma in forza di un
atto amministrativo di nomina.
I concorsi c’erano e ci sono ma sono prodromici rispetto alla costituzione del rapporto.
Fino al 1992, legge delega 93/1992, primo dei decreti delegati, vengono privatizzati i rapporti di
lavoro con le amministrazioni pubbliche, ed alcuni parlano di contrattualizzazione. Tutti tranne
alcune eccezioni, i professori universitari, i magistrati, le forze di polizia, l’avvocatura dello stato e
pochi altri (restano in ambito pubblicistico e quindi amministrativo).
Tutti gli altri sono privatizzati; il concorso c’è, ma con l’approvazione della graduatoria finisce la
fase pubblicistica, ed il rapporto nasce con un contratto di lavoro, prima invece si dava efficacia
tramite D.P.R.
Lezione del 25/09/2023
Caratteristiche strutturali del diritto del lavoro
Segmentazione del diritto del lavoro
Il diritto del lavoro si applica in modo diversificato, paradossalmente è un diritto diseguale,
paradossalmente perché il diritto del lavoro interviene per porre tutele al lavoratore e
tendenzialmente la parte debole del rapporto di lavoro a fronte di una situazione di diseguaglianza
sostanziale.
Cosa si intende dire con diritto del lavoro diseguale?
Che diverse regole di tutela del lavoratore operano in modo diversificato a seconda di determinate
caratteristiche del datore di lavoro o del lavoratore.
Potremmo quindi dire che si assiste ad una sorta di segmentazione del diritto del lavoro.
Quali differenze?
Abbiamo distinzione di normativa applicabile in relazione alle dimensioni del datore di lavoro,
quindi, potremmo dire richiamando immagini impresa piccola ed impresa grande; in questo senso
 pensiamo alla disciplina dei diritti sindacali nei luoghi di lavoro, fermo restando che la libertà
sindacale è esercitabile presso qualunque datore di lavoro, anche se si è i soli dipendenti, ma
come vedremo, una serie di diritti sindacali è riconosciuta soltanto nelle unità produttive con più di
15 dipendenti.  titolo terzo statuto dei lavoratori.
Altro esempio
Disciplina della tutela contro i licenziamenti, anticipiamo per capire in cosa consiste la
diseguaglianza con riguardo alla quale la corte costituzionale ha escluso l’incostituzionalità.
Sotto un certo numero di dipendenti, fino a 15 con riguardo all’unità produttiva, o sotto i 60 con
riguardo all’intera impresa, se il lavoratore viene licenziato in modo ingiustificato, se è
radicalmente nullo (motivo illecito, ragioni discriminatorie), la tutela contro i licenziamenti per il
lavoratore nelle piccole imprese è molto inferiore a quella della “grande” impresa; vedremo come
in tema di licenziamenti c’è una differenza di trattamento per chi è assunto prima/dopo il 7 marzo
2015, data di entrata in vigore della riforma Renzi in tema di licenziamenti.
Per gli assunti prima è largamente prevista una tutela di tipo reintegratorio, di ricostituzione del
rapporto di lavoro, mentre per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, è una misura del tutto eccezionale.
Quindi parlando del diritto del lavoro, non si applica lo stesso a tutti (per taluni istituti).
In base al tipo di rapporto di lavoro, in base alle dimensioni dell’impresa.

La tutela contro i licenziamenti non si applica contro i dirigenti, che sono comunque lavoratori
subordinati, l’unica tutela è quella prevista dai contratti collettivi, che prevedono una certa tutela
nel caso di licenziamento non giustificato, che non è quella di legge, è una tutela solo economica.
Per i dirigenti, ma non solo, anche per tutti i lavoratori che esercitano funzioni direttive, non ci sono
limiti all’orario di lavoro, ci sono limiti dettati da un principio di ragionevolezza, a parte il fatto che la
costituzione prevede il diritto ai riposi, giornalieri, settimanali, annuali, per ogni lavoratore.
Mentre però per i lavoratori subordinati diversi da dirigenti, quadri, impiegati con funzioni direttive,
sopra quello che è l’orario normale di lavoro, scatta il lavoro supplementare se non straordinario
(sono diversi, vedremo differenze)
Per gli altri no, questo in virtù del ruolo

Altro esempio
Cassa integrazione guadagni
Il rapporto di lavoro è sospeso/orario ridotto, il lavoratore perde la retribuzione per le ore non lavorate, ma la
retribuzione persa è compensata in parte dall’intervento della cassa integrazione guadagni, è una sorta di
ammortizzatore sociale, è denaro pubblico versato dall’INPS, e questo istituto non opera per i dirigenti,
opera per gli altri lavoratori subordinati.
Ancora
Vedremo nel secondo semestre che nell’ambito del lavoro subordinato vi sono una pluralità di
contratti, pensiamo a tempo pieno, tempo parziale; tempo indeterminato ed a termine (tempo
determinato); tendenzialmente si applicano le stesse regole ma con qualche differenza, ad
esempio, nel contratto a termine, quando scade, non è necessario per porre fine al rapporto che il
datore di lavoro effettui un licenziamento.

Quindi, differenze in base al tipo di rapporto di lavoro, alle dimensioni dell’impresa, ma abbiamo un
altro distinguo, pubblico e privato.
Abbiamo già visto i dipendenti pubblici privatizzati che ormai hanno regole giuslavoristiche, ma
diverse a quelle normalmente applicate.
Qualche esempio, rapporti collettivi, il contratto collettivo c’è ma con una serie di regole legali non
applicabili nel settore privato (dove una legge non c’è) che prevedono chi sono i soggetti che
possono negoziare, qual è l’efficacia del contratto collettivo, su quali materie si può/non si può
negoziare; vi è un intervento del legislatore che nel settore privato non abbiamo.
Vedremo le ragioni e la costituzionalità di queste previsioni.

Sullo sciopero, non è corretto distinguere tra sciopero nel settore pubblico e settore privato, perché
l’unica vera legge che c’è in materia di sciopero è la legge sullo sciopero dei servizi pubblici
essenziali.
Tendenzialmente sono esercitati dalle PA, ma a volte anche qualche impresa privata, pensiamo
alla libera circolazione dei lavoratori (mezzi pubblici, non sempre sono privati), del resto, l’ente
ferrovie dello stato è un ente privato.
Diciamo che quindi non è corretto distinguere privato/pubblico sulle regole

Ancora
Nell’ambito del rapporto di lavoro individuale le differenze sono molte, a partire dalle modalità di
individuazione del lavoratore, nel settore pubblico è necessario il concorso, il datore di lavoro
privato può fare quello che vuole

Nel settore privato se un’impresa privato stipula un contratto di lavoro autonomo con un lavoratore
e questo ottiene l’accertamento che quel rapporto ha natura subordinata, si avrà una sentenza del
giudice costitutiva del rapporto con eventuali reintegre.
Nel pubblico questo non è possibile dato che il contratto sarebbe nullo radicalmente ed è
necessario il concorso

Es
Lavoratore che svolge mansione più alta rispetto al suo inquadramento.
Se di fatto svolge mansioni superiori ha diritto a due cose nel settore privato:
- Una retribuzione corrispondente
- Se lo svolgimento di mansioni superiori ha durata di maggior periodo di tempo (6 mesi o più in
base al ccnl), matura il diritto di inquadramento al livello superiore.

Nel settore pubblico ha diritto alle differenze retributive, ma non ha diritto a stabilizzare la sua
posizione, la c.d promozione automatica. Per lo stesso motivo di prima, anche per la promozione
nel pubblico è necessario un concorso.
Si può dire che, per quanto concerne la tutela riguardo ai licenziamenti, nel pubblico è superiore.
Per questo motivo il professionista legale deve avere un inquadramento del soggetto che ha
davanti molto preciso.
Questo è la “segmentazione” del diritto del lavoro

Pluralismo del diritto del lavoro


Pluralismo di fonti, è un diritto multilivello, fonte costituzionale, fonte UE, legge, ccnl
Pluralismo di attori, soggetto pubblico (come soggetto volto ad introdurre regole), rappresentanze di interessi
collettivi (sindacati dei lavoratori, associazioni imprenditori) che sono attori protagonisti che
stipulano contratti, i c.d contratti collettivi che si applicano ai rapporti di lavoro seppur con dei limiti,
sia sull’efficacia soggettiva (non è detto che si applichi a tutti), sia che incontrano limiti nei rapporti con le
fonti di rango superiore.
Sono attori protagonisti sia per i ccnl, ma anche nel processo stesso di formazione delle leggi.

Il termine concertazione sociale fa riferimento ad un fenomeno politico molto vivo negli anni
80/90 e nel periodo del lockdown covid, cioè quando il legislatore è arrivato ad emanare
determinate leggi coinvolgendo nel processo di formazione delle leggi; i governi hanno cercato di
trovare le intese con sindacati lavoratori ed associazioni imprenditori per via di obiettivi da
raggiungere, per i quali si è ritenuto avere un consenso più largo.
Negli anni 80/prima metà anni 90, il problema era quello di ridurre il deficit pubblico e l’inflazione al
fine di consentire all’Italia l’ingresso nel sistema della moneta unica.
Concertare delle misure successivamente codificate in norme.

Specialità del diritto del lavoro (in senso tecnico-giuridico)


Il diritto del lavoro nasce dal diritto privato (codice civile), e questo accade un po’ in tutti i codici
dell’Europa occidentale.
Le regole privatistiche sono di primaria importanza, però trovano un’applicazione “speciale”
rispetto al diritto privato.
Vi sono forti elementi di specialità, su tutti, solitamente la norma di legge che regola i rapporti di
lavoro è norma imperativa, per di più caratterizzata dalla inderogabilità in peius (in peggio) con
riguardo al lavoratore.
Le eventuali previsioni del contratto individuale, peggiorative rispetto alla legge, sono nulle.
Anche quelle del contratto collettivo, salvi i casi in cui la legge ammette deroghe (peggiorative).

Formazione del diritto del lavoro, la sua relatività e stratificazione


Gino giugni parlava di formazione alluvionale del diritto del lavoro, cioè per strati, in periodi
politici/storici molto diversi gli uni dall’altro, non sempre il diritto successivo ha cancellato/abrogato
la normativa precedente.
Es
La prima normativa in materia di orario del lavoro era del 1923, la legge attuale in materia di orario
del lavoro, che ha superato quella del 1923, è del 2003, 80 anni spaccati dopo.

Come nasce?
È una sorta di risposta alla questione sociale che si è posta con l’industrializzazione, il tentativo di
correggere le conseguenze di quest’ultima e porsi come strumento di politica sociale, siamo nella
seconda metà dell’800 in Italia, molto prima in UK; il codice civile del 1865 non si occupava del
contratto e rapporto del lavoro, neanche una norma, in pratica, la genesi del diritto del lavoro è di
formazione sostanzialmente extra-legislativa.
Inizialmente si formano i primi sindacati, prima come coalizione spontanee e poi si organizzano
A fine 800 abbiamo i primi contratti collettivi, non nazionali, che prendevano il nome di “concordati
di tariffa”.
Poi vi era il codice penale, zanardelli, ottocentesco, che non sanzionava come reato lo sciopero,
non era un diritto, era una libertà non sanzionabile (poi cambierà molto con il fascismo).
Formazione extra-legislativa per via di prassi e di contratti collettivi, ma il legislatore incomincia ad
intervenire negli ultimi due decenni dell’800.
Due interventi sotto l’egida di una legislazione sociale, che non disciplina il rapporto di lavoro, ma
che pone alcune regole che riguardano gli infortuni sul lavoro, viene costituita l’assicurazione sugli
infortuni sul lavoro, la limitazione dell’orario di lavoro.
- legge 295/1893  legge istitutiva dei collegi dei probiviri (uomini saggi)  sono dei collegi che
vengono chiamati a giudicare del contezioso e dell’eventuale controversia fra lavoratore e datore di
lavoro. Quindi inizialmente le controversie di lavoro non erano affidate alla magistratura togata.
Essi dovevano decidere secondo equità, in quanto non vi erano norme, rifacendosi spesso alle
soluzioni adottate dai primi contratti collettivi (magari in settori affini e territori vicini).
Le cose cambiano in epoca fascista, e cambiano decisamente.
Il legislatore interviene anzitutto nel codice penale (1930) tutt’ora vigente.
La corte costituzionale ha sancito l’illegittimità di diverse norme, come quelle che sanzionavano lo
sciopero e la serrata.
Con una serie di leggi di quel periodo vi era la previsione della possibilità di costituzione di un
sindacato unico, in epoca fascista poteva esistere un unico sindacato controllato evidentemente
dal regime.
Ecco perché dal punto di vista giuridico si parla al riguardo di corporativismo, che significa
sostanzialmente “integrazione” degli interessi organizzati (dei lavoratori e datori di lavoro)
all’interno dello stato, ossia di meccanismi formalizzati di decisioni politiche.
Il corporativismo era liberticida

In epoca fascista sul piano dei rapporti collettivi il legislatore interviene a regolamentare il
sindacato unico, a vietare sciopero e serrata, poi, certo, nel codice civile vi sono numerose norme
dedicate al contratto collettivo. Pensiamo alla gerarchia delle fonti delle preleggi, dove vi erano le
norme corporative, ossia le norme dei contratti collettivi conclusi dal sindacato unico, si
applicavano a tutti, erano una vera e propria fonte del diritto.
Sul piano dei rapporti collettivi questa è la caratteristica di questa stagione di forte interventismo
del legislatore nei rapporti collettivi.

Sul piano dei rapporti individuali, il codice civile regolamenta al titolo quinto il lavoro subordinato e
quello autonomo, alcune di quelle norme sono ancora vigenti (non tutte e con forti deroghe).
Questo è un momento importante nella formazione del diritto del lavoro.

Cade il fascismo, il regime corporativo (non tutte le norme verranno abrogate), però, il salto di lì a
poco è evidente perché la costituzione ha una sua logica contenuto diametricalmente opposto, già
alle prime norme si parla del lavoro.
Ci sono norme espressamente dedicate al rapporto del lavoro, pensiamo all’art 36 cost, tutt’oggi
norma centrale, che fin da subito è stata considerata una norma direttamente applicabile nei
rapporti tra privati.
Il principio dalla stessa sancito, che è quello del diritto del lavoratore ad una retribuzione equa e sufficiente
(proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato), quindi il lavoratore può ricorrere al giudice e chiedere
l’applicazione dell’articolo 36 sostenendo che la retribuzione prevista dal suo contratto non è equa e
sufficiente
I giudici come determinano la retribuzione equa e sufficiente?
È un giudizio secondo equità, ma in che modo i giudici applicano questa equità?
La applicano facendo riferimento alle previsioni dei contratti collettivi, ma potrebbe anche ritenere
che quanto previsto non sia sufficiente.
Oggi ci sono numerosi contratti collettivi che vengono definiti in gergo, contratti collettivi pirata,
ossia stipulati da sindacati diversi da quelli classici e più rappresentativi, con retribuzioni più basse,
di conseguenza il giudice si trova in forte difficoltà.

Si vedono negli ultimi anni sentenze di giudici che talora non ritengono equa e sufficiente la
retribuzione di contratti collettivi stipulati da soggetti che “pirati” non sono.
L’art 36 sancisce poi il diritto ai riposi e rinvia alla legge la fissazione della durata massima di una
giornata lavorativa.
Art 37, principio di eguaglianza a tutela della donna lavoratrice e rinvio alla legge per la fissazione
dell’età minima.
Art 38, norma che tutela lo stato di bisogno del lavoratore, il fulcro del diritto della previdenza
sociale.

Sul piano dei rapporti collettivi, gli articoli rilevanti sono tre, 39, 40, 46
Art 39  è la norma che sancisce nel modo più ampio il principio di libertà sindacale al primo
comma, i commi da due a quattro, costituiscono le disposizioni che prevedono l’estensione erga
omnes dei contratti collettivi post-corporativi, però attenzione, mentre 39/1 è direttamente
applicabile, i commi da due a quattro, non sono attuati, perché presuppone l’intervento del
legislatore volto ad estendere l’efficacia dei contratti collettivi post-corporativi su tutti, e attraverso
un meccanismo che vedremo, non è stato “digerito” in primis dai sindacati, perché presuppone
l’acquisto della personalità giuridica dei sindacati.
All’inizio i sindacati non l’hanno voluto perché avevano ancora le “ferite aperte” del controllo statale
sul loro funzionamento interno, una volta caduto il regime corporativo siamo già in repubblica nel
48, siamo in democrazia libera, ma per decenni i sindacati sono stati i primi a non volere una legge
sindacale in attuazione della seconda parte dell’art 39.

Art 40  il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano, ma una legge non
c’è se non con riguardo ai servizi pubblici essenziali, ma una legge non serve per esercitarlo, è un
diritto dal primo gennaio 1948. Vedremo nell’ultima parte del semestre il contrasto fra l’art 40 e le
norme che sanzionano come reato lo sciopero e la serrata.

Art 46  la repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare nei modi e nei limiti stabiliti
dalle leggi alla gestione delle aziende, il diritto alla co-gestione, anch’esso non attuato nella sua
portata più ampia e sue potenzialità, troviamo qualche legge che prevede forme di collaborazione
aziendale, ma all’esterno dell’azienda e con rappresentanti dei lavoratori.
Lezione del 26/09/2023
Inizialmente il legislatore dopo l’emanazione della costituzione interviene soltanto nella logica
protettiva tradizionale che già avevamo visto nella legislazione sociale del 900 ed inizialmente va
ad integrare la disciplina codicistica ed a perfezionare un sistema minimale di tutele del lavoratore
nel rapporto di lavoro in quanto parte debole.
Questo spiega perché fra 50/60 si assiste ad una legislazione che non intacca i poteri del datore di
lavoro nei confronti del lavoratore, è una legislazione che fondamentalmente vuole evitare le frodi.
I momenti più significativi sono costituiti da leggi che limitano il ricorso al contratto a tempo
determinato, l.230/1962, la prima di una serie di leggi sul contratto a termine (una decina ad oggi),
a favore dei contratti a tempo indeterminato, ma la stabilità deve ancora avvenire, perché il
licenziamento è stato sostanzialmente libero fino alla legge sui licenziamenti del 1966.
Altra legge centrale è stata la 1369/1960 con l’intento di evitare fenomeni di dissociazione tra
datore di lavoro reale e datore di lavoro formale/apparente, questo fenomeno è il cosiddetto divieto
di interposizione di mere prestazioni di lavoro.
È stato vietato che i lavoratori siano assunti da un soggetto diverso da quello che nei fatti è il vero
datore di lavoro, ossia colui che esercita nei confronti del lavoratore i poteri tipici del datore di
lavoro (direttivo, controllo, disciplinare), questo per evitare che ci sia una frode circa l’individuazione
dei soggetti che costituiscono le parti del contratto di lavoro.
Un esempio
È lecito che siano stipulati dei contratti di appalto, il contratto con cui un soggetto affida ad un altro
l’esecuzione di un’opera o servizio, non il prestito di manodopera, che è ammesso soltanto da qualche
decennio in certi casi. Lavoro interinale, ossia somministrazione di lavoro, dal 2001.
Al di fuori di questa eccezione resta il divieto, non sono vietati gli appalti a patto che questi siano
effettivamente tali, quindi imprenditore che lavora in autonomia con i propri mezzi.
Spesso dietro il nomen iuris dell’appalto si nasconde un fenomeno diverso, cioè casi in cui l’appaltatore è
una sorta di fantoccio, un soggetto che si interpone tra i lavoratori e colui che è il vero datore di lavoro.
Questo fenomeno è vietato e chi assume il lavoratore deve coincidere con colui che gestisce i rapporti di
lavoro (al di fuori delle eccezioni ammesse che vedremo).
Questa è una classica legislazione antifrode anni 60.
Negli anni 50 abbiamo anche leggi speciali per il lavoro a domicilio, domestico, apprendistato, sono
discipline superate negli anni ma già significative.
I poteri del datore di lavoro non vengono intaccati fra anni 50 e 60 e quindi non vi sono limiti al
potere di licenziare, il licenziamento corrisponde ancora alla logica codicistica per cui è libero
(2118cc) partendo dalla logica della parità formale fra le parti del rapporto di lavoro.
Ma questo è vero solo formalmente.
Negli anni 50 inizio anni 60 vengono introdotte le prime leggi che sanciscono la nullità del
licenziamento in un caso particolare, ossia quello della donna in gravidanza, per il periodo che va
dall’inizio della gravidanza fino al compimento del primo anno di età del figlio.
Questo per evitare che avvenga un licenziamento per ragioni legate alla gravidanza, così come si
sancì la nullità delle clausole di nubilato, ossia quelle che riconoscevano la libertà di recesso dal
contratto nel caso di matrimonio della lavoratrice.
Questo è ancora poco, ma è un percorso che incomincia.

Dei licenziamenti si cominciano ad occupare i contratti collettivi ed una serie di accordi inter-
confederali, conclusi a livello nazionale, direttamente tra le confederazioni sindacali dei lavoratori
(allora cigl, cisl, uil) e le confederazioni dei datori di lavoro (confindustria).
Accordi che regolavano in particolare i licenziamenti collettivi.
Il legislatore interviene a limitare i poteri del datore di lavoro in tema di licenziamenti con la legge
604/1966 che ancora adesso per alcuni aspetti (sia pur con qualche modifica rispetto al testo iniziale)
costituisce la normativa di riferimento in materia di licenziamenti.
Sia obblighi formali  forma scritta
Punto centrale  il licenziamento deve essere giustificato, quindi quella legge introduce i
cosiddetti presupposti giustificativi del licenziamento, non è più un potere libero, le dimissioni
del lavoratore restano libere, il licenziamento invece deve essere giustificato. In caso contrario il
licenziamento è illegittimo, e se risulta tale vi è un meccanismo sanzionatorio.
Questa legge apre una breccia, ma il meccanismo sanzionatorio è ancora debole perché, se il
licenziamento non è giustificato il lavoratore ha diritto ad una indennità risarcitoria ancora molto
contenuta, oggi da 2,5 a 6 mensilità, da 10 a 14 in caso di anzianità.
Di lì a poco le cose cambiano radicalmente perché quattro anni dopo viene emanato lo statuto dei
lavoratori, la legge numero 300/1970, la legge con cui possiamo dire che vengono declinati,
sviluppati, implementati, in modo più pieno i principi della costituzioni di tutela del lavoratore, di
promozione dell’eguaglianza sostanziale, di tutela della libertà sindacale.
Lo statuto dei lavoratori segue le lotte sindacali/studentesche del 1968/69, lotte che tra l’altro fanno
vedere come si affermi l’emersione di comitati spontanei inizialmente al di fuori dai sindacati
normali; furono esperienze che nacquero dal basso ovviamente nelle imprese di maggiori
dimensioni, fiat, olivetti...etc....
Lo statuto dei lavoratori fu una risposta, una codificazione di conquiste ottenute sul campo, la
situazione politica si era anche in qualche modo modificata (il PSI era al governo, questa legge fu il
risultato di una serie di lotte sindacali)
Non compare il nome di Gino Giugni, che però fu uno dei maggiori estensori, ed assieme a lui
lavorava Federico Mancini, il padre dei giuslavoristi bolognesi.
Questa accoppiata ha aperto un po’ il solco al diritto del lavoro moderno in Italia.
Lo statuto dei lavoratori si caratterizza sia sul piano del rapporto individuale che su quelli
collettivi
Rapporto individuale  vengono limitati tutti i poteri del datore di lavoro, controllo, direttivo e
disciplinare restano, ma la tutela della libertà e della persona del lavoratore che è una delle finalità
principali dello statuto dei lavoratori, dichiarata dalle prime norme, si concretizza poi nella
limitazione dei tre poteri.
Si limita il potere di controllo del lavoratore, ad esempio, l’art 4 vieta l’utilizzazione degli impianti
audiovisivi per controllare la prestazione lavorativa (utilizzabili ma per certe finalità e con
l’autorizzazione dell’ispettorato del lavoro oppure accordo sindacale)
Viene regolamentato il potere disciplinare, che può adottare sanzioni disciplinari ma seguendo
determinate regole, di trasparenza; la possibilità del lavoratore di avanzare le proprie giustificazioni
(oltre al fatto che le sanzioni devono essere proporzionate alle sanzioni sono impugnabili davanti
ad uno speciale collegio arbitrale o davanti al giudice)
Sul piano dei licenziamenti viene introdotta la norma, l’art 18, madre delle tutele, è la norma che
introdusse il diritto del lavoratore alla reintegra nel posto di lavoro nel caso di licenziamento
illegittimo, qualunque fosse il suo vizio (procedurale, formale, senza giusta causa, natura discriminatoria
o illecita).
Nel suo testo iniziale (rimasto in vigore fino al 2012) prevedeva questo diritto.
Questa tutela sanzionatoria aveva un campo di applicazione limitato in base al numero dei
lavoratori occupati ed ecco perché gli imprenditori hanno cercato a lungo di non superare i 15.

Rapporti collettivi  da un lato l’art 39 non ha necessità di essere attuato, dall’altro, lo statuto dei
lavoratori va a declinare quel principio introducendo una serie di prerogative e qui abbiamo i titoli II
e III dedicati all’attività sindacale nei luoghi di lavoro, in particolare, il titolo II recita “Della libertà
sindacale”, il III, “Dell’attività sindacale”.

Titolo II art 14  la libertà sindacale è riconosciuta a tutti in qualunque luogo di lavoro


Art 15, 16  sanciscono la nullità degli atti e patti discriminatori, inizialmente si parlava di
discriminazione politica e sindacale ma con gli atti i fattori discriminanti sono stati allargati (siamo
nel 1970)
Art 17  sono vietati tutti i sindacati di comodo, ossia quei sindacati che si chiamano tali ma sono
sostenuti dal datore di lavoro.

Il titolo III, dall’art 19 al 27, ha una caratteristica diversa dal secondo, il quale rappresenta una base
minima di tutele sindacali ed individuali in tutti i luoghi di lavoro a prescindere dal numero di
dipendenti e con riguardo a qualunque lavoratore subordinato; il titolo III rubricato dell’attività
sindacale introduce una serie di diritti aggiuntivi, ma non per tutti i sindacati e non in tutte le unità
produttive, solo in quelle con più di 15 dipendenti.
Non sono riconosciuti a tutti i sindacati, solo ad alcuni, non è usato nome e cognome per via
dell’incostituzionalità, a quei sindacati indicati come maggiormente rappresentativi sul piano
nazionale, che erano cgil, cisl e uil, però questo articolo 19 è stato portato al vaglio della corte
costituzionale svariate volte e sotto diversi profili, la quale però, prima del 2013 (momento
particolare e vedremo perché, vicenda fiat cgil) la corte escluse l’incostituzionalità perché non si
viola la libertà sindacale e principio di eguaglianza (sostanziale).
Lo statuto dei lavoratori è definito in qualche modo come una legge di sostegno dell’attività
sindacale nei luoghi di lavoro, indire assemblee in orario di lavoro, permessi sindacali...etc....
La caratteristica dello statuto era di essere (ed è) una legge non regolativa in senso stretto ma
promozionale.

Negli anni successivi il legislatore, in particolare con la legge di riforma del processo del lavoro,
533/1973, riconosce la competenza funzionale del giudice del lavoro (allora era il pretore, che oggi
non esiste più, giudice monocratico), legge importante perché il riconoscimento astratto di un diritto
senza il processo rischia di essere teorico, l’obiettivo è di avere un processo del lavoro
caratterizzato dall’oralità, concentrazione, immediatezza, ed il rito (speciale) del lavoro si occupa
del lavoro subordinato e parasubordinato.
Questi tre parametri però ha detto il prof che sono un bel meme e che non è così, dato che si
scrive molto, fatto sta che il rito del lavoro è sicuramente più veloce del rito civile, che può andare a
sentenza in 8-12 mesi, a differenza del civile che impiega anche anni.

Il 1973 è una data fatidica, in quanto la primi crisi legata alla guerra del kippur(?) e l’aumento dei
prezzi del petrolio parte proprio dalle vicende di guerra fra egiziani ed israeliani e quindi maturano
le prime crisi aziendali ed il legislatore quindi inizia ad interrogarsi non soltanto in termini di
protezione del lavoratore, ma anche di difesa dell’occupazione, le soluzioni che incominciano ad
essere adottate sono soluzioni che passano attraverso la possibilità di un affievolimento delle
tutele a fronte delle crisi, si è parlato inizialmente (seconda metà anni 70) di diritto del lavoro
dell’emergenza, visto però che non è stato un fenomeno di breve durata si è parlato di diritto del
lavoro della crisi ed altri “della flessibilità”. Ci siamo dentro da allora. A maggior ragione con la
globalizzazione e l’impatto delle crisi economiche; attualmente le imprese hanno faticato (altre
arricchite), qualcuno l’ha definita come la fine dell’età dell’oro, ma per quanto riguarda il diritto del
lavoro, questo non perde il suo criterio ispiratore, ma deve fronteggiare anche altre esigenze, le
finalità quindi aumentano e sono varie come:
- il contenimento del costo del lavoro con il sostegno delle imprese in crisi
- la regolamentazione dei processi di ristrutturazione delle imprese
- l’ampliamento delle figure contrattuali in chiave di promozione dell’occupazione

Due tipologie di interventi


In entrata nel mondo del lavoro  forme di contratto di lavoro come contratti a termine con costo
minore, tipologie contrattuali diverse ed ulteriori rispetto a quella standard, quindi sono ammesse
deroghe rispetto alle regole generali (nei casi previsti dalla legge)
In uscita dal posto di lavoro  di tipo difensivo, per difendere l’occupazione esistente  da un
lato attraverso il perfezionamento/ampliamento del ricorso al classico ammortizzatore sociale in
costanza di rapporti ossia la cassa integrazione guadagni, ed un uso sempre più accentuato di
questa, grazie alla quale una parte dei lavoratori non viene licenziata, percepisce un trattamento
inferiore alla retribuzione ma comunque percepisce un reddito anziché rimanere inoccupato.

Si sono previsti casi tassativi nei quali il contratto collettivo è stato legittimato a certe condizioni ad
introdurre deroghe peggiorative per i lavoratori rispetto al trattamento di legge, il principio generale
è che la norma di legge non è derogabile in pejus da parte del ccnl o individuale, ma con il fine di
questa stagione la legge ha ammesso deroghe peggiorative da parte del contratto collettivo in
certe situazioni
Esempi
Trasferimento di azienda, quando viene trasferita un’azienda o un suo ramo, i rapporti di lavoro
continuano con il nuovo imprenditore cessionario, ed i diritti quesiti (maturati) sono intangibili e non
solo, è prevista un’obbligazione solidale tra cedente e cessionario (2112cc). norma inderogabile,
ma nel 1977/78 viene previsto (D.L) che in caso di crisi dichiarata con provvedimento
amministrativo o accertata con provvedimento giudiziale, la combinazione tra il provvedimento o la
sentenza ed il contratto collettivo, può portare a derogare all’articolo 2112, nel senso che il
rapporto di lavoro potrebbe non proseguire (se vi è discontinuità), oppure che viene meno la
solidarietà tra cedente e cessionario. Questo perché la crisi di impresa rende auspicabile nella
maggior parte dei casi il subentro di un nuovo imprenditore, che però potrebbe essere dissuaso
dall’intervenire se dovesse far fronte a tutti i debiti del cedente, quindi, i sindacati, che sono
coinvolti nel processo che porta al trasferimento di azienda, potrebbero concordare sulla
liberazione del cessionario dall’obbligazione solidale. Il rischio per i lavoratori è di non venire
pagati, ma l’alternativa sarebbe il licenziamento in massa.

Altro es
Crisi di impresa, datore di lavoro minaccia licenziamenti; l’accordo sindacale, si chiama contratto di
solidarietà, potrebbe prevedere che in cambio della rinuncia in tutto o in parte ai licenziamenti,
l’orario di lavoro di tutti i dipendenti o di una parte di questi sia ridotto con l’intervento della
cassaintegrazione guadagni a coprire il 50% della retribuzione persa.
Comporterebbe il ritiro dell’intenzione di licenziare tutti i dipendenti che voleva licenziare, però i
sindacati consentono alla riduzione dell’orario e quindi della retribuzione, compensata poi dalla
cassa integrazione.
È un accordo peggiorativo, ma nel contesto però di una riduzione dei licenziamenti.

La caratteristica della legislazione di emergenza/crisi/flessibilità è questa, flessibilità nei rapporti tra


le fonti (ccnl e leggi); questo fenomeno prende piede negli anni 70 e poi continuerà anni 80 e
successivi.
Il discorso diventa più problematico negli anni 80/90, perché il problema della crisi è che questi
ragionamenti si sono fatti da metà degli anni 70 in poi ma oggi li ritroviamo quasi interamente,
pensiamo all’inflazione che è ricresciuta, negli anni 70, l’inflazione viaggiava verso il 20%.
Negli anni 80 il costo del lavoro era alto, ossia quanto costa all’azienda la propria forza lavoro, se il
costo di un dipendente è di 100, questo 100 è la somma della retribuzione (al netto delle imposte
trattenute alla fonte dal datore di lavoro) + imposte + contributi previdenziali.
In Italia il problema non è che siano alte le retribuzioni nette, ma è alto il costo del lavoro perché
mediamente se il lavoratore percepisce 100, all’azienda costa mediamente il doppio.
Le misure per ridurre il costo del lavoro sono fondamentali perché si potrebbe ridurre il costo
dell’impresa ed aumentare quella del lavoratore, il problema è che il denaro in questo caso è
pubblico e sul bilancio dello stato bisogna trovare copertura (se si riducono le imposte lo stato ha
meno gettito).

Nel 1992 venne stipulato un accordo governo e patti sociali in virtù dei quali l’indennità di
contingenza è stata eliminata, i sindacati si sono sporcati le mani nell’interesse del paese,
favorendo però un rientro dell’inflazione [siamo tornati vicino allo 0, ma a scapito delle retribuzioni
(in parte)]
Anni 80/90 caratterizzati quindi da un lato con la legge che prevede sempre più frequentemente
situazioni in cui il contratto collettivo è legittimato ad introdurre deroghe peggiorative, e dall’altro, il
diritto del lavoro/sindacale sono caratterizzati dai fenomeni come il coinvolgimento dei sindacati a
partecipare al processo che porterà alla formazione delle leggi (fuori dal parlamento; concertazione
sociale). Qualcuno ha parlato di legislazione negoziata.
Le cose cambiano verso la fine degli anni 90 dello scorso millennio quando si succedono centro
destra e centro sinistra, due berlusconi e due prodi, poi nel 2001 centro destra vince e berlusconi
presidente del consiglio con maggioranza forte, seguendo una linea di politica del diritto un po’
diversa. Finisce la concertazione sociale; i sindacati vengono sentiti sì, ma si parla di dialogo
sociale, nella stagione della concertazione sociale (92/93 soprattutto, tangentopoli, cade prima
repubblica, governo tecnico). Nel dialogo sociale si sentono i sindacati, ma se il governo è
intenzionato in un certo modo va avanti; quella stagione in realtà è una stagione che è
caratterizzata dal sangue di due giuslavoristi che nel 1999, viene ucciso massimo dantona
giuslavorista che collaborò con governo centro sx, e nel 2002 marco Biagi che collaborava con
centro destra, anche se socialista, perché credeva in certe riforme.
Questo portò ad un’iniziale rottura dell’unità sindacale, cigl si oppose, mentre cisl e uil dialogarono
con il governo di centro destra.
Diciamo che, se pensiamo alle modifiche legislative del decennio scorso, 2012, 2015, monti
Fornero e riforma Renzi, sono ben poca cosa, perché i poteri imprenditoriali non vennero
aumentati, quelli di licenziamento non vennero toccati, vennero introdotti contratti di lavoro con
l’obiettivo di evitare la fuga dal lavoro subordinato e nero, che la riforma Biagi (2003) ci sia riuscita
o no è un altro discorso.

Lezione del 02/10/2023


Matura l’idea che il mondo del lavoro sia rappresentato interamente dai sindacati, questo al di là
dei limiti in tema di rappresentatività dei sindacati, dato che non tutti i lavoratori sono sindacalizzati,
in quegli anni non arrivava al 50%, però, i sindacati finiscono per ottenere una sorta di
patente/riconoscimento di soggetto politico da parte del governo che ne fa un interlocutore stabile.
L’interesse dei governi era quello di ottenere il consenso su importanti decisioni volte ad impattare
sul mondo del lavoro, emerge una sorta di contraddizione tra la natura volontaria e pluralistica
degli interessi del lavoro ed il ruolo politico/istituzionale che i sindacati più rappresentativi finiscono
per avere.
Natura volontaria, nel senso che ciascun lavoratore/imprenditore è libero di iscriversi così come di
non iscriversi, infatti il sindacato post costituzione rappresenta gli iscritti al sindacato e non è una
rappresentanza generale come quella del sindacato fascista, e pluralistica per i diversi sindacati ai
quali ci si può iscrivere.

I sindacati sono soggetti che godono di una rappresentanza volontaria però ricevono una sorta di
primato non giuridificato, ma un riconoscimento politico come se fossero i portatori degli interessi
di tutti i lavoratori (concertazione sociale).
Questa fase sostanzialmente finisce con la seconda metà degli anni 90, inizio anni 2000, quando
viene esposto come uno dei punti centrali del libro bianco del governo berlusconi 2001 il passaggio
dalla concertazione sociale al dialogo sociale, ossia un momento in cui i sindacati vengono seguiti,
ma se il governo ritiene di dover procedere procede anche senza il consenso delle parti sociali.
È una scelta politica che comporta conseguenze sul piano delle relazioni sindacali, in questa fase
si verificano i primi significativi episodi di rottura dell’unità sindacale.
Parlando di unità sindacale facciamo riferimento all’unità di azione (non giuridica dei soggetti).
Unità di azione significa che agivano unitariamente nelle trattative, firma accordi; invece, ad un
certo punto si rompe l’unità di azione ed assistiamo nel 2003 ma soprattutto nel 2008 ad episodi in
cui la CGIL non firma accordi sindacali firmati invece da cisl e uil.
Sono scelte politico/sindacali del tutto libere, ma questa frattura si verifica a partire dal momento in
cui finisce la concertazione sociale, perché cisl ed uil non chiudono il dialogo con il governo,
mentre la cgil va su posizioni di senso, questo fa sì che sia a livello di rapporti con il governo, sia di
contrattazione senza il governo con Confindustria.
Nell’ambito di categoria dei metal meccanici in un paio di tornate contrattuali particolarmente
convulse il sindacato di categoria cgil FIOM non ha firmato il contratto, quindi, in queste vicende
recenti i rapporti sindacali sono stati caratterizzati da conflitto non solo fra associazioni
imprenditoriali e sindacali, ma anche a livello macro tra governi ed organizzazioni sindacali (in
particolare cgil) ed in sede aziendale alcune aziende, in primis fiat (ora FCAUTO) con la fiom cgil
ha avuto una rottura forte con accordi non firmati come detto sopra.
Queste sono vicende che portano (lo vedremo) ad una sentenza della corte costituzionale.
In questo contesto riforma Biagi del 2003, emanata anno dopo la sua morte, sono state introdotte
alcune novità, ma a distanza di più di un decennio, quella riforma che non ha minimamente toccato
il potere del datore di lavoro di licenziare e le tutele per i licenziamenti, venne attaccata molto
duramente, un attacco anche dalla monti/Fornero e jobs act Renzi, che hanno attaccato il potere di
licenziare in modo molto più incisivo, diminuendole.
La corte costituzionale e la giurisprudenza ordinaria (cassazione e giudice di merito) hanno decisamente
ribaltato e circoscritto la portata della riforma monti Fornero e della riforma Renzi in tema di licenziamenti, lo
vedremo. Ad es, la limitazione del diritto alla reintegra si è molto ridotta, si riespansa grazie agli interventi
delle corti.
La settimana scorsa il tribunale di Ravenna ha nuovamente sollevato QLC sui licenziamenti

Come detto, relativamente alle collaborazioni etero-organizzate, ha però esteso le tutele del lavoro
subordinato sul lavoro parasubordinato (etero-org), con la ratio di rendere più flessibile il mercato
del lavoro.
Parlando di relatività del diritto del lavoro, vuol dire che è nato con certe finalità, ma strada
facendo a volte gli interventi legislativi sono mossi anche da altre finalità, il diritto del lavoro nasce
per offrire tutele alla parte debole del rapporto di lavoro, ma successivamente anche per cercare di
difendere le posizioni esistenti, favorire nuove occupazioni, cercare di introdurre un mercato del
lavoro più agile e flessibile.
Il diritto del lavoro è cambiato, ma è cambiato proprio il concetto stesso di subordinazione, per via
dei nuovi modi di lavorare, di dare direttive, gli algoritmi, le comunicazioni informatiche...etc....
È un diritto del lavoro che cambia nel suo presupposto identificativo (subordinazione, para-
subordinazione etero-organizzata) e cambia nelle sue tutele, non è venuta meno la sua finalità
protettiva, ma emergono in alcune normative anche finalità diverse oltre alla protettiva.
La sua relatività è un significato che si modifica nel tempo (fermo restando le coordinate di base).

In tutto questo acquisisce un’importanza crescente il diritto euro-unitario, e questo certamente


impone agli stati membri di intervenire ad attuare le direttive dell’UE, l’Italia, che è sempre stata in
ritardo, dopo la legge la pergola ha riguadagnato terreno; infatti, le direttive ed il diritto dell’UE è
molto più importante rispetto a 20/30 anni fa.
Le maggioranze politiche ed il loro cambiamento, hanno fatto sì che per alcuni istituti ci sia stata
una sorta di “andamento pendolare”
Come il contratto a termine (eccezione rispetto all’indeterminato).
Quando scade il termine il contratto si risolve; ma il legislatore in tema di contratto a termine è
intervenuto almeno una decina di volte, guarda caso, negli ultimi venti anni (2001 ad oggi) è
intervenuto a ripetizione perché cambiavano le maggioranze e quindi rendeva più o meno facile
l’assunzione a termine.
La riforma Renzi da questo punto di vista aveva allargato molto, conte I invece ha ristretto, questo
governo ha riallargato (non troppo).
Il contratto a termine facilita il datore di lavoro dato che non deve licenziare

Diritto sindacale – qualche considerazione di carattere storico e concetti – senso stretto


Abbiamo ricordato il periodo fascista e per le fonti il periodo di maggiore legificazione del diritto
sindacale (regolamentazione fascista).
Fenomeno sindacale era quello del sindacato unico.
Contratto collettivo, con efficacia erga omnes e quindi fonte del diritto, proprio perché prevista una
rappresentanza generale obbligatoria nel senso che il sindacato rappresenta tutti i lavoratori.
I contratti conclusi da quel sindacato valevano per tutti (tutta la categoria).

Cade il regime corporativo, costituzione, libertà sindacale, diritto di sciopero, diritto alla co-
gestione, e l’art 39[2] che permette al CCL di avere efficacia erga omnes con determinate
condizioni (non del tutto realizzate).
L’importanza della costituzione è massima, c’è una cesura immediata dopo la caduta del regime
corporativo rispetto alle norme ed alle logiche anche giuridiche del regime.
Tuttavia, come già detto, il legislatore ordinario non interviene, si astiene, le ragioni della mancata
attuazione dell’art 39[2] sono diverse, badiamo bene, i sindacati nati o rinati dopo la caduta del
regime erano d’accordo su una cosa, cioè dell’attribuzione di efficacia generale al CCL, ma non
erano d’accordo su come realizzarla cioè sulla legge, in particolare, la cisl era totalmente contraria
ad una legge perché partiva dall’idea della natura assolutamente privatistica del sindacato e della
sua totale autonomia dallo stato, il timore era che attraverso un meccanismo di riconoscimento
venisse in qualche modo controllato l’ordinamento interno del sindacato.
Ad oggi, i sindacati sono associazioni non riconosciute, negli anni 50 il timore era anche
giustificabile date le ferite aperte post ventennio.
La uil era su posizione vicine a quelle della cisl, mentre la cgil era più favorevole ad una legge; l’art
39[2] come meccanismo prevedeva anche un controllo sui numeri per attribuire i rappresentanti
della delegazione in sede di trattativa, ed era per questo che cisl e uil avendo meno numeri non
erano favorevoli.
Nel 1951 venne presentato un disegno di legge governativo (Ministro Rubinacci) per l’attuazione
della seconda parte dell’art 39, che in effetti ingabbiava abbastanza rigidamente le organizzazioni
sindacali e la contrattazione collettiva, con pareri ovviamente negativi da parte dei sindacati e
quindi non se ne fece nulla.
Per decenni e tutt’ora quindi si è andati avanti nel settore privato senza una legge (a differenza del
settore pubblico); vedremo che nel 2011 c’è stata una norma che ha creato un po’ di problemi,
decreto di Ferragosto.

Costituzionalizzazione del diritto del lavoro non significa che non ci sia stata una privatizzazione
del diritto sindacale, non è una contraddizione, costituzionalizzazione vuol dire che i principi
fondanti sono portati al cuore della costituzione repubblicana, ma la mancata attuazione ha fatto sì
che si possa parlare di sostanziale privatizzazione del diritto sindacale.
Nel senso che in realtà (elaborazione dottrinale e supplenza giurisprudenziale) mancano un
intervento legislativo i concetti che sono stati utilizzati sono stati attinti dal diritto privato.
Es
Il nucleo centrale del diritto sindacale dei paesi liberi è quello dell’autonomia collettiva, ossia
l’autonomia di un gruppo sociale professionale per la realizzazione di un interesse collettivo.
L’autonomia privata è la potestà di regolare autonomamente i propri interessi.
L’autonomia collettiva invece viene da interessi collettivi, ossia interessi propri di una comunità di
soggetti, questa comunità può essere individuata a livello nazionale, territoriale, a livello di singolo
luogo di lavoro  i lavoratori di un’azienda sono una comunità di soggetti i cui interessi sono
interessi collettivi.
Ricordiamo che l’interesse collettivo (e questo vale nella vita) non è la sommatoria degli interessi
individuali, ma la sintesi degli interessi individuali, può darsi che qualcuno dei singoli debba fare un
passo indietro, subire una parte di sacrificio.
La settimana scorsa abbiamo parlato nell’ambito della legislazione di emergenza del contratto di
solidarietà, che limita quando non esclude il numero dei licenziamenti; un po’ di sacrificio per i
lavoratori c’è (riduzione orario e retribuzione) in cambio dei privilegi detto sopra; chi sarebbe stato
licenziato ha vantaggio, chi no invece deve fronteggiare un sacrificio; qua risiede la solidarietà.
Il soggetto in grado di fare la sintesi è un soggetto collettivo.

Quindi l’autonomia collettiva è la sintesi fra autonomia privata ed interesse collettivo  concetti
privatistici ma che vanno a proiettarsi in una logica che trascende l’interesse individuale di ciascun
singolo che sia imprenditore o lavoratore.
Il contratto collettivo cos’è?
Il contratto (generico) ha la funzione di comporre interessi potenzialmente contrapposti, visto
l’accordo fra due o più parti.
Nel caso del contratto collettivo gli interessi sono contrapposti istituzionalmente per definizione
(datore di lavoro e comunità lavoratori), non è detto che sia sempre così, tanto è che sono
ipotizzabili forme di collaborazione dove il capitale si muove a braccetto con la forza lavoro.
Il contratto collettivo è l’accordo che ha la funzione di comporre gli interessi contrapposti dei
soggetti portatori di questi interessi collettivi.
I soggetti che concludono un contratto collettivo 
 lavoratori  sindacati
 datori di lavoro  associazioni datori di lavoro o nei singoli luoghi di lavoro il singolo datore di
lavoro.
Il contratto collettivo è tale solo se chi firma sul versante dei lavoratori è un soggetto collettivo.
Il diritto sindacale italiano post corporativo è stato costruito sulle fondamenta dei principi
costituzionali, ma basandosi su concetti che hanno una natura privatistica teorizzandosi un
ordinamento che non aveva bisogno dell’ordinamento statale, e la teorizzazione di tutto ciò si deve
a Gino Giugni, che nel 1960 pubblicò una monografia dal titolo “L’ordinamento inter-sindacale” che
teorizzò tutto questo.
C’è dietro una scelta di politica del diritto.
A che pro questa teoria?
Giugni applica al diritto sindacale la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici di “Santi
Romano”; si rende conto che le tecniche civilistiche sono insufficienti, pensiamo al fenomeno
dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo, queste non bastano, però l’astensione del
legislatore si giustifica in un contesto in cui comunque le regole non mancano  le regole che
sono create dall’autonomia collettiva tramite contratti collettivi, per via di prassi, adottate
unilateralmente dalle parti sociali (ad esempio come i codici di autoregolamentazione, che furono la
prima fonte di regolamentazione, per quanto debole, in materia di sciopero dei servizi pubblici essenziali,
prima della legge)

Da un lato Giugni si rende conto dell’inadeguatezza della tecnica civilistica perché le categorie
concettuali di vecchia formazione (diritto privato) faticano a rappresentare fenomeni come quelli
dell’autonomia collettiva.
Ma si rende anche conto che non erano maturi i tempi per un intervento del legislatore, perché
come già detto, era necessario il consenso delle parti sociali, che non c’era.
C’erano le regole; si trattava di dare a queste regole un pieno valore giuridico.
Ed ecco l’ordinamento inter-sindacale (costituito “tra” sindacati).
In questa opera c’è prima una parte descrittiva (fonti delle regole)
Poi una parte strettamente giuridica di individuazione dei canali per l’attribuzione di valore giuridico
a queste regole.
Ordinamento inter-sindacale come un ordinamento dinamico dotato di una vita giuridica propria
che entra in contatto con l’ordinamento dello stato per via della interpretazione di quelle regole.
Un pieno riconoscimento lo si ha tramite il giudizio, il giudice è chiamato nel contezioso di lavoro o
fra sindacati, ad interpretare le disposizioni dei contratti collettivi.
Come scrisse cannelutti, il contratto collettivo è una sorta di “giano bifronte” una fonte che ha il corpo del contratto, ma
l’anima della legge; data la sua destinazione ad essere applicato a tutti i soggetti ben al di là dei firmatari del contratto.

Attraverso l’interpretazione delle disposizioni dei contratti collettivi, sono i giudici che danno valore
giuridico a queste previsioni ed ecco che l’ordinamento inter-sindacale entra in contratto con
l’ordinamento statale la cui manus del contratto è il giudice.
Quindi può sembrare una costruzione teorica, però è una teorizzazione del valore giuridico delle
regole adottate internamente all’ordinamento inter-sindacale con regole che diventano vincolanti in
qualche modo nell’ambito soggettivo di applicazione.

Quindi il giudice è chiamato sempre più spesso ad interpretare le previsioni del contratto collettivo.
Teorizzazione del valore giuridico di queste regole e della rilevanza giuridica tramite anzitutto
l’interpretazione giudiziale e da un punto di vista di politica del diritto, a fronte del valore giuridico di
queste regole, ecco la superfluità dell’intervento legislativo.
Nel 1970 si ha lo statuto dei lavoratori, Gino Giugni, è il principale artefice. Ha cambiato idea
dal 1960?
Al punto dell’autunno caldo, le conquiste sindacali, figlie dello spontaneismo di base (fiat in primis),
il legislatore si rende conto che qualcosa deve fare, probabilmente anche per riportare nell’alveo
sindacale la lotta, quindi, quello statuto dei lavoratori di cui abbiamo parlato, che riconosce a tutti
dei diritti di base (sindacati, lavoratori), ma solo ad alcuni sindacati una serie di diritti (titolo III),
beh, è una legge che rompe la tradizione italiana dell’astensionismo, ma non è una legge
regolativa, è una legge promozionale, di sostegno, all’attività sindacale nell’ordinamento.

Lezione del 03/10/2023


Qual è l’efficacia soggettiva del contratto collettivo? A chi si applica? In base a quali principi? In
mancanza di attuazione dell’art 39 seconda parte; in mancanza di una “legge sindacale”;
L’efficacia del contratto collettivo è stata costruita rifacendosi alle regole civilistiche ed in
particolare la rappresentanza, adattato all’attività dei sindacati ed alla realtà del contratto collettivo
applicare il principio di rappresentanza per ricostruire l’efficacia soggettiva (i soggetti a cui si
applica), come si traduce e quale risultato comporta? Agli iscritti al sindacato che hanno firmato il
contratto collettivo, perché i rappresentati sono i lavoratori, i rappresentanti sono i sindacati; se
l’efficacia del contratto collettivo fosse erga omnes allora sì, ma siccome post caduta regime
corporativo non c’è un principio di rappresentanza generale, ecco che il contratto collettivo in linea
di principio si applica sulla base dei principi civilistici e di rappresentanza.
Vedremo che questo principio, che resta generale, conosce una serie di eccezioni.

Il sindacato, le associazioni imprenditoriali


La libertà sindacale è il fulcro del sistema del diritto sindacale italiano, il riferimento quindi è art 39
primo comma costituzione.
Questo principio si trova affermato anche a livello di organizzazione internazionale del lavoro ed è
sancito anche dalle fonti internazionali, che però non sono ratificate da tutti gli stati (da noi sì, sin
dal 1948, ma portato al livello più alto dell’ordinamento  cost).
Sin da subito si è attribuito al primo comma dell’art 39 una portata/efficacia immediatamente
precettiva nei rapporti tra privati, si applica direttamente in questo tipo di rapporti, non è solo un
vincolo per il legislatore.
Il principio di libertà sindacale significa tante cose, certamente un profilo collettivo ed una
individuale.
Profilo collettivo  libertà di organizzazione sindacale, l’art 39, rispetto all’art 18, presenta una
propria specificità, la nostra carta ha la libertà di associazione in generale, ma poi vi è anche la
libertà di organizzazione sindacale al 39; la differenza sta nel fatto che con il primo comma del 39
viene tipizzato come lecito il fine sindacale e quindi la libertà sindacale sotto tale aspetto è
assoluta.
I limiti all’esercizio della libertà di associazione di cui all’articolo 18 non toccano la libertà sindacale.
Libertà di organizzazione, rispetto all’art 18, c’è un riferimento testuale con la parola
organizzazione rispetto ad associazione, ma non è uso di sinonimi, il concetto di libertà di
organizzazione è più ampio di quello di aggregazione in forma associativa.
Non solo è libera la costituzione di associazioni sindacali, ma anche l’organizzazione sindacale.
Di diverso l’organizzazione può essere anche una forma molto semplice di aggregazione,
spontanea, senza una particolare struttura giuridica, storicamente, in particolare nella stagione
dell’autunno caldo, in alcune grandi aziende italiane si costituirono dei comitati spontanei di base al
di fuori dei sindacati tradizionali. Una minima forma organizzativa come questa rientra già in
questo alveo. Di fatto i lavoratori che si univano spontaneamente formavano un comitato, che
prese nome di consiglio di fabbriche; una minima forma organizzativa presuppone che ci sia un
rappresentante dei lavoratori che si siede al tavolo delle negoziazioni.
Il secondo aspetto fondamentale è la definizione del concetto sindacale, quando si può parlare di
interesse sindacale? Di organizzazione sindacale?
Dobbiamo fare riferimento ad un dato strutturale e ad un dato teleologico.
Strutturale  si presuppone un organizzazione di soggetti, quanto meno nella forma minima della
coalizione, di struttura, di coordinamento, degli interessi individuali
Teleologico (fine)  si può parlare di fine sindacale con riguardo ad ogni attività diretta
all’autotutela di interessi connessi allo svolgimento di una attività lavorativa.
Da questo punto di vista è fondamentale il riferimento all’articolo 17 dello statuto dei lavoratori, il
quale da un contenuto al principio di libertà sindacale, al contrario, ma si deduce, ed in qualche
modo dà attuazione all’art 39 cost.
Questa norma sancisce un divieto  Sindacati di comodo – art 17 statuto lavoratori
È fatto divieto ai datori di lavoro ed alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere,
con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori
La natura sindacale di un’organizzazione c’è quando questa organizzazione/associazione è
genuinamente antagonista (cioè, portatrice degli interessi dei lavoratori)
Nelle trattative i rapporti di forza devono essere equilibrati e quindi i datori di lavoro firmano con le
associazioni sindacali maggiormente rappresentative.
Si può definire in base all’articolo 17 dello statuto come sindacale solo un’associazione
automaticamente tale, atteggiata in modo antagonistico o potenzialmente antagonistico nei
confronti della controparte.
È antinomico parlare di contrattazione e conflitto dall’altro e di partecipazione dall’altro.
Il sindacalismo italiano per decenni, come non ha voluto una legge di attuazione dell’art 39
seconda parte, ha mal digerito l’idea della partecipazione per la convinzione che attraverso la
partecipazione si sarebbe edulcorata la tendenza conflittuale del sindacato; ma non è vero, come
ci dimostra l’esperienza di altri paesi. Pensiamo alla Germania, dove le esperienze di
partecipazione sono le più significative, dove nei consigli di sorveglianza se non di gestione delle
aziende, siedono anche i rappresentanti dei lavoratori in quanto lavoratori e non in quanto
azionisti. In Italia non è così. La nostra storia è decisamente più basata sul conflitto. Negli ultimi
15/20 anni, l’idea di una maggiore partecipazione ha fatto breccia anche nel sindacalismo italiano,
e come per la non attuazione dell’art 39, anche sul punto della partecipazione, l’atteggiamento
delle principali confederazioni italiane è diverso, la CISL, sempre meno favorevole sull’intervento
legislativo dell’efficacia del ccl, è la più favorevole su una legislazione partecipativa.
È sindacale, oltre che l’avanzare pretese, che ciò avvenga da parte di un soggetto autenticamente
sindacale, cioè in grado di essere potenzialmente antagonista e conflittuale, cosa che non può
essere un soggetto aiutato dal datore di lavoro.
L’art 17 aiuta a qualificare il concetto di sindacato.
Ma, dato l’articolo 18 costituzione, i sindacati di comodo (per l’art 17 statuto non sono sindacati)
possono vivere come associazioni.
La violazione del divieto costituisce “condotta anti sindacale”, vietata dall’art 28 dello statuto.
Titolarità della libertà sindacale, che spetta a qualunque organizzazione sindacale ed a tutti i
lavoratori, ma anche ai datori di lavoro, e vedremo più avanti.
Altre due parole sul contenuto della libertà sindacale parlando della libertà sindacale sotto il profilo
collettivo, libertà di organizzazione e dell’organizzazione, libertà di organizzazione è quella di
poter costituire organizzazioni sindacali senza limiti, libertà dell’organizzazione ciascuna
associazione costituita ha libertà di promuovere lo svolgimento di attività sindacali (conflitto e
contrattazione collettiva le più importanti, funzionali a queste ce ne sono altre, come l’attività di proselitismo).
Qualunque intervento legislativo lesivo della libertà sindacale dovrebbe essere ritenuto
incostituzionale.

Profilo individuale  possibilità di associarsi, di partecipare alle azioni conflittuali indetti dai
sindacati (libertà sindacale positiva), ma anche possibilità di NON associarsi, di NON scioperare, di
NON aderire alle istanze di uno o più sindacati (libertà sindacale negativa), in questo caso sancito
dall’articolo 15 dello statuto dei lavoratori, una norma che sancisce la nullità di qualunque atto o
patto discriminatorio, inizialmente per ragioni sindacali/politiche, ora invece, la gamma dei possibili
motivi di discriminazione è molto ampliata.
Art 15 statuto lavoratori – Atti discriminatori
È nullo qualsiasi patto od atto diretto a:
a) subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una
associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;
b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei
provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività
sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.
Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione
politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età, di nazionalità o basata
sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali

Non è così scontato, in UK, ci sono clausole che condizionavano l’occupazione all’adesione al
sindacato, sono previsioni che vennero introdotte sotto un governo laburista. (closed shop)

La libertà sindacale subisce deroghe soltanto in due casi:


-militari  per i militari di carriera c’è il divieto di costituire sindacati, di aderirvi e di scioperare 
prima divieto assoluto  l.n. 46/2022  ha previsto la possibilità di formazione di una sola
organizzazione sindacale con libertà di aderirvi
-polizia di stato  cauta liberalizzazione  possono aderire a sindacati ma solo a “sindacati di
mestiere”, ossia riservati alla polizia di stato, questo per evitare condizionamenti politico-sindacali
(ratio). Poi opera il divieto di sciopero.

Titolarità della libertà sindacale


Abbiamo detto che la titolarità è collettiva con tutte le possibilità sopra, è libertà di e libertà da, libertà di fare
o di non fare, libertà da ingerenze del legislatore, governo, autorità locali, datore di lavoro.
Per quanto riguarda i datori di lavoro, sono titolari della libertà sindacale ai sensi del 39 primo
comma; le associazioni di datori di lavoro sono sindacali in questo senso in quanto portatrici degli
interessi connessi allo svolgimento dell’attività di impresa con riguardo al lavoro.
Ma il discorso non può essere liquidato così perché il dubbio che nella nostra costituzione non ci
sia simmetria tra datore di lavoro e lavoratori e quindi anche tra associazioni datori e associazioni
lavoratori; particolarmente evidente con riguardo all’art 40, perché questo riconosce il diritto allo
sciopero, ma non alla serrata.
In relazione a questo non è mancato persino Gino Giugni di sostenere la tesi contraria
all’attribuibilità della libertà sindacale ai datori di lavoro, tesi basata sulla diversità sia storica che di
fatto dell’associazionismo imprenditoriale rispetto a quello dei lavoratori.
L’associazionismo datoriale è un associazionismo di risposta alle associazioni dei datori di lavoro, questo
perché nel momento in cui le associazioni sindacali si sono rivolte non soltanto nelle loro istanze ai datori di
lavoro singoli, ma all’insieme di datori di lavoro con rivendicazioni di carattere generale ed extra aziendale, si
è posto anche sul versante imprenditoriale l’esigenza di avere un associazionismo in grado di fronteggiare
quello dei lavoratori e soprattutto per la parte di contrattazione/negoziazione.
Il confronto tra i due è evidente a livello negoziale, in primis in sede nazionale, in sede aziendale
no, perché il contratto aziendale è firmato dal datore di lavoro e non dall’associazione.
La tesi di gran lunga prevalente in dottrina ed ormai fatta propria dalla corte costituzionale è che
l’articolo 39 primo comma non distingue tra parti sociali contrapposte quanto a garanzia della
libertà sindacale, a differenza di quanto invece fa l’articolo 40. Ora l’estensione della garanzia della
libertà sindacale agli imprenditori trova fondamento nelle convenzioni internazionali, ad esempio
nella carta dei diritti fondamentali dell’UE.
La corte costituzionale si è mostrata dello stesso avviso in due sentenze 
Sono casi particolari
1) 1/1960  il casus belli che portò alla pronuncia della corte fu che nel 1956 il legislatore con la
legge 1589/1956 prevedeva che le aziende a prevalente partecipazione statale dovevano
sganciarsi da confindustria. Si sollevò il dubbio di costituzionalità
Due questioni
 c’è o non c’è la libertà sindacale degli imprenditori? Perché, se non c’è il legislatore può
benissimo intervenire con il divieto
 se c’è, come si giustifica la legge?
La corte costituzionale con la sentenza affermò che la norma (art 3 legge sopracitata) non
possedeva diretta rilevanza nei rapporti associativi, ma, conteneva una direttiva al governo
affinchè operasse sui propri rappresentanti negli organi societari, cosicché il recesso da
confindustria sarebbe comunque avvenuto per volontà della società. Era un escamotage, non
essendo un divieto diretto ma imposizione al governo. La corte salva la legge.
Si crearono due associazioni, l’intersind e ASAP, costituite fuori da confindustria.

2) 29/1960  sentenza che interviene sulla norma del codice penale, art 502, che prevedeva
come reato lo sciopero e la serrata per fini contrattuali, la corte costituzionale che ovviamente ne
ha dichiarato l’incostituzionalità ex art 40, con riguardo alla serrata ha dovuto fare un ragionamento
più ampio, perché per lo sciopero vi era contrasto evidente e diretto, con la serrata invece tramite
l’art 39 primo comma.
Perché pur non essendo riconosciuto come diritto (la serrata) è comunque espressione di libertà
sindacale, che è come dire che la libertà sindacale è riconosciuta anche ai datori di lavoro.

Un’altra considerazione è da dedicare alla libertà della donna, con riguardo al problema delle
relazioni sindacali nel settore pubblico.
L’attività sindacale a contrattazione collettiva è anche nel settore pubblico, dove tutte le
amministrazioni pubbliche sono rappresentate ai fini della contrattazioni collettive da un soggetto, ,
ARAN, agenzia per la rappresentanza negoziale, che è tenuta per legge, ha il potere/dovere, di
negoziare per tutte le amministrazioni, quindi, le PA possono associarsi liberamente, pensiamo alle
unioni di comuni, conferenza regioni, ma ai fini negoziali chi contratta è solo la aran (per legge).
In questo caso la corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi nel 1993 sulla
costituzionalità, eccezione non sollevata da un giudice ordinario, ma per un conflitto di competenze
fra regioni e stato, per il problema dell’autonomia delle regioni. Problema del riconoscimento della
partecipazione dei soggetti pubblici interessati alle fasi della formazione dell’attività negoziale.
Il legislatore intervenne, e previde, che la ARAN debba negoziare sulla base delle direttive che ad
essa vengono impartite dal governo per i dipendenti del governo e ministeri, e dai comitati di
settore, per i vari comparti pubblici. Ecco che quindi l’autonomia delle regioni viene salvaguardata
dalla previsione dell’obbligo per l’ARAN di attenersi alle direttive dei soggetti rappresentativi delle
amministrazioni. (conferenza stato regioni, comitati di settore, governo, che hanno anche una
sorta di veto ex post sull’ipotesi di accordo, assoggettato ad un duplice controllo, oltre a questo
della corte dei conti)
L’ultimo tema da trattare completa il ragionamento sulla libertà di organizzazione.
Sul piano collettivo di organizzazione e dell’organizzazione. Sia di darsi la struttura organizzativa
che si ritiene più confacente alla propria volontà. Non c’è un modello prescritto e non potrebbe
neanche esserci (tranne per il settore pubblico e quello appena visto).
I sindacati in Italia nascono come organizzazioni di mestiere, ossia come organizzazioni destinate
a raggruppare chi svolge lo stesso tipo di attività professionale, come il sindacato dei piloti, dei
controllori di volo, degli insegnanti, infermieristico...etc....
Fin dall’inizio del 900 in realtà i sindacati cominciarono a costituirsi prevalentemente ed
organizzarsi per categoria, un termine anfibologico (che vuol dire più cose), sul piano delle
organizzazioni sindacali quando si parla di categoria si allude ad un ramo di industria o settore
produttivo (metalmeccanici, chimici, etc), qui, collegato al principio di libertà sindacale sta anche un
passaggio importante, categoria non è nozione ontologica, non esiste in natura una categoria, ed
essendo tale, può cambiare, come l’industria dell’auto che è stata la più forte della categoria
metalmeccanici.
Il sindacalismo, quindi, comincia ad essere soprattutto un sindacalismo di categoria, ma attenzione
al secondo significato, perché parlando di categorie di lavoratori si fa riferimento alla
professionalità dei lavoratori che per legge (art 2095 cc) sono  dirigenti, quadri, impiegati, operai.

Nel dopoguerra si formarono tre grandi confederazioni che presentano una struttura organizzativa
complessa, ogni confederazione (cgil, CISL, uil) è strutturata nel seguente modo:
-struttura complessa che può essere schematizzata seguendo una linea organizzativa orizzontale
ed una linea organizzativa verticale.
Quella orizzontale fa riferimento alla territorialità.
A livello nazionale ci sono:
1. Le confederazioni;
2. Le federazioni delle categorie;
3. Le federazione che conferiscono nelle confederazioni.
Lo stesso per la struttura regionale.
Lo stesso per la struttura provinciale. A livello provinciale per la CGIL parliamo di Camera del
Lavoro
Sulla linea verticale le varie categorie merceologiche. Le varie strutture si chiamano
federazioni di categoria e sono a livello nazionale, regionale e locale. Quelle della CGIL è la
FIOM, quella della CISL è la FIM e quella della UIL è la UILG.
Ad esempio, parlando del contratto nazionale dei metalmeccanici, da un lato c’è Confindustria,
dall'altro FIOM, FIM, o UILG.

Lezione del 09/10/2023 – appunti fede


La struttura del sindacato la si inquadra prima di tutto tenendo conto del principio di cui all’art. 39,
c.1 Cost  la forma di organizzazione è libera.
La forma più diffusa è quella del sindacalismo confederato: le varie strutture si riuniscono
centralmente nella Confederazione.
La confederazione è il raggruppamento di ogni federazione territoriale.

Sono strutturate su una linea verticale e orizzontale.


La linea verticale indica le strutture di ogni categoria, cioè di rami di industria (chimici,
metalmeccanici, ecc) che sono costruite dalle parti sociali.
Ciascuna Confederazione è un insieme della federazione di categoria: la FIOM…etc....
Quindi la linea verticale indica le federazioni di categoria che si organizza a livello nazionale,
regionale e territoriale, solitamente provinciali.
Quindi sulla linea verticale ci sono tante linee quante sono le federazioni di categoria e che poi
confluiscono nella Confederazione.
La contrattazione collettiva si svolge sulla linea verticale: in Italia il contratto collettivo è un
contratto collettivo di categoria.
Le organizzazioni imprenditoriali seguono un modello speculare, in vista anche del fatto storico che
vede tali organizzazioni come risposta a quelle dei lavoratori.
Poi ci sono anche pochi contratti collettivi conclusi tra confederazioni (di imprenditori e lavoratori),
detti accordi interconfederali, che riguardano tutte le categorie.
Talvolta gli accordi vedono anche la partecipazione del governo: si parla di accordi tripartiti

A livello orizzontale si hanno i raggruppamenti delle varie federazioni di categorie a livello


provinciale e regionale. La Camera del lavoro, per la CGIL e quindi il raggruppamento delle
federazioni provinciali.
A livello di federazioni l’operato più importante è la conclusione di contratti collettivi, mentre a livello
orizzontale è la politica sindacale.
Questo non vuol dire che le federazioni rispondano sempre all’orientamento delle confederazioni.
È capitato nel 2003 e nel 2008 la rottura dell’unità sindacale, quando CISL e UIL da una parte
hanno continuato a lavorare con il governo, con il distacco della CGIL. Un importante accordo del
2009 non vede la partecipazione della CGIL a firmare un accordo con Confindustria, mentre nel
2011 firmarono tutti.
Alcuni contratti furono firmati solo dalle federazioni, proprio perché può capitare un dissenso
all’interno del sindacato. In linea di massima, comunque, la confederazione delinea le politiche
guida, ma al momento della conclusione dei contratti collettivi, le federazioni potevano seguire
linee diverse.
Parlando di rottura di unità di azione o di unità sindacale viene fatta allusione a divergenze nella
stessa confederazione.
Dopo la caduta del regime corporativo nacque un sindacato da cui poi emersero le tre
confederazioni.

Parlando della struttura del sindacato viene spontaneo chiedersi quale sia la struttura di base.
Importante è prima comprendere quali sono state storicamente in Italia le rappresentanze nei
luoghi di lavoro.
Inizialmente (1947) furono previste le commissioni interne, che non esistono più e che furono la
prima rappresentanza nei luoghi di lavoro e costituite su base elettiva: i lavoratori votavano per
eleggere i propri rappresentanti. In base ai voti si costituivano le rappresentante. C’era una base
elettiva unitaria, ma con il limite del mancato riconoscimento del potere negoziale: non
potevano concludere contratti collettivi. Il problema non fu particolarmente risentito, dato che
all’epoca i contratti collettivi riguardavano esclusivamente le categorie. C’era un diritto alla
consultazione con il datore di lavoro, ma non la contrattazione.

Nel 1962/1963 nella tornata contrattuale (stagione di rinnovamento di contratti nazionali di


categoria), soprattutto sulla spinta di quanto negoziato delle associazioni aderenti ad INTERSIND
e ASAP (rappresentanti delle imprese a prevalente partecipazione statale), venne per la prima
volta a crearsi la contrattazione aziendale, detta anche di secondo livello. Infatti, i contratti di
categoria previdero che a livello aziendale si potesse contrattare su determinate materie. Gli
imprenditori inizialmente erano contrari di dover rinegoziare ulteriori cose rispetto a quelle
negoziate a livello nazionale.
Gli imprenditori accettarono la contrattazione collettiva sui luoghi di lavoro, ma in cambio della
mancata indizione di scioperi per la rivendicazione delle materie trattate. (clausole di rinvio in cambio
di clausole di tregua)
L’imprenditore si obbliga a negoziare, in cambio di assenza di scioperi su materie sulle quali era
stato raggiunto l’accordo.
Furono costituite in quel periodo le contrattazioni nazionali aziendali. La CISL aveva teorizzato per
prima una contrattazione di questo tipo. Le commissioni interne furono sostituite con sezioni
aziendali sindacali, che non erano elettive, ma designati dai sindacati esterni e composte da
lavoratori dell'azienda nel cui ambito venivano costituite.
Quindi negli anni ‘60 si avevano sia le CI sia le SAS, che potevano negoziare però solo su materie
di rinvio, quindi dai contratti nazionali a quelli aziendali.

Le cose cambiano radicalmente con i movimenti del ‘68 - ’69 che comportano un forte
cambiamento delle CI e delle SAS che, anche se rimasero formalmente, sostanzialmente persero
significato. Si formarono infatti dei comitati di base, formati spontaneamente dai lavoratori. Fu così
che nel 1972 furono formalizzati i consigli di fabbrica (nati come “comitati di base”).
Il risultato fu che, se prima a livello aziendale si contrattava solo su materie di rinvio, adesso la
contrattazione aziendale assume il traino, estendendosi anche a materie nazionali. Infatti, queste
contrattazioni aziendali avvennero per la prima volta nelle grandi imprese, ma in modo spontaneo
si riflessero poi nelle imprese medio-grandi.

Ma nel frattempo si erano avuti anche dei cambiamenti con lo Statuto dei lavoratori.
In Italia esistono centinaia di contratti collettivi, che sul piano giuridico non presentano alcuna
gerarchizzazione, ma che è conseguenza naturale di un ordinamento che riconosca la libertà
sindacale.

ART. 19 STATUTO DEI LAVORATORI


Lo Statuto dei lavoratori è normativa di sostegno dei sindacati nei luoghi di lavori, ma sono di
determinati sindacati.
Lo Statuto cercò di sostenere i sindacati più forti per consentire loro di tornare protagonisti nei
luoghi di lavoro. È un tentativo, che però non ha in sé un valore giuridico cogente, sempre in virtù
della libertà sindacale.
Però mentre l’art. 39 Cost. e l’art. 14 Statuto dei lavoratori sostengono la libertà sindacale, l’art. 19
e tutto il Titolo III , afferma i diritti solo di determinati sindacati particolarmente rilevanti. Esso
prevede la formazione delle RSA. che hanno quindi determinati diritti (art. 19) a differenza di altri,
costituiti pur sempre in virtù della libertà sindacale (art. 14).
I fatti si sono evoluti fini alla Sentenza 231/2013 della Corte Costituzionale, che parte dal caso
della FIAT e della FIOM.

Il testo della disposizione prevede che:


Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità
produttiva, nell'ambito:
a) delle associazioni aderenti alle confederazioni (le federazioni) maggiormente rappresentative sul piano
nazionale;
b) delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro
applicati nell'unità produttiva.
Nell'ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di
coordinamento.
Dalla lett. a) si fa implicito riferimento alla struttura di sindacati come CGIL e CISL (poi anche UIL).
Nella lett. b) è prevista la condizione di aver firmato i contratti provinciali e nazionali, ma non sono
previsti quelli aziendali: un sindacato molto rappresentativo in azienda non rientra nella fattispecie,
proprio perché l’intento del legislatore è di andare oltre.

La dottrina ha qualificato:
1. La lett. a) come maggiore rappresentatività storica. La giurisprudenza ha preso la maggiore
rappresentatività come un dato assoluto, in modo che sempre più sindacati possano varcare la
lettera a) basandosi su dati empirici 
I. Un ampio numero di iscritti;
II. Diffusione sul territorio nazionale;
III. Che la confederazione sia diffusa su un’ampia gamma di categorie merceologiche e su
un’ampia gamma di categorie professionali; Infatti negli anni ‘80 nacquero alcuni sindacati
di quadri per ottenere un riconoscimento giuridico. Ma la giurisprudenza negò loro la
rappresentatività, poiché rappresentati solo di una categoria;
IV. Effettivo ruolo negoziale;

La lett. a) non consentì quindi un particolare filtro, ma ci fu una tendenziale espansione.

2. La lett. b) come maggiore rappresentatività tecnica, che la Corte Costituzionale ha riposto


nell’aver negoziato al contratto collettivo, non solo nell’aver partecipato alla firma.
La formula negli anni ‘70 era tale da considerare soprattutto CGIL, CISL e UIL, ma senza
riscontrare una particolare effettività.

Lezione del 10/11/2023 – appunti fede


L’RSA non è l’istanza di base del sindacato nel lavoro, anche se possono essere costituite tante
RSA quanti sono i sindacati aventi diritto, ma può anche essere che ci sia una sola RSA tra i vari
sindacati con diritto.
Selezionare i soggetti a cui affidare determinati diritti, quella della maggiore rappresentatività.
La rappresentanza è un concetto civilistico.
La rappresentatività la si riconosce in un ambito politico. un sindacato ha rappresentatività se ha
un certo seguito.
Negli anni ‘70-’80 ci fu un’estensione dei contratti collettivi. I sindacati maggiormente
rappresentativi ebbero l’opportunità di introdurre deroghe anche peggiorative, nei soli casi previsti
dalla legge. Tuttavia, le maglie larghe dell’interpretazione crearono un problema: con riguardo ai
contratti collettivi peggiorativi il problema si è posto nei riguardi del lavoratori verso cui si
applicavano i contratti. In sostanza le deroghe peggiorative si sono estese anche a sindacati
considerabili maggiormente rappresentativi, ma effettivamente minoritari (non maggioritari).
Così dagli anni ‘90, con riguardo alle deroghe peggiorative, le possibilità della legge di introdurre
deroghe peggiorative da parte dei contratti collettivi sono aumentate, cioè, erano previste maggiori
possibilità di applicazione. In questo periodo i contratti collettivi vengono estesi ai contratti
comparativamente più rappresentativi, che fanno riferimento necessariamente a un confronto:
devono essere più rappresentativi degli altri sindacati. Il criterio selettivo ha così portato la
rappresentatività su un piano molto più sostanziale, sindacati effettivamente più rappresentativi.
È un passaggio che non è situato nell’art. 19, ma che ha trovato affermazione a partire dagli anni
‘90.
L’art. 19 nel suo testo originario è stato portato davanti alla Corte Costituzionale in più occasioni:
1. Per contrasto con l’art. 3 Cost. (parità trattamento = parità condizioni), con la sent. 54/1974. La
corte non ha riscontrato una violazione dell’uguaglianza formale dell’art. 19, in quanto art 3.1 non
violato perché criterio di attribuzione diritti sindacali è razionale e consapevole.
2. Nella stessa sentenza, per contrasto dell’art. 39, c.1, c.4. La mancata violazione del primo
comma la si riscontra nel fatto che le misure adottate sono rafforzative, vengono aggiunte e non
tolte. La mancata violazione del comma 4 è dovuta al fatto che il Titolo III non ha a che vedere con
le contrattazioni dei lavoratori.
La Corte viene anche chiamata a pronunciarsi con tutta la seconda parte dell’art. 19,
escludendone nuovamente l’incostituzionalità.

L’art. 19 già negli anni ‘80 veniva messo in discussione, con la presentazione di disegni di legge
verso la metà degli anni ‘90.
Vennero presentate alcune proposte di referendum. Alcuni vennero ammessi e il voto portò a due
referendum. Dopo il voto ci fu:
1. L’eliminazione dell’art. 19, c. 1, eliminando quindi il requisito storico.
2. L’eliminazione di alcune parole della lett. b): delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di
contratti di lavoro applicati nell'unità produttiva. La conseguenza è che se prima vigevano i contratti
nazionali o provinciali, adesso vengono applicati quelli anche aziendali.
Ci si basa ora solo sul dato tecnico.

Negli anni 2000 avviene la rottura dell’unità sindacale. Il casus belli lo si ha nel 2008, presso la
FIAT: la FIOM non firma il trattato nazionale dei metalmeccanici, come già avvenuto nel 2003. La
FIAT esce dal gruppo di Confindustria e firma contratti che però non vengono firmati dalla RSA
della FIOM. La conseguenza è stata che la FIAT non riconosce la FIOM CGIL ex art. 19.
Nasce il contenzioso.

Ci sono stati diversi ricorsi per condotta antisindacale in vari tribunali di Italia. I giudici di merito
hanno adottato tre soluzioni diverse:
1. Alcuni hanno respinto il ricorso della FIOM: la norma afferma che i diritti sindacali spettano solo
ai firmatari del contratto collettivo, con interpretazione letterale;
2. Altri, come il tribunale di Bologna, hanno invece applicato un’interpretazione costituzionalmente
orientata e quindi diametralmente opposta;
3. Altri, come il tribunale di Modena, hanno adottato l’interpretazione maggiormente adottata. È
stata considerata la pronuncia della Corte, ma ciò che ha fatto leva è stata la libertà sindacale: si
toglie la libertà al sindacato dissenziente. Si arriva così alla sent. 231/2013 che accoglie quanto
affermato dal tribunale di Modena e che afferma quel requisito fondamentale che è l’aver
partecipato alla negoziazione: l’aver firmato senza aver trattato non è sintomo di rappresentatività.

Altra sentenza fondamentale è la sent. 495/1996 che riguarda l’art. 19 post referendum. In
particolare, la corte è chiamata rispetto all’art. 3: i diritti sindacali dipenderebbero dal mero
accreditamento datoriale. La Corte sostanza due aspetti:
1. Firma attiva al contratto di sindacato;
2. Deve trattarsi di un contratto collettivo che regolamenti in modo organico per un settore o per un
istituto importante. Quindi se fa riferimento a un solo settore, la firma non basta.
La Corte è chiamata anche per l’art. 2, in merito al divieto di cui all’art. 17 del sindacato non
genuino. La Corte riconosce come un sindacato di tale tipologia non viola i diritti inviolabili, ma non
tutela i propri iscritti, atteggiandosi anche come un sindacato di comodo.
La storia l’ha però fatta la sentenza successiva, quella del 2013, che in vista del mutato scenario
sindacale, cambia rotta rispetto alla sentenza precedente: viene riconosciuta una sindacalità che
esiste. La Corte dà rilievo al rapporto con l’azienda, non con i lavoratori e dunque alla
rappresentatività. Allora la corte dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 19, c.1 nella parte
individuata.

RSU
Nel 1993 quando viene firmato l’accordo tripartito del 23 luglio, momento fondamentale della
concertazione sociale in Italia. È un governo che prevede numerose trattative.
Il 1/3/1991 le tre Confederazioni sostituiscono le RSA con le RSU, cosa che viene fatta proprio
dall’accordo tripartito del 1993. Stabiliscono come rappresentanti sul lavoro le RSU. Queste sono
state disciplinate dall’accordo del 1993 fino a pochi anni fa, mentre oggi c’è una diversa
regolamentazione in vigore del 2014. L’unitarietà dell’RSU prevede un’unica rappresentanza
elettiva, come le CI, con un elettorato attivo riconosciuto a tutti i lavoratori e un elettorato passivo
riconosciuto a tutti i lavoratori di quelle liste che hanno firmati gli accordi del 1003 o i contratti
nazionali di categoria.
Quindi ogni sindacato presenta una lista, i lavoratori votano e vengono eletti un certo numero di
rappresentanti in base alle dimensioni dell’azienda. Il fatto che poi la rappresentanza sia unitaria
significa che la RSU è una, è un organismo collegiale che decide a maggioranza.
Per la durata dell’RSU (3 anni) non è possibile costituire l’RSA. L’impegno non è vincolante
giuridicamente, ma in termini di politica sindacale. Però in alcuni casi alla rottura della RSU segue
la formazione della RSA.

Nel 1993 la ratio dell’RSU era quella di cercare l’unità d’azione. Quindi l’RSU è un tentativo fatto in
un periodo in cui l’unità d’azione è particolarmente importante. È un periodo in cui si cercava la
regolazione del deficit pubblico, in vista anche della privatizzazione di questo, e in cui si cercava di
rimediare all’inflazione. Per far ciò si ritenne fondamentale proprio l’unità sindacale.
In questo periodo viene posta una regola, quella del terzo riservato: dato un certo numero di
rappresentati destinati all’RSU, tre su sei vanno a CGIL, CISL e UIL e per tre si va al voto. Il
risultato è la loro maggioranza in sede locale. Questo istituto è venuto meno nel 2014.
In una stessa unità produttiva ci possono essere RSU e RSA insieme.

Lezione del 16/10/2023


Le rsu sono frutto di un accordo dapprima tra sindacati, e poi tra sindacati e confindustria (e altre
confederazioni), nell’ambito di un accordo tripartito.
Quindi la legge non disciplina le rsu nel settore privato, tuttavia, non possiamo negare che il
legislatore negli ultimi 20 anni pur non regolamentando le rsu, lasciate alla contrattazione collettiva
ed in particolare da accordi inter confederali, la legge fa riferimento sovente alle rsu, quando parla
di raprpesentanza sindacale nei luoghi di lavoro parla di rsa e di rsu, lasciando alle parti sociali la
scelta se costituire proprie e distinte rsa, oppure un’unica rsu.
Non hanno la stessa modalità di composizione.
Rsa  designate dai sindacati esterni, non sono elettive, l’iniziativa (art 19) è dei lavoratori, questo
vuol dire che i sindacati esterni devono trovare qualche lavoratore sindacalizzato dentro l’unità
produttiva
Rsu  organismo unitario, elettivo, su liste presentate dai sindacati aderenti alle confederazioni
che hanno firmato l’accordo interconfederale che le prevede, oppure liste presentati dalle
associazioni di categoria firmatarie del ccnl applicato nell’unità produttiva. Le liste vengono
presentate dai sindacati (quelli rappresentativi) ed i rappresentanti sono eletti da tutti i lavoratori. In
modo proporzionale e senza più il terzo riservato, alla luce degli accordi interconfederali 2013 e
2014. Il testo ora vigente è l’accordo interconfederale del 10/01/2014, detto “testo unico sulla
rappresentanza”, ma non è una legge.
Essendo un organo collegiale decide a maggioranza.
La fruizione dipende da decisioni che non sempre sono della collegialità.
Laddove la legge prevede i diritti delle rsa, nel momento in cui viene costituita la rsu, i diritti dell’rsa
vengono trasferiti all’rsu.
Dove esiste una rsu NON ci possono essere anche rsa dei sindacati che hanno presentato liste e
quindi hanno aderito al sistema dell’rsu; può esserci l’rsa di un sindacato diverso.

Diritti sindacali riconosciuti all’RSA dalla legge e poi trasferiti all’rsu


Statuto dei lavoratori.
Titolo III, contiene, a partire dall’art 19, diritti riconosciuti all’rsa ed in realtà anche diritti ulteriori che
non spettano all’rsa (permessi, diritti promozionali)
Art 26  collocato erroneamente nel titolo III  sarebbe stato più opportuno collocarlo nel titolo II
 contributi sindacali  regolamenta il proselitismo (diritto dei lavoratori di raccogliere contributi e di
svolgere opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi di lavoro).
Questo diritto non è limitato all’RSA, perché è riconosciuto a tutti. Tanto è che si nega che sia
circoscritto alle unità produttive con più di 15 dipendenti, in quanto diritto della libertà sindacale ( ed
ecco perché titolo II).
Non deve esserci pregiudizio al normale svolgimento dell’attività aziendale. (ultimo periodo art 26)
Pregiudizio non vuol dire che i lavoratori mentre fanno/ricevono proselitismo non possono
interrompere per il tempo necessario l’attività lavorativa, una minima interruzione non conta. Il
pregiudizio è altro.
Al contrario, gli altri diritti del titolo III sono quei diritti aggiuntivi rispetto alla base minima
riconosciuta a tutti i sindacati.
Distinguere fra 1) prerogative riconosciute all’rsa; 2) le tutele rafforzate per i dirigenti dell’rsa/rsu; 3)
determinati diritti riconosciuti ai dirigenti dell’rsa.

1) Prerogative riconosciute all’rsa  sono a tutela di tutti i lavoratori; si fa riferimento:


Art 20  diritto di assemblea  i lavoratori hanno diritto di riunirsi nelle unità produttive in cui
prestano la propria opera fuori dall’orario di lavoro, nonché durante l’orario di lavoro, nei limiti di 10
ore annue, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione, migliori condizioni possono
essere previste dalla contrattazione collettiva.
Le assemblee sono indette singolarmente o congiuntamente dall’rsa nelle unità produttive.
Singolarmente nel senso indetta da una sola RSA, o da un paio e non da tutte.
Se abbiamo l’rsu, l’assemblea può essere indetta anche dai singoli (essendo organo collegiale che
decide a maggioranza); la cassazione e parte di dottrina favorevole all’indizione separata fa presente
che siccome i diritti di cui stiamo parlando sono concessi all’rsu ma derivano dall’rsa, ed in questo
caso l’rsa potrebbero indirle anche separatamente, non sarebbe corretto (per questo diritto)
richiedere la decisione a maggioranza.
Le assemblee possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi.
Ordine del giorno su materie di interesse sindacale o del lavoro, secondo l’ordine di precedenza
delle convocazioni comunicata al datore di lavoro. Non deve dare il consenso ma solo mettere a
disposizione i locali che siano utilizzabili in modo comodo ed in sicurezza. (se non ci sono
abbastanza posti, locali esterni nelle vicinanze).
Chi indice l’assemblea comunica al datore di lavoro la propria intenzione.
Il datore di lavoro non ha diritto di partecipare all’assemblea. Per quanto riguarda i dirigenti ed altre
figure come il responsabile delle risorse umane, se riguarda la generalità dei lavoratori allora
difficile escluderli, ma se l’assemblea viene indetta per il personale non dirigenziale allora il diritto
di partecipare non lo hanno.
Se il datore è invitato da tutti, può partecipare.
Il datore a fronte di ragioni forti a livello organizzativo e produttivo, può dare diniego, ma non è un
diniego secco ma uno spostamento dell’assemblea.
Sindacalisti esterni possono partecipare previo invito rsa/rsu e previa comunicazione al datore di
lavoro, trattandosi di personale esterno il datore di lavoro deve sapere chi entra ed esce.
Ulteriori modalità per l’esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai contratti
collettivi.
La formula utilizzata dall’articolo 20 per quanto riguarda le materie è molto vasta (interesse
sindacale e del lavoro). Siccome queste vanno comunicate al datore di lavoro, questo può opporsi in
caso di incongruità (tipo il calcetto, ma la formula essendo vasta fa rientrare quasi tutto).

Art 21 referendum  il datore di lavoro deve consentire nell’ambito aziendale lo svolgimento fuori
dall’orario di lavoro di referendum, sia generali (inteso della generalità dei lavoratori dell’azienda o
unità), che per categoria (gruppi di lavoratori individuati da chi organizza il referendum) su materie
inerenti all’attività sindacale, indetti da tutte le rsa, con diritto di partecipazione di tutti i lavoratori
appartenenti all’unità produttiva e/o categoria. Se questo diritto viene trasferito all’rsu allora viene
deciso a maggioranza.
Al voto possono partecipare coloro che rientrano nelle categorie cui si riferisce il referendum.
Materie di interesse sindacale, come ad esempio, il rinnovo del contratto collettivo.
Il sindacato non è obbligato a rispettare le ipotesi di accordo votate, ma per opportunità
difficilmente un sindacato non rispetterebbe.

Art 25 affissione  Le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di affiggere, su appositi spazi, che
il datore di lavoro ha l'obbligo di predisporre in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all'interno dell'unità
produttiva, pubblicazioni, testi e comunicati inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro.
Il datore di lavoro può andare a togliere qualche comunicato, testo, affisso dalle rappresentanza
sindacali? Ovviamente no
Art 27 locali  Il datore di lavoro nelle unità produttive con almeno 200 dipendenti pone
permanentemente a disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali, per l'esercizio delle loro funzioni,
un idoneo locale comune all'interno della unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa.  non ha
nulla a che vedere con i locali messi a disposizione per le assemblee, questi possono consistere in
un ufficio ad esempio.
Nelle unità produttive con un numero inferiore di dipendenti le rappresentanze sindacali aziendali hanno
diritto di usufruire, ove ne facciano richiesta, di un locale idoneo per le loro riunioni.
Sono prerogative volte a favorire lo svolgimento dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro
Questo primo gruppo sono prerogative rsa/rsu, ma anche dei lavoratori

2) Tutele rafforzate per i dirigenti dell’rsa/rsu  facciamo riferimento all’ultimo comma


dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, il quale prevede una condanna al pagamento del datore
di lavoro verso il lavoratore che non viene reintegrato.
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo
comma ovvero all'ordinanza di cui all'undicesimo comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto
anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della
retribuzione dovuta al lavoratore.
Ovviamente è necessaria la cooperazione del datore di lavoro, la reintegra non è coercibile.
Siccome il rappresentante sindacale oltre che lavoratore è anche sindacalista, e la sua funzione è
doppia, il legislatore ha cercato di “compulsare, indurre” il datore di lavoro ad adempiere alla
reintegra pagando una somma che è una doppia retribuzione in sostanza. È una misura ulteriore di
rafforzamento della tutela del rappresentante sindacale aziendale.

Art 22  trasferimento dei rappresentanti sindacali aziendali (la norma dice dirigenti rsa) da
un’unità produttiva ad un’altra  il trasferimento geografico (mutamento del luogo di lavoro), ai
sensi dell’art 13 è necessaria una precisa giustificazione oggettiva (per tutti i lavoratori), come
un’esigenza di personale con un esubero nella sua unità produttiva, non vi è arbitrarietà.
In caso di dimissioni in seguito a trasferimento oltre i 50 km, il lavoratore conserva il diritto alla
disoccupazione
Per i rappresentanti sindacali aziendali la tutela è rafforzata perché questo articolo esige il nulla
osta del sindacato che ha disegnato quel lavoratore come rsa. Nel caso di rsu, quello della lista da
cui è stato eletto.
È necessario il nulla osta perché è stato designato per svolgere l’attività sindacale in QUELLA
unità produttiva.
Il nulla osta del sindacato non è sindacabile dal giudice.
Se il datore di lavoro pone in essere una scelta organizzativa che porta a sopprimere il posto di
lavoro di quel lavoratore in quanto lavoratore (riesce a giustificare il licenziamento), il sindacato
non dà il nulla osta ma il lavoratore è disposto al trasferimento, quest’ultimo deve rinunciare al
sindacato, perché gli interessi sindacali sono portati solo del sindacato.

Permessi per lo svolgimento dell’attività inerente al loro mandato


Art 23  permessi retribuiti  il numero dei permessi cresce in base al numero dei dipendenti
dell’azienda, lettere a, b, c (il prof non ha la pretesa di memorizzazione).
L’ultimo comma è importante, il lavoratore che intende esercitare il diritto di cui al primo comma per
l’espletamento del mandato, deve darne comunicazione scritta al datore di lavoro, di regola 24 ore
prima (tramite la rappresentanza sindacale).
Il datore di lavoro, in caso di abuso del diritto e quindi di non espletamento del mandato, può
sindacare; ci sono state solo poche sentenze in questo senso; il prof sarebbe favorevole.
Art 24  permessi non retribuiti  I dirigenti sindacali aziendali di cui all'articolo 23 hanno diritto
a permessi non retribuiti per la partecipazione a trattative sindacali o a congressi e convegni di
natura sindacale, in misura non inferiore a otto giorni all'anno.
La comunicazione è da fare almeno tre giorni prima.
Norme del titolo III terminate, passiamo al titolo IV
Art 30  permessi retribuiti per i dirigenti sindacali provinciali e regionali, per i sindacati di cui
all’art 19 (fuori rsa, per questo titolo IV)  per la partecipazione alle riunioni degli organi suddetti. Non
c’è un limite
Art 31  aspettativa lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive o a ricoprire cariche sindacali
provinciali e nazionali 
Art 32  prevede permessi ai lavoratori chiamati a cariche pubbliche elettive  come consiglieri
comunali o provinciali, che non chiedano di essere collocati in aspettativa.  I lavoratori eletti alla
carica di consigliere comunale o provinciale che non chiedano di essere collocati in aspettativa sono, a loro richiesta,
autorizzati ad assentarsi dal servizio per il tempo strettamente necessario all'espletamento del mandato, senza alcuna
decurtazione della retribuzione.
I lavoratori eletti alla carica di sindaco o di assessore comunale, ovvero di presidente di giunta provinciale o di
assessore provinciale, hanno diritto anche a permessi non retribuiti per un minimo di trenta ore mensili.
3) Diritti riconosciuti all’rsa  a 

Lezione del 17/10/2023


I diritti sindacali non sono solo questi dello statuto dei lavoratori, ne troviamo anche in altre leggi
ed in particolare con riferimento alle forme di partecipazione alle decisioni del datore di lavoro; il
legislatore in alcuni casi, come licenziamenti collettivi, prevede che il licenziamento collettivo sia
un potere del datore di lavoro, ma che può essere esercitato solo dopo lo svolgimento di una
procedura di informazione ed esame congiunto con le rappresentanze sindacali aziendali ed i
sindacati esterni cui l’rsa/rsu si riferiscono. Procedimento che consiste in una trattativa, che non
vuol dire “partecipazione alle decisioni del datore dall’interno”, vuol dire che prima di poter
licenziare il datore deve negoziare con i sindacati. Anche questi sono diritti sindacali.
Se non svolta i licenziamenti vengono annullati, in quanto condotta anti sindacale.
Anche con riguardo al trasferimento dell’azienda. Il datore può farlo, ma in attuazione di direttiva
UE, prima della cessione dell’azienda o ramo, deve informare i sindacati; in entrambi i casi, si
deve essere sopra i 15 dipendenti. Sono procedure che sono obbligatorie nel senso che
costituiscono oneri per il datore, se non poste in essere licenziamento illegittimo, trasferimento
azienda inefficace.
I sindacati non codecidono con il datore di lavoro, giuridicamente la decisione resta del datore, ma
dall’esterno degli organi gestionali vi è la possibilità di condizionare il datore di lavoro (non
giuridicamente, ma con la forza, ossia sciopero).
È una forma di partecipazione debole, ma quanto previsto nel nostro ordinamento
3 fattispecie
Informazione  può essere preventiva (rispetto ad una decisione che si accinge ad assumere) o
periodica (a certe scadenze, a prescindere da un atto). Si tratta di un diritto dei sindacati nella
misura in cui questo diritto vede come titolare le rappresentanze sindacali. Informare è dare notizie
Consultazione  la consultazione non è una vera e propria trattativa, perché consultazione vuol
dire un confronto, scambio di pareri, non un trattazione o negoziazione al fine di raggiungere un
accordo; se previsto l’obbligo di negoziare, il contenuto di questo obbligo è quello di contrattare,
non obbligazione di risultato di concludere un accordo, è un’obbligazione di mezzi; l’adempimento
dell’obbligo di negoziare ed il soddisfacimento del diritto dei sindacati di negoziare si ha nella
misura in cui il datore di lavoro si siede ad un tavolo, ma l’accordo non è obbligatorio, nessuna
delle parti può essere costretta a concludere un accordo. Una soluzione di legge che obbligasse al
raggiungimento di un accordo sarebbe lesiva della libertà sindacale.
Non viene violata se si impone di sedere ad un tavolo, così come non è violata la libertà
economica.
Trattativa  Diverso è l’imposizione dell’onere a contrarre.
Ad esempio, obbligo a negoziare con riguardo al licenziamento collettivo, prima accordi interconfederali, poi la legge
123/????; prima di raggiungere l’accordo collettivo, i sindacati che ricevono l’informazione possono chiedere lo
svolgimento di un esame congiunto, ossia una trattativa, sono anche previsti i tempi di questa trattativa, 45 + 30 giorni in
due fasi diverse, decorsi i quali il datore di lavoro può ritenere chiusa la trattativa se non si raggiunge l’accordo.
Terminata la trattativa, il datore di lavoro se non c’è l’accordo può procedere al licenziamento collettivo, saranno poi i
lavoratori uti singuli ad impugnarlo.
L’onere dove scatta?
Se il datore di lavoro vuole ottenere determinati benefici economici, come minori costi per il licenziamento, deve
concludere il contratto collettivo, si chiama accordo di mobilità, come sgravi contributivi.
Distinguere consultazione e trattativa può essere difficile dato che le parti sono le stesse, la differenza è più sul piano
giuridico astratto che sul piano concreto, nessuno vieta che si raggiunga un accordo anche quando il datore di lavoro è
obbligato soltanto ad una consultazione.
Il datore di lavoro adempie all’obbligo a consultare semplicemente con uno scambio di pareri, e di solito, trascorsi i 10
giorni si considera esaurita la consultazione, ma nulla vieta che duri di più se ci si accorda. I tempi per la trattativa legge
o CCNL. È necessaria buona fede e correttezza.
A proposito di questi diritti quindi si è parlato di diritti sindacali, ma anche di
procedimentalizzazione dell’esercizio di uno o più poteri imprenditoriali. Non fa venire meno la
titolarità del potere. Dal punto di vista dei sindacati il potere deve e può essere esercitato, ma
seguendo un iter, in dottrina si è parlato infatti di procedimentalizzazione del potere.
È una partecipazione debole giuridicamente perché il datore di lavoro comunque è titolare del
potere e la procedura in sé non è un vincolo che lo limita, è solo un’occasione per limitarlo, dato
che nel corso della procedura i sindacati eserciteranno il proprio “contropotere”, ossia cercare di
convincere il datore di lavoro a fare cose diverse.
Nel caso di aziende in crisi, i sindacati possono fare poco, se non contratti collettivi di solidarietà
per la riduzione dell’orario di lavoro, oppure deroghe in pejus, od il ricorso alla cassa integrazione
guadagni. Legittimo quando risultato di trattativa seria
Casi di partecipazione dall’esterno degli organi di decisione delle aziende.
I rappresentanti sindacali non fanno parte degli organi di gestione aziendale, tramite obblighi di
tipo procedurale (informazione, e/o consultazione, e/o trattativa)
Le direttive europee parlano di coinvolgimento, mediante proprie rappresentanze, alle decisioni;
ma il modello tedesco ed austriaco di partecipazione vera e propria in organi di gestione è sempre
stato bocciato in quanto non vi erano le maggioranze.
I contratti collettivi nazionali di categoria, nella tornata contrattuale del 1976, previdero ( la maggior parte)
una serie di obblighi di informazione in capo al datore di lavoro su una serie di questioni
(andamento aziendale, investimenti aziendali, questioni lontane da situazioni di crisi)
E questo ben prima di quando il legislatore con il d.lgs 25/2007, attuando la direttiva UE 14/2002,
ha previsto una serie di obblighi di informazione e consultazione nelle imprese che occupano
almeno 50 dipendenti, art 4, su argomenti di andamento recente e prevedibile dell’attività
dell’impresa, nonché la sua situazione economica, quindi sia per le imprese floride che in crisi.
Tutto questo per avere la maggiore trasparenza possibile dell’andamento aziendale.
Obblighi di informazione e consultazione su situazione, struttura, andamento prevedibile
nell’organizzazione dell’impresa, decisioni dell’impresa suscettibili di comportare rilevanti
cambiamenti dell’organizzazione del lavoro, dei contratti di lavoro, anche nelle ipotesi di cui all’art
7[1] (licenziamenti collettivi, trasferimenti azienda, cassa integrazione)
I tempi, le modalità di informazione e consultazione e l’implementazione di questa normativa sono
rimesse ai contratti collettivi.
L’art 46 è norma inattuata in Italia, se non nella minima potenzialità, ma la costituzione italiana è
stata un compromesso fra diverse forze politiche, la componente cattolica e quella marxista.

Diritti sindacali e condotta anti sindacale


Norma statuto dei lavoratori, conosciuta da tutti gli addetti ai lavori, con la formula “il ventotto”.
Una norma che ha una parte sostanziale ed una parte processuale di grandissima importanza.
Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e della
attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che
vi abbiano interesse, il pretore del luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato, nei due giorni successivi,
convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione di cui al presente comma,
ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento
illegittimo e la rimozione degli effetti.
L'efficacia esecutiva del decreto non può essere revocata fino alla sentenza con cui il pretore in funzione di giudice del
lavoro definisce il giudizio instaurato a norma del comma successivo. Contro il decreto che decide sul ricorso è
ammessa, entro 15 giorni dalla comunicazione del decreto alle parti, opposizione davanti al pretore in funzione di giudice
del lavoro che decide con sentenza immediatamente esecutiva. Si osservano le disposizioni degli articoli 413 e seguenti
del codice di procedura civile.
Il datore di lavoro che non ottempera al decreto, di cui al primo comma, o alla sentenza pronunciata nel giudizio di
opposizione è punito ai sensi dell'articolo 650 del codice penale.
L'autorità giudiziaria ordina la pubblicazione della sentenza penale di condanna nei modi stabiliti dall'articolo 36 del
codice penale.
Parte sostanziale  concetto di condotta anti sindacale  la condotta anti sindacale, chi la pone
in essere, verso chi, come...etc....
Parte processuale  chi può farla valere e con quale condotta processuale
È una procedura sommaria ed urgente che si può chiudere anche in pochi giorni, partiamo dalla
parte sostanziale.
Condotta anti sindacale  qualunque comportamento diretto ad impedire o limitare l’esercizio
della libertà e dell’attività sindacale, nonché del diritto di sciopero.
Una nozione aperta, che non tipizza particolari comportamenti illeciti, aperta a qualunque
comportamento che produca un effetto lesivo di uno di quei tre beni.
Non è importante l’elemento soggettivo, ossia l’assenza del dolo del datore di lavoro di ledere la
libertà sindacale, quello che conta è l’effetto, e cioè che la condotta leda uno di questi beni.
Quando il prof chiede la condotta sindacale, dare definizione, non parte processuale.
Il soggetto attivo è il datore di lavoro o chi agisce per suo conto; se una certa condotta lesiva è
posta in essere da un dirigente essa è imputabile al datore di lavoro.
Mettiamo il caso che una condotta sia in qualche modo imposta da altri sindacati, come ad
esempio “non devi riconoscere sindacato x”, è configurabile una condotta anti sindacale di un altro
sindacato? NO, perché la norma si riferisce al datore di lavoro, nemmeno ad associazione
imprenditoriale. In questo caso lo strumento sarà un’azione ordinaria e non l’art 28.
L’art 28 è uno strumento speciale.

Art 28 – profili di diritto sostanziale


Soggetto che pone la condotta  datore di lavoro e suoi ausiliari
Condotta  oggettiva, non rileva l’elemento soggettivo e non è necessario il dolo
 beni protetti  libertà sindacale, attività sindacale, diritto di sciopero.
Rimedi  azione ex art 28; azione ordinaria del lavoratore che impugna
La violazione di clausole/norme del contratto collettivo di per sé non è condotta anti sindacale,
come la mancata applicazione, regole trasferimento, che non abbia a che vedere con i beni
richiamati dall’art 28
Ma la sistematica violazione di un contratto collettivo può comportare disconoscimento del ruolo
dei sindacati firmatari e quindi condotta anti sindacale (teoria sostenuta)

Come può essere neutralizzata la condotta anti-sindacale – parte processuale norma


L’art 28 a fronte della condotta illustrata consente un’azione in giudizio con un rito sommario, un’azione celere ed
immediata, nel momento in cui esaminiamo una norma processuale, specie laddove prevedono la legittimazione ad
agire (attiva) e la legittimazione passiva, sono previsioni non suscettibili di interpretazione analogica o estensiva.
Quindi, per cominciare ad affrontare la norma processuale dobbiamo sapere chi è legittimato attivo.
L’art 28 prevede la legittimazione attiva su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali
nazionali che vi abbiano interesse.
organismi locali  sindacati provinciali
delle associazioni nazionali  quelle associazioni che abbiano una diffusione nazionale
che vi abbiano interesse  un sindacato leso dalla condotta
se viene leso diritto fiom, agisce sindacato provinciale fiom, non c’entra niente la maggiore
rappresentatività

Può capitare che in giudizio contro il datore di lavoro, si costituisca in parte, tramite un intervento
adesivo, rispetto alla tesi di una delle due parti in causa (sia a favore del ricorrente, che del convenuto)
A volte i conflitti sono fra sindacati anche, ed ecco perché capita.
Una volta presentato il ricorso, davanti al pretore del luogo ove è posto in essere il comportamento
denunciato (non c’è più, quindi tribunale), nei due giorni successivi (al prof è capitato solo una ventina di
anni fa un’udienza fissata a 4 giorni, il termine è detto ordinatorio, non perentorio, quindi non vincolante),
convocate le parti ed assunte sommarie informazioni (dalle persone informate dei fatti, quindi non testimoni,
gli informatori non giurano), qualora ritenga sussistente la violazione di cui al presente comma
(accoglimento/rigetto), ordina al datore di lavoro, con decreto motivato (non sentenza) ed
immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo (della condotta) e la
rimozione degli effetti (se ha licenziato un lavoratore per ragioni anti sindacali, annulla il licenziamento).

Un altro presupposto (processuale) dell’azione in giudizio è l’attualità della condotta, ricorrere per
condotta anti sindacale rispetto ad una condotta di 4/5 mesi fa non è il metodo giusto, a meno che
gli effetti non si siano protratti fino al momento.

Lezione del 23/10/2023


Quando c’è un atto lesivo anche dell’interesse di un singolo lavoratore (come nel licenziamento) la
rimozione degli effetti è la dichiarazione di nullità di quel licenziamento.
Questo anche nel caso in cui il licenziamento possa essere considerato giustificato oggettivamente
(lavoratore licenziato per la partecipazione all’attività sindacale in base agli elementi presuntivi secondo il
giudice, ma oggettivamente licenziato perché è stato soppresso il suo posto; se c’è un motivo illecito il
licenziamento resta legittimo, ma se discriminatorio (come per sindacali) l’atto è nullo e non è necessario che sia
il motivo unico e determinante; addirittura, la chiusura dell’unità produttiva con licenziamento di tutti i
lavoratori (libertà economica), ma se emergesse che il vero motivo di quella scelta imprenditoriale è la reazione
allo svolgimento di un’attività sindacale, allora quei licenziamenti sarebbero nulli ai sensi art 28 statuto
lavoratore)
Quindi si può arrivare alla nullità di uno o più atti se il motivo di questi atti è la partecipazione
all’attività sindacale anche se quegli atti trovassero comunque una loro giustificazione oggettiva (se
si dimostra che il motivo è anti sindacale).

Parlando dell’esempio del licenziamento/trasferimento del lavoratore o sindacalista, vediamo


l’emergere di due tipi di interessi sul versante lavoratori/sindacati.
Un interesse collettivo ed un interesse individuale.
Il licenziamento di un lavoratore per il suo ruolo sindacale, lo svolgimento dell’attività sindacale,
chiaramente è un licenziamento che lede sia l’interesse collettivo del sindacato di appartenenza o
del sindacato per il quale ha svolto l’attività anche se non iscritto, ed anche l’interesse individuale
di quel lavoratore che viene licenziato.
L’interesse collettivo può essere fatto valere dai sindacati tramite il ricorso per repressione della
condotta antisindacale (art 28).
Se il sindacato agisce con lo strumento dell’art 28 non è pregiudicata la possibilità del singolo di
ricorrere in giudizio individualmente con un ricorso individuale.
Perché questo? Perché è uno dei casi di plurioffensività della condotta anti sindacale, nel senso
che l’atto datoriale è offensivo/lesivo di più interessi, individuali e collettivi. (possono esserci anche
contrasti fra giudicati).
La peculiarità del procedimento per la repressione della condotta anti sindacale si caratterizza per
la sua celerità, ma nella prima fase; presentato il ricorso per condotta antisindacale, c’è la fase
sommaria che si chiude con un decreto; ma quel decreto può essere impugnato da chi ha perso (o
lavoratore o sindacati); contro il decreto che decide sul ricorso è ammessa entro 15 giorni dalla
comunicazione del decreto alle parti un’impugnazione che si chiama opposizione, davanti allo
stesso giudice del lavoro/tribunale che deciderà con sentenza anch’essa immediatamente
esecutiva.
A questo punto si osservano le disposizioni del c.p.c che regolamentano il rito del lavoro ordinario,
perché l’opposizione apre la via ad una seconda fase davanti allo stesso tribunale però con rito
ordinario, quindi, verranno sentiti i testimoni, verranno articolate ulteriormente le difese, e su
questo poi il giudice deciderà con sentenza come se non ci fosse stata la prima fase.
La fase dell’opposizione, sentiti i testimoni (se si vuole skippare, far giurare gli informatori nella fase sommaria,
salvo non sia emersa la circostanza di sentirli su circostanze ulteriori), di solito è usata dal datore per
prolungare ed eventualmente appellare la sentenza (spesso è difficile fare cambiare idea al giudice della fase
sommaria; a bologna 6 giudici del lavoro, rimini, Ravenna, 1)
Il penultimo comma del 28 introduce una disposizione atta a rafforzare l’adempimento del datore di
lavoro all’ordine del giudice
Il datore di lavoro che non ottempera al decreto, di cui al primo comma, o alla sentenza pronunciata nel giudizio di
opposizione è punito ai sensi dell'articolo 650 del codice penale.
Di solito, una sentenza di condanna alla reintegra, o di riassegnare alla mansione, non è coercibile
giuridicamente, non espone il datore di lavoro ad alcuna condanna penale, non è coercibile perché
si è sempre considerato che il datore di lavoro, ai fini dell’adempimento della prestazione dei
dipendenti, deve porre in essere un facere ritenuta non fungibile, ossia che la cooperazione
all’adempimento che dovrà dare il lavoratore è rimessa al solo datore di lavoro, il giudice non può
nominare qualcuno che ne faccia le veci e che metta il lavoratore nelle condizioni di poter
adempiere.
Quindi, per indurlo ad adempiere, si è prevista una sanzione penale (non grave, ma pur sempre illecito
penale).
Se il lavoratore ottiene con una causa individuale una sentenza di reintegra nel posto di lavoro, si
presenta in azienda ed il datore di lavoro gli dice di rimanere fuori, la reintegra a chi giova? È una
reintegra giuridica, non di fatto, quindi quel lavoratore ha comunque diritto alla retribuzione, e se
il datore non paga il lavoratore non ha bisogno di fare causa ma semplicemente decreto ingiuntivo.
Però non riesce ad ottenere tutt’oggi una sentenza con cui venga riposto sul luogo di lavoro alla
sua scrivania, postazione lavorativa, come si dice in gergo, manu militari (con la forza pubblica).
Gli elementi di coazione indiretta sono questi.

Contrattazione collettiva
Tema che ci impegnerà per alcune settimane
Alcuni manuali partono dalla contrattazione collettiva, noi partiamo dal contratto collettivo.
La differenza è che il primo è in un’ottica di sistema, la seconda fonte in senso atecnico.

Il contratto collettivo è l’accordo che vede come parti da un lato l’associazione imprenditoriale o il
singolo datore di lavoro (nel secondo caso, si parla di contratto collettivo aziendale, nel primo caso invece siamo sulla linea
verticale e quindi federazione, che può essere nazionale, provinciale, regionale; in Italia, il secondo livello di solito è quello aziendale,
però può essere provinciale in qualche categoria come agricoltura ed edilizia, però possiamo avere anche accordi inter confederali
anche se sono pochi, la contrattazione collettiva vera e propria sono nazionali, qualche volta provinciali, altre volte aziendali )
dall’altro invece dalle confederazioni, i contratti nazionali di categoria dalle federazioni, e così a
scendere.
In azienda il contratto collettivo aziendale è firmato dall’RSU/RSA/sindacato esterno invitato.
Non è un contratto collettivo quello firmato da tutti i lavoratori dell’azienda, ma un contratto
plurisoggettivo.
Questo succede quando in sede aziendale i sindacati indicono un referendum, oppure in
assemblea si vota e magari si chiede anche la firma per adesione dei lavoratori, ma il contratto
collettivo è firmato da un soggetto che rappresenta i lavoratori in quanto deve esprimere una
volontà comune.
Il contratto collettivo è un contratto che in Italia, nel settore privato, non è regolato dalla legge, a
differenza di quanto accade in Francia, Spagna, Germania.
Struttura del contratto collettivo
Il prof consiglia sempre di procurarci un contratto collettivo nazionale di categoria per vedere
Il contratto collettivo consta di due tipi di “norme, previsioni, regole, disposizioni...etc....”, che
partendo dallo studio del professor Giorgio Guezzi, il quale aveva un po’ riportato in Italia i
contributi della dottrina tedesca sviluppandoli ed ha ricostruito le norme del contratto collettivo in
una parte obbligatoria ed una parte normativa.
La parte prima è dedicata ai rapporti sindacali, e quasi sempre sono disposizioni della parte obbligatoria.

La parte obbligatoria contiene quell’insieme di previsioni che contengono regole che disciplinano
i rapporti tra le parti stipulanti il contratto collettivo, con disposizioni che vincolano le
rappresentanze sindacali a livello aziendale e gli imprenditori a livello aziendale.
Qualche esempio
Clausole di tregua, una clausola che impone di non scioperare e non indire scioperi, è stata sempre
considerata come obbligatoria (sempre se le si dia una certa lettura) nella misura in cui vincola i sindacati (non i
singoli). Se uno sciopero viene indetto da una formazione spontanea di lavoratori la clausola non
opera.
Quindi le clausole obbligatorie sono quelle che vincolano i soggetti firmatari o i sindacati, rappresentanze sindacali che
siano affiliate perché, se si prevedono obblighi in capo a rsu, rsa, datore, non sono i firmatari, ma sono comunque legati.
I CCNL prevedono obblighi di consultazione ed informazione, questi obblighi sono parte obbligatoria dato
che vincolano i datori di lavoro e rappresentanze sindacali. Non operano sul piano dei rapporti individuali ma
sul piano dei rapporti collettivi.
La parte obbligatoria è quell’insieme di previsioni dei CCL che introducono diritti/obblighi a favore o a carico
delle associazioni sindacali/imprenditoriali, delle RSA/RSU/Singolo datore, ma sul piano dei rapporti collettivi
(come per gli obblighi di negoziazione).
Le clausole di rinvio, ossia quelle che prevedono che certi istituti verranno regolati a livello di contrattazione
collettiva provinciale/nazionale sono clausole obbligatorie.

La parte normativa è quella che regola i rapporti di lavoro individuali, quella che fissa diritti ed
obblighi del datore di lavoro e del lavoratore.
È evidente che un contratto collettivo nella maggioranza degli articoli disciplina i rapporti di lavoro.

La distinzione fra le due parti non è meramente teorica, perché ad esempio, una clausola che prevede
l’obbligo del datore di lavoro di avviare una trattativa o di negoziare possono essere fatte valere dal
sindacato, non possono farle valere i singoli lavoratori.
La clausola obbligatoria non può essere fatta valere dal lavoratore uti singulus.

Si può parlare talora di clausole obbligatorie con effetti normativi, sono obbligatorie perché
vincolano i soggetti collettivi reciprocamente, sono normative perché introducono obblighi a cui
adempiere prima che il datore di lavoro adotti una certa misura nei confronti di un lavoratore.
Es
Contratto collettivo prevede che siano informati e consultati i sindacati prima di un trasferimento del
lavoratore. Il diritto all’informazione e consultazione è dei sindacati, quindi è una clausola obbligatoria, ma
può produrre i suoi effetti normativi sul singolo rapporto perché potremmo avere dei lavoratori trasferiti senza
che i sindacati che li rappresentano (in senso lato) siano stati informati e consultati, quindi, c’è un
trasferimento non preceduto dall’adempimento di quegli obblighi previsti dal contratto collettivo. In questo
caso può agire in giudizio il sindacato ex art 28, però, il lavoratore uti singulus con un’azione ordinaria ed
individuale può impugnare il trasferimento che lo riguarda sostenendo che quell’atto è viziato in quanto non
c’è stata l’informativa al sindacato. Non ha diritto all’informazione, ma ha diritto che il suo trasferimento
avvenga dopo l’informazione; si potrebbe dire che manca una condizione di procedura, una condizione di
efficacia della procedura. Gli effetti normativi (indiretti) sono prodotti quando l’atto finale riguarda il
singolo lavoratore
Ad esempio, nella parte normativa si trovano i livelli di inquadramento, la retribuzione, tutto ciò che riguarda
il rapporto di lavoro, patto di prova, promozioni automatiche, cause di licenziamento...etc....
Non è detto che ci sia una bipartizione fra parte normativa ed obbligatoria in modo visivamente chiaro
perché norme relative all’orario di lavoro (normative) ci sono previsioni che prevedono che, se il datore di
lavoro prevede di cambiare l’articolazione dei turni di lavoro deve darne informazione alle rappresentanze
sindacali, quindi ha una portata obbligatoria.
In passato si parlava di controversie sui diritti e controversie su interessi, le prime su diritti già esistenti,
quelle su interessi attendono al negoziato, ad esempio, per rivedere le previsioni ed aggiornarle

Efficacia soggettiva del contratto collettivo


Un sindacato che non ha firmato il contratto collettivo non può vantare diritti, e ad esempio, può
non sentirsi vincolato dalle clausole di tregua.
Il problema dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo, ossia a chi si applica il CCL, sulla parte
normativa; a quali lavoratori, a quali datori di lavoro.
Tutto questo porta ad esaminare diverse situazioni, partendo dal periodo corporativo, la
costituzione, ciò che accade dopo la costituzione e tanti esempi e situazione che rendono questo
tema uno dei più difficili del diritto sindacale italiano; il problema oggi si è accentuato a fronte di
una situazione in cui sono proliferati i soggetti sindacali; negli anni 50 era più semplice, tale da
indurre le parti sociali a non volere una legge di attuazione dell’art 39[2].
Questo discorso porta a valutare se il contratto collettivo è oppure non è una fonte del diritto; lo
sarebbe se trovasse applicazione erga omnes (lo è stato durante il corporativismo).
Erano una fonte del diritto sia per l’applicazione erga omnes che per l’art 1 preleggi (norme
corporative)
Quando andiamo a consultare le norme del codice civile che parlano di contratti collettivi
dobbiamo sempre chiederci se quelle norme siano ancora vigenti oppure no.
Determinate norme che riguardano il contratto collettivo in quanto tale non possono trovare
applicazione in quanto dedicate ad un contratto che è un’altra cosa (contratto corporativo), ma per
altre è pacifico che quando la legge rinvia alle norme corporative, ci si riferisce anche al contratto
collettivo post corporativismo (es, patto di prova e sua durata, è quella prevista dalle norme corporative o in
mancanza dagli usi o determinata dal giudice secondo equità; si può dire oggi che la durata massima del periodo di
prova è quella prevista dagli attuali contratti collettivi? La risposta è pacificamente sì;) quindi, quando il contratto
collettivo è richiamato in funzione di completamento di una norma di legge non è questione del contratto collettivo fonte
come in epoca corporativa, ma di una fonte in senso atecnico che è la più indicata a completare la legge perché, se il
legislatore prevedesse una distinzione sulla durata massima della prova in relazione alla mansione sarebbe impossibile
Pensiamo anche alla malattia, art 2210, periodo di comporto (divieto di licenziamento per un tot tempo
durante il periodo di malattia) la caratteristica della norma corporativa del contratto collettivo di epoca
fascista incide sulla sua efficacia soggettiva ma non impatta sul fatto che il legislatore ha visto nel CCL la
fonte più agile e vicina all’esigenza delle singole realtà per completare/integrare una norma di legge.
Sono tutti esempi
Lezione del 24/10/2023
Clausole obbligatorie e normative sia nei ccl che nei contratti aziendali, abbiamo visto e cominciato
ad affrontare il tema dell’efficacia soggettiva e quindi dei soggetti cui trova applicazione il contratto
collettivo.
Nel nostro ordinamento facciamo riferimento a quattro modelli di contratto collettivo con riguardo
all’efficacia soggettiva:

1) Contratto collettivo corporativo, efficacia erga omnes, fonte del diritto, caratteristiche
dell’ordinamento corporativo, sindacato unico, rappresentanza generale obbligatoria ex lege sia
per lavoratori di categoria che imprenditori di categoria.
Con la caduta del regime corporativo il contratto collettivo corporativo cessa di essere una fonte
produttiva di norme, ma ciò non significa che le disposizioni dei contratti collettivi stipulati in epoca
fascista abbiano cessato i loro effetti, dato che vi erano regole che disciplinavano i rapporti di
lavoro, nella misura in cui fossero state più favorevoli rispetto alle norme di legge, quelle regole
continuarono ad applicarsi fino a che non sarebbe stato stipulato un nuovo contratto collettivo per
le stesse categorie. Contratti già stipulati come fonte di regole finché non sono stati sostituiti dai
contratti collettivi post corporativi stipulati da CGL (inizialmente), poi CIGL, CISL, UIL.
Entra in vigore la costituzione

2) Modello di cui all’art 39 seconda parte 


L'organizzazione sindacale è libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali,
secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base
democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei
loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle
categorie alle quali il contratto si riferisce.
 3 passaggi, registrazione, acquisizione, sottoscrizione di contratti collettivi in proporzione agli
iscritti del sindacato 
con queste tre condizioni, la costituzione permette l’efficacia collettiva dei contratti nazionali,
provinciali, di categoria (non aziendale).
I sindacati, soprattutto CISL e UIL, furono contrari ad una legge di attuazione dell’art 39 seconda
parte costituzione per il timore di un’ingerenza e controllo pubblico al momento della registrazione.
Si creò quindi un sistema di prassi, di rapporti, di relazioni sindacali, che funzionava benissimo
anche senza un intervento legislativo (alcuni pensano ancora oggi), Gino Giugni lo definì ordinamento
inter-sindacale. Tra le varie ipotesi avanzate da qualche decennio a quella parte c’è anche quella dell’abrogazione
della seconda parte art 39, proposta avanzata perché pacificamente sappiamo che non sia stato attuato, ma questo non
significa che non ci sia, questo implica che un’eventuale legge che conferisca efficacia generale ad un contratto
collettivo dovrebbe rispettare il dettato costituzionale e quindi la registrazione...etc.... un’eventuale legge che farebbe in
un altro modo, sarebbe incostituzionale. Quindi è precluso il modello diverso dall’art 39 stesso.
Fine anni 40, siamo alla nascita della contrattazione autonoma, poi decolla la contrattazione
nazionale di categoria ed abbiamo i contratti collettivi post corporativi, contratti liberi stipulati dalle
nuove associazioni libere sindacali/imprenditoriali, ma con un’evidente problema  quello di capire
quale fosse e sia l’efficacia soggettiva di questi contratti collettivi.
Manca una legge. Privatizzazione del diritto sindacale. I sindacati sono rappresentanti, ma chi
sono i rappresentati? Tutta la categoria? NO, allora chi sono? I lavoratori, ma quelli iscritti al
sindacato e per gli imprenditori quelli iscritti.
Siamo negli anni 50. 
3) Questo modello di contratto collettivo viene indicato come contratto collettivo di diritto
comune, (di diritto privato), è il contratto collettivo post corporativo stipulato dai sindacati liberi il
cui ambito di applicazione è determinato sulla base del principio di rappresentanza.
4) Si pone il problema di garantire a tutti i lavoratori condizioni minime di trattamento, economiche
e normative. Intervenne il legislatore, che però sollevò problemi di costituzionalità.
Venne emanata la legge 741/1959, legge Vigorelli, questa legge era una legge delega con cui il
parlamento delegò al governo il compito di estendere minimi trattamenti economici e normativi a
tutti i lavoratori di ciascuna categoria. Questa era la finalità della legge.
La modalità con cui farlo era attraverso il recepimento in decreti (D.P.R) dei contratti collettivi
sino a quel momento stipulati. L’efficacia raggiunta era erga omnes.
Giuridicamente sollevava però problema di costituzionalità con l’art 39 seconda parte.
Di questi modelli, tre sono erga omnes, l’unico che non lo è, è quello di diritto comune.
La corte costituzionale ha salvato la costituzionalità della legge dato che l’esigenza di garantire
minimi trattamenti era condivisa da tutte le forze politiche, ma dovette inventarsi qualcosa per
decidere sulla base di principi giuridici.
La sentenza della corte è la numero 106/1962 che salvò la costituzionalità attraverso la “natura
eccezionale e transitoria della legge Vigorelli”; il contrasto c’è in linea di principio, tuttavia, quella
legge aveva natura eccezionale e transitoria. Ma la condotta venne reiterata l’anno seguente per
via dei numero contratti stipulati.
La corte dichiarò le proroghe incostituzionali per via del principio affermato precedentemente.

Contratto collettivo di diritto comune


Uno dei problemi della contrattazione collettiva del settore privato. Nel settore pubblico il contratto
collettivo ha efficacia generale.
L’efficacia soggettiva si deduce dal principio di rappresentanza, quindi, il contratto collettivo si
applica alle imprese associate alle associazioni imprenditoriali stipulanti ed agli iscritti al sindacato
firmatario.
Il problema si è posto soprattutto sul versante imprenditoriale perché, se il datore di lavoro è
iscritto all’associazione di categoria firmataria e quindi è vincolato ad applicarlo, quale convenienza
avrebbe a non applicare quel contratto anche ai non iscritti? Non ha convenienza per almeno due
ordini di ragioni:
1) Il datore di lavoro non ha convenienza a tenere una contabilità doppia ed a gestire buste paga in
modo diverso
2) Fare questo inoltre incentiverebbe l’associazione sindacale, ed ovviamente il datore di lavoro
non ne ha troppo interesse (anche se le cose sono cambiate soprattutto ora che ci sono molti
sindacati anche in opposizione fra di loro)

Sostanzialmente, quindi, nei fatti i datori di lavoro applicavano a tutti il contratto collettivo nella
misura in cui fossero vincolati, ma era un discorso di stretta opportunità e non di stretto diritto.
Le cose cambiano quando il datore di lavoro non è associato, in quanto se tale non è
vincolato ad applicare il contratto collettivo, e si pone il problema di come tentare di arrivare ad un
risultato che comunque sia si riconosce sia un risultato auspicabile, cioè, la generale applicabilità
del contratto collettivo, al riguardo, la giurisprudenza e talora il legislatore hanno elaborato
meccanismi estensivi dell’efficacia generale del contratto collettivo, meccanismi estensivi che però
non possono entrare in contrasto inevitabile con il 39.[2-4].
I meccanismi elaborati dalla giurisprudenza e meccanismi di genesi legislativa, tutti di tipo
indiretto, per non incappare nel contrasto con la costituzione.

Meccanismi giurisprudenza
Per estendere indirettamente l’efficacia del contratto collettivo al di là del meccanismo della
rappresentanza.
Innanzitutto, due meccanismi “semplici” 
1) Recezione esplicita del contratto collettivo  le parti scrivono nel contratto stesso che verrà
applicato il contratto collettivo  potrebbe accadere che questa clausola sia firmata dal signor
rossi ma non dal signor bianchi  autonomia contrattuale
Qualcuno potrebbe domandarsi dell’esistenza di una parità di trattamento; l’idea del prof riportata
in un saggio era sul senso dell’esistenza, parità di trattamento a parità di condizioni, deducendolo
dalla buona fede.
La giurisprudenza pacificamente ritiene che questo principio non esista nel privato
Salvo le eventuali discriminazioni

2) Recezione implicita del contratto collettivo  implicita nel senso che non c’è scritto da
nessuna parte che si applica, ma di fatto, il contratto collettivo viene applicato, se di fatto viene
applicato si deve ritenere che sia stato implicitamente recepito dalle parti.
Più complessa può essere la valutazione sull’operatività di questo meccanismo nel caso in cui
vengano di fatto applicate solo alcune norme del contratto collettivo; si deve ritenere o no che il
contratto collettivo sia stato recepito nella sua interezza? La risposta è “dipende”; è una
valutazione di tipo quali-quantitativo;
Se sono applicate una serie di norme ed istituti importanti si deve ritenere che la recezione
implicita ci sia (a tutto il contratto).
Il meccanismo più significativo è quello che riguarda la retribuzione, l’articolo 36 dispone che ogni
lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato ed
in ogni caso idonea a garantire al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
In altre parole, equa e sufficiente, con il contratto collettivo questo c’entra perché in realtà i due
temi (salario minimo legale) sono sempre stati profondamente collegati.
In assemblea costituente si discusse se dovesse essere prevista espressamente una riserva
assoluta a favore della contrattazione collettiva oppure un salario minimo previsto dalla legge.
Il discorso si muove di più sul piano della retribuzione sufficiente, non sull’equo, nella maggior
parte dei paesi è previsto un salario minimo legale, ma per le alte professionalità si ritorna nella
sfera dell’equo, la retribuzione è normale che cresca con l’aumento della professionalità.
Nel corso dei lavori parlamentari in assemblea costituente non passò nessuna delle due idee, ciò
per altro non significa che le due soluzioni siano precluse, la costituzione non dice nulla su questo
aspetto; una legge che introduca un salario minimo legale non contrasta con alcun principio
costituzionale; che la contrattazione collettiva sia la fonte per eccellenza per la determinazione
delle retribuzioni è pacifico sin dall’entrata in vigore della costituzione ed inoltre riconosciuto anche
dalla cassazione a partire dagli anni 50.
Art 39 e 36 non sono collegati, ma che il contratto collettivo sia la fonte privilegiata per la
determinazione della retribuzione è pacifico da sempre; dai lavori parlamentari, alla giurisprudenza
successiva, alla dottrina successiva.
Come si combina il problema dell’efficacia limitata agli iscritti del sindacato?
Sin dall’inizio degli anni 50, i giudici di legittimità hanno riconosciuto che l’art 36 ha efficacia diretta
nei rapporti tra privati, è una norma immediatamente precettiva; questo significa che ogni
lavoratore può agire in giudizio per rivendicare una retribuzione equa e sufficiente. Il collegamento
è che il parametro di riferimento è la retribuzione del contratto collettivo
Il meccanismo principe di estensione erga omnes del contratto collettivo è stato quello basato
sull’art 36 cost. (per quanto concerne le retribuzioni, non la restante parte normativa del contratto collettivo )

Finché il contratto collettivo era quello, il problema era giusto di vedere quale fosse la categoria di
riferimento del datore di lavoro, perché, non dimentichiamo che il principio di libertà sindacale vale
anche per i datori di lavoro.
Es
La fiat è obbligata ad associarsi a federmeccanica – confindustria? Potrebbe associarsi a ciascun
sindacato, anche a quello dei piccoli imprenditori, qual è il contratto collettivo di riferimento?
Per l’art 36 la determinazione equa e sufficiente, se non ottenuta spontaneamente, la si ottiene in
giudizio; quindi, il passaggio fondamentale è che il compito è del giudice.
Stabilire quale sia il contratto collettivo, soprattutto da diversi decenni, è difficile; abbiamo una
norma corporativa che non si applica su questo tipo di contratto collettivo, ma oggi farebbe
comodo.
Si riteneva che la categoria professionale merceologica esistesse in natura, mentre invece, in virtù
del principio di libertà sindacale, la categoria è determinata in base alla scelta delle parti.
È un paradosso, la libertà sacrosanta finisce per porre dei problemi.
Come si può risolvere il problema senza ledere il principio di libertà sindacale e senza violare la
seconda parte dell’art 39 cost, ma garantendo rispetto dell’art 36?
La soluzione per le cooperative non è quella di imporre una nozione di categoria per legge, ma di
stabilire l’obbligo di applicare trattamenti retributivi non inferiori a quelli previsti dal contratto
collettivo stipulato dai sindacati comparativamente più rappresentativi, ma per determinare la
categoria non lo dice nessuno, c’è una legge degli anni 2000 che prevede che le cooperative non
possano applicare trattamenti inferiori al contratto collettivo.
Questo non obbliga le cooperative ad associarsi, dal punto di vista delle retribuzioni però non
possono applicare trattamenti inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi stipulati dalle
associazioni datoriali comparativamente più rappresentative, non è un vero salario minimo legale
ma a suo modo, in questo settore lo è, per la cui determinazione la legge rinvia al contratto
collettivo qualificato dall’essere sottoscritto da associazioni comparativamente più rappresentative.

Negli ultimi tempi è successo che troviamo anche contratti collettivi stipulati dalle federazioni
aderenti a CGIL, CISL, UIL con trattamenti oggettivamente bassi, non contratti pirata o firmati da
sindacati minoritari; questo perché a volte la corsa al ribasso porta a questi risultati ed ecco che
qui torna in ballo la giurisprudenza e c’è continuità nella giurisprudenza di queste due ultime
settimane (cassazione due ottobre), però, c’è anche discontinuità.
La continuità è che si continua a ribadire che il riferimento è sempre al contratto collettivo
La discontinuità è che in realtà il giudice potrebbe fare riferimento alla retribuzione prevista da
contratti collettivi diversi da quelli applicati in quel settore considerandoli troppo bassi.
Il giudice non è vincolato ad applicare un determinato contratto collettivo.
Il riferimento è quel contratto collettivo che egli ritenga fornisca retribuzione equa e sufficiente.
C’è un’alta discrezionalità in questo caso, ma è un passaggio ineliminabile, perché l’art 36
stabilisce un diritto sacrosanto ed esigibile, il contratto collettivo è “” l’autorità salariale”” per
eccellenza in quanto più vicina al lavoro, con il consenso delle parti.
Ma nel momento in cui ci sono una pluralità di parti, l’ultima parola spetta al giudice.
La categoria la determinano le parti sociali, a volte c’è anche sovrapposizione.
La corte di cassazione ha detto che il giudice deve usare comunque prudenza e motivare in modo
adeguato il perché determina in un certo modo la retribuzione. Resta il fatto che l’efficacia limitata
agli iscritti del contratto collettivo resta, ma per la retribuzione attraverso l’art 36 arriviamo ad
un’estensione
Lezione del 30/10/2023
La retribuzione equa e sufficiente tradizionalmente è quella del contratto collettivo, non si applica il
2070cc, tuttavia, il principio espresso da questo articolo, negli ultimi tempi ha finito per riemergere
sotto mentite spoglie, cassazione due ottobre ed altre, hanno finito per valorizzare la possibilità per
il giudice di rifarsi a contratti collettivi di altre categorie, oppure, al contratto di categoria che
potrebbe emergere ai sensi del 2070 per l’attività svolta dall’impresa, fermo restando che la
cassazione ha previsto che il giudice possa anche disattendere le previsioni del contratto collettivo
rifacendosi a contratti collettivi affini oppure addirittura in funzione correttiva (adeguatamente
motivata); del resto, il giudizio ex art 36 Cost è un giudizio equitativo per cui per decenni la
giurisprudenza ha detto che è il contratto collettivo applicato/applicabile, la discontinuità della
giurisprudenza recente afferma che può essere anche un altro contratto collettivo.
La valutazione del giudice segue e deve essere motivata anche con riferimento al tasso di
inflazione, al valore ISEE, questo partendo dal dato che la costituzione non ha voluto introdurre il
salario minimo legale nel 1948, la retribuzione equa e sufficiente non attiene solo al minimo, ma
anche rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato (equo). Quindi CCL efficacia erga omnes
per la parte retributiva grazie alla giurisprudenza che si rifà ad esso, ma quest’ultima sentenza
cassazione invita i giudici di merito a non limitarsi al contratto collettivo applicabile qualora
emergano elementi che inducono a ritenere iniqua o insufficiente la retribuzione di quel contratto
collettivo, a maggior ragione in una stagione come questa dove l’emergere di più associazioni
sindacali, imprenditoriali, ha portato ad una proliferazione dei contratti collettivi anche nell’ambito
delle stesse categorie; questo induce ad interrogarci sulla compatibilità art 36 Cost su retribuzioni
stabiliti da contratti che tra loro sono contratti pirata. Alcune delle sentenze di cassazione di inizio
ottobre fanno riferimento a contratti collettivi stipulati da associazioni aderenti a CIGL, CISL, UIL, e
non pirata, perché in certe categorie i livelli retributivi sono stati tenuti ad avviso della cassazione in
modo molto basso; guarda caso quelle categorie nelle quali ci sono CCL stipulati da sindacati
minoritari facendo nascere una sorta di spirale al ribasso (cooperative da un lato, logistica e servizi
dall’altro, ma non solo) Lo stesso CNEL ha sottolineato come in certi settori ci siano criticità ( quelli
ricordati, turismo, ristorazione, sport) e porta ad un problema da un lato di avere una buona contrattazione
collettivo e per buona si intende una contrattazione collettiva frutto dell’attività negoziale dei
sindacati più rappresentativi; ora il giudice viene invitato a valutare anche i risultati del CCL
applicabile; dal punto di visto giuridico è anche corretto ad avviso del professore, perché nella
costituzione non c’è una riserva di legge a favore della contrattazione collettiva per la materia
retributiva, 36 e 39 non si rinviano a vicenda, anche se si è sempre ritenuto che “l’autorità salariale”
per eccellenza sia proprio la contrattazione collettiva.

Siamo partiti su questo aspetto facendo riferimento all’efficacia soggettiva del contratto collettivo.

Intervento del legislatore per estendere l’efficacia soggettiva


Oltre alla legge vigorelli ormai di 60 anni fa.
Da un lato ha fatto interventi volti ad incentivare l’applicazione del contratto collettivo, non norme
che impongono l’estensione dell’applicazione del contratto collettivo (sarebbe incostituzionale ex art 39.2),
norme che non obbligano ma che introducono oneri in capo al datore di lavoro in ordine
all’applicazione generalizzata del contratto collettivo.
Esempio

Art 36 statuto dei lavoratori  se un’impresa vuole essere aggiudicataria di appalto pubblico o
beneficiaria di benefici economici garantiti dallo stato (o comunque da enti pubblici) deve fare
applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dai
contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona. (quindi s.c.r)
Non essendo un obbligo non c’è contrasto con l’art 39. Questa norma è confluita nel codice degli appalti
Nel settore della cooperazione il legislatore ha emanato una norma poi oggetto di interpretazione
autentica e di cui la corte costituzionale ha riconosciuto la costituzionalità, la quale prevede che ai
fini della contribuzione previdenziale (già la cassazione aveva previsto che valesse ai fini
retributivi) si deve fare riferimento a quanto previsto in materia retributiva ai contratti collettivi
stipulati dai s.c.r;
è intervenuto in questo settore per due motivi:
- in questo settore sono nate la maggior parte delle associazioni diverse da quelle storiche
- gli appalti vedono come protagonisti largamente le società cooperative

Il riferimento alla legge sulla questione delle retribuzioni in questo settore è il D.L 248/2007
convertito nella legge 31/2008.
Quando il legislatore è intervenuto in questi casi lo ha fatto facendo riferimento ai contratti collettivi
stipulati dai sindacati comparativamente rappresentativi, senza fare andare sotto rispetto alla
retribuzione di questi.

Pensiamo agli appalti privati, il nostro mondo produttivo ne è pieno.


Negli appalti privati non c’è il principio di parità di trattamento (come nei rapporti di
somministrazione), venuto meno con la riforma Biagi, se un’impresa appalta ad un’altra un
servizio/opera, l’appaltatore non è tenuto ad applicare ai propri dipendenti gli stessi trattamenti
retributivi cui quei dipendenti avrebbero diritto a parità di mansioni. A volte quindi, l’appalto si fa
perché ci si rivolge davvero ad un’impresa genuina specializzata in qualcosa; altre volte invece,
proprio perché non vige il principio di parità di trattamento, con l’appalto si commissionano lavori a
costi inferiori, il massimo risparmio lo si ha sulle retribuzioni perché l’appaltatore non applica lo
stesso CCL dell’appaltante, e soprattutto, se è una cooperativa, i contratti collettivi nel settore della
cooperazione contengono retribuzioni più basse di quelle previste nel settore industriale fuori dalla
cooperazione.
Tanto è vero che, il parere del CNEL di due settimane fa suggerisce di reintrodurre il principio di
parità di trattamento negli appalti. Un passaggio indubbiamente da condividere perché in questo
caso perlomeno il legislatore garantisce il principio che il ricorso agli appalti non è fatto per
abbassare i costi ma per altre ragioni, la specializzazione del lavoro in primis (impresa edile subappalta
per fare i lavori idrici o elettrici)

Altri casi in cui è stata prospettata l’efficacia generale del CCL di diritto comune
Rinvio al contratto collettivo per completamento di una norma di legge.
Esempio
Nel caso dell’assunzione in prova (patto di prova) la durata del patto di prova è rimessa alla
contrattazione collettiva; lo stesso dicasi per l’individuazione del cosiddetto periodo di comporto;
In questi due esempi di integrazione contrattuale della norma legale vogliamo dire che la
durata del periodo di prova/comporto vale solo per gli iscritti alle associazioni firmatarie? Possiamo
ritenere che indirettamente dove c’è una delega di funzioni normative al contratto collettivo le
norme valgono per tutti; si tratta giusto di capire quale sia il contratto collettivo da applicare (s.c.r).
La giurisprudenza più recente dice che anche se il contratto collettivo non prevede le malattie
dovute alla disabilità del lavoratore, il giudice può indicare una durata diversa rispetto a quella del
contratto collettivo.
Quando però c’è delega di funzioni normative da parte della legge al contratto collettivo si fa fatica
a dire che l’efficacia sia relegata ai soli iscritti.

Rinvio al contratto collettivo in funziona qualificatoria


Esempio
2095 cc  categorie di lavoratori (non merceologiche)  operai, impiegati, quadri, dirigenti.
Chi sono i quadri? La legge ha introdotto questa categoria nel 1985 con la legge 190;  coloro
definiti come tali dalla contrattazione collettiva  sono una categoria media fra impiegati e
dirigenti; ma quali sono i criteri in base ai quali determinare chi può essere considerato quadro e
chi no; anche qui c’è una delega di funzioni normative al contratto collettivo e la funzione è quella
di qualificare una nozione che è già di legge. Il problema è sempre capire quale contratto
collettivo, perché con riguardo ai quadri il problema si pose per il sindacato dei quadri nel caso
della maggiore rappresentatività. Ancora il riferimento è ai s.c.r, a meno che non si dimostri che
con riguardo a quella categoria sono più rappresentativi sindacati diversi da CGIL, CISL, UIL.

Quando c’è delega di funzioni normative, non è il contratto collettivo in quanto tale che acquista
efficacia, ma indirettamente acquisisce questa efficacia generale intervenendo su concetti legali,
qualificando, integrando, nozioni di legge. Inoltre, permette di superare la questione della
rappresentanza.

Domanda esame  efficacia soggettiva contratto collettivo di diritto comune  iscritti,


rappresentanza, e poi tutta la roba indiretta

Contratto collettivo aziendale


Con riguardo al principio di rappresentanza sulla base di quanto detto, il discorso è diverso?
Nell’art 39 si parla di contratti di categoria, l’azienda non è una categoria; dai lavori parlamentari
però si evince che la norma non era pensata solo per i contratti di categoria; inoltre, dipende anche
da chi firma il contratto aziendale sul versante dei lavoratori; il datore firma e per lui non si pone il
problema della vincolatività, ma sul versante dei lavoratori devono firmare soggetti che li
rappresentano, può essere firmato dal sindacato territoriale, RSU/RSA, ma allora non viene da
pensare che si possano fare in relazione a questi soggetti ragionamenti diversi?
Il sindacato esterno con il principio di rappresentanza non ha problemi. Per RSA la stessa cosa
dato che è costituita nell’ambito di un sindacato. Per le RSU invece potremmo fare un discorso
diverso? Essendo costituito in base ai voti di TUTTI i lavoratori, opinione del professore, se il voto
è di tutti allora l’accordo firmato dall’RSU può essere espressione appunto di tutti e non stupirebbe
quindi l’efficacia generale; l’obiezione può essere che possono coesistere in azienda RSU e RSA
di sindacato diverso, anche se minoritario; quindi, secondo il professore quello dell’RSU è un
ragionamento che impone riflessioni diverse, ci arriviamo.

In generale sui contratti collettivi il problema si è posto sul versante dei lavoratori fino a quando
non c’è stata crisi, parliamo anni 50/60 prima metà 70, dove i contratti collettivi, a maggior ragione
in azienda, erano tendenzialmente migliorativi rispetto ai contratti precedenti. Il problema per i
lavoratori non era quello di dire che non vuole l’applicazione del CCL, il problema era per il datore
non associato e per il contratto aziendale mai. Il datore poteva avere interesse a chiamarsi fuori,
ma il lavoratore aveva interesse all’applicazione del contratto collettivo e quindi, non capitava che
pretendesse la NON applicazione. Comincia a porsi l’interesse a non vedersi applicato quando nel
periodo della crisi i CCLN erano peggiorativi.

Il contratto collettivo gestionale è un contratto collettivo aziendale chiamato ad intervenire in


situazioni di crisi aziendale, quindi, con il consenso tra il datore di lavoro e le rappresentanze
sindacali.
Come, ad esempio, i contratti di solidarietà, oppure, l’articolo 5 della legge 223/1991 
 legge che disciplina i licenziamenti collettivi  che devono essere preceduti da una
procedura negoziale con i sindacati; se si raggiunge l’accordo, questo cosa potrebbe prevedere?
Cassa integrazione con o senza contratti di solidarietà, oppure, potrebbe anche prevedere che
siano previsti criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, come anzianità di servizio, carichi di
famiglia ed esigenze tecnico produttive. Il datore deve bilanciare questi 3 criteri; a parità di
professionalità in esubero licenzierà chi ha minore anzianità di servizio e minori carichi di famiglia.
L'art 5 prevede che questi criteri operino in via sussidiaria, cioè quando non ne siano previsti altri
da parte della contrattazione collettiva (fonte primaria). E quale contratto collettivo regolamenta i
criteri di scelta? È l’accordo che eventualmente venga concluso nel negoziato avviato prima che si
proceda al licenziamento collettivo.
Questi accordi possono anche prevedere incentivi all’esodo, oppure formazione.

Criteri diversi da quelli di legge, come ad esempio, anziché fare uscire per ultimi quelli che hanno
la maggiore anzianità di servizio, escono per prima perché hanno già maturato i requisiti
pensionistici minimi (o che li raggiungeranno in naspi).
La ratio è non fare rimanere senza reddito i lavoratori
La corte costituzionale è intervenuta  in un caso partito dal tribunale di Milano, un lavoratore
licenziato sulla base di un criterio preferenziale previsto da un contratto collettivo (accordo di
mobilità) impugnò il licenziamento
Il lavoratore non era iscritto ai sindacati che avevano firmato il contratto aziendale.
Il tribunale di Milano dice di poter accogliere il ricorso solo a condizione che la corte costituzionale
dichiari illegittimo l’art 5 della legge nella parte in cui prevede la possibilità per il contratto collettivo
di introdurre criteri di scelta diversi da quelli di legge erga omnes.
Sentenza 268/1994  Luigi Mengoni, presidente della corte.
La corte dice che gli accordi gestionali sono un tipo di contratto collettivo diverso dal contratto
collettivo di tipo normativo (ossia quello che regolamenta le condizioni di lavoro). L’art 39 Cost seconda parte si occupa dei
contratti di tipo normativo e non di quelli di tipo gestionale e quindi non c’è contrasto.
Il ragionamento si complica quando 
 gli accordi sindacali che stabiliscono i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità non
appartengono alla specie dei contratti collettivi normativi, i soli contemplati dal 39 cost, destinati a regolare i
rapporti di lavoro di una o più categorie professionali o di una o più singole imprese.  questo fa già
pensare che per la corte i contratti aziendali non si applichino erga omnes.
 Si tratta di un tipo di contratto la cui efficacia diretta si esplica esclusivamente nei confronti degli
imprenditori stipulanti o singolo imprenditore nel caso di accordo aziendale; il contratto collettivo (quello
gestionale) cui rinvia la norma in esame incide sul singolo prestatore di lavoro indirettamente attraverso
l’atto di recesso del datore, in quanto vincolato dalla legge al rispetto dei criteri di scelta concordati in sede
sindacale.
In che senso indirettamente? Il contratto collettivo limita il potere del datore di lavoro; l’atto che
produce effetti nei confronti del lavoratore è il licenziamento, ed il licenziamento è vincolato dalla
legge al rispetto dei criteri di scelta concordati in sede sindacale.
Comunque, è un contratto collettivo con efficacia generale

Lezione del 31/10/2023 – Halloween


Ultimo caso in ordine di tempo in cui il legislatore è intervenuto nel settore privato, con la
cosiddetta manovra di Ferragosto del 2011, art 8 decreto-legge 138/2011 convertito dalla legge
148/2011.
Norma molto rilevante da due punti di vista:
- rapporti tra contratti collettivi di diverso livello e struttura contrattazione  incide sulle scelte di
autonomia collettiva  guarderemo la settimana prossima
- efficacia soggettiva contratto collettivo  questo articolo stabilisce che i contratti collettivi
sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale o territoriale (novità) ovvero sottoscritti a livello aziendale
dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda possono realizzare specifiche intese con
efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di
un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali  il legislatore ha previsto
che gli accordi aziendali o anche quelli territoriali sottoscritti dai s.c.r (territoriale/nazionale), quelli
aziendali (rivedere) hanno efficacia erga omnes a condizione di essere sottoscritti sulla base di un
criterio maggioritario alle relative rappresentanze.
Principio declinato dall’AI 2014, testo unico sulla rappresentanza, nel cui si prevede relativamente
ai contratti aziendali l’approvazione con referendum.
La norma prevede determinati contratti collettivi aziendali, i cosiddetti contratti di prossimità,
presi in considerazione dall’art 8 manovra di ferragosto. Questa espressione ricorre per la prima
volta per individuare i contratti più vicini ai luoghi di lavoro (territoriali, provinciali) che hanno la
caratteristica di perseguire determinate finalità, quelle indicate dall’art 8 stesso primo comma 
 finalizzati alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di
partecipazione, all’emersione del lavoro irregolare, incrementi di produttività e salario, gestione di
crisi aziendali e occupazionali, investimenti ed avvio di nuove attività.
Possono riguardare le materie di cui al comma 2, impianti audiovisivi ed introduzione nuove
tecnologie, mansioni lavoratore, contratti a termine, orario ridotto, solidarietà negli appalti, ricorso
alla somministrazione di lavoro, disciplina orario di lavoro, modalità di assunzione...etc.... una
gamma di materie molto estesa; il punto critico per il sistema è quello esaminato al comma 2bis 
 fermo restando il rispetto della costituzione nonché i vincoli derivanti dalle convenzioni
internazionali, le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di
legge ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti nazionali di categoria.
Questa norma cosa consente di fare ai contratti aziendali ed ai contratti provinciali
dotandoli di efficacia erga omnes?
Consente di derogare in pejus rispetto a norme di legge e/o dei contratti nazionali di categoria a
condizione che siano perseguite determinate finalità, su determinate materie, conclusi e sottoscritti
rispettando un criterio maggioritario; a questo punto, tali specifiche intese acquisiscono efficacia
erga omnes.
C’è una doppia peculiarità, la derogabilità in pejus e l’efficacia erga omnes.
Manovra criticata dalla sinistra, da gran parte dei sindacati, fu l’ultimo intervento legislativo del governo berlusconi.
Questa derogabilità larga ed in pejus su tante materie, per di più con efficacia generale, entrò in
contrasto con un accordo interconfederale di un mese e mezzo prima sottoscritto tra CGIL CISL
UIL e CONFINDUSTRIA, accordo che dava (e da in quanto ripreso nel 2014) ai contratti di
secondo livello (aziendali in particolare) la possibilità di derogare in pejus le norme dei contratti
nazionali, ma solo dove fosse previsto dagli stessi contratti collettivi.
La differenza è che l’articolo 8 consente una derogabilità molto diffusa al di fuori delle previsioni del contratto
nazionale; non tanto quello dell’efficacia erga omnes, perché anche gli accordi interconfederali perseguono
questo obiettivo, ma con un limite  può un contratto collettivo attribuire ad un altro contratto collettivo o a
sé stesso efficacia generale? NO, è una legge che può farlo, perlopiù non in contrasto col 39.

Questa particolarità fa sì che in sede aziendale, con alcuni sindacati (soprattutto CGIL), contratti di
prossimità al ribasso si fanno, purché non si citi l’art 8 (fatto politico); il prof ha visto contratti in tutto
e per tutto con gli stessi effetti e materie dell’art 8 ma senza richiamarlo.
Si pone il problema dell’efficacia; si è molto discusso sia a livello politico che giuridico, difatti la
questione arriva alla corte di appello di Napoli che ha sollevato l’eccezione di incostituzionalità per
violazione dell’articolo 39 seconda parte costituzione per l’attribuzione di efficacia erga omnes ai
contratti collettivi di prossimità dell’art 8.
La corte costituzionale si è pronunciata con la sentenza numero 52 del 2023, decisione 20/02/2023
depositata il 28/03/2023  la corte si è pronunciata per l’inammissibilità della questione.
In questo caso la corte ritiene inammissibile perché rileva che il giudice rimettente avrebbe dovuto
motivare, seppur in termini di mera plausibilità, in ordine alla dedotta circostanza che l’accordo aziendale,
oggetto della sua cognizione, rientrasse proprio nella fattispecie del contratto collettivo aziendale di
prossimità.
L’importanza della sentenza è che nonostante si trovasse in condizioni di fermarsi qua, la corte nel
merito scrive una serie di cose  non arriva a pronunciarsi sulla questione dell’efficacia, ma nelle
argomentazioni che si possono leggere la corte dà una serie di considerazioni sull’efficacia
generale o meno dei contratti aziendali in generale.
La perimetrazione della fattispecie legale del contratto collettivo aziendale di prossimità, al quale la
disposizione censurata assegna un’efficacia generale ex lege, ha come naturale termine di raffronto l’accordo
aziendale ordinario che è dotato, invece, di un’efficacia solo tendenzialmente estesa a tutti i lavoratori in
azienda.
Abbiamo visto già due tipi di contratti collettivi aziendali diversi da quello ordinario, quello
gestionale, quello di prossimità, la corte dice che laddove il legislatore ha previsto l'efficacia
generale ex lege nulla quaestio, su quello aziendale ordinario (tutti quindi tranne quelli di
prossimità ed aggiunge il prof, gestionale) sono dotati invece di un’efficacia solo tendenzialmente
estesa a tutti i lavoratori in azienda.
Qual è l’efficacia soggettiva del contratto collettivo aziendale? Partiamo dicendo che ha un’efficacia generale solo
tendenziale, generale erga omnes se è CC gestionale, prossimità
È infatti costante nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che l’efficacia generale (per tutti i
lavoratori) degli accordi aziendali è tendenziale, trovando un limite nell’espresso dissenso di lavoratori o
associazioni sindacali.
L’accordo aziendale ordinario, quindi, non estende la sua efficacia anche nei confronti dei lavoratori e delle
associazioni sindacali che, in occasione della stipulazione dell’accordo stesso, siano espressamente
dissenzienti.  in occasione dell’accordo  confermativo di sentenze cassazione dove si è detto
che questo dissenso va espresso in termini temporali ravvicinati rispetto all’accordo.
Se l’accordo aziendale firmato da RSA, RSU, sindacato territoriale, senza che venga manifestato
dissenso esplicitamente rispetto a quell’accordo, i contratti collettivi aziendali, anche diversi da
quelli gestionali, prossimità, hanno efficacia generale.
Siffatta efficacia generale (erga omnes), proprio perché «eccezionale», sussiste solo se ricorrono gli
specifici presupposti ai quali l’art. 8 la condiziona;  finalità, materie, criterio maggioritario.
Quindi ormai pacifico che l’art 39 seconda parte riguarda anche i contratti aziendali, non sappiamo
se è superabile per gli accordi di prossimità.

Efficacia oggettiva del contratto collettivo


Ossia la sua portata normativa rispetto ai contratti individuali, cioè rapporto tra contratto collettivo
ed individuale.
Il codice civile risolveva la questione con l’art 2077 
 1. I contratti individuali di lavoro tra gli appartenenti alle categorie alle quali si riferisce il contratto collettivo
devono uniformarsi alle disposizioni di questo.
2. Le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto
da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro .
Viene sancita quindi la inderogabilità in pejus del contratto collettivo da parte del contratto
individuale, quindi, se nel contratto individuale (datore-lavoratore) prevede condizioni migliorative
allora è pienamente valido, se le clausole sono peggiorative rispetto a quelle del contratto collettivo
allora sono sostituite di diritto da quelle del CCLN. L’art 2077 attribuisce al contratto collettivo nei
rapporti con il contratto individuale, la stessa efficacia oggettiva normativa delle norme di legge.
Viene sancita l’inderogabilità in pejus ed il meccanismo della sostituzione automatica di clausole
nulle, come nel rapporto tra contratto e legge.
Il contratto collettivo ha il corpo del contratto e l’anima della legge; espressione di autonomia ma che nel contratto
collettivo opera con funzione eteronoma, ossia come la legge.
L’art 2077 vale per i contratti collettivi post corporativi?
La norma è dedicata ad una fonte del diritto (inderogabilità, sostituzione automatica) ossia il
contratto corporativo, e non è richiamabile OGGI. In più occasioni fra gli anni 50/60 è stata però
richiamata perché si è sempre ritenuto fra giudici e dottrina che l’inderogabilità in pejus del
contratto collettivo rispetto all’individuale fosse un valore da salvaguardare, ma si faceva fatica a
trovare un fondamento giuridico; furono avanzate alcune ricostruzioni prima che il legislatore
intervenisse nel 1973 con una norma che risolvesse il problema.
In particolare, fra le ricostruzioni troviamo l’art 1723.2 e 1726 codice civile, ossia, l’irrevocabilità del
mandato, perché fra lavoratori e sindacato c’è mandato con rappresentanza
 1723.2  2. Il mandato conferito anche nell'interesse del mandatario o di terzi non si estingue per revoca da parte
del mandante
 1726  Se il mandato è stato conferito da più persone con unico atto e per un affare d'interesse comune, la revoca
non ha effetto qualora non sia fatta da tutti i mandanti, salvo che ricorra una giusta causa .

Questa tesi però fa emergere le difficoltà della ricostruzione civilistica; inoltre, anche per il fattore della
supremazia del sindacato sancita dall’art 39 Cost, se il contratto collettivo fosse derogabile in pejus senza
problemi dall’autonomia contrattuale allora sarebbe veramente debole e verrebbe messo in discussione lo
stesso potere del sindacato e la stessa libertà sindacale.
Il legislatore interviene riformando l’articolo 2113 del codice civile con la riforma del processo del
lavoro  questo articolo disciplina tutt’altro  Rinunzie e transazioni 
Transazione  contratto con il quale si risolvono o prevengono controversie facendosi reciproche concessioni
Rinuncia  atto unilaterale, negozio in cui il lavoratore dismette diritti entrati nel suo patrimonio
Entrambe riguardano “il passato” e non il futuro.
Questa norma, nel momento in cui regolamenta rinunce e transazioni stabilisce 
1) Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni
inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi…, non sono valide.  l’art 2113 c’entra perché
parla dei contratti collettivi  a meno che, quarto comma 
4) Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412-ter e
412-quater del codice di procedura civile.  a meno che non siano sottoscritte in una delle sedi protette, sede giudiziale,
commissioni di conciliazione (sede amministrativa presso l’ispettorato del lavoro), commissione in sede intersindacale;
se in queste sedi il lavoratore rinuncia a propri diritti, di solito nell’ambito di accordo transattivo, ecco che queste rinunce sono
valide; Altrimenti sono impugnabili entro sei mesi dalla fine del rapporto di lavoro .
Ora l’inderogabilità in pejus del contratto collettivo ha un fondamento legislativo in questo articolo
2113.
Per quanto riguarda la regolamentazione pro futuro, se si pattuisce un trattamento peggiorativo in
pejus, anche in sede protetta, queste pattuizioni sono radicalmente nulle.
Distinguere bene inderogabilità (effetti pro futuro) e rinunce e transazioni (che risolvono
controversia, ma AD oggi, non per il futuro, per il passato)
Risarcimento danno alla salute esentasse
Nella transazione in cui si dica che il datore riconosce somma x a titolo di danno, ed egli rinuncia a tutti i danni derivanti
ed ulteriori, questa pattuizione è nulla e se le condizioni peggiorano, bisognerà sborsare altri soldi dato che il danno è
stato riconosciuto.
Nel settore pubblico vedremo che l’inderogabilità è bilaterale, tanto in pejus quanto in mejus; la PA
non può attribuire trattamenti migliorativi rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo e questo
trova una spiegazione nel principio di imparzialità, a meno che i trattamenti diversi non dipendano
dall’applicazione del contratto collettivo (premi collettivi, parte di retribuzione variabile rimessa alla
valutazione)

Nei rapporti tra legge e contratto individuale, solo derogabilità in mejus.


Resta da esaminare il tema del rapporto tra legge e contratto collettivo.
Derogabilità in mejus, ma abbiamo visto tante deroghe rispetto a questo principio, le prime
introdotte nella legislazione di emergenza seconda metà anni 70, una serie di casi in cui il contratto
collettivo potesse derogare alla legge (accordi di solidarietà, deroga all’art 2112).
A seguito di questa fase, sono sempre stati introdotti casi più frequenti di derogabilità in pejus, il
contratto di prossimità può derogare in pejus sia la legge che il contratto collettivo. Il rapporto
regola/eccezione non è cambiato, ma queste ultime diventano sempre più numerose.

Se la legge ponesse tetti alla contrattazione collettiva ci sarebbe contrasto con la libertà sindacale,
caso del 1984 dove venne bloccata l’indennità di contingenza per contrastare l’inflazione, venne
salvata la costituzionalità; fu frutto di un accordo tripartito, buona parte della CGIL era contraria
(ma firmò nonostante tutto)

Resta da affrontare il tema del rapporto tra contratti collettivi di diverso livello.

Lezione del 06/11/2023


Che cosa accade alla scadenza del contratto collettivo (nazionale)?
Le parti negoziano per il rinnovo; potrebbero non applicarlo più prima del rinnovo? In teoria sì, in
pratica non lo fanno; ma con riguardo alla retribuzione i giudici, ex art 36, nonostante non si
applichi più, per la parte retributiva, potrebbero lo stesso utilizzarlo come parametro di riferimento.

Relativamente ai contratti collettivi aziendali, talora sono stipulati e previsti a tempo determinato ed
alla scadenza non trovano più applicazione salvo diverso accordo, oppure a tempo indeterminato.
Sui primi, le stesse parte sociali inseriscono una clausola di ultra attività, grazie a questa, alla
scadenza le parti prevedono che continui a trovare applicazione finché non viene rinnovato.
Può accadere che in periodi di crisi questa clausola mette in difficoltà il datore di lavoro, perché magari nel
contratto collettivo scaduto sono previsti trattamenti migliorativi o premi, che per la situazione di difficoltà
sono difficilmente sostenibili. Allora il datore magari vuole rinegoziare, ma la controparte non è d’accordo.
Se però i sindacati non sono d’accordo di rivedere quel contratto, l’ultra attività espone il datore di
lavoro al vincolo di continuare ad applicare quel contratto? La risposta è che con una clausola di
questo tipo, senza che si raggiunga un’intesa sul nuovo contratto, ci si troverebbe nella stessa
situazione in cui ci si trova se il contratto collettivo è previsto a tempo indeterminato.
Si può recedere dando disdetta in tempo utile (costruzione giurisprudenziale) e secondo
correttezza e buona fede, ossia, che chi recede deve comunicare la propria intenzione all’altra
parte dando un preavviso ed avviando comunque una negoziazione per il rinnovo del contratto; se
non si raggiunge l’accordo dopo la negoziazione effettiva, allora, quella disdetta seguita dal
recesso è legittima.
La durata del contratto collettivo è uno degli aspetti che riprendiamo in considerazione parlando
della struttura della contrattazione collettiva.
Contratto collettivo come fonte in senso atecnico, dove si applica opera come una fonte eteronoma
rispetto al contratto individuale, in virtù della sua efficacia oggettiva (inderogabile come una norma
di legge).

Contrattazione collettiva come sistema


Facciamo riferimento all’insieme dei livelli nei quali si negoziano le condizioni di lavoro
(relativamente alla cosiddetta parte normativa).
Facciamo riferimento anche alle competenze dei vari livelli della contrattazione collettiva.
Il peso dei livelli della contrattazione collettiva ha delle evidenti implicazioni sia macro che micro
economiche.
Macroeconomiche  il peso dei livelli influenza le dinamiche dell’inflazione e della disoccupazione,
a partire dal costo del lavoro
Microeconomico  dal livello al quale si svolge la contrattazione collettiva dipende la distribuzione
ed il peso (la rilevanza) degli elementi della retribuzione.
Es
I premi retributivi, quanto più diventano rilevanti, quanto maggiore sarà il livello aziendale; questa è
la più vicina al luogo di lavoro e quindi maggiormente in grado di calibrarsi alla realtà dell’azienda.
La contrattazione nazionale rinvia alla contrattazione aziendale.
In Italia, il livello contrattuale più importante è quello nazionale

I livelli della contrattazione collettiva ed il loro peso sono influenzati da dinamiche esterne ed
interne; noi non abbiamo una legge sulla contrattazione collettiva nel settore privato.
La storia della contrattazione collettiva in Italia, ossia dell’ordinamento intersindacale formatosi nei fatti
tra le parti sociali.
Cade il regime corporativo, riparte la libera contrattazione, ma esclusivamente nazionale, con una
serie di AI per regolamentare i macro istituti (commissioni interne, licenziamenti collettivi in
particolare) ed i contratti nazionali di categoria.
Negli anni 50, la contrattazione che definiamo di secondo livello (soprattutto aziendale in Italia ed
in qualche categoria (agricoltura, edilizia) anche provinciale) è pressoché sconosciuta.
Incomincia a svilupparsi la contrattazione aziendale all’inizio degli anni 60 (62, 63), la stagione
della cosiddetta contrattazione articolata, articolata fra il livello nazionale e decentrato
(soprattutto aziendale).
Le prime esperienze vengono fatte attraverso i contratti nazionali di categoria firmati sul versante
datoriale da Intersind e asap, le associazioni imprenditoriali delle imprese a prevalente
partecipazione statale, di cui abbiamo parlato con riguardo alla libertà sindacale degli imprenditori.
Furono proprio loro a firmare i primi contratti nazionali di categoria, poi seguite dalle associazioni
imprenditoriali aderenti a Confindustria, con questi, si previde l’introduzione di clausole
obbligatorie, clausole di rinvio alla contrattazione aziendale, in cambio di clausole di tregua
sindacale su materie limitate.
Era l’apertura di una breccia in un sistema che era monolitico (contrattazione collettiva nazionale).
Avviare la contrattazione aziendale significa favorire l’ingresso dei sindacati. Non fu un passaggio
indolore per le imprese. Lo introdussero proprio le associazioni datoriali per ridurre il conflitto.
La contrattazione aziendale parte con la tornata contrattuale del 62/63.
Di lì arriviamo ad una sorta di inversione ad U nel rapporto tra contratto nazionale ed aziendale, a
livello aziendale si negozia solo sulle materie oggetto di rinvio.
Il sistema salta con l’autunno caldo del 69, quando in sede aziendale vengono a costituirsi comitati
di base, poi consigli di fabbrica, ed a partire dalle aziende più grandi si inizia a negoziare su tutto
bypassando il sistema della contrattazione articolata. Non era illegittimo in quanto non vi è
violazione di alcuna norma di legge, si tratta però di inadempimento contrattuale.
Nessuno ha più messo in discussione il fatto che a livello aziendale si potesse negoziare su tutto.
Abbiamo in Italia un sistema privo di regolamentazione.
La contrattazione collettiva non è affatto monolitica, troviamo aziende nelle quali si contratta su
tutto, alcune nelle quali si contratta su niente (medio piccole), ed altre dove si contratta solo su
alcune materie.
È un mondo a sé, senza regole fisse. Sistema italiano anni 70-80

Ad inizio anni 90 i nodi vengono al pettine, si comincia a guardare all’ingresso nell’euro, poi il solito
problema del deficit pubblico, l’inflazione è minore rispetto a quella di fine anni 70.
In questo contesto si incomincia a ragionare per una organizzazione del sistema contrattuale, le
caratteristiche attuali erano:
- forte appiattimento salariale (differenze tra retribuzioni dei diversi livelli professionali di
inquadramento molto ridotte)
- effetto del forte peso dell’automatismo della scala mobile, meccanismo con il quale si
determinava l’indennità di contingenza
- mancava una struttura organizzata della contrattazione collettiva
- forme di rappresentanza dei lavoratori in azienda, c’erano le RSA ma vi era il problema della
frammentazione e l’esigenza di unitarietà.
- problema dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi.

Inizia una lunga trattativa tra governo e parti sociali, è la fase più importante della cosiddetta
concertazione sociale.
Già negli anni 80 avevamo avuto momenti molto significativi, ma il 1992/1993 rappresentano le
due tappe di gran lunga più importanti. (guarda caso, solo governi tecnici, Giuliano Amato)
Quel governo raggiunge il primo accordo sulla riforma del sistema della contrattazione collettiva, è
un accordo ancora parziale, perché contiene più la pars destruens rispetto al sistema precedente
che non la pars construens che avremo l’anno dopo con il governo Ciampi.
Pars destruens  viene superata l’indennità di contingenza, per i sindacati molto traumatico, in
quanto garantiva la rivalutazione delle retribuzioni all’aumentare del costo della vita. Però, come
spiegato dagli economisti, questo sistema alimentava aspettative inflazionistiche perché
aumentava il costo dei beni, quello delle retribuzioni, e di conseguenza di nuovo i prezzi dei beni,
una sorta di spirale a crescere. Togliere l’indennità di contingenza però significa non difendere il
valore reale delle retribuzioni. Si previde quindi nell’accordo del 1992 che dovesse essere di lì a
breve individuato un nuovo meccanismo per la tutela delle retribuzioni, però non un meccanismo
automatico, perché è l’automatismo che produce aspettative inflazionistiche. Doveva essere
elaborato un nuovo sistema 
Pars Construens  1993, luglio; governo assolutamente tecnico presieduto da carlo azeglio
ciampi già direttore Banca d’Italia e poi P.d.R; ministro del lavoro gino giugni, che aveva
esperienza nel partito socialista ma nominato come tecnico dato che era il principale giuslavorista
della seconda metà del secolo scorso.
Accordo Ciampi Giugni 1993  questo accordo di concertazione sociale contiene delle parti che
regolamentano i rapporti tra le parti sociali e quindi natura contrattuale obbligatoria, ed in altre
invece degli impegni del governo con valore/natura politica.
È evidente però che gli impegni del governo e delle parti sociali si tengono tra di loro, le parti
sociali si impegnano a fare certe cose a fronte del mantenimento degli impegni presi dal governo.
Gli impegni presi dal governo sono:
- art 2, assetti contrattuali  prevedono un contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria; un
secondo livello di contrattazione aziendale o alternativamente territoriale laddove previsto,
secondo l’attuale prassi nell’ambito di specifici settori.
- distribuzione di competenze  i due livelli devono essere organizzati  il contratto nazionale di
categoria è il fulcro del sistema  la contrattazione di secondo livello deve intervenire sulle
materie oggetto di rinvio dal contratto nazionale; materie non definite dalla contrattazione
nazionale; forme di retribuzione variabile (premi, legati alla produttività o redditività); materie sulle
quali la legge prevede che possa intervenire la contrattazione di secondo livello.
Era considerato normale che la contrattazione aziendale potesse intervenire su una serie di
materie (fra cui, e soprattutto, crisi di impresa, come con i contratti di solidarietà)
Il risultato cui vogliono pervenire le parti sociali è che la contrattazione di secondo livello sia in
qualche modo una contrattazione controllata dalla contrattazione nazionale, una contrattazione
che si inserisca nel solco di questa. Senza che questa prendesse derive che in quella fase storica
potessero portare ad un incremento del costo del lavoro.
Per quanto riguarda la competenza della contrattazione di secondo livello si tratta di un sistema
organizzato dalle parti sociali con il supporto del governo.
Con riguardo al profilo del superamento dell’indennità di contingenza, il modello alternativo è la
durata soltanto biennale del contratto collettivo aziendale per quanto riguarda la parte economica.
Prima di allora, il contratto collettivo aveva durata triennale (ma nei fatti, raramente veniva rinnovato, si
arrivava anche a 3.5/4 anni dato che c’era l’indennità di contingenza).
Dato che questa ora non c’era più, i contratti collettivi vanno rinnovati, per la parte retributiva, in
modo più ravvicinati, tenendo conto di un meccanismo procedurale non automatico che vede i
sindacati partecipare alle principali decisioni del governo in tema di politiche economiche (oltre che
del lavoro)
Politica economica nel senso che il documento economico di programmazione (legge di bilancio)
presentato dal governo, deve essere condiviso/concertato con le parti sociali, in particolare
sull’aspetto del tasso di inflazione programmata, cioè, il governo assume l’impegno di sentire le
parti sociali (sindacati ed associazioni imprenditoriali) prima di determinare il tasso di inflazione
programmata. Questo vuol dire che viene programmata l’inflazione che dovrà aversi per l’anno
successivo (che potrà discostarsi da quella reale).
Con la retribuzione questo c’entra perché le parti sociali si impegnano nei rinnovi contrattuali
biennali di determinare le retribuzioni tenendo conto dell’inflazione programmata, del differenziale
tra inflazione programmata ed inflazione reale nel biennio precedente, andamento del settore.
Per quanto riguarda l’andamento del settore, ci riferiamo al fatto che ci sono settori che
nell’economia vanno meglio di altri e dove possono essere vantate pretese maggiori; dopo il primo
biennio, entra in gioco il differenziale tra l’inflazione programmata e quella reale.
Rispetto all’indennità di contingenza il meccanismo non è automatico ed opera ex post, senza
alimentare aspettative inflazionistiche.
È un meccanismo endo-contrattuale con tempi più ravvicinati di rinnovo (2 anni) ed il fatto di tenere
conto dell’inflazione programmata, andamento del settore e recupero del differenziale tra inflazione
programmata e reale. Inoltre, è stata prevista una voce retributiva, la cosiddetta indennità di
vacanza contrattuale, un’indennità destinata ad operare in caso di mancato tempestivo rinnovo.
Non compre l’inflazione ma è una sorta di sanzione per il mancato tempestivo rinnovo.
Non sostituisce l’indennità di contingenza.
Perché i sindacati dei lavoratori hanno accettato una politica di auto contenimento ed
anche nuove clausole di tregua/raffreddamento? C’è stata da un lato una presa di coscienza
dei problemi che l’Italia aveva; dall’altro lato la concertazione sociale ha consentito ai sindacati di
avere una sorta di ruolo politico latu sensu, oltre che di partecipazione al “processo” (in senso atecnico) di
determinazione della varie decisioni in materia di politica economica e l’attribuzione di una sorta di
rappresentanza generale (in senso atecnico), venivano sentiti come se rappresentassero tutti, era un
riconoscimento di un ruolo importante fatto dal governo.
Il sistema tiene finché le rappresentanze sindacali a livello aziendale sono in linea con le posizioni
del sindacato esterno, e questo dovrebbe spiegare meglio le RSU ed il terzo riservato.

La concertazione si allenta negli anni 90, se ne parla poi nel “libro bianco” nel 2001, ma è un
dialogo sociale, ci si confronta ma le maggioranze politiche vanno avanti lo stesso.
C’è da dire che la riforma Biagi del 2003, che vedremo nel secondo semestre, rispetto alla riforma
Fornero 2012, e Renzi 2015, sembra “acqua di rose” perché introduce varie tipologie contrattuali,
non si toccarono minimamente i poteri del datore di lavoro ed in primis la tutela contro i
licenziamenti.
Ogni stagione fa storia a sé, fa sorridere pensare come dal 2003 al 2015 sembra siano passati
decenni in tema di politica del diritto, ci sono aspetti di continuità che vedremo meglio, ma nella
riforma Biagi troviamo una serie di rinvii dalla legge ai contratti collettivi (anche aziendali) anche in
funzione di completamento/deroga, molto maggiori che in precedenza e quindi, quell’apertura alla
contrattazione di secondo livello grazie alla legge, che anche l’accordo tripartito opera, si è molto
dilatata.
In quegli anni (early 2000) si supera la concertazione sociale, l’inflazione è decisamente diminuita
(arriviamo quasi vicini allo 0), però è chiaro che nel momento in cui la concertazione sociale non
c’è più, il meccanismo dell’inflazione programmata e del recupero del differenziale tra
programmata e reale non tiene più. Si comincia a discutere di rivedere le regole di quell’accordo.
In particolare, nel resto d’Europa, avevano incominciato a discutere dell’importanza della
valorizzazione della contrattazione collettiva di secondo livello; da noi non è stato così a lungo per
diverse ragioni, al di là delle maggiori aperture e varie stagioni come autunno caldo; il sistema
produttivo italiano è un sistema caratterizzato soprattutto da PMI e nelle piccole medie imprese, la
presenza sindacale è minore e di conseguenza anche la contrattazione aziendale.
Ci sono ragioni storiche e pratiche che hanno portato a non scommettere troppo sulla
contrattazione aziendale da parte dei sindacati, per il rischio di avere aziende le quali a fronte di un
contratto nazionale indebolito, non fanno contrattazione aziendale.

Le cose diventano ancora più “urgenti” quando nel 2008 ci troviamo immersi nella grande crisi
finanziaria che ha condotto i propri effetti sulle imprese provocando una serie ampia di crisi
aziendale.
Questo ha portato ad affrontare un’emergenza che porta a licenziamenti collettivi, alla necessità di
ridurre di nuovo il costo del lavoro, la giurisprudenza reagisce con le letture ex art 36 Cost, e si
comincia a discutere della revisione di quell’accordo.
Fase in cui si rompe però più che in altri momenti l’unità sindacale, CGIL da una parte, CISL UIL
dall’altra. CISL e UIL firmano con Confindustria un accordo quadro, 22/01/2009, sulla riforma degli
assetti contrattuali (stessa terminologia accordo 1993). Accordo quadro cui conseguiranno una
serie di AI che lo attuano nei diversi settori.
Non abbiamo detto che le regole di questo accordo del 2009 (come quelle del 1993, e come quelli
del 2011, 2013, 2014) sono pur sempre regole di fonte contrattuale, e quindi, sono clausole
obbligatorie, il loro inadempimento determina responsabilità contrattuale, ma il problema, come per
il mancato rispetto delle regole sull’RSU, si sposta sul piano politico-sindacale; se un sindacato
non rispetta le clausole di raffreddamento, la parte datoriale non rispetterà per ripicca quelle di
determinati istituti. Diverse per le clausole normative, che hanno la caratteristica dell’inderogabilità
(2113).
Quindi, questo è il percorso che si è attivato in un settore, quello privato, che manca di una legge,
sull’efficacia del contratto collettivo, sulla rappresentanza...etc....
Lezione del 07/11/2023
Le soluzioni adottate con riguardo all’organizzazione del sistema della contrattazione in Italia fatte
dalle parti sociali, prima con l’accordo tripartito del 1993, crisi dell’accordo e tentativo di rivederlo.
Fine del primo decennio anni 2000 quando si rompe l’unità sindacale, la vicenda FIAT è
emblematica di questa situazione, quando sostanzialmente firma con UIL e CISL una serie di
accordi di gruppo, vicenda che porterà alla sentenza 231/2013 relativa all’art 219 statuto dei
lavoratori, uno dei momenti emblematici di questa rottura è costituito dalla conclusione dell’accordo
quadro inter confederale del 22/01/2009 cui fa seguito nel settore dell’industria l’AI 15/04/2009;
questo accordo riforma gli assetti contrattuali e quindi c’è un superamento dell’accordo tripartito
del 1993.
Innanzitutto, si ribadisce la centralità del contratto nazionale di categoria, non che l’accordo del
2009 rivoluzioni in modo categorico quello del 1993, ma fissa alcuni punti:
- cambia la durata del contratto di categoria, che passa dai 2 anni per la parte economica e 4 per
quella normativa, a 3 anni per l’intero contratto.
- venuta meno la concertazione sociale, per la dinamica degli effetti economici dei contratti
nazionali di categoria, in sostituzione del tasso di inflazione programmata, le parti individuano un
nuovo indice previsionale (punto sul quale la CGIL dissente maggiormente).
L’indice previsionale è costruito sulla base dell’IPCA (indice dei prezzi al consumo armonizzato in
ambito europeo) ma depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati.
A questo fine si prevede la costituzione di un comitato paritetico a livello interconfederale per
verificare la significatività degli eventuali scostamenti registratisi (rispetto all’indice previsionale).
In sede di rinnovo le parti applicheranno il nuovo indice previsionale tenendo conto anche di altri
elementi come l’andamento del settore.
- apertura rispetto alla contrattazione di secondo livello, in particolare quella aziendale, da
questo punto di vista abbiamo discontinuità nella continuità; la continuità sta nel fatto che gli ambiti
nei quali la contrattazione aziendale potrà svolgersi sono sempre quelli individuati dal contratto
nazionale, la discontinuità sta nel fatto che le aperture sono maggiori di prima; in particolare si
prevede (CGIL dissente) al punto 5 che per governare nel territorio situazioni di crisi aziendale o
per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’area, i contratti nazionali possono
consentire che in sede territoriale siano raggiunte intese modificative (stessa cosa dei patti in
deroga) per modificare in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti
economici o normativi disciplinati dal contratto nazionale di categoria.

Questo accordo viene superato due anni dopo dall’AI 28/07/2011, con il consenso anche della
CGIL. Si recupera l’unità sindacale per la volontà delle 3 confederazioni ad essere unite.
Le soluzioni che troviamo in questo accordo non sono sulla ripartizione delle competenze fra
contratto nazionale ed aziendale così diverse, però ci sono almeno un paio di aspetti innovativi:
- non si parla di IPCA, quindi non c’è nessun riferimento a indici o criteri per il rinnovo dei contratti
collettivi nazionali di categoria; con il risultato che è rimessa alla negoziazione
- approvazione/introduzione di un criterio maggioritario per la stipulazione ed approvazione dei
contratti collettivi aziendali.
Dunque, il contratto nazionale resta il fulcro del sistema, ha la funzione di garantire la certezza dei
trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel
territorio nazionale.
La contrattazione aziendale si esercita per le materie delegate in tutto o in parte dal contratto
nazionale di lavoro di categoria o dalla legge
Al punto 7 si prevede altresì la possibilità di contratti ed intese modificative (patti in deroga).
In particolare, si ribadisce che i contratti aziendali possono predefinire anche in via sperimentale e
temporanea specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti nazionali
e si aggiunge, nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti nazionali, al fine di gestire
situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed
occupazionale dell’impresa.
Dunque, non c’è chissà quale differenza rispetto all’AI del 2009 per le intese modificative, però,
bisogna capire che dietro il linguaggio di un accordo ci sono significati politici, il messaggio è sì
intese modificative a livello aziendale ma con procedure e limiti dei CCNL.
La novità è che per conferire efficacia generale (erga omnes) al contratto collettivo aziendale c’è
un criterio maggioritario; quindi, tale se concluso dall’RSU dato che in quanto organo collegiale
vota con maggioranza.
Nel caso di contratto concluso da RSA, questi contratti hanno efficacia generale se approvati
dall’RSA costituite nell’ambito dei sindacati che singolarmente o congiuntamente risultino
destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori
dell’azienda nell’anno precedente. In sostanza è un criterio maggioritario anche questo
Per garantire la maggiore democrazia possibile si prevede che i contratti aziendali approvati
dall’RSA.
L’efficacia generale può essere subordinata a referendum quando ne facciano richiesta entro 10
giorni dalla conclusione del contratto almeno un organizzazione sindacale espressione di CGIL
CISL UIL (firmatarie dell’accordo) o una richiesta fatta spontaneamente da almeno il 30% dei
lavoratori dell’impresa, il referendum è valido se votano almeno il 50%+1 e non è valido con la
maggioranza semplice dei votanti.
Non basta che l’accordo sia firmato dai sindacati maggioritari in azienda dato che potrebbe essere
messo in discussione dal voto espresso dai lavoratori.
C’è disparita fra RSA e RSU in quanto nel caso di RSU non c’è la possibilità del referendum,
questo significa che l’AI intende incentivare la costituzione di RSU.
L’AI può conferire efficacia generale ad un contratto collettivo? NO, da qui emerge quindi lo sforzo
delle parti sociali di attribuire efficacia generale ai contratti collettivi, a condizione che siano
stipulati da sindacati maggioritari; ma senza una legge a questo risultato non si può arrivare; è il
significato politico sindacale di questo accordo che è fondamentale, rispetto all’accordo del 2009 si
è trovato il consenso di tutti perché c’è la volontà di tutti, si sono bypassati i problemi maggiori e si
è in qualche modo dato un significato precisato meglio sulle intese modificative, ma soprattutto, in
sede aziendale si è previsto quanto detto sopra rispetto all’efficacia dell’accordo aziendale firmato
da RSU/RSA.
Siamo al 28/06/2011, a distanza di un mese e mezzo avviene però la manovra di Ferragosto, che
prevede in termini di intese modificative una bella differenza; l’AI sulle intese modificative prevede
che possono esserci solo nei limiti e con le modalità previste dal CCNL; l’art 8 invece,
perseguendo finalità (ampie) su una serie di materie (ampie) il contratto aziendale può derogare in
pejus quanto vuole (ovviamente nei limiti costituzionali...etc....). C’è uno strappo rispetto
all’accordo interconfederale dato che si va ben oltre rispetto alle previsioni del contratto nazionale;
di qui, in dottrina, si è sostenuta la possibile incostituzionalità dell’art 8 per contrasto con il primo
comma dell’art 39 perché il legislatore interviene in contrasto a quanto previsto dalle parti sociali
nella massima espressione della loro libertà sindacale sugli assetti della contrattazione collettiva
L’art 8 sull’efficacia erga omnes non è in contrasto con l’AI (secondo il prof), sicuramente dice di
meno, ma non qualcosa che contrasti, dato che l’art 8 parla di efficacia generale dell’accordo
stipulato in base ad un criterio maggioritario.

Tanto è che il 21/09/2011 (quindi pochissimo dopo) viene aggiunta una postilla all’accordo di
giugno, Confindustria CGIL CISL UIL concordano che le materie delle relazioni industriali nella
contrattazione collettiva sono affidate all’autonoma contrattazione delle parti; conseguentemente
CGIL CISL UIL si impegnano ad attenersi all’AI del 28/06/2011 applicandone completamente le
norme e facendo sì che tutte le loro strutture si attengano all’AI.
Questo spiega perché ancora adesso, quando in sede aziendale ci si siede ad un tavolo negoziale
e si parla di patti in deroga/intese modificative, guai se il datore di lavoro richiama l’art 8,
soprattutto per la CGIL.
Per altro, nei fatti, non troppo spesso ma neanche così poco, vengono stipulati accordi in deroga
anche al di là di quanto previsto dal CCNL, facendo leva sull’art 8, anche se non lo si menziona.
Quindi l’art 8 formalmente è un taboo ma qualche volta viene utilizzato.

2013 e 2014
Nel 2013 abbiamo un altro AI unitario in tema di RSU, è quello che sostituisce l’accordo del
dicembre 1993 che faceva seguito all’accordo tripartito del luglio 1993, l’accordo che conferma il
sistema dell’rsu superando la regola del terzo riservato; poi, quanto previsto negli AI 2011/2013,
viene riproposto in modo perfezionato nel T.U sulla rappresentanza sindacale, che è anche questo
un AI del gennaio 2014, che riprende e razionalizza quanto visto oggi sulla contrattazione
collettiva, rapporti contrattazione, regole generali, ed anche in materia di RSU; è attualmente il
testo vigente, che rappresenta il punto finale (per ora) che sostituisce l’accordo tripartito del 1993.
A quegli accordi ne seguono altri, sempre AI unitari, come quello del 14/07/2016, sempre
CONFINDUSTRIA CGIL CISL UIL, il quale rappresenta un’intesa delle parti per provare a sfruttare
i benefici fiscali in materia di premi di risultato.
Il legislatore in qualche occasione prevede che i premi di risultato fino a certi limiti sono esenti da
accordi o contributi o hanno un’imposizione molto bassa. La ratio di questi interventi legislativi è
quella di incentivare la previsione da parte della contrattazione collettiva di forme di retribuzione
variabile in relazione ai risultati (premi di risultato). È chiaro che mettere per un’azienda un certo
budget della contrattazione aziendale nella sezione premi significa garantire ai lavoratori risultati in
termini di retribuzione netta più alti, ma, si tratta comunque di retribuzione variabile e quindi
sottoposta all’alea del risultato.

Abbiamo poi l’accordo del 28/02/2018, cosiddetto patto della fabbrica, è un lungo testo di 15
pagine che sostanzialmente è un documento programmatico molto ampio che affronta, ancora una
volta in modo generale e talora generico, una grande quantità di problemi del lavoro, della
contrattazione collettiva; i punti di maggiore interesse sono:
- l’esigenza di una legge, passaggio importante perché a lungo i sindacati non hanno gradito un
intervento legislativo, dato dalla pluralità di soggetti, contratti pirata, corsa al ribasso; fattori che
mettono in difficoltà anche CGIL CISL e UIL, si invoca l’evocazione di criteri per la misurazione
della rappresentatività dei sindacati ammessi alla contrattazione nazionale di categoria non solo
per i sindacati di lavoro ma anche per le associazioni datoriali, dato che anche qui ne nascono
nuove (soprattutto per le cooperative)
- conferma del doppio livello di contrattazione, favorendo il collegamento tra retribuzioni e
produttività.
- esigenza di un intervento legislativo per il conferimento dell’efficacia erga omnes stipulati dalle
associazioni maggiormente rappresentative
- conferma di una ritrovata unità di azione
Il legislatore ha inciso sulla struttura della contrattazione collettiva, ma indirettamente con due tipi
di interventi.
- Quelli del primo tipo sono quelli, sempre più frequenti, della legge che da alla contrattazione
collettiva non solo nazionale la possibilità di completare norme di legge e di derogarle.
- Art 8, ma non stabilisce i criteri per individuare i soggetti più rappresentativi, le competenze dei
livelli, l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, non regolamenta i rapporti tra i diversi livelli della
contrattazione collettiva, se non con l’art 8 della manovra di ferragosto.
Noi abbiamo visto soprattutto le competenze dei vari livelli, ma nell’accordo tripartito del 1993 e poi
negli AI 2013/2014 la possibilità per il contratto aziendale di derogare quanto previsto dal
nazionale; ma siamo al di fuori di norme di legge.
Andiamo a valutare il problema, non tanto dei raccordi (rinvii) tra contratti collettivi di diverso livello,
ma il problema dei rapporti; se le previsioni di un contratto sono peggiorative/migliorative rispetto a
quelle di un altro contratto, la legge non dice quale prevale, (se non nell’art 8 ma che riguarda un
caso particolare) e come risolviamo questo problema?
Nel rapporto tra contratti collettivi dello stesso livello il problema non si pone; sono fonti dello
stesso livello.
Il contratto nazionale successivo può contenere deroghe peggiorative rispetto al contratto
nazionale precedente? Sì, ma non può incidere sui diritti quesiti (già maturati/acquisiti dal lavoratore).
Nel rapporto tra contratti collettivi di diverso livello quale contratto collettivo prevale?
La legge lo dice solo con l’art 8 manovra di ferragosto (solo accordi prossimità su finalità sulle
materie indicate e stipulate con le condizioni ivi previste) ma non è norma generale, è norma
speciale che disciplina questa singola ipotesi.
La risposta al problema ancora oggi non è certa, la giurisprudenza si è pronunciata accogliendo
varie soluzioni, sia favore della regola in pejus, sia nel senso contrario.
La giurisprudenza, in mancanza di norma di legge, ha optato per la possibilità del contratto
aziendale di derogare in pejus quello aziendale e lo ha fatto attraverso le seguenti argomentazioni:
- criterio di specialità  il contratto collettivo aziendale che disciplina in modo più specifico un
determinato istituto prevale su quello generale (nazionale, lex specialis derogat lex generalis)
- criterio della prevalenza dell’ultimo contratto, posteriorità nel tempo  siccome i contratti
collettivi anche di diverso livello sono sempre contratti collettivi, prevale l’ultimo
- teoria del mandato ascendente  cioè, secondo alcune sentenze, prevale il contratto
aziendale perché sono le associazioni territoriali che si iscrivono a quelle nazionali, quindi, il
mandato dei lavoratori è relativo alle associazioni territoriali, che a loro volta si iscrivono a quelle
nazionali, e quindi prevale
- contratto aziendale non può derogare in pejus a quello nazionale
- teoria del favor  tesi diametricalmente opposta prevale il più favorevole per il lavoratore
- teoria del mandato discendente  alcune sentenze sostengono che le associazioni di
categoria a livello nazionale siano gerarchicamente sovraordinate rispetto a quelle di livello
territoriale e quindi, il mandato è discendente e non ascendente.

La stessa corte di cassazione dagli anni 70 in poi ha accolto tutte queste teorie, fra cui un’altra
ancora, l’unica che convince il prof, che fa leva sul principio di libertà sindacale, che vuol dire
anche ma soprattutto libertà di organizzare il sistema contrattuale, e quindi, i criteri per risolvere i
conflitti tra contratti collettivi di diverso livello vanno trovati nella stessa contrattazione collettiva,
cioè in quelle norme organizzative del sistema contrattuale nel suo complesso, vale a dire, negli
accordi interconfederali.

Interpretazione delle previsioni del contratto collettivo


La giurisprudenza richiama le norme sull’interpretazione del contratto, dato che il contratto
collettivo non è una legge. Anche se per come abbiamo visto, per come è strutturato assomiglia
più ad una legge.
Le norme per l’interpretazione del contratto non sono così dissimili dalle norme dettate per
l’interpretazione della legge; ricordiamo che si interpreta innanzitutto del:
- criterio letterale
- intenzione dei contraenti
- comportamento delle parti
- interpretazione complessiva, clausole si interpretano le une per mezzo delle altre
- interpretazione secondo buona fede
Rispetto alla legge, non può essere invocato il principio dell’analogia con contratti collettivi diversi,
l’unico caso in cui vengono richiamati CCL diversi è con riguardo alla retribuzione equa e
sufficiente, non solo dei s.c.r, ma anche di contratti collettivi applicati in categorie diverse ma affini.
Il divieto di analogia resta.
In sede processuale capita qualche volta che ai fini dell’interpretazione il giudice senta come
informatori i soggetti che hanno firmato il contratto collettivo per trarre elementi di convincimento,
però naturalmente l’interpretazione va tenendo conto del comportamento concludente delle parti;
esiste anche un istituto possibile che potrebbe aiutare ma che pochissimamente porta a risultati
favorevoli, ossia l’istituto dell’interpretazione autentica, data dai soggetti che hanno firmato quel
contratto; nell’esperienza da avvocato del prof in Trento nel settore pubblico, non è mai riuscito,
perché in realtà molto spesso le parti (sindacati, ma a volte anche parte datoriale) cercano di
ottenere dal giudice quello che non hanno ottenuto al tavolo negoziale, quindi l’interpretazione
autentica è difficilmente da raggiungere ed è tale solo quando sono tutti i soggetti firmatari del
primo contratto a firmare l’interpretazione autentica. Qui si pone un altro problema.
L’interpretazione se arriva, arriva dopo diverso tempo, ed ha efficacia ex tunc, se fosse ex nunc
non sarebbe più autentica. A volte dietro le vesti dell’interpretazione autentica si nasconde un
contratto innovativo. Questa vale per cui sia davvero un’interpretazione su qualcosa di controverso
ed a patto che non intacchi diritti quesiti.

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