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CAPITOLO 1= il sindacato dalle origini alla Costituzione

La nozione di diritto sindacale

Il diritto sindacale ha ad oggetto l’organizzazione dei sindacati intesi come associazioni volontarie
dei lavoratori e l’attività/l’azione sindacale. Al diritto sindacale si affianca il diritto delle relazioni
industriali che attiene alle interrelazioni tra le oo.ss e i datori di lavoro e le loro organizzazioni. In
entrambi i casi sono centrali gli istituti del contratto collettivo e lo sciopero, oltre alle altre forme di
azione e lotta sindacale.
Il diritto sindacale italiano, oltre a dedicarsi alla gestione dei rapporti individuali di lavoro,
storicamente ha svolto anche un ruolo importante nell’area del diritto pubblico dell’economia. Si
tratta della cd concertazione, fenomeno e dinamica a carattere anche politico, in cui il sindacato
assume un ruolo nella gestione pubblica dell’economia e partecipa all’esercizio dei poteri dello
Stato, divenendo parte e di atti giuridici di cui non è l’unico autore.
Il diritto sindacale (non ovviamente quello delle relazioni industriali) si occupa coerentemente
anche della cd sindacalizzazione dei pubblici dipendenti. Salvo registrare in quella sede un diverso
ruolo della legge anche in ragione di precisi vincoli costituzionali (art 97 cost).
Sindacalizzata deve ormai ritenersi anche una parte del lavoro autonomo (ad es i cd riders), in
special modo quella che si pone al confine con il lavoro subordinato e dunque ne eredita quasi per
osmosi necessità, urgenze, e conflittualità.
Questo complesso intreccio di rapporti è stato ritenuto dalla nostra Costituzione meritevole di
normative di attuazione. Ma il legislatore ordinario non ha dato attuazione agli artt. 39 e 40 cost.
Per cui manca una compiuta disciplina legislativa in tema di: costituzione delle associazioni
sindacali, organizzazione e rappresentanza sindacale, contratto collettivo e contrattazione
collettiva nell’impiego privato, e sciopero in generale ad eccezione dei servizi pubblici essenziali

L’origine del sindacato


Aggregazioni di interessi collettivi sono con ogni probabilità sempre esistite, pur avendo preso
forme nel tempo molto diverse.
È soltanto con la rivoluzione industriale (la «prima» nella seconda metà del Settecento dovuta
all'avvento della macchina a vapore, ma soprattutto la «seconda» nella seconda metà
dell'Ottocento con l'elettricità, innescata dall'impiego di petrolio e prodotti chimici) che prendono
avvio quelle profonde trasformazioni economiche e sociali, dovute alla produzione in serie nelle
fabbriche, che generano l'esigenza di una disciplina ad hoc del contratto di lavoro per proteggere
le masse sopraggiunte dalle campagne in cerca di lavoro nei centri industrializzati (il cd.
proletariato), stante la palese inadeguatezza del diritto comune dei contratti basato sulla eguale
posizione di potere negoziale delle parti. Al lavoro veniva infatti applicato per analogia il contratto
di locazione, ed il contratto di lavoro veniva assimilato alla locazione di opere.
Per effetto del diffondersi del metodo di produzione capitalistico, montava nella società cd.
liberale il conflitto fra gli interessi contrapposti di chi deteneva i mezzi di produzione e di chi era
costretto per vivere a lavorare alle condizioni spesso inumane imposte dal contraente forte e si
diffondeva ovunque in Europa la cd. questione sociale. Ne conseguì la prima legislazione sociale di
ordine pubblico, detta anche di polizia del lavoro (limiti in tema di occupazione delle donne e dei
fanciulli e di orario di lavoro, prima tutela contro gli infortuni).
II sindacalismo si dimostra efficace in termini di ri-equlibrio delle forze; la coalizione sindacale,
prima spontanea poi stabile, può infatti contrapporre al monopolio dei mezzi di produzione il
monopolio della forza di lavoro, per strappare con il contratto condizioni migliorative rispetto a
quelle cui potrebbe ambire il singolo lavoratore.
L'associazionismo operaio mette a punto i tradizionali strumenti del concordato di tariffa e dello
sciopero. Specie lo sciopero viene inizialmente contestato dal pensiero liberale, che lo vede come
distorsione del mercato, ma non era ben visto neppure dallo Stato a ragione della presunta
connessione con movimenti politici eversivi dell’ordine pubblico.
Nonostante l’opposizione il sindacalismo andò affermandosi in tutta Europa e anche in Italia
presto assunse una capacità di interlocuzione con i pubblici poteri, oltre che con i datori di lavoro.
Il sindacato nel periodo pre-corporativo
Nel periodo pre-corporativo (1870-1926) il sindacato si avvale principalmente dello sciopero o
astensione collettiva dal lavoro. Nel sistema liberale lo sciopero era mal visto al punto da essere
considerato reato. Dopo l'Unità d'Italia, venne esteso a tutto il territorio nazionale il codice penale
sardo del 1859, il quale, all'articolo 386, reprimeva «tutte le intese degli operai allo scopo di
sospendere, ostacolare o far rincarare il lavoro senza ragionevole causa».
Nel 1889, con l'entrata in vigore del nuovo codice penale (cd. Codice Zanardelli), fu abrogato il
reato di sciopero, quando si svolgeva, ai sensi degli articoli 165 e 166 senza «violenza o minaccia».
Ma la giurisprudenza dell'epoca interpretò tale espressione, conferendole una funzione repressiva.
Una volta depenalizzato ed anche quando il movimento sindacale fu maggiormente diffuso,
sciopero libertà, pur essendo consentito (facoltà) comportava un rischio per il lavoratore; infatti
sul piano civilistico del rapporto sinallagmatico fra prestazione e controprestazione, lo sciopero
consisteva in un inadempimento contrattuale un inadempimento dell'obbligazione di lavorare, con
possibili conseguenze disciplinari (non economiche visto che i lavoratori erano per lo più nulla
tenenti) e, comunque, veniva represso, soprattutto a livello aziendale, con varie forme di
intimidazioni e di rappresaglie.
Anche la strada per l'affermazione del contratto collettivo non fu certo facile. Con il contratto
collettivo, originariamente, venivano soltanto determinate le retribuzioni minime (cd. concordato
di tariffa). Il contratto collettivo non era né previsto né regolato dalla legge.

Pertanto, anche i suoi effetti erano quelli propri del diritto comune dei contratti. Di qui
l'impossibilità di estendere l'efficacia del contratto collettivo ai singoli lavoratori non iscritti al
sindacato stipulante, secondo la regola generale del diritto comune, tuttora vigente, per cui il
contratto ha effetto soltanto per i soggetti che ne sono parti (cfr., ora, art. 1372 Cod. civ.). Inoltre
secondo il diritto comune il contratto collettivo poteva essere validamente derogato con un
accordo o patto individuale di lavoro, anche se questo avesse previsto condizioni meno favorevoli
per il lavoratore. E questo minava alla radice la stessa funzione dell' istituto e del sindacato.
Nondimeno la rilevanza giuridica del fenomeno sindacale venne colta e valorizzata dalla
giurisprudenza dei collegi probivirali istituiti, per il settore industriale, con la legge 15 giugno 1893,
n. 295, che, nell'esercizio delle loro funzioni di equità, seppero, a volte, assegnare rilevanza alla
contrattazione collettiva, assumendola a punto di riferimento per la decisione dei singoli casi
concreti.
Tali collegi dovevano assolvere, istituzionalmente, la funzione in precedenza svolta da collegi
arbitrali costituiti per la soluzione dei primi conflitti tra capitale e lavoro originati dalla rivoluzione
industriale: i collegi dovevano mirare soprattutto alla composizione amichevole delle controversie
di lavoro ma ben presto, complice la sfiducia della classe operaia nei giudici e nei giudizi borghesi
divennero soggetti decisori delle controversie.
La composizione dei collegi era paritaria tra rappresentanti eletti dalle rispettive categorie degli
industriali e degli operai, mentre il Presidente, uno effettivo ed uno supplente, era nominato con
decreto reale su proposta del Ministro dell'agricoltura, industria e commercio, e scelto «fra i
funzionari dell'ordine giudiziario e fra coloro che possono... essere nominati conciliatori».
I collegi dei probiviri furono un primo esempio di giudice effettivamente specializzato che assunse
il compito di rendere esplicito quando di non plasmare dall’esperienza del caso concreto quel
diritto operaio che viveva negli accordi tra industriali e gruppi di lavoratori, nelle consuetudini,
negli usi locali.
Il sindacato corporativo
La presa del potere da parte del fascismo con la marcia su Roma dell'Ottobre 1922 ebbe
conseguenze anche con riguardo al movimento sindacale che era nel frattempo divenuto una forza
sociale e politica che si opponeva al regime. Con l'instaurazione dell'ordinamento corporativo
(legge 3 aprile 1926, n. 563), il fascismo utilizzo il sindacato come strumento per realizzare la sua
politica di ordine pubblico, cercando di assorbirne la forza ed il dinamismo all'interno
dell'organizzazione stessa dello Stato. Il Consiglio Nazionale delle Corporazioni avrebbe dovuto nel
progetto di riforma fascista dello Stato sostituire la Camera dei deputati.
Il corporativismo ne snaturò peraltro la funzione originaria, in quanto la cd. concezione
corporativa basata sull'«autogoverno dei produttori» negava l'inevitabilità del conflitto di interessi
fra datori e prestatori di lavoro e immaginava di eliminare il conflitto tra capitale e lavoro per
legge, imponendo loro di cedere ed armonizzarsi nell'interesse comune, per far prevalere
l'interesse pubblico dell'economia.
L'organizzazione sindacale corporativa si fondava sul concetto di categoria professionale, intesa
come dato preesistente e non volontario, riferito all'insieme, indeterminato e variabile, dei datori
e lavoratori che operavano nello stesso settore merceologico, a prescindere dalla loro adesione al
sindacato.
Le categorie professionali erano individuate dal legislatore in base a criteri che facevano
riferimento alle categorie merceologiche della produzione e per ogni categoria professionale era
ammesso il riconoscimento giuridico di una sola associazione sindacale dei datori di lavoro e di una
sola associazione sindacale dei lavoratori.
Solo i sindacati corporativi riconosciuti avevano la personalità giuridica di diritto pubblico e la
rappresentanza legale della categoria professionale ossia di tutti i soggetti che in essa operavano.
Di conseguenza il contratto collettivo stipulato dai sindacati corporativi era efficace nei confronti di
tutti gli appartenenti alla categoria professionale proprio perché i sindacati agivano come
rappresentanti legali di chiunque ne facesse parte, indipendentemente da una manifestazione di
volontà.
Solo in teoria, potevano essere costituiti anche sindacati non riconosciuti. Nei fatti non vennero
costituiti.

 Sia perché con il Patto di palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925 Confindustria e le
Confederazioni delle corporazioni fasciste si promisero esclusivo reciproco riconoscimento,
isolando definitivamente i preesistenti sindacati liberi, quelli cattolici come le leghe
bianche, o quelli socialisti (cgdl). L'accordo fu decisivo per il consolidamento del regime al
pari dei successivi passaggi come la Carta del lavoro del 1927 e la costituzione della Camera
dei fasci e delle corporazioni del 1939;
 sia perché ai loro iscritti si sarebbe applicato comunque il contratto collettivo corporativo.
Il contratto collettivo corporativo perseguendo interessi pubblici veniva inserito tra le fonti del
diritto (cfr., art. 1 disp. prel. Cod. civ.) ed era non solo efficace erga omnes al pari della legge ma
anche inderogabile se non a favore dei lavoratori (art. 2077 Cod. civ.).
Lo Stato poteva revocare i dirigenti sindacali designati ed esercitava poteri di vigilanza sull'attività
delle associazioni sindacali corporative.
Il sindacato dei datori di lavoro e quello dei prestatori di lavoro costituirono la «corporazione», che
doveva realizzare «l'organizzazione unitaria delle forze di produzione» (VI dichiarazione della Carta
del lavoro) e designare, insieme con il Consiglio nazionale del partito fascista, i membri della
Camera dei fasci e delle corporazioni, che sostituì la Camera dei deputati (legge 19 gennaio 1939,
n. 129).
Inoltre, il sistema corporativo prevedeva anche una speciale magistratura del lavoro in sede
collettiva, chiamata a decidere sia le controversie giuridiche collettive, sia i conflitti economici
collettivi, comprese le richieste di nuove condizioni di lavoro, ove fosse risultato impossibile un
accordo in sede sindacale.
L'azione sindacale era peraltro soffocata all'interno del sistema dirigistico. A partire dallo sciopero
che era sanzionato penalmente come anche la serrata dei datori di lavoro, in quanto costituivano
un attentato all'interesse pubblico dell'economia (art. 393 Cod. pen.).
Il sindacato nella Costituzione repubblicana
Con la caduta del regime fascista furono soppresse le corporazioni (d.l. 9 agosto 1943 n 721) ed i
sindacati corporativi (d.l 23 novembre 1944 n 3). Furono invece mantenuti in vita i contratti
collettivi corporativi per non lasciare privi di regolazione i lavoratori cui si applicavano.
I sindacati, liberi nuovamente di rappresentare e perseguire gli interessi dei lavoratori, ripresero il
loro ruolo nella società. Ripartirono le negoziazioni di contratti collettivi. Vennero nuovamente
proclamati scioperi. Il tutto in un contesto di regolazione assimilabile al periodo cd liberale pre-
corporativo
Finchè il 1 gennaio 1948 entra in vigore la costituzione italiana repubblicana, dove rinveniamo due
fondamentali disposizioni di diritto sindacale nettamente contrapposte rispetto alla concezione
corporativa appartenuta allo statalismo fascista.
Art 39: l’organizzazione sindacale è libera (anche art 18)
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o
centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a
base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in
proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti
gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
Art 40: il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano.

CAPITOLO 2= libertà e organizzazione sindacale


Le implicazioni del principio di libertà sindacale
Il diritto sindacale italiano si fonda sul principio di libertà sindacale sancito al comma 1 art 39 cost,
principio di libertà che è declinato in favore dell’organizzazione sindacale. Tale principio a
differenza delle altre disposizioni dell’art 39 cost è stato ritenuto di immediata applicazione, senza
necessità di attendere una legge sindacale di attuazione.
La dottrina (dell’Olio, Persiani) ne fa discendere che, al contrario di quanto avveniva durante
l’ordinamento corporativo, l’organizzazione sindacale post costituzionale può essere portatrice
esclusivamente di interessi privati e non di interessi pubblici (cd funzionalizzazione). Interessi
privati fisiologicamente contrapposti a quelli invece perseguiti dal sistema produttivo capitalistico,
che pure è stato accolto in Costituzione, la cui libertà di azione trova del resto anch’essa
protezione nell’art 41 cost comma 1 (l’iniziativa economica privata è libera) sia pure con le
limitazioni importanti del comma 2 ‘’non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo
da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La garanzia della libertà sindacale comporta anzitutto:

 libertà di costituire organizzazioni sindacali all’interno di una categoria professionale,


senza doversi necessariamente attenere ad una perimetrazione definita autoritativamente
(contra l’art 2070 cc secondo il quale il contratto collettivo corporativo doveva trovare
applicazione a tutti gli appartenenti alla categoria professionale da individuare ‘’secondo
l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore’’)
 libertà di iscriversi ad un sindacato liberamente scelto sulla scorta soltanto delle proprie
volontarie convinzioni
 la cd libertà negativa, ossia la libertà di non sindacalizzarsi (sono dunque invalide le cd
closed shop)
Ma la libertà sindacale si irradia anche su altri versanti fino a tutelare con una speciale protezione,
insieme l’organizzazione, anche l’azione e poi gli atti del sindacato (dell’Olio)
Allo stesso tempo però la libertà sindacale soffre limitazioni in specifici ambiti nei quali è
necessario contemperare e bilanciare esigenze costituzionali altrettanto fondamentali (es i militari
o con minore rigore gli appartenenti alle forze dell’ordine ed alla Polizia di Stato o ad es. i
marittimi)
La legge sindacale di attuazione dell’art 39 cost comma 2 e ss.
Sono molteplici le ragioni della mancata attuazione individuate dalla dottrina.
Fra queste, memori della esperienza fascista, certamente:

 il ripudio della concezione dirigista del sindacato, e la ritrosia a sottoporsi a controlli


pubblici (la registrazione del sindacato, per l'acquisto della personalità giuridica, utile a
stipulare ccn efficaci eraa omnes. presupponeva un controllo dell'autorità governativa
amministrativa, sulla condizione dell'ordinamento interno a base democratica);
 l'idea che primo comma e restante parte della norma fossero in insanabile contraddizione;
 l'incertezza sulla possibilità di garantire comunque un «doppio canale» della
contrattazione;
 la diffidenza dei sindacati minoritari, perché in caso di dissenso tra sindacati registrati o si
adottava il metodo della maggioranza o quello dell'unanimità, che però significava potere
di veto.
Fatto è che il sistema sindacale ha così convissuto e convive con l'attesa di una legge sindacale
sulla rappresentanza sindacale e sulla contrattazione collettiva.
Questo ha da un lato sviluppato il carattere pluralista del sistema sindacale.
Dall'altro ha visto di volta in volta i vari progetti attuativi doversi confrontare con le strettoie
disegnate dall'art. 39 Cost.

La nozione di interesse collettivo


L’azione del sindacato, quando stipula il contratto collettivo o quando proclama uno sciopero, è
destinata alla realizzazione di interessi che non possono essere ricondotti, né a quello generale
dello Stato, né a quello individuale del singolo lavoratore, né tanto meno come durante
l’ordinamento corporativo l’interesse pubblico della categoria professionale.
Superato l'ordinamento corporativo il contratto collettivo espressione della libertà sindacale va
ricondotto al cd. diritto comune o privato. La Costituzione e poi la legge assegnano al sindacato il
ruolo di definire e poi perseguire l'interesse collettivo, inteso come interesse del gruppo o della
coalizione sindacale. In tal senso l'interesse collettivo può essere accostato a quegli interessi
esponenziali dei gruppi, non individuali, cui l'ordinamento giuridico attribuisce rilevanza giuridica,
nonostante restino interessi privati. La elaborazione più fortunata della nozione di interesse
collettivo si rinviene in F. Santoro- Passarelli per il quale il termine organizzazione impiegato
nell'art. 39 Cost. «significa... disciplina e subordinazione degli interessi degli organizzati a quelli
dell'organizzazione». L'interesse collettivo diviene, quindi, sintesi e non somma di interessi
individuali, distinto non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente «giacché è indivisibile,
non diversamente dall'interesse generale» in quanto non può essere soddisfatto soltanto per
alcuni e non per tutti i componenti del gruppo. Questa specifica concezione tutta giocata in termini
di sovra-ordinazione era finalizzata a fondare la inderogabilità del contratto collettivo. Ma va detto
anche che questa autorevole elaborazione è stata tacciata di apriorismo, e non ultimo anche
criticata perché portatrice di una visione astratta della realtà, dove l'unico interesse reale sarebbe
quello del singolo individuo, mentre l'ordinamento si limita a dare solo una rilevanza formale alla
risultante di una dinamica procedurale (vd. nella comunione, società, ecc.). La rilevanza anche
costituzionale che l'ordinamento riconosce all'interesse collettivo dei lavoratori non va confusa
con l'interesse contrapposto delle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro (art. 18 Cost.) e, non
essendoci simmetria, non deve neppure esserci un eguale trattamento, né discriminazione nel
favore che l'ordinamento riserva all'interesse collettivo dei lavoratori.
Sindacato associazione/ sindacato istituzione
Se il sindacato è costituito liberamente da lavoratori che si associano per perseguire un interesse
collettivo privato, allora può ben dirsi che la sua forma connaturale è quella associativa. Il
sindacato di tipo associativo è ancora oggi considerato un'associazione non riconosciuta come
personalità giuridica regolata pertanto dagli artt. 36 e ss. del Cod. civ. a) b) Queste disposizioni:
assegnano un rilievo preminente agli accordi degli associati (art. 36 co.1) e dunque allo statuto e
all'atto costitutivo; consentono la soggettività giuridica, ma non l'attribuzione della personalità
giuridica C) consentono una autonomia patrimoniale (art. 37) tramite il fondo comune in cui
confluiscono i contributi sindacali degli associati e su cui si possono rivalere i terzi; affermano che
delle obbligazioni rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in
nome e per conto dell'associazione (art. 38). d) Dalla conformazione associativa del sindacato si fa
discendere il principio secondo cui l'iscrizione dei singoli al sindacato comporterebbe il
conferimento di un mandato sindacale (teoria della rappresentanza), nell'esercizio del quale
verrebbe poi sottoscritto il contratto collettivo in nome e per conto degli associati. Allo stesso
tempo si assiste però anche ad una diversa organizzazione del sindacato che, soprattutto a livello
aziendale, si è organizzato anche mediante strutture sindacali di tipo istituzionale, ossia, costituite
non già su base associativa, ma ad esempio liberamente elette dai lavoratori interessati e attive
nell'interesse non solo degli iscritti o dei votanti, ma di tutti i lavoratori i cui interessi sono
coinvolti. Tutte e due le modalità di «organizzazione sindacale» (genus) godono della libertà
sindacale (art. 39.1 co. Cost.) che non si limita del resto a garantire soltanto l'«associazione
sindacale» (species).

Quello che conta nel modello associativo è che, in ogni caso, sia rispettato il metodo democratico
e garantiti la contendibilità e l'eventuale rinnovo della governance sindacale. Dal punto di vista
strutturale di norma abbiamo una rappresentazione piramidale, il cui vertice è costituito dal
sindacato nazionale della categoria merceologica o del settore della produzione (cd.
Confederazione). Anche se le categorie professionali non sono più predeterminate dalla legge o
dalla autorità amministrativa, ma liberamente determinate dagli stessi sindacati. Ciascun
sindacato nazionale è poi articolato in Federazioni di base che rappresentano i lavoratori ai livelli
territoriali e a livello aziendale. Il rapporto tra Confederazione e Federazioni è solitamente
gerarchico e di continenza, ma può essere anche di tipo paritario e federativo. Per ogni settore o
categoria esistono una pluralità di organizzazioni sindacali. Le <> O.S. storicamente sono: la
Confederazione Italiana Generale del Lavoro (CGIL); la Confederazione Italiana Sindacati Liberi
(CISL); la Unione Italiana Lavoratori (UIL). Queste tre organizzazioni sindacali nel corso degli ani '60
hanno intrapreso un processo promosso dalla base tendente alla loro federazione (cd. unità
sindacale). Tale processo, sull'onda lunga dell'approvazione dello Statuto dei lavoratori, approdò il
3 luglio 1972 alla Federazione CGIL, CISL, UIL che riuniva pariteticamente i tre sindacati confederali
italiani CGIL CISL e UIL. Questo complesso processo, che si intreccia a doppio filo con le vicende
storiche e politiche del Paese, rimase di fatto incompiuto, salvo esaurirsi negli anni ottanta in
conseguenza del cd. Decreto Legge « di San Valentino» del 14/2/1984 conv. con I. n. 219/1984 che
taglio di 3 punti% la scala mobile. Oltre alla cd. triplice ne sono state costituite altre come l'Unione
Generale del Lavoro (UGL), o la Confederazione Italiana dei Sindacati Autonomi dei Lavoratori
(CISAL). Altre confederazioni e formazioni sindacali hanno rappresentatività limitatamente a
settori particolari (i Cobas, a Gilda, l'Orsa ecc.). Discorso a parte deve essere fatto per il
sindacalismo dei dirigenti e dirigenti pubblici per i quali, anzi, è stata prevista una separata area di
contrattazione, a differenza della categoria dei «quadri» direttivi (legge 13 maggio 1985, n. 190).
Allo stesso tempo è stato escluso che il requisito della maggiore rappresentatività possa essere
assegnato a confederazioni che, rappresentando una sola categoria di lavoratori (cfr. Corte cost.,
sent. 24 maggio 1988, n. 334). Specularmente, anche i datori di lavoro privati sono organizzati in
base al settore della produzione in cui operano anche se non mancano casi in cui per uno stesso
settore esiste più di un'organizzazione sindacale (ad es.: la Confindustria e l'Associazione delle
piccole industrie; la Confcommercio e la Confesercenti).
Il sindacato istituzione
Nonostante le resistenze datoriali, già nel primo dopoguerra, il sindacato, oltre ad organizzarsi
come associazione libera, viveva all'interno delle fabbriche come istituzione o coalizione
spontanea. Queste esperienze erano solitamente non prive di collegamento con il sindacato
associazione, ma anche a ragione del mancato riconoscimento datoriale, si sviluppavano in una
dimensione istituzionale. Una prima forma di sindacato istituzione è la Commissione interna
organo che agisce nell'interesse di tutti i lavoratori sulla scorta di una legittimazione elettorale
molto simile a quella politica. Ebbero un primo riconoscimento nel 1906, poi furono osteggiate nel
periodo liberale e soppresse anche nel periodo fascista, salvo poi venire ricostituite in seguito al
Patto del settembre 1943, sottoscritto fra Confindustria e CGIL unitaria. Con l'Accordo
interconfederale del 7 agosto 1947 tra la CGIL e la Confindustria, vengono disciplinate la
costituzione e il funzionamento delle Commissioni interne. Dunque con le Commissioni interne
viene prevista una struttura sindacale in rappresentanza di lavoratori e lavoratrici impiegati (sia
tecnici che amministrativi) ed operai, nei confronti della Direzione aziendale in tutte le imprese
industriali che occupino più di 25 lavoratori.

Tra le competenze delle CI:


a) controllare le assunzioni e i licenziamenti del personale;
b) interloquire con la direzione aziendale per la osservanza e l'interpretazione dei contratti
collettivi di lavoro;
c) tentare una prima conciliazione;
d) intervenire nella disciplina del lavoro (orari, turni, ferie, ecc.);
e) contribuire a determinare le varie forme di retribuzione a incentivo (cottimi, straordinari,
premi di produzione, ecc.);
f) intervenire nella qualificazione del personale;
g) controllare la piena giustificazione di ogni penalità proposta o decisa dal datore di lavoro;
h) promuovere la costituzione e controllare il funzionamento e l'amministrazione delle
istituzioni di carattere sociale dell'azienda (mense, spacci, circoli ricreativi, infermerie,
ambulatori, mutue, ecc.).
Le commissioni interne costituite esclusivamente dai lavoratori della fabbrica non sempre erano
efficacemente connesse con i sindacati associazione sebbene questi presentassero le liste per
l'elezione dei loro componenti. Senza un mandato sindacale risultava più complicato attribuire alle
Cl anche una legittimazione negoziale, tanto più che l'Al del 18 aprile 1966 per la costituzione ed il
funzionamento della commissione interna all'art. 1 escludeva una simile competenza dando atto
che la stessa era delegata alla «competenza delle rispettive organizzazioni sindacali». Nondimeno
le Cl negoziavano e firmavano accordo sindacali, che la dottrina faticava a ricondurre alla
contrattazione collettiva, mentre la giurisprudenza finì per dare sostanziale equiparazione ex art.
391 co Cost. Sempre con l' Accordo interconfederale del 7 agosto 1947 tra la CGIL e la
Confindustria, che disciplina la costituzione e il funzionamento delle Commissioni interne venne
anche previsto che se il numero dei lavoratori occupati non è superiore a 25, ma supera quello di
5, è nominato un ‘’delegato di impresa’’.
L’esperienza della CI è stata affiancata da quella dei delegati di reparto, di origine istituzionale e
spontanea. Come già le CI anche i delegati erano in molti casi riconducibili ad un sindacato
associazione, tant’è che finirono per essere previsti e regolati da numerosi contratti collettivi e
nello stesso patto federativo del 1972.
Ai delegati di reparto era affidato il compito di tutelare gli interessi di determinati gruppi
omogenei di lavoratori (un reparto o linea di produzione senza distinzioni tra iscritti e non). Il
coordinamento avveniva nel consiglio dei delegati.
La legge ha poi anche di recente previsto un’ulteriore struttura sindacale istituzionale: il
rappresentante per la sicurezza (art 47 e ss d.lgs n. 81\2008) che è eletto o designato dai lavoratori
di ciascuna azienda o unità produttiva (art 47), per concorrere all’attuazione delle misure di
sicurezza e di prevenzione, controllandone e promuovendone l’applicazione (art 50).
La partecipazione alla funzione pubblica e la concertazione sociale
Il sindacato repubblicano non è costretto a perseguire esclusivamente interessi collettivi privati,
ma storicamente è stato investito anche di funzioni pubbliche. In specifici contesti, spesso anche di
crisi, al sindacato, proprio in quanto portatore di interessi diffusi e dunque di consenso, è stato
chiesto di condividere o comunque di partecipare alla definizione delle scelte di politica economica
e sociale. Tecnicamente questo fenomeno è stato definito concertazione sociale. Il sindacato
partecipa poi in ragione di una specifica competenza che la legge di volta in volta gli riconosce alla
gestione di attività amministrative riguardanti ad es. Te politiche del lavoro, il mercato del lavoro,
o la gestione degli enti pubblici previdenziali, ad esempio designando negli organi o nelle
commissioni propri membri in rappresentanza degli interessi dei lavoratori amministrati. In molti
casi viene allora chiesto alle organizzazioni cd. datoriali di designare un numero di membri tale da
ricomporre in maniera paritaria la complessità degli interessi contrapposti. Quando il sindacato
partecipa alla funzione pubblica (pensiamo alla CIG, alle commissioni di conciliazione istituite
presso l'ITL) non muta la propria natura ma semplicemente accade che l'ordinamento ritiene che il
miglior perseguimento dell'interesse pubblico amministrato dai collegi o dalle commissioni (che
pure non si snaturano) possa realizzarsi tramite la partecipazione degli interessi specificamente
coinvolti nell'attività amministrativa. Il sindacato è chiamato a partecipare anche alla funzione
giudiziaria, il rito del lavoro, infatti, prevede che il sindacato possa rendere osservazioni o
informazioni orali o scritte, su istanza di parte o su richiesta del giudice (artt. 421 e 425 Cod. proc.
civ.).
La partecipazione del sindacato alle funzioni pubbliche avviene anche tramite la condivisione e
sottoscrizione da parte delle c.d. «parti sociali» di Patti, Accordi o Protocolli chiamati a contribuire
alla realizzazione della politica economica del Paese. La prassi della concertazione di simili atti e
premesse nasce nell'immediato dopo guerra (vd. Accordo interconfederale del 13 giugno 1941
sulla CIG; Accordo interconfederale 18 ottobre 1950 sui licenziamenti individuali, e 20 dicembre
1950 sui licenziamenti per riduzione di personale; Accordo interconfederale 29 aprile 1965 sui
licenziamenti individuali, del 5 maggio 1965 sui licenziamenti per riduzione di personale; gli
Accordi interconfederali 15 gennaio 1977 e 25 gennaio 1975 sul costo del lavoro nel settore
industria ecc.). Ma si intensifica negli anni settanta, quando, per contenere la spirale inflativa
venne chiesto alle organizzazioni sindacali di amministrare le cd. politiche dei redditi in quanto
dalla contrattazione collettiva dipendeva la determinazione del costo del lavoro (tesi della
retribuzione come variabile macroeconomica «dipendente»: per le teorie cd. monetariste I costo
del lavoro non deve crescere più della produttività e della ricchezza nazionale). Ai sindacati venne
chiesto di prendere atto responsabilmente che un «ordinato ed effettivo sviluppo del sistema
produttivo costituisce la premessa indispensabile per la migliore realizzazione non solo delle
funzioni sociali dello Stato, ma anche degli interessi collettivi e di quelli individuali dei lavoratori e,
ciò, sia per mantenere, se non incrementare, l'occupazione, sia per mantenere il potere d'acquisto
delle retribuzioni e dei risparmi» (Persiani). Ad esempio con il cd. Protocollo Scotti del 22 gennaio
1983 i sindacati dei lavoratori (CGIL, CISL, UIL) e dei datori di lavoro (Confindustria) con il Governo
arrivarono a "concertare" il contenimento del costo del lavoro. E poi anche taluni provvedimenti
su temi di interesse pubblico generale come: fiscalità, assegni familiari, assistenza sanitaria, tariffe
e prezzi, la scala mobile, orari di lavoro, rinnovi contrattuali, mercato del lavoro, cig, fiscalizzazione
degli oneri sociali.
Negli anni novanta la concertazione è stata utilizzata per supplire alla crisi di legittimazione dei
partiti Tra le finalità di questo modello detto anche neo-corporativo:

 consentire l'ingresso del nostro paese nella moneta unica europea (Accordo del 31 luglio
1992);
 razionalizzare le relazioni industriali (Protocollo del 23 luglio 1993);
 disciplinare i diritti sindacali in azienda (Accordo dicembre 1993);
 riformare le pensioni e il mercato del lavoro (Patto per il Lavoro del 24 settembre 1996,
Patto per l'Italia del 5 luglio 2002 e Protocollo su previdenza, lavoro e competitività del 23
luglio 2007); -
 istituzionalizzare la concertazione (Patto di Natale del 22 dicembre 1998);
 condividere strumenti per la gestione in sicurezza delle attività lavorative nel contesto
della pandemia Covid-19 (Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il
contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-COV-2/COVID-19 negli ambienti
di lavoro del 6 aprile 2021, che aggiorna i due Protocolli condivisi sottoscritti
successivamente alla dichiarazione dello stato di emergenza, il 14 marzo e il 24 aprile
2020, sviluppati anche con il contributo tecnico-scientifico dell'INAIL; od il Protocollo
nazionale per la realizzazione dei piani aziendali finalizzati all'attivazione di punti
straordinari di vaccinazione anti SARS-CoV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro del 6 aprile
2021).
La concertazione ha assicurato in vista della realizzazione di interessi generali il coordinamento
tra: legge, provvedimenti amministrativi e contrattazione collettiva. Questo metodo non è però
previsto dalla Costituzione né è regolato dalla legge onde il suo utilizzo non è necessario, avendo
esclusivo «valore» politico (Corte cost. n. 34 del 1985) né può esserne garantita la diretta
giustiziabilità.
Dalla concertazione al dialogo sociale (e ritorno)
Allo stesso tempo la concertazione può comportare una limitazione della discrezionalità legislativa
che la Costituzione riserva al Parlamento. Anche per questo gli anni 2000 si aprono all'insegna
della proposta del Governo di sostituire la concertazione sociale con il cd. «dialogo sociale». Nel
Libro Bianco del 2000, il Governo definisce così il metodo di «confronto basato su accordi specifici,
rigorosamente monitorati nella loro fase implementativa». L'idea è di realizzare incontri su temi
individuati di volta in volta dal Governo e rispetto ai quali le parti sociali svolgono un ruolo
essenzialmente consultivo (si pensi alla fase che ha preceduto l'approvazione della I. n. 92 del
2012). Ad es. il Patto per l'Italia del 5 luglio 2002, sottoscritto solo da Cisl e Uil senza la Cgil ad
esempio prevedeva una proposta di modifica sperimentale del campo di applicazione dell'art. 18
della legge n. 300 del 1970 in tema di licenziamento (non computo nel numero dei dipendenti
occupati delle nuove assunzioni mediante rapporti di lavoro a tempo indeterminato). Attraverso il
dialogo sociale saranno condotti molti dei negoziati bilaterali che condurranno ad esempio alla
stagione dei cd. accordi separati (ad es. Accordo separato del gennaio 2009 per il superamento
delle regole della contrattazione collettiva sancite nel Protocollo del 23 luglio 1993).

CAPITOLO 4= rappresentanza e rappresentatività sindacale.


Il problema della rappresentanza sindacale
La rappresentanza sindacale nel discorso politico-sindacale prima ancora che in quello giuridico
descrive la capacità e la competenza del sindacato di indirizzare l’azione sindacale al
perseguimento dell’interesse collettivo. Sul piano strettamente giuridico tale nozione allude al
diritto privato, dove la rappresentanza implica la capacità/potere del rappresentante di agire in
nome e per conto del rappresentato. Tale capacità/potere - ad es. di stipulare il contratto
collettivo in rappresentanza dei lavoratori iscritti al sindacato firmatario - sarebbe conferita
volontariamente dagli iscritti al sindacato con il cd. mandato sindacale. Accanto a questa
impostazione tradizionale altra dottrina ritiene invece che il sindacato, ad es. quando stipula il
contratto collettivo, utilizzi un potere che gli è originariamente proprio (cd. potere di autonomia
privata collettiva) diverso da quello che i singoli lavoratori iscritti gli possono conferire, e derivante
direttamente dall’art. 39 Cost. (Persiani). Questo spiegherebbe come anche l’organizzazione
sindacale di tipo istituzionale (es. rsa, rsu, consigli di fabbrica, consigli dei delegati, ecc.) possa
stipulare accodi collettivi aziendali senza un mandato sindacale dagli iscritti. Accanto alla
rappresentanza coesiste nel sistema anche la distinta nozione di «maggiore rappresentatività»,
che qualifica tra le altre solo alcune organizzazioni sindacali (non tutte, non quelle dotate di una
minore rappresentatività). Questa nozione rileva quando la legge deve selezionare tra sindacati,
ad esempio quelli che abilitata a concorrere alla formazione delle scelte da cui dipende la
realizzazione dell’ordine pubblico economico. Soltanto alle «organizzazioni maggiormente
rappresentative», infatti, il legislatore riconosce una posizione particolare, o attribuisce specifiche
funzioni (cd. delegate) o conferisce poteri. Più di recente il legislatore ha poi inteso risolvere il
problema della coesistenza di una pluralità di contratti collettivi sottoscritti da sindacati
«maggiormente rappresentativi» introducendo la distinta nozione di sindacati «comparativamente
più rappresentativi».

I sindacati maggiormente rappresentativi


La legge seleziona tra sindacati in base alla la maggiore rappresentatività ma non indica i criteri in
base ai quali accertare quella maggiore rappresentatività, che determina poi l'applicabilità del
regime legale di favore. L'accertamento della maggiore rappresentatività è stato perciò devoluto
alla giurisprudenza che ha escluso la necessità di una comparazione tra i sindacati e ha
generalizzato alcuni dati dell'esperienza, considerando indici della maggiore rappresentatività:
1. la consistenza numerica;
2. l'equilibrata presenza di un ampio arco di settori produttivi;
3. un'organizzazione estesa a tutto il territorio nazionale;
4. l'effettiva partecipazione, con caratteri di continuità e di sistematicità, alla contrattazione
collettiva.
Questi criteri fotografano in sostanza le tre confederazioni (CGIL, CISL ẹ UIL) ritenute da sempre
«maggiormente rappresentative» e, di conseguenza, le associazioni sindacali di categoria ad esse
affiliate (cd. rappresentanza egemonica dell'intera classe lavorativa, per cui, secondo una lettura
forzata il loro contratto collettivo, ancorché di diritto comune, avrebbe avuto efficacia generale, e
sarebbe stato inderogabile come fonte di diritto atipica). Senonché, altre confederazioni, ad es. le
cd. «autonome» o i sindacati di base, sono poi divenute in taluni settori maggiormente
rappresentative, con a volte, pericolose situazioni di paralisi delle relazioni sindacali, determinate
dal rifiuto dei tre sindacati storici di prendere parte a trattative con sindacati diversi. Allo stesso
tempo in taluni casi importanti contratti collettivi, nazionali o aziendali, sono stati stipulati soltanto
da singoli sindacati appartenenti ad una o due delle tre confederazioni storiche. Con il problema di
sapere se l'assenza della firma di un sindacato certamente maggiormente rappresentativo (e con il
maggior numero di iscritti) rendesse invalido il contratto collettivo. Tema risolto in parte dal
legislatore che ha sempre più spesso fatto riferimento agli accordi sottoscritti «da» e non «dai»
sindacati comparativamente più rappresentativi. Ed in parte affrontato anche dalle parti sociali
nella cd. autoriforma delle relazioni sindacali (cfr. l'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, il
Protocollo d'intesa del 31 maggio 2013 e il Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014)
mediante un meccanismo di misurazione della rappresentatività dei sindacati per la partecipazione
alle trattative a livello nazionale.
La rappresentanza in azienda
Il legislatore con lo Statuto dei lavoratori (I. n. 300 del 1970) ha anzitutto tentato di regolare il
delicato problema della rappresentanza sindacale in azienda. L'obiettivo duplice era sostenere il
sindacato in azienda (di qui le retoriche contrapposte de: il sindacato che entra sugli scudi della
legge, la Costituzione che varca i cancelli delle fabbriche ecc.). Ma anche individuare un criterio
selettivo per evitare la proliferazione dei soggetti sindacali titolari di specifici diritti sindacali. Art.
19. Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali. Rappresentanze sindacali aziendali
possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito: a) delle
associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b)
delle associazioni sindacali non affiliate alle predette confederazioni che siano firmatarie di
contratti collettivi di lavoro nazionali o provinciali applicati nell'unità produttiva. Nell'ambito di
aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di
coordinamento. L'art. 19 consente ai lavoratori di costituire RSA in ogni unità produttiva – sede,
stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo - con più di 15 dipendenti, delle imprese industriali
e commerciali o, comunque, nelle suddette imprese con più di 15 dipendenti nello stesso comune
e nelle imprese agricole con più di 5 dipendenti (art. 35 I. n. 300 del 1970). Le confederazioni
maggiormente rapp.ve sono dunque state valorizzate dallo Statuto per dare stabilità ed affidabilità
dei soggetti sindacali chiamati a gestire i diritti del Titolo III dello Statuto. Di contro la scelta
legislativa è stata criticata in quanto attribuiva «rendite di posizione» a favore delle associazioni
sindacali riconducibili alle confederazioni sindacali storicamente maggiormente rappresentative,
sottraendole all'accertamento di una rappresentatività effettiva e consegnando loro la egemonia
del sistema sindacale per soffocare le spinte del sindacalismo autonomo.
La re-scrittura referendaria
Le critiche al «privilegio» delle tre maggiori organizzazioni ed al sistema sindacale - accusato di
fondarsi su di una rappresentatività ormai solo «presunta» ma non più «effettiva» (men che meno
misurabile) - hanno alimentato un lungo e accidentato percorso di revisione di questa
fondamentale disposizione (rinvio). Qui va ricordato intanto il fondamentale passaggio costituito
dalle vicende referendarie del 1995. In realtà i quesiti della iniziativa referendaria popolare furono
due.
A) Quesito massimalista: Liberalizzazione delle rappresentanze sindacali - abolizione del
monopolio confederale che prevedeva: "Volete voi l'abrogazione della legge 20 maggio 1970, n.
300 'Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e della attività
sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento', limitatamente alla parte contenuta
nell'articolo 19, comma 1, e precisamente le parole: 'nell'ambito: a)delle associazioni aderenti alle
confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale;b) delle associazioni sindacali,
non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o
provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva'?»; non venne approvato stante un 50,03% di
voti NO
B) Quesito minimalista: Rappresentanze sindacali nella contrattazione pubblica: modifica dei criteri
di rappresentanza in modo che questa vada anche alle organizzazioni di base che prevedeva:
"Volete voi l'abrogazione dell'articolo 19, primo comma, lett. a) : ' a) delle associazioni aderenti
alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale;', nonché lettera b)
limitatamente alla lett. ' b)', alle parole 'non affiliate alle predette confederazioni' e alle parole
'nazionali o provinciali', della legge 20 maggio 1970, n. 300 'Norme sulla tutela della libertà e
dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme
sul collocamento'?»; venne approvato con un 62,10% di voti Sì
L'attuale norma cd. «di risulta»: Art. 19. Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali.
Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni
unità produttiva, nell'ambito:
a) [a) (...);]
b) delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati
nell'unità produttiva.
Nell'ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire
organi di coordinamento. In ogni unità produttiva possono così venire costituite più RSA, per la
possibile coesistenza di una pluralità di associazioni sindacali in possesso dei requisiti stabiliti dalla
legge. Tuttavia, i contratti collettivi hanno, a volte, previsto organi di coordinamento tra le varie
rappresentanze aziendali. La legge abilita le RSA alla contrattazione collettiva aziendale (artt. 4 e 6
I. n. 300/1970 sugli impianti audiovisivi e le visite personali di controllo) e, più in generale, a
svolgere un'attività sindacale nei confronti e nell'interesse di tutti i lavoratori occupati nelle unità
produttiva per la quale sono costituite e, a tal fine, sono destinatarie anche degli obblighi di
informazione e consultazione sindacale (ad es. art. 4, legge n. 223 del 1991 e art. 47 della legge n.
428 del 1990). Come anche le abilita a convocare l'assemblea (art. 20) o ad indire il referendum
(art. 21).

Il sindacato comparativamente più rappresentativo


L'espulsione dal testo dell'art. 19 st. lav. del riferimento alla maggiore rappresentatività presunta
non ha però risolto tutti i problemi di effettivita della rappresentanza sindacale. Anzi la perdurante
crisi della nozione di maggiore rappresentatività è stata nel tempo acuita anche dall'emergere di
casi di compresenza e contrasto di più contratti collettivi nel medesimo ambito merceologico, tutti
astrattamente applicabili allo stesso rapporto di lavoro. Questo problema (che ha avuto risvolti
patologici nella cd. contrattazionę pirata) ha indotto il legislatore ad elaborare la nozione di
sindacato «comparativamente più rappresentativo». Nozione da utilizzare per selezionare i
sindacati abilitati ad esercitare la delega di specifiche, funzioni (ad esempio, definire la
retribuzione parametro per la contribuzione previdenziale), continuando però, a salvaguardare il
pluralismo sindacale, e dunque la più ampia libertà di scelta del contratto collettivo. Questa
nozione diviene centrale quando, come fa l'art. 51 del d.lgs. n. 81 del 2015 sul c.d. riordino delle
tipologie contrattuali, la legge assegna ad alcune organizzazioni sindacali (non tutte)
«comparativamente più rappresentative» la competenza esclusiva generale (dunque ancora una
volta privilegiata) a gestire tutti i rinvii (cd. funzione delegata) che quel provvedimento fa álla
Contrattazione collettiva. Ma se la locuzione «comparativamente» imporrebbe una comparazione
effettiva (e non più presunta o presumibile) tra i sindacati «maggiormente rappresentativi»,
questo comporta anche di definire con quali criteri accertare chi è più rappresentativo, senza più
cedimenti a privilegi storici e benefici di posizione per le organizzazioni sindacali tradizionalmente
e storicamente rappresentative, ma soltanto in base ad indici oggettivamente verificabili e
contendibili (Corte cost. n. 492 del 1995).
Indici che però in mancanza di indicazioni normative ad hoc la giurisprudenza rinviene in quelli già
analizzati (vd. p. 3, slide n. 2) per accertare la maggiore rappresentatività. cialis Non a caso nel
febbraio 2018 le parti sociali hanno stipulato un Accordo Interconfederale tra Confindustria e
fabbrica) che attribuisce al Cnel due compiti rilevanti: a) effettuare una precisa ricognizione
contrattazione collettiva di categoria; dei perimetri della b) individuare i soggetti stipulanti i
contratti, nazionali dei diversi settori per verificarne l'effettiva rappresentatività sulla base dati
oggettivi; La certificazione della rappresentatività di entrambe le parti stipulanti un CCNL, si
propone l'obiettivo di contrastare il dumping, contrattuale, ammettendo alla contrattazione
soltanto soggetti realmente rappresentativi dei lavoratori e delle associazioni datoriali.
La rappresentanza in azienda dopo la sentenza della corte Costituzionale n. 231 del 2013 e il TU
del gennaio 2014.
La rappresentanza sindacale in azienda dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 231 del
2013
Per i sindacati dei lavoratori privati, l’art. 19 della legge n. 300 del 1970, nel testo risultante
dall’esito referendario (testo entrato in vigore dal 29 settembre 1995, ai sensi dell’art. 1 del d.p.r.
28 luglio 1995, n. 312), prevede tuttora che le «rappresentanze sindacali aziendali possono essere
costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito delle associazioni
sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva».
Nondimeno, numerosi sono stati i problemi suscitati dalla formulazione in questione. Riguardo ai
problemi di diritto sostanziale, è, anzitutto, da ritenere che il requisito consistente nell’essere
«firmatario» del contratto collettivo non si realizza se il sindacato si sia limitato a sottoscrivere per
adesione il contratto collettivo stipulato da altri, ma soltanto quando abbia effettivamente trattato
e definito, con la controparte imprenditoriale, il contenuto del contratto collettivo.
Così come non è legittimato a costituire RSA il sindacato che ha occasionalmente stipulato un
accordo collettivo che regola aspetti circoscritti o eccezionali del rapporto di lavoro (es.
l’utilizzazione della cassa integrazione guadagni o la mobilità), ma non sia, o non sia stato, parte
del sistema di contrattazione che detta la disciplina generale del lavoro in azienda.

In passato la Corte costituzionale aveva respinto la questione di costituzionalità sollevata in


relazione al nuovo testo dell’art. 19 della legge n. 300 del 1970, osservando che esso –
contrariamente a quanto da più parti era stato sostenuto - pur subordinando nei fatti la
costituzione della rappresentanza sindacale aziendale e la fruizione dei connessi diritti sindacali del
titolo III della legge n. 300 del 1970 alla sottoscrizione del contratto collettivo, non condizionava
affatto l’attribuzione dei diritti delle rappresentanze sindacali aziendali ad una investitura della
controparte (il datore di lavoro o la sua associazione sindacale), poiché l’attribuzione di tali diritti
derivava, in realtà, esclusivamente dalla capacità del sindacato stesso di imporsi, sul piano dei
rapporti di forza, quale interlocutore necessario, nel sistema della contrattazione collettiva (cfr.
sent. 12 luglio 1996, n. 244).
Da ultimo il criterio di selezione risultante dalla modifica referendaria è andato definitivamente in
crisi a ragione della rottura dell’unità sindacale. Ed infatti, è accaduto che nell’ambito di una
complessa e nota vertenza sindacale, l’unico requisito previsto dalla legge, consistente nell’aver
stipulato il contratto collettivo applicato nella unità produttiva, è venuto meno per la Fiom-Cgil in
quanto questo sindacato, nell’esercizio della sua libertà sindacale, non aveva sottoscritto, a
differenza di altre organizzazioni sindacali, i nuovi contratti collettivi destinati a disciplinare,
complessivamente ed in maniera articolata su più livelli, i rapporti di lavoro dei dipendenti del
gruppo FIAT dopo l’uscita di questa da Confindustria e l’abbandono della contrattazione collettiva
di categoria, ritenendo quei nuovi contratti collettivi inadeguati a realizzare la soddisfazione degli
interessi dei lavoratori.
Per effetto di queste scelte di politica sindacale, da un lato, nelle imprese di quel gruppo veniva
meno la possibilità per la Fiom-Cgil di costituire rappresentanze sindacali unitarie e, d’altro lato,
veniva parimenti escluso anche il diritto di istituire, nell’ambito di quel sindacato, RSA destinate a
godere delle prerogative previste dal Titolo III della legge n. 300 del 1970, posto che non risultava
più essere firmatario di alcun contratto collettivo applicato nell’unità produttiva.
Il contenzioso che ne è seguito ha avuto esiti opposti. Alcuni giudici hanno escluso il diritto della
Fiom-Cgil a vedersi costituire nel suo ambito RSA sulla base di una rigorosa applicazione del testo
della legge. Altri giudici, invece, avendo constatato che la Fiom-Cgil è, per tradizione e per effetto
di un costante ed efficace svolgimento dell’azione sindacale, un sindacato maggiormente
rappresentativo, sono stati indotti a tentare un’interpretazione costituzionalmente orientata della
legge e, quindi, hanno ritenuto che, quando vi fosse stata partecipazione alle trattative, il dato
formale della stipulazione diveniva superfluo o poteva essere superato.
Vi era poi chi riteneva che, a seguito delle modifiche del nostro sistema di relazioni sindacali, fosse
fondato il sospetto di illegittimità costituzionale dell’art. 19 della legge n. 300 del 1970 per
contrasto con gli artt. 2, 3 e 39 Cost..
Sollecitata da molteplici giudici del lavoro, la risposta data della Corte costituzionale è giunta alle
medesime conclusioni. Ed infatti, la Corte costituzionale con la fondamentale sentenza n. 231 del
2013, ha dapprima preso atto del «mutato scenario delle relazioni sindacali e delle strategie
imprenditoriali», all’interno del quale «dalla mancata sottoscrizione del contratto collettivo è
derivata la negazione di una rappresentatività che esiste, invece, nei fatti e nel consenso dei
lavoratori addetti all’unità produttiva». E poi concluso dichiarando «l’illegittimità costituzionale
dell’art. 19, primo comma, lettera b), della legge n. 300 del 1970, nella parte in cui non prevede
che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni
sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano
comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei
lavoratori dell’azienda».
Per arrivare a questa conclusione, la Corte costituzionale ha correttamente escluso la possibilità di
una interpretazione «meramente adeguatrice» dell’art. 19 della legge n. 300 del 1970, essendo
effettivamente insuperabile «lo scoglio del suo tenore letterale, che fa espresso riferimento ai
sindacati “firmatari”».
Nondimeno, ha ritenuto necessario il menzionato intervento, che la stessa Corte autodefinisce
come «additivo», perché «nel momento in cui viene meno alla sua funzione di selezione dei
soggetti in ragione della loro rappresentatività» ed anzi «per una sorta di eterogenesi dei fini, si
trasforma invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a
livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo», finendo per avallare «una
forma impropria di sanzione del dissenso» o, peggio ancora, per scontare «il rischio di raggiungere
un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum», il criterio che fa
riferimento alla sola sottoscrizione dell’accordo applicato in azienda «viene inevitabilmente in
collisione con i precetti di cui agli artt. 2, 3 e 39 Cost.»
Da tutta questa complessa vicenda discende l’effetto paradossale che l’unico criterio esistente oggi
per discernere le organizzazioni sindacali ai fini dell’art. 19 cit. (la partecipazione) contraddice
senza mezzi termini la sola condizione testualmente posta da quella noma (la sottoscrizione).
Senza peraltro neppure sapere se vi sia un qualche obbligo a trattare col sindacato effettivamente
(o pretesamente) rappresentativo.
Allo stesso tempo la Corte Costituzionale non ha voluto indicare una qualche predilezione in
merito al meccanismo più idoneo (elettorale, associativo, mix tra questi ecc.) a risolvere una volta
per tutte l’incertezza che ormai regna nelle relazioni industriali circa la rappresentatività sindacale,
ritenendo che questo sia compito del legislatore.
Fatto è che, una volta ritenute legittimate a costituire una RSA anche le organizzazioni sindacali
che hanno partecipato al negoziato senza sottoscrive l’accordo, il Testo unico sulla rappresentanza
del 10 gennaio 2014 ha precisato che «ai fini del riconoscimento dei diritti sindacali previsti dalla
legge, ai sensi dell’art. 19 e ss della legge 20 maggio 1970, n. 300, si intendono partecipanti alla
negoziazione le organizzazioni che abbiano raggiunto il 5% di rappresentanza», calcolato secondo i
criteri indicati nel medesimo testo unico, e che «abbiano partecipato alla negoziazione in quanto
hanno contribuito alla definizione della piattaforma e hanno fatto parte della delegazione
trattante l’ultimo rinnovo del c.c.n.l.» sempre secondo le regole introdotte dal medesimo TU del
2014. 7
L’autoriforma delle relazioni industriali e la RSU
Abbiamo già avuto modo di osservare il fenomeno della tendenza unitarietà della rappresentanza
sindacale aziendale, tendenza a suo tempo manifestata:

 nell’Accordo sul costo del lavoro del 23 luglio 1993;


 e nell’Accordo interconfederale del 20 dicembre 1993;
Tali accordi hanno infatti previsto una rappresentanza sindacale unitaria (cosiddetta RSU),
destinata a sostituire le rappresentanze sindacali aziendali (RSA) e, conseguentemente, a
subentrare nella titolarità dei diritti ad esse attribuiti (art. 4, accordo interconfederale del 20
dicembre 1993).
Senonché, in questi ultimi anni, questa tendenza all’unitarietà dell’azione sindacale ha dovuto fare
i conti con quello che è stato enfaticamente definito il tramonto o la crisi dell’unità di azione
sindacale ( es. a seguito di contratti collettivi non sottoscritti da uno dei sindacati più
rappresentativi; tra questi il più importante l’Accordo Quadro cd. separato del 22 gennaio 2009;
ovvero del cd. caso Fiat)
Nondimeno quell’unità è da ultimo stata riaffermata da alcuni accordi unitari che anche
unitariamente definiamo di autoriforma delle relazioni industriali:

 l’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011;


 il Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013;
 il Testo Unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014;
Orbene, a noi in questa sede importa soprattutto ciò che questi accordi unitari che hanno
autoriformato le relazioni sindacali, hanno riguardato direttamente anche il tema della
rappresentanza sindacale in azienda.

Vediamo come:

 la RSU può essere costituita nelle unità produttive nelle quali il datore di lavoro occupi più
di quindici dipendenti, su iniziativa delle organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle
confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo
del 31 maggio 2013 ovvero del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014.
 In concreto la costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie avviene mediante
elezioni a suffragio universale ed a scrutinio segreto, che si svolgono in collegi elettorali il
cui ambito deve essere predefinito tenendo conto della rappresentanza di ciascuna
categoria di lavoratori, e che vedono contrapporsi liste di candidati che, al loro interno,
devono anche garantire una adeguata rappresentanza di genere.
 Le liste concorrenti possono essere presentate:
 da ogni organizzazione sindacale di categoria che aderisca ad una confederazione
firmataria del Testo unico del 10 gennaio 2014;
 da ogni organizzazione sindacale di categoria firmataria del contratto collettivo
nazionale di lavoro applicato nell'unità produttiva.
Anche altre associazioni sindacali possono presentare proprie liste a tre condizioni:

 Devono essere formalmente costituite con un proprio statuto ed atto costitutivo;


 Devono accettare espressamente ed integralmente le nuove regole (id est il TU del 10
gennaio 2014, l’AI del 28 giugno 2011 e il Prot. del 31 maggio 2013);
 Devono allegare alla lista elettorale, per le aziende con oltre 60 dipendenti, un numero di
firme di lavoratori dell'unità produttiva interessata pari al 5% degli aventi diritto al voto e,
nelle aziende di minori dimensioni, perlomeno tre firme.
I seggi vengono assegnati mediante ripartizione secondo il criterio proporzionale (nelle unità
produttive che occupano fino a 200 dipendenti la rappresentanza sindacale unitaria dovrà avere
almeno tre componenti; in quelle che occupano fino a 3000 dipendenti tre componenti ogni 300
dipendenti o frazione di 300 dipendenti. Per le unità produttive che occupano oltre i 3000
dipendenti, infine, il numero dei componenti potrà ulteriormente aumentare ancorché più
cautamente soltanto nella misura di tre componenti ogni 500 dipendenti o frazione di 500
dipendenti). Ciascun candidato può presentarsi in una sola lista. Il voto è personale, segreto,
diretto ed avviene su scheda unica. È ammesso il voto di lista e l’elettore può manifestare la
preferenza per un solo candidato della lista da lui votata. Il voto o l’indicazione di preferenze su
più liste annulla la scheda. In caso di dissociazione tra voto di lista e preferenza prevale il primo.
L’elezione è valida se vi partecipa più della metà dei lavoratori aventi diritto. Se, però, non viene
raggiunto il quorum, il Testo unico del gennaio 2014 rimette alla Commissione elettorale ed alle
organizzazioni sindacali la facoltà di prendere ogni determinazione in ordine alla validità della
consultazione in relazione alla situazione venutasi a determinare nell’unità produttiva. L’elettorato
attivo spetta a tutti gli apprendisti, gli operai, gli impiegati e i quadri non in prova in forza all'unità
produttiva alla data delle elezioni, nonché ai lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo
determinato che prestino la propria attività al momento del voto (ovvio anche a tutele crescenti).
L’elettorato passivo compete, invece, ai soli operai, impiegati e quadri non in prova in forza
all'unità produttiva, mentre spetta alla contrattazione di categoria regolare l’eleggiblità anche dei
lavoratori non a tempo indeterminato. Occorre indire le elezioni almeno tre mesi prima della
scadenza del mandato della RSU uscente. Occorrerà costituire una commissione elettorale e
designare degli scrutatori. Così come occorrerà che le liste dei candidati, il luogo e il calendario
delle votazioni - questi ultimi stabiliti previo accordo con la direzione aziendale – siano portati a
conoscenza di tutti i lavoratori mediante affissione almeno otto giorni prima dell’elezione.
I componenti della RSU una volta eletti, restano in carica per tre anni (il Testo unico del 10 gennaio
2014, per coerenza, stabilisce identica durata in carica triennale anche per le RSA) e poi decadono
automaticamente e, se si dimettono, subentra il primo dei non eletti nella lista del dimissionario.
Se le sostituzioni per dimissioni superano il 50% dei componenti la rappresentanza sindacale
unitaria decade e vengono indette nuove elezioni. Con il Testo unico del gennaio 2014 è stato
stabilito, contrariamente rispetto a quanto sostenuto da una parte della giurisprudenza (che, pur
tra contrasti, in passato, affermava la inesistenza di un vincolo di mandato), che l’eventuale
cambiamento di appartenenza sindacale da parte di un componente della rappresentanza
sindacale unitaria ne determina la decadenza automatica dalla carica e la sostituzione con il primo
dei non eletti della lista di sua originaria appartenenza. Soluzione questa senz’altro utile a
rinforzare la disciplina interna al sindacato, ma all’evidenza poco coerente con il fatto che il
rappresentante sindacale unitario viene eletto a suffragio universale di tutti lavoratori, siano iscritti
o no, dunque viene investito di, e dovrebbe rappresentare, un consenso potenzialmente anche più
ampio di quello di lista.
Il funzionamento della RSA
Il Testo unico del gennaio 2014, superando le incertezze avvertite in passato anche nella
giurisprudenza, precisa che le decisioni relative alle materie di competenza della RSU vengono
assunte a maggioranza e sembrerebbe, opportunamente, facendo diversamente pesare il voto di
cui ciascun componente a seconda del consenso di cui questi è portatore (cd. voto per quota e non
per testa). Una volta eletti, i componenti delle RSU subentrano ai dirigenti delle RSA nella titolarità
dei diritti previsti dal Titolo III della legge n. 300 del 1970. Sempre stando al Testo unico del
gennaio 2014, residua, infatti, in favore delle organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del
contrato collettivo nazionale applicato in azienda esclusivamente la titolarità del diritto di
assemblea per tre delle dieci ore annue retribuite spettanti ex art. 20 della legge n. 300 del 1970,
nonché la titolarità dei diritti ai permessi non retribuiti e di affissione previsti, rispettivamente,
dall’art. 24 e dall’art. 25 sempre della legge n. 300 del 1970. Per evitare duplicazioni è stato pure
previsto che le organizzazioni sindacali che partecipano alla procedura di elezione di una RSU
rinunciano automaticamente alla costituzione di una RSA.
Le RSU sono, per legge, abilitate alla contrattazione collettiva aziendale (arg. anche ex artt. 4 e 6
legge n. 300 del 1970) e, più in generale, a svolgere un’attività sindacale nei confronti e
nell’interesse di tutti i lavoratori occupati nelle unità produttiva per la quale sono costituite e, a tal
fine, sono destinatarie degli obblighi di informazione e consultazione sindacale (art. 4, legge n. 223
del 1991 e art. 47 della legge n. 428 del 1990, artt. 20 e 21 legge n. 300 del 1970). Peraltro è la
stessa legge ad attribuire a questi organismi sindacali funzioni di rappresentanza dell’intera
comunità dei lavoratori nell’impresa, conferendo loro poteri il cui esercizio ha efficacia nei
confronti di tutti i lavoratori. E ciò induce parte della dottrina a dubitare che il fondamento
giuridico in base al quale spiegare l’attività e l’azione delle rappresentanze sindacali possa essere
ancora individuato nella rappresentanza volontaria dei lavoratori

CAPITOLO 6-7= il contratto collettivo


l’autoriforma delle relazioni industriali
Il problema della derogabilità e la recente autoriforma delle relazioni industriali
Il tema della derogabilità da parte del contratto collettivo aziendale o territoriale alle disposizioni
ed agli equilibri stabiliti dalla contrattazione nazionale di categoria, è al fondo della più recente
evoluzione del diritto sindacale e delle relazioni industriali.
Tema imposto nei fatti all’agenda sindacale da quella politica ed economica, come portato diretto
della globalizzazione e della crisi.
Un primo snodo problematico avviene con l’Accordo quadro separato del 22 gennaio 2009 (ed i
successivi accordi di sua attuazione) che non venne sottoscritto dalla CGIL in dissenso sui contenuti
e sul metodo della negoziazione. In particolare, questo Accordo ridimensionava la funzione della
contrattazione collettiva nazionale, prevedendo maggiori spazi di autonomia in favore della
contrattazione collettiva aziendale, consentendo a quest’ultima di negoziare, sia pure a certe
condizioni, deroghe al contratto collettivo nazionale di categoria. L’Accordo quadro separato del
22 gennaio 2009 disponeva, infatti, che fosse consentito alla contrattazione di secondo livello
modificare, in tutto o in parte, anche in pejus, purché in via sperimentale e temporanea, la
disciplina di singoli istituti economici o normativi dettata dai dei contratti collettivi nazionali di
categoria, al fine di fronteggiare direttamente, nel territorio o in azienda, le situazioni di crisi o per
favorire lo sviluppo economico occupazionale (cd. contrattazione resiliente).
Restava, peraltro, ferma anche nell’accordo del 2009 in linea di principio la regola generale che
attribuiva al contratto collettivo nazionale di categoria la facoltà di individuare, attraverso le c.d.
clausole di uscita o di apertura, quali fossero le sue disposizioni che la contrattazione di secondo
livello può eventualmente derogare. Regola, del resto, mantenuta anche dal successivo Protocollo
del 28 giugno 2011 e vedremo ripresa dal Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 20014
che ha completato l’autoriforma delle relazioni sindacali. Anche a seguito dei successivi accordi di
autoriforma delle relazioni industriali culminati nel TU del gennaio 2014, infatti, è stato previsto
che i contratti collettivi aziendali possono attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati ad
assicurare la capacità della regolazione aziendale di soddisfare le esigenze degli specifici contesti
produttivi. Ed è stato, altresì, disposto che, nel far ciò, i contratti collettivi aziendali possono
definire, «anche in via sperimentale e temporanea», «specifiche intese» in deroga alle
«regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro», purché – venne precisato
dalle parti stipulanti - nei «limiti e con le procedure» previste dagli stessi contratti collettivi
nazionali di lavoro.
Una disciplina particolare è stata poi prevista «al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di
investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa» in
attesa che la contrattazione nazionale definisca i «limiti e le procedure» per negoziare in deroga al
contratto nazionale.
Disciplina che prevede che i contratti collettivi aziendali

 conclusi con le rappresentanze sindacali operanti in azienda;


 d’intesa con le relative organizzazioni sindacali territoriali di categoria espressione delle
Confederazioni sindacali firmatarie o aderenti al Protocollo del giugno 2011 o al Testo
unico del gennaio 2014
possono, per l’intanto, definire «intese modificative con riferimento agli istituti del contratto
collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del
lavoro». Intese modificative che le parti stipulanti affermano a questo punto dotate di efficacia
generale.
Il caso Fiat
La necessità di un raccordo tra contrattazione nazionale di categoria e contrattazione aziendale in
deroga era stata, peraltro, messa in discussione nella complessa vertenza sindacale che ha
riguardato il gruppo industriale FIAT (cfr. l’accordo di Pomigliano del 15 giugno 2010; l’accordo di
Mirafiori del 23 dicembre 2010; il contratto collettivo di Fabbrica Italia Pomigliano del 29 dicembre
2010, esteso, dal maggio 2011, allo stabilimento FIAT di Grugliasco - ex Bertone - e poi destinato
ad essere esteso a tutti gli stabilimento del fruppo FIAT Italia) nell’ambito della quale non a caso
sono state introdotte deroghe significative alla contrattazione collettiva nazionale. Nell’ambito
della menzionata vertenza, infatti, la FIAT, dal 1° gennaio 2012, revocava la propria adesione alla
Confindustria, liberandosi dagli obblighi che il vincolo associativo le aveva imposto fino a quel
momento. Quindi sempre FIAT affiancava alla suddetta revoca la disdetta di tutta la pregressa
contrattazione collettiva e sottoscriveva un contratto collettivo definito come di “primo livello” che
riteneva di livello nazionale di categoria (non di livello aziendale), che, unitamente alla già
menzionata contrattazione aziendale separata di stabilimento dava vita ad un sistema autarchico e
articolato di contrattazione, del tutto autonomo e svincolato rispetto alla contrattazione unitaria di
categoria dei metalmeccanici. Il caso FIAT metteva in luce il limite del sistema di autoregolazione
collettiva delle relazioni sindacali, e cioè che, la disciplina che presiede all’articolazione e
all’autolimitazione della contrattazione collettiva nei rapporti tra i suoi livelli negoziali, se è dettata
dalle stesse parti sociali e non dal legislatore (come invece nel PI), vincola soltanto i soggetti
sindacali che volontariamente scelgono di sottomettersi ad essa e non può incidere sulla validità di
eventuali accordi sindacali che vengano stipulati ai diversi livelli da soggetti sindacali estranei
rispetto alla formazione ed applicazione di quelle medesime regole. Ne deriva che nei casi di
impossibilità di applicare la regolazione dettata dalle parti sindacali per gestire i rapporti tra i
diversi livelli negoziali trovano applicazione i criteri, che sono stati nel tempo elaborati dalla
giurisprudenza (es. specialità e autonomia o competenza). E va anche aggiunto che anche il
vincolo giuridico che un’organizzazione sindacale si assume sottoponendosi all’applicazione della
autoriforma delle relazioni sindacali culminata con il TU del gennaio 2014 è garantito
esclusivamente con sanzioni di natura associativa o relazionale o al più risarcitoria che, per loro
natura, non incidono sulla validità degli accordi sindacali aziendali o territoriali stipulati in
violazione delle competenze eventualmente assegnate dal livello negoziale superiore ovvero da un
accordo o protocollo d’intesa interconfederale.
L’intervento del legislatore (art. 8 d.l. n. 138/2011)
Sul tema della derogabilità è intervenuto anche il legislatore con l’art. 8 del d.l. n. 138 del 2011,
conv. dalla legge n. 48 del 2011, anche se con una logica per certi versi diversa da quella che ha
animato l’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 ed anima il Testo unico del 10 gennaio
2014. L’art. 8 in questione infatti non solo, sia pure a certe condizioni, attribuisce efficacia erga
omnes ai contratti collettivi aziendali già stipulati, ma attribuisce alle «specifiche intese» contenute
nella contrattazione collettiva aziendale o territoriale anche il potere di derogare sia alle
disposizioni della contrattazione nazionale di categoria sia alle disposizioni inderogabili della legge
che regolano i rapporti di lavoro. La inconciliabilità di fondo dei due interventi è stata resa palese
con la nota del 28 settembre 2011, aggiunta in sede di verifica dell’Accordo interconfederale del
28 giugno 2011 con la quale le parti sottoscrittrici si sono impegnate a non stipulare le «specifiche
intese» previste dalla legge.
Ad ogni modo, resta che il legislatore, nel tentativo di garantire, in generale, «la stabilizzazione
finanziaria e lo sviluppo» del Paese e di favorire, in particolare, la produzione nel settore
industriale, ha disciplinato i rapporti tra una speciale categoria di contratti collettivi (le «specifiche
intese» raggiunte a livello di contrattazione cd. di prossimità) e la contrattazione collettiva
nazionale. Ed ha previsto che le «specifiche intese» realizzate dai contratti collettivi aziendali
genericamente «sottoscritti […] da associazioni dei lavoratori comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali
operanti in azienda» possono derogare a) sia al contratto collettivo nazionale; b) sia alle
disposizioni della legge. Purché:

 nell’ambito di un elenco di materie tassativamente individuato;


 nel rispetto della Costituzione;
 nel rispetto della normativa comunitaria e delle convezioni internazionali;
Peraltro, già queste condizioni pongono più di un problema:
A. Atteso il numero e la rilevanza delle disposizioni costituzionali e comunitarie in tema;
B. Con riguardo all’elenco tassativo che include:
a) materie inerenti «agli impianti audiovisivi e all’introduzione di nuove tecnologie»;
b) le disposizioni inerenti alle «mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento
del personale»;
c) «ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della
solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro»;
d) «alla disciplina dell’orario di lavoro»;
e) «alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni
coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione di
contratti di lavoro»;
f) alle «conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento
discriminatorio, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo
parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il
licenziamento in caso di adozione o affidamento» (lett. e).
Parte della dottrina non ha esitato a ritenere che la previsione delle «specifiche intese» in deroga
destabilizzi il sistema delle relazioni sindacali così come è stato definito dagli accordi
interconfederali più volte ricordati (Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, Protocollo
d’intesa del 31 maggio 2013, Testo unico del 10 gennaio 2014), e che oggi, si incentra ancora sul
contratto collettivo nazionale per la necessità di garantire una tutela minima uniforme a tutti i
lavoratori di ogni settore merceologico. Sono stati poi avanzati sospetti di violazione di principi di
rango costituzionale e, in particolare dei principi di cui agli articoli 3 e 39 della Costituzione, ovvero
con riguardo alla costante giurisprudenza della Corte Costituzionale in merito alla c.d.
indisponibilità del tipo legale da parte del legislatore.
La disciplina sindacale sulla stipulazione del contratto collettivo nazionale
In attesa della più volte annunciata riforma legislativa della rappresentanza e della contrattazione
sono state le parti sociali ad autoriformare le relazioni industriali. Come visto, sia l’Accordo
interconfederale del 28 giugno 2011 che il successivo Testo unico del 10 gennaio 2014 rifiutano la
tradizionale concezione che vede nel contratto collettivo nazionale il luogo esclusivo e
determinante della regolazione dei rapporti individuali di lavoro (cd. aziendalizzazione del diritto
sindacale). A ben vedere quegli accordi recuperano la tecnica della contrattazione articolata
introdotta negli anni ‘60 (cd. pendolo tra decentramento e accentramento delle relazioni
industriali) ed orientano le relazioni industriali con l’«obiettivo di favorire lo sviluppo e la
diffusione della contrattazione collettiva di secondo livello». Allo stesso tempo, però, quegli
accordi dedicano comunque ampio spazio anche al contratto collettivo nazionale, al punto da
dettarne una dettagliata disciplina. In primo luogo, viene regolata la funzione del contratto
nazionale di categoria. Il contratto collettivo nazionale di lavoro avrà soprattutto la funzione di
dettare disposizioni di carattere generale occupandosi di garantire «la certezza dei trattamenti
economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio
nazionale».
Per contro, alla contrattazione di secondo livello viene affidato il compito:

 di creare «condizioni di competitività e produttività» allo scopo di rafforzare «il sistema


produttivo, l’occupazione e le retribuzioni»;
 della promozione di «risultati funzionali all’attività delle imprese ed alla crescita di
un’occupazione stabile e tutelata»;
 di sviluppare una «politica di sviluppo adeguata alle differenti necessità produttive da
conciliare con il rispetto dei diritti e delle esigenze delle persone» (cfr. in tal senso anche
l’Accordo separato sulla produttività del 16/21 novembre 2012).
Vengono espressamente regolate le modalità di stipulazione del contratto collettivo nazionale e le
soglie di rappresentanza richieste per la sua negoziazione e stipulazione. Viene previsto che alla
procedura di contrattazione collettiva nazionale siano ammesse esclusivamente le Federazioni
delle Organizzazioni Sindacali firmatarie del TU del 10 gennaio 2014 o dell’AI del 28 giugno 2011 e
del Prot. del 31 maggio 2013, le quali, secondo un modello che riproduce quello previsto per i
sindacali dell’impiego pubblico privatizzato, abbiano raggiunto, nell’ambito di applicazione del
contratto (cd. categoria merceologica da determinare convenzionalmente), una rappresentatività
non inferiore al 5%.
Rappresentatività calcolata considerando la media fra il dato associativo (e cioè la percentuale
delle iscrizioni certificate sull’intero monte delle deleghe per la riscossione dei contributi sindacali
conferite dai lavoratori) e il dato elettorale (e cioè la percentuale dei voti ottenuti su tutti i voti
espressi in occasione delle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie). La suddetta
ponderazione viene effettuata dal CNEL (almeno fin tanto che il Consiglio non verrà abrogato e le
competenze re-distribuite) e riferita ad ogni singolo contratto collettivo nazionale entro il mese di
aprile di ogni anno, determinando la media semplice fra la percentuale delle deleghe sindacali
sulla totalità degli iscritti e la percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle rappresentanze
sindacali unitarie sul totale dei votanti ma riconoscendo, comunque sia, un peso del 50% per
ciascuno dei due dati. Quanto alle deleghe per misurare il dato associativo, vengono rielaborati i
dati raccolti dall’INPS nel periodo gennaio dicembre di ogni anno. Quanto al dato elettorale (id est
i consensi ottenuti dalle singole organizzazioni sindacali di categoria in occasione delle elezioni
delle RSU), vengono rielaborati i dati comunicati dal Comitato provinciale dei garanti entro il mese
di gennaio dell’anno successivo a quello di rilevazione, come desunti dai verbali elettorali
trasmessi dalle diverse commissioni elettorali attive in ciascuna provincia.
Una volta stabilito il dato di rappresentanza spendibile da ciascuna sigla sindacale al tavolo del
negoziato, l’autoriforma delle relazioni sindacali si occupa anche delle diverse fasi della trattativa.
Quanto al delicato momento della predisposizione della piattaforma rivendicativa è stato previsto,
anzitutto, che le diverse federazioni a livello di ciascuna categoria decidano «con proprio
regolamento» le «modalità di definizione della piattaforma e della delegazione trattante e le
relative attribuzioni». Viene poi specificata la direttiva di carattere generale secondo la quale ogni
categoria deve favorire la «presentazione di piattaforme unitarie» e che, in mancanza, il negoziato
deve essere preferibilmente avviato dalla «parte datoriale» con riferimento alla «piattaforma
presentata da organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di
rappresentatività nel settore pari almeno al 50% +1». Infine, con riferimento al momento, ancor
più delicato, della sottoscrizione del contratto collettivo non viene imposto alla parte datoriale
alcun obbligo di stipulazione.
Sennonché, è previsto un preciso impegno a che i contratti collettivi nazionali di lavoro:

 sottoscritti dalle organizzazioni sindacali che rappresentano «almeno il 50% +1 della


rappresentanza»;
 «previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori, a maggioranza semplice»
sono da ritenere «efficaci ed esigibili» per «l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici», nonché
pienamente esigibili e vincolanti, fin dalla «sottoscrizione formale», per tutte le organizzazioni
aderenti alle parti firmatarie del Testo unico del 10 gennaio 2014.
È questa la cd. esigibilità sindacale, e cioè che «le parti firmatarie e le rispettive federazioni», una
volta accettate le regole del gioco, si impegnano «a dare piena applicazione e a non promuovere
iniziative di contrasto», quali scioperi o altre forme di conflitto, anche nel caso in cui l’accordo
collettivo sottoscritto applicando la complessa regolazione che abbiamo descritto non le trovi
consenzienti o, peggio, le abbia viste fin da subito ferme oppositrici, come è stato ad esempio per
la vertenza FIAT.
La disciplina sindacale sulla stipulazione del contratto collettivo aziendale
Sempre l’autoriforma delle relazioni industriali culminata nel TU del gennaio 2014 si è occupata
anche della problematica della individuazione delle condizioni di legittimità e, soprattutto, di
efficacia di un accordo sindacale aziendale non sottoscritto da un sindacato o una rappresentanza
sindacale che avesse effettivamente partecipato alle trattative, e che fosse da considerare, a tutti
gli effetti «comparativamente più rappresentativo». Orbene, la complessa opera di autoriforma
delle relazioni sindacali condotta attraverso l’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, per poi
passare attraverso il Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 ed approdare al Testo unico del 10
gennaio 2014, ha stabilito i criteri di accertamento della rappresentatività sindacale e ha previsto a
quali condizioni può essere validamente stipulato un contratto collettivo anche quando alla sua
stipulazione non partecipino tutte le rappresentanze. La recente autoriforma delle relazioni
sindacali, senza imporre particolari criteri per definire la composizione della delegazione negoziale
dei lavoratori, ha stabilito che anche i «contratti collettivi aziendali per le parti economiche e
normative sono efficaci ed esigibili per tutto il personale in forza e vincolano tutte le associazioni
sindacali» che operano nella azienda (esigibilità). Ciò alla duplice condizione che:
 le associazioni sindacali in questione siano espressione delle Confederazioni sindacali
firmatarie dell’AI del 28 giugno 2011, del Prot. d’intesa del 31 maggio 2013 e del TUdel 10
gennaio 2014, o abbiano formalmente accettato tali accordi;
 e che i contratti aziendali siano «approvati dalla maggioranza dei componenti delle RSU»
ovvero dalle RSA costituite nell’ambito di associazioni sindacali che, «singolarmente o
insieme ad altre», risultino destinatarie della «maggioranza delle deleghe relative ai
contributi sindacali conferite dai lavoratori dell’azienda nell’anno precedente a quello in cui
avviene la stipulazione».
Semmai va aggiunto che i contratti aziendali approvati dalle RSA (e non quelli approvati a
maggioranza dalla RSU), se interviene entro 10 giorni dalla conclusione la richiesta di: a) almeno
una organizzazione sindacale espressione di una delle Confederazioni sindacali firmatarie del TU
del gennaio 2014; b) ovvero del 30% dei lavoratori dell’impresa; devono anche «essere sottoposti
al voto dei lavoratori» (referendum sindacale). Per la validità del referendum è necessaria la
partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto al voto (quorum di validità) L’intesa è bocciata
con il voto «della maggioranza semplice dei votanti» (quorum abrogativo).

CAPITOLO 8= lo sciopero: nozione, struttura, titolarità. La serrata


Sciopero diritto e sciopero libertà
Lo sciopero consiste in una astensione collettiva dal lavoro. É questo allo stato ancora oggi il più
importante mezzo di lotta sindacale. Storicamente è stato osteggiato in epoca liberale (cd.
sciopero libertà) per essere al fine vietato, al pari della serrata, nell’ordinamento corporativo (cd.
sciopero delitto o reato), perché ritenuto un vero e proprio attentato all’economia nazionale. La
libertà di sciopero è essenzialmente una libertà nei confronti dello Stato, nel senso che lo sciopero
non può più essere considerato un delitto (art. 502 C.P. Il datore di lavoro, che, col solo scopo
d'imporre ai suoi dipendenti modificazioni ai patti stabiliti, o di opporsi a modificazioni di tali patti,
ovvero di ottenere o impedire una diversa applicazione dei patti o usi esistenti, sospende in tutto o
in parte il lavoro nei suoi stabilimenti, aziende o uffici, è punito con la multa.
I lavoratori addetti a stabilimenti, aziende o uffici, che, in numero di tre o più, abbandonano
collettivamente il lavoro, ovvero lo prestano in modo da turbarne la continuità o la regolarità, col
solo scopo di imporre ai datori di lavoro patti diversi da quelli stabiliti, ovvero di opporsi a
modificazioni di tali patti o, comunque, di ottenere o impedire una diversa applicazione dei patti o
usi esistenti, sono puniti con la multa … ; cfr. Corte cost. n. 29/1960). Attualmente la Costituzione
lo riconosce come diritto.
L’art. 40 Cost. detta «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano». Va
detto peraltro che anche prima che la Costituzione entrasse in vigore, non appena venuto meno
l’ordinamento corporativo, la legge penale incriminatrice dello sciopero venne subito disapplicata.
A riprova della essenzialità di questo strumento di conflitto all’interno dei meccanismi democratici
e repubblicani. Lo sciopero diritto significa che vi è un diritto soggettivo del lavoratore a scioperare
nei confronti del datore di lavoro, dunque l’astensione dal lavoro conseguente allo sciopero non
può più essere considerato sul piano civilistico neppure un inadempimento dell’obbligazione di
lavorare. Quindi nel nostro ordinamento non sono consentite sanzioni disciplinari agli scioperanti.
Allo stesso tempo però si sospende il rapporto di lavoro e per l’effetto anche il sinallagma
contrattuale dunque viene meno l’obbligo di retribuire gli scioperanti, per i periodi in cui lo
sciopero è stato esercitato.
L’art. 40 Cost. rinvia inutilmente a leggi di regolamentazione dell’esercizio dello sciopero. Ragion
per cui è stata principalmente la giurisprudenza a definire le coordinate concettuali all’interno
delle quali iscrivere il legittimo esercizio di questo diritto anche alla luce dell’evoluzione delle
relazioni industriali e dell’organizzazione del lavoro. Un primo fondamentale momento di
regolazione legale si è avuto con riguardo ai servizi pubblici essenziali (l. n. 146/1990), dove era
necessario ed urgente contemperare un esercizio effettivo del diritto di sciopero con l’effettività di
esercizio e fruizione da parte dei cittadini utenti anche di altri diritti di «rango» costituzionale.
L’esercizio del diritto di sciopero impatta necessariamente con la «libertà» di iniziativa privata (art.
41 Cost.) nonché con il vincolo di efficienza e «buon andamento» delle pubbliche amministrazioni
(art. 97 Cost.). Onde anche con riferimento a questi valori e principi accolti nella costituzione è
necessario operare un bilanciamento. Negli ultimi anni, anche la Corte di Giustizia europea si è
occupata della legittimità di scioperi che chiamavano in causa il principio di libera concorrenza tra
imprese. Si trattava infatti di scioperi con i quali si voleva impedire ad imprese dell’UE di applicare
all’interno di uno stato membro la più favorevole contrattazione collettiva di un diverso paese
comunitario (v. CGUE (Grande sezione), sent. Viking, 11 dicembre 2007, C-438/05); ovvero ad
ostacolare il distacco di lavoratori provenienti da nazioni comunitarie caratterizzate da livelli
retributivi inferiori (CGUE (Grande sezione), sent. Laval 18 settembre 2007, C-341/05; cfr. anche la
CGUE (Seconda sezione), sent. Ruffert 3 aprile 2008, C-346/06). In questi casi per la CGUE lo
sciopero contrasterebbe con la libertà di stabilimento ovvero con il diritto alla libera prestazione
dei servizi. E sarebbe legittimo solo a condizione di non limitare eccessivamente la concorrenza tra
imprese. In questa ottica difficile da conciliare con la nostra Costituzione lo sciopero risulta
depotenziato «dovendo abdicare allo status che gli deriva dall’essere previsto a garanzia dei valori
che sono propri della dimensione sociale (che, come tali, sono sovraordinati o, più
ragionevolmente, contemperabili con i diritti che appartengono alla dimensione economica), per
finire sottoposto alle ragioni ultime del mercato e della concorrenza» (Persiani Lunardon). Anche
se nell’ordinamento eurounitario campeggia ormai l’art. 28 della CDFUE (cd. Carta di Nizza resa
vincolante dal Trattato di Lisbona) per cui: «I lavoratori e i datori di lavoro, o le rispettive
organizzazioni, hanno, conformemente al diritto dell'Unione e alle legislazioni e prassi nazionali, il
diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, ai livelli appropriati, e di ricorrere, in caso di
conflitti di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero». Per
cui anche nella UE lo sciopero è diritto fondamentale, la cui regolamentazione compete in via
esclusiva ai legislatori nazionali. Vedi anche art. 6 Carta Sociale Europea in connessione con l’art.
11 della Conv. Eu. Diritti dell’Uomo (su cui Sent. CEDU, Demir et Baykara c. Turchia [GC], no
34503/97)
Concertazione- proclamazione- astensione
Si ritiene comunemente che lo sciopero debba essere preceduto da un atto collettivo di
deliberazione, detto, appunto, proclamazione dello sciopero. In sostanza, si ritiene sciopero
solamente l’astensione che sia stata determinata a seguito di una concertazione tra i lavoratori
(cd. volontà collettiva) volta a stabilire l’impiego di questo strumento di conflitto per il
perseguimento di un interesse collettivo. Purché sia stato deciso da una pluralità di lavoratori sulla
base di una valutazione collettiva, certamente lo sciopero può poi venire attuato nella singola
azienda anche da un solo lavoratore, senza che questo lo possa delegittimare o possa sviarne la
funzione di tutela collettiva. Non si ritiene neppure necessario che la collettività proclamante si
strutturi od abbia una determinata forma giuridica (ad es. una struttura sindacale associativa o
istituzionale). Può legittimamente determinarsi allo sciopero anche una struttura rudimentale o
occasionale (per es. un comitato spontaneo di sciopero o agitazione). Non è sciopero, di contro,
l’astensione individuale che (benché sorretta da rivendicazioni a carattere lavorativo e perfino
sindacale) il singolo qualifichi come tale, ma senza che prima vi sia stata una proclamazione
sindacale. Manca qui infatti il momento collettivo di valutazione degli interessi appunto collettivi,
siano questi poi professionali, politico sindacali, di solidarietà, ecc. A maggior ragione non è
sciopero l’azione per la tutela di un mero interesse individuale (es. sciopero perché mi ritengo
mobbizzato). La triade o catena «concertazione-proclamazione-astensione», sebbene non risulti
da alcuna definizione normativa, ha dunque fin qui garantito che il ricorso allo sciopero avvenisse
per la soddisfazione di esigenze ed interessi collettivi coerentemente con ciò che la Costituzione
implicitamente presuppone. Storicamente la proclamazione è stata perciò inquadrata come
negozio di autorizzazione. Laddove il termine negozio ne sottolinea la riconducibilità all’autonomia
privata, dunque la natura volontaria e recettizia, oltre che intrinsecamente libera nei fini e modi
(art. 39 Cost. 1 co.), sia quando l’azione è posta in essere dal sindacato sia quando da una
collettività rudimentale. Ed il termine autorizzazione tende ad evidenziare che sebbene i lavoratori
già siano titolari del diritto (art. 40 Cost.) solo la proclamazione può far guadagnare agli astenuti
quell’eccezionale statuto di immunità rispetto al potere sanzionatorio disciplinare del datore di
lavoro che deriva direttamente dalla copertura della norma costituzionale.
Nondimeno, se si accoglie la ricostruzione in termini di negozio autorizzatorio il termine
autorizzazione va comunque inteso in senso lato e non tecnico. Non si tratta di una mandato a
scioperare nell’ambito di una relazione associativa. Ed infatti diversamente la proclamazione,
decisa da un sindacato sarebbe efficace solo nei confronti dei lavoratori iscritti al sindacato
proclamante. Mentre tutti i lavoratori – anche coloro che non aderiscono ad alcun sindacato –
sono titolari del diritto di sciopero come diritto soggettivo individuale. Quindi possono liberamente
decidere se scioperare quando anche uno solo dei sindacati abbia proclamato o perfino abbia
proclamato una organizzazione rudimentale, anche non sindacale, come un comitato
estemporaneo di sciopero. Tutto ciò significa che lo sciopero si configura come diritto
costituzionale necessariamente soggettivo ma che può esercitarsi soltanto in forma collettiva. La
sciopero è dunque secondo una nota formula un «diritto individuale ad esercizio collettivo». Nei
servizi pubblici essenziali (l. n. 146/ 1990) dove la legge tutela anche i diritti costituzionalmente
protetti degli utenti, lo sciopero oltre ad essere proclamato da una struttura sindacale, per essere
legittimo, deve anche essere preavvisato.
Struttura giuridica del diritto di sciopero
Abbiamo visto che lo sciopero si configura giuridicamente come diritto soggettivo perché l’art. 40
Cost. lo qualifica tale. Si sostanzia poi in una astensione dal lavoro che comporta la sospensione
delle reciproche obbligazioni principali. Ancor più nel dettaglio lo sciopero costituisce esercizio di
un diritto soggettivo potestativo. Ciò perché al diritto potestativo fa riscontro lo status di mera
soggezione del datore di lavoro, ed effetto automatico dell’esercizio dello sciopero è la
sospensione del rapporto di lavoro, mentre la mancata prestazione di lavoro non può essere
imputata disciplinarmente allo scioperante come inadempimento all’obbligo di lavorare. Non solo,
il datore di lavoro non può neppure opporre alcun diritto o aspettativa alla prestazione, né
ostacolare il diritto di astensione, che anzi la legge vieta e sanziona espressamente le
discriminazioni determinate dalla partecipazione, o no, ad uno sciopero e le condotte tese a
«impedire o limitare» lo sciopero (cfr. artt. 15, lett. b), 16, 28 l. n. 300/70) rafforzando così
l’esercizio in concreto del diritto costituzionale. Questa costruzione dello sciopero come diritto
potestativo, ne svela unicamente la struttura funzionale, e non va perciò intesa in senso limitante.
Non osta infatti alla qualificazione dello sciopero come diritto della personalità o come diritto di
libertà o, addirittura, come semplice fatto giuridico, né impedisce di legittimare anche lo sciopero
per fini sociali o politici. Dal punto di vista scientifico va infatti considerato che è stata proposta
anche la diversa opinione per cui il problema della definizione della natura giuridica dello sciopero
si semplificherebbe notevolmente considerando lo sciopero come «fattispecie di comportamento,
rilevante come semplice fatto giuridico» (Giugni), ovvero come «comportamento non attuativo di
una prestazione di lavoro» (Mengoni). Tutte queste definizioni attengono, infatti, alla funzione o
alla giustificazione politico sociale di quel diritto, mentre in taluni casi cercano semplicemente di
dilatare il raggio di immunità disciplinare che promana dallo sciopero.

Titolarità del diritto


Uno dei problemi derivati dalla inattuazione della previsione costituzionale (art. 40 Cost.) è la
mancanza di una direttiva in ordine alla titolarità del diritto di sciopero. Spetta dunque agli
interpreti, fermo restando quanto già osservato in tema di esercizio, stabilire a chi competa la
titolarità del diritto in questione. La principale questione teorica, connessa a doppio filo a quella
della rappresentanza sindacale, attiene alla titolarità individuale o collettiva dello sciopero. Fin dal
primo dopoguerra si diffusero infatti interpretazioni nel senso che la titolarità dello sciopero
spettasse esclusivamente al sindacato. La tesi della titolarità collettiva è stata poi ripresa dopo la l.
n. 146 del 1990, anche se da quella legge si ricavano indicazioni in realtà contrastanti visto che in
più passaggi indica esplicitamente al posto dei sindacati i «soggetti che promuovono lo sciopero» o
le «organizzazioni di lavoratori che proclamano uno sciopero»; e lo fa probabilmente perché se
titolari del diritto di sciopero fossero solo i sindacati sarebbero rimasti esclusi i comitati spontanei
di sciopero e l’effetto di immunizzare gli scioperanti non si sarebbe esteso anche ai non iscritti al
sindacato. Sembra dunque da preferire la lettura per cui il diritto di scioperare, sia pure con talune
eccezioni, spetta in linea generale anzitutto a tutti i lavoratori subordinati, dipendenti di aziende o
datori privati, di enti del TS, di amministrazioni pubbliche, ecc. Storicamente questa impostazione
ha avuto dirimenti conseguenze ad es. nel mondo del lavoro autonomo ed è stata accreditata
come portato della tradizione sindacale e per la strumentalità dello sciopero rispetto alla
conclusione del contratto collettivo, ovvero in ragione della sua configurazione come strumento
per realizzare l’elevazione dei lavoratori e la loro partecipazione alla vita economica e sociale del
Paese (art. 3 Cost.). Ovviamente, la mancanza di una legge ha spinto a domandarsi se fosse
legittimo escludere dalla titolarità del diritto costituzionale di sciopero quei lavoratori autonomi
che si trovino in posizione di parasubordinazione, svolgendo un’attività prevalentemente
personale, coordinata e continuativa a favore dell’impresa committente (art. 409, n. 4, Cod. proc.
civ.). Dove la proprio sotto-protezione sociale sembra accomunare nell’esigenza di tutela anche
questi lavoratori, specie considerando che, nel nostro sistema costituzionale, il lavoro è tutelato in
tutte le sue forme ed applicazioni (art. 35 Cost.) e che la legge più volte a partire dall’art. 2113 c.c.
ha preso atto della sussistenza anche in questo caso di una contrattazione collettiva rispetto alla
quale l’estensione dello sciopero ai lavoratori parasubordinati potrebbe certamente risultare
funzionale.
Quanto ai piccoli imprenditori che non abbiano lavoratori alle proprie dipendenze (altrimenti
sarebbe di fatto una serrata), i dubbi sono stati risolti da una sentenza della Corte costituzionale
che li ha riconosciuti titolari del diritto di sciopero (17 luglio 1975, n. 222). Le cronache
giornalistiche e giudiziarie ci hanno poi edotto di cd. scioperi dei lavoratori autonomi tout court
(es. le astensioni dei cd. tir lumaca o del taxi selvaggio). La titolarità del diritto di sciopero viene
tradizionalmente negata invece a chi è investito di una funzione sovrana, come i magistrati (artt.
101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost.), o a chi appartiene a un corpo armato dello
Stato, come nel caso dei militari (art. 8, legge 11 luglio 1978, n. 382) e degli appartenenti alla
Polizia di Stato (art. 84, legge 1° aprile 1981, n. 121). La titolarità del diritto di sciopero deve essere
anche negata ai marittimi, sia pure limitatamente al periodo in cui la nave sulla quale sono
imbarcati è in navigazione, e, comunque, tutte le volte lo sciopero possa compromettere la
sicurezza di questa (Corte cost., sentt. 28 dicembre 1962, n. 123 e n. 124). La legge per evidenti
ragioni di sicurezza pubblica pone limiti, da coordinare oramai con quelli previsti per lo sciopero
nei pubblici servizi essenziali, anche allo sciopero dei lavoratori addetti agli impianti nucleari (artt.
49 e 129 del d.p.r. n. 185 del 1964) e all’assistenza di volo (art. 4 della legge n. 242 del 1980).

La cd serrata
La serrata dei datori di lavoro consiste nella sospensione dell’attività dell’impresa decisa ed attuata
da parte di un singolo imprenditore o, previa concertazione, da più imprenditori, contro gli
interessi collettivi dei lavoratori. Non esiste alcun parallelismo od equiparazione con lo sciopero.
Anche perché la Costituzione riconosce e tutela soltanto il diritto di sciopero, mentre pone limiti
significativi alla libertà di impresa (art. 41, co. 2 Cost.). Non esiste un diritto di serrata. La serrata
dunque è inquadrabile soltanto nell’area delle libertà. Che significa però che, di per sé, la serrata, a
fini contrattuali, di solidarietà o di protesta, non può essere penalmente perseguita (cfr. Corte
cost. n. 29/1960 sull’art. 502, co. 2 c.p. e n. 141 /1967 sull’art. 505 c.p.). La libertà di serrata opera
nei riguardi dello Stato ma, non essendoci un diritto di serrata, l’esercizio della serrata genera un
inadempimento contrattuale, per cui di norma il datore di lavoro è tenuto ugualmente a retribuire
eventuali propri dipendenti inoperanti. Nella pratica la serrata è un mezzo di lotta sindacale
residuale e recessivo nell’applicazione, anche perché costoso ed inefficiente. I datori di lavoro
preferiscono agire sul piano dell’organizzazione del lavoro o mobilitarsi per esercitare una
pressione sulle istituzioni. La serrata viene dunque praticata quasi esclusivamente se lo sciopero
determina una impossibilità di gestione dell’impresa o dello stabilimento, nella forma del cd.
«ritiro della direzione» e cioè dell’abbandono dell’impresa nelle mani degli scioperanti con declino
di ogni responsabilità. È questa la cd. serrata di ritorsione che se effettivamente lo sciopero si
dimostrasse illegittimo escluderebbe l’obbligo di erogare le retribuzioni, in applicazione del
principio di diritto comune inadimplenti non est adimplendum (art. 1460 Cod. civ.).
Se invece il datore di lavoro si limita a rifiutare le prestazioni inutilizzabili di coloro che non
scioperano non si parla di serrata. In questo caso del resto se lo sciopero si assume legittimo al di
là delle forme più o meno anomale di effettuazione dunque non è possibile invocare l’eccezione di
inadempimento (art. 1460 Cod. civ.). Dunque, non resta che valutare l’eventuale esistenza di un
legittimo motivo di rifiutare le prestazioni dei lavoratori, dimostrando che la loro prestazione
configura un adempimento inesatto e non utile (cd. mora credendi ex art. 1206 c.c. «il creditore è
in mora quando, senza motivo legittimo, non riceve il pagamento offertogli nei modi indicati dagli
articoli seguenti o non compie quanto è necessario affinché il debitore possa adempiere
l’obbligazione»).
Tipologie di sciopero (ordinate secondo i fini)
La mancanza di una legge generale sullo sciopero ha come conseguenza anche la carenza di una
definizione capace di descrivere i comportamenti e fatti da ricondurre, o no, alla nozione di
sciopero. Nozione che dunque venendo determinata casisticamente dalla giurisprudenza è rimasta
elastica e duttile. Nel dibattito conseguente la principale distinzione attiene alle finalità dello
sciopero. Si ritiene infatti certamente ricompresa nella nozione di sciopero l’astensione per la
tutela dell’interesse collettivo professionale di chi sciopera ad esempio per conseguire un più
favorevole rinnovo del CCNL (cd. sciopero a fini contrattuali o economicoprofessionali). Da sempre
si ammette anche lo sciopero per la soluzione di controversie giuridiche di lavoro ad es. attinenti
all’interpretazione o alla applicazione della disciplina legale o collettiva. Anche perché qui gli
scioperanti più che influenzare l’esercizio della giurisdizione vogliono ottenere una nuova
disciplina contrattuale che superi la vecchia e faccia cessare la materia del contendere. Più
controverso lo sciopero cd. politico che travalica vistosamente la dimensione individuale del
rapporto di lavoro tendendo oggettivamente al perseguimento di risultati di cui il datore di lavoro
non ha la disponibilità e che nondimeno la Corte Cost. ritiene legittimo se proclamato per
«rivendicazioni riguardanti il complesso degli interessi dei lavoratori che trovano disciplina nelle
norme poste sotto il titolo terzo della parte prima della Costituzione» e cioè agli artt. 35-47 sotto la
rubrica «diritti economico-sociali» (sentt.: n. 123/62; n. 141/67; n. 1/74; n. 290/74; n. 222/75; n.
165/83). In questo caso infatti lo sciopero, sebbene sia esercitato non per influire sul datore di
lavoro ma sul legislatore o sul governo, deve comunque attenere alla realizzazione di interessi
economico-professionali dei lavoratori, ossia alle loro condizioni sociali ed economiche. Secondo
questa ricostruzione, eventuali scioperi esclusivamente a fini politici – non aventi ad oggetto
quindi diritti economico-sociali dei scioperanti o dei lavoratori – sarebbero da considerare
illegittimi, perché, non esiste un diritto di sciopero politico, quindi rientreremmo nello schema
sciopero-libertà/inadempimento dell’obbligazione di lavorare con possibilità di sanzione
disciplinare. Allo stesso tempo sarebbero però penalmente leciti a meno che «non siano diretti a
sovvertire l’ordinamento costituzionale ovvero ad impedire o ostacolare il libero esercizio dei
poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare».
Allo stesso tempo, va considerato come la giurisprudenza tenda a considerare in maniera piuttosto
ampia lo spettro delle rivendicazioni economiche sociali ricomprendendovi ad es. il caro vita,
problemi abitativi e persino l’opposizione alla guerra. («La collocazione del ripudio della guerra tra
i principi fondamentali della Costituzione consente di affermare che esso costituisce un interesse
fondamentale della collettività e quindi la legittimità dello sciopero contro la guerra è riconducibile
– oltre che in generale alla fattispecie dello sciopero per fini non contrattuali quale “mezzo idoneo
a favorire il perseguimento dei fini di cui all’art 3, comma 2, cost. – anche, in particolare, alla
specifica previsione dell’art. 2, comma ultimo, l. n. 146 del 1990» Cassazione civile , sez. lav., 21
agosto 2004, n. 16515). Ricorre nella prassi poi lo sciopero cd. di solidarietà esercitato per
sostenere le rivendicazioni di altri lavoratori ovvero per protestare contro la violazione degli
interessi o dei diritti di un lavoratore. Per la giurisprudenza lo sciopero di solidarietà viene ritenuto
legittimo se il giudice accerta che «l’affinità delle esigenze che motivano l’agitazione sia tale da far
ritenere che, senza l’associazione di tutti in uno sforzo comune, esse rischino di rimanere
insoddisfatte» (Corte cost. n. 123/1962).
Forme cd anomale di sciopero (ordinate secondo i modi) limiti e legittimità
Ovviamente nell’esperienza il sindacato ha immaginato molte e varie forme o modalità di sciopero
diverse dalla mera astensione dal lavoro proprio per massimizzare il danno al datore di lavoro e
minimizzare le conseguenze per gli scioperanti. In mancanza di una definizione legale di sciopero si
fatica a rispondere alla domanda se ogni forma o modalità di sciopero è legittima? O ci siano limiti
da non valicare? La giurisprudenza ritiene non esistano limiti «interni» allo sciopero e cioè
attinenti alla modalità o forma. Lo sciopero è legittimo anche se l’astensione non riguarda l’intero
orario di lavoro giornaliero (c.d. sciopero a singhiozzo). É legittima anche l’astensione che riguardi
soltanto di una parte o di singole mansioni (c.d. blocco delle mansioni). Come anche l’astensione
dallo svolgimento del solo straordinario (c.d. blocco del lavoro straordinario) o l’astensione che
non riguarda tutti i lavoratori dell’impresa o dello stabilimento ma solo quelli addetti ai reparti cd.
a monte (c.d. sciopero a scacchiera, il cd. salto della scocca od il cd. gatto selvaggio). Così ancora lo
sciopero che consiste in un atteggiamento non collaborativo ed anzi ostruzionistico rispetta alla
normale attività di produzione (cd. sciopero pignolo o bianco) o che si traduca in un sostanziale
decalage della produzione abituale ed attesa (cd. sciopero del rendimento). Certamente tutte
queste forme cd. anomale di sciopero sono espressione della libertà della azione sindacale, ma
occorre lo stesso ogni volta verificare: a) entro quali limiti, se ce ne sono si tratti di comportamenti
legittimi; b) se i non scioperanti siano immunizzati da conseguenze sulla retribuzione, ad es. nelle
ipotesi in cui i cd. scioperi a singhiozzo o a scacchiera vengano attuati in imprese con lavorazioni a
ciclo continuo. Va infatti considerato che queste forme anomale di sciopero impongono in taluni
casi la fermata di impianti che possono essere rimessi in funzione solo dopo un certo tempo o
possono determinare la inutilità della prestazione lavorativa offerta dai lavoratori non scioperanti
(le cd. ore improduttive).

Danno alla produzione e danno alla produttività


Occorre qui contemperare il riconoscimento del diritto di sciopero (art. 40 Cost.) con il
riconoscimento della libertà di impresa (art. 41 Cost.) entrambi tutelati sul piano costituzionale.
Questo contemperamento è demandato alla giurisprudenza che fin dalla fondamentale sentenza
della Corte di Cassazione n. 711 del 1980 (est. Fanelli) ha ritenuto legittime le forme anomale di
sciopero in quanto, da un lato, la Costituzione non ha imprigionato lo sciopero all’interno di una
definizione puntuale che, stabilendo precisi limiti interni alla fattispecie, ne limitasse la rilevanza
alla sola astensione standard dal lavoro (ad una forma cioè non anomala); inoltre, lo sciopero,
come tale, non può non prefiggersi di indurre un danno alla produzione del datore di lavoro
dunque non ha rilievo ostativo il richiamo agli obblighi di buona fede e correttezza (artt. 1175 e
1375 Cod. civ.); come anche appare ingiustificato imporre un vincolo di proporzionalità tra offesa e
conseguenze per i lavoratori. Ciò posto quella medesima giurisprudenza, esclusa l’esistenza di
limiti «interni», ammette però l’esistenza di limiti «esterni» allo sciopero nel senso che questo non
può essere legittimamente esercitato se lede altri diritti garantiti dalla Costituzione. Di qui la
tradizionale distinzione tra forme (standard ma anche «anomale») di sciopero che danneggiano la
produzione aziendale, e sono da ritenere legittime. E forme di sciopero che invece travalicano in
un danneggiamento alla produttività, ledendo cioè la capacità produttiva o l’operatività degli stessi
impianti, che sono invece vietate. Così per evitare il danno illegittimo alla produttività vengono
stipulati accordi aziendali che, in caso di sciopero, attivano un gruppo di lavoratori (cd.
comandata), incaricati di garantire la ripresa della produttività (ad es. il non spegnimento di un
alto-forno). Ed è sempre legittima la fermata degli impianti per la loro messa in sicurezza, con
conseguente inutilità delle prestazioni di lavoro nel periodo dallo sciopero alla ripresa della
produzione. Quanto alle ore cd. improduttive, nei casi in cui la forma anomala proprio per
massimizzare il danno prevede la presenza della forza lavoro nei reparti cd. a valle, il nesso di
corrispettività intercorrente tra lavoro e retribuzione, conduce a ritenere legittima una
decurtazione anche delle retribuzioni dei non scioperanti proporzionata al calo o alla diminuzione
del normale rendimento e della normale produzione. A condizione che il datore di lavoro dia la
prova di non stare rifiutando prestazioni utili e che tale rifiuto non riguardi indiscriminatamente
tutti i lavoratori (si pensi, ai lavoratori comandati o che devono rimettere in funzione gli impianti).
Forme di conflitto diverse dallo sciopero
Si ritiene che non siano sciopero talune forme di conflitto sindacale che non consistono in
un’astensione dal lavoro. Fra queste l’occupazione dei locali dell’impresa, con o senza
prosecuzione della attività produttiva, che è sanzionata penalmente e, comunque, costituisce un
comportamento illegittimo che può essere sanzionato disciplinarmente. Nondimeno quando il
datore di lavoro che subisce l’occupazione di azienda preferisce, preferisce alle lungaggini di un
procedimento disciplinare di massa esperire i mezzi giudiziari a tutela del possesso (artt. 1168 e
1170 Cod. civ.). Ed una volta risolto il problema e spentosi il conflitto quasi mai agisce per il
risarcimento di danni o per dar corso a procedimenti disciplinari, considerato che nell’accordo il
sindacato chiede sempre una amnistia generale. Il cd. blocco delle merci e, cioè, il comportamento
con cui, durante un’agitazione sindacale, i lavoratori impediscono che le merci esistenti in azienda
siano portate all’esterno, o impediscono l’approvvigionamento di materie prime dall’esterno, è
illegittimo. Il datore di lavoro potrà esperire la tutela del possesso o la tutela generale di cui all’art.
700 Cod. proc. civ., mentre sussistono ipotesi di reato per i lavoratori che hanno realizzato il
blocco. Si discute della legittimità del cd. ostruzionismo ossia l’applicazione pedantesca dei
regolamenti aziendali o delle istruzioni del datore di lavoro, come anche della non collaborazione
(esecuzione della prestazione lavorativa senza diligenza). Se il rapporto di lavoro non risulta
sospeso dallo sciopero si produce un inadempimento sanzionabile. Certamente sono vietati ed
illegittimi il danneggiamento o il sabotaggio che possono di norma configurare anche un reato.
Infine si ritiene che il picchettaggio, ossia il comportamento dei lavoratori scioperanti volto ad
impedire l’accesso al lavoro di quanti non vogliono scioperare, a seconda delle concrete modalità
di esecuzione, possa essere lecito – come quando la condotta è meramente passiva o si esaurisca
nel proselitismo, senza che vi sia minaccia a chi vuole accedere - ma possa anche integrare gli
estremi del reato di violenza privata.
Nuove forme di sciopero

 Net strike
 Twitter storm
 Off simultaneo
 Sciopero virtuale
Crumiraggio
Come visto la sostituzione degli scioperanti con altri lavoratori è legittima anzi necessaria nel caso
delle imprese che erogano servizi pubblici essenziali per l’utenza, quando serve ad evitare danni
irreparabili alla produttività (c.d. presidi o comandate). Altra cosa è il crumiraggio, termine che ha
origini antiche ed accezione negativa. La giurisprudenza, ritenendo antisindacale l’opposizione al
conflitto, ma non l’opposizione nel conflitto, consente al datore di lavoro in occasione di uno
sciopero, di reagire per fronteggiare il calo o l’interruzione della produzione utilizzando gli
strumenti della gestione dell’organizzazione del lavoro di cui dispone per sostituire i lavoratori
scioperanti con altri lavoratori già presenti nell’organico dell’azienda (c.d. crumiraggio interno). In
questo caso, si esclude, infatti, che la sostituzione configuri condotta antisindacale, vietata ai sensi
dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970 (C. Cost. n. 125/80). La legge vieta di sostituire i lavoratori
che esercitano il diritto di sciopero con lavoratori assunti con contratto di lavoro a termine (art. 20,
1. co, lett. a), d.lgs. n. 81/2015) e con contratti di lavoro intermittente e di somministrazione di
lavoro (artt. 14, 1 co., lett. a) e 32, 1 co., lett. a), d.lgs. n. 81 /2015). Nei casi non vietati dalla legge
occorre bilanciare diritto di sciopero (art. 40 Cost.), diritto al lavoro del crumiro (art. 4 Cost.) e
libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.). La giurisprudenza vieta le assunzioni finalizzate a
sostituire gli scioperanti (c.d. crumiraggio c.d. esterno). Mentre ha ammesso la sostituzione del
personale scioperante con personale che già era stato somministrato all’azienda al momento della
proclamazione dello sciopero, per assimilazione al crumiraggio c.d. interno. In altri casi, ha negato
la sostituzione degli scioperanti con lavoratori in part-time impiegati al di fuori della collocazione
oraria dedotta in origine nel contratto. Nel crumiraggio interno ritenuto legittimo il datore di
lavoro può avvalersi del c.d. scorrimento delle mansioni che adibendo lavoratori incaricati di
sostituire gli scioperanti alle mansioni di questi ultimi per scegliere dove subire lo sciopero. La
giurisprudenza non ammette però la modifica delle mansioni del c.d. crumiro interno se ciò
comporta violazione dell’art. 2103 Cod. civ. (tra l’altro oggi riformulato in base all’art. 3, d.lgs. n.
81 del 2015).
Crumiraggio tecnologico.
I servizi essenziali e il fenomeno della cd autoregolamentazione dello sciopero
La perdurante mancanza della legge sullo sciopero promessa dall’art. 40 Cost. ha avuto
ripercussioni soprattutto in quei settori e servizi pubblici dove i cd. «scioperi selvaggi», spesso non
preavvisati, o ad oltranza, amplificavano enormemente le conseguenze dannose ripercuotendosi
principalmente sull’utenza. La Costituzione prevedeva peraltro una chiara riserva di legge dunque
non era consentito regolare autoritativamente o alternativamente lo sciopero. L’opinione pubblica
evidentemente scossa dai disagi spinse infine nel 1990 il legislatore a farsi carico dell’esigenza di
una qualche regolazione dell’esercizio del diritto di sciopero. Nel frattempo si diffuse la prassi di
inserire nei contratti collettivi specifiche clausole che limitavano il ricorso allo sciopero (cd.
clausole di tregua sindacale) lo sciopero. Ma si trattava di disposizioni di difficile gestione con limiti
evidenti di esigibilità spesso rese ineffettive dalla stessa concorrenza interna tra sindacati. La
Federazione unitaria CGIL-CISL-UIL nel 1980 predispose per i settori «volti a garantire la tutela
della salute e dell’incolumità delle persone» una procedura generale cui dovevano poi conformarsi
le singole procedure di autoregolamentazione delle singole associazioni di categoria. Secondo la
procedura l’organizzazione sindacale di categoria che intendeva proclamare uno sciopero doveva
darne comunicazione alle strutture territoriali indicando le modalità di esecuzione. La struttura
territoriale doveva valutare a livello locale l’iniziativa anche in relazione «agli effetti di carattere
sociale che essa comporta per la collettività». E solo all’esito di questa valutazione poi prendere la
decisione di proclamare lo sciopero. L’esperienza della autoregolamentazione si sviluppò
ulteriormente grazie ai protocolli di disciplina nel settore (chiave) dei trasporti pubblici.
Nondimeno permaneva dubbia l’effettività di un sistema di regolazione di interessi generali che si
basava di fatto su prodotti dell’autonomia collettiva privata, come tali per definizione sprovvisti di
quella vincolatività ed efficacia erga omnes che è propria della legge.
Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali
I limiti di effettività della autoregolamentazione collettiva hanno perciò reso necessario
l’intervento del legislatore per regolare l’esercizio dello sciopero quantomeno nei pubblici servizi
essenziali a salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati (l. n. 146/1990, poi
mod. dalla l. n. 83/2000). La legge 146/90 infatti non regola lo sciopero in tutti i settori
merceologici, ma solo nei Servizi pubblici essenziali, dove solo vigono le regole in essa prevista. La
legge n. 146/90 peraltro non intende affatto impedire lo sciopero nei s.p.e. La legge 146/90 non si
occupa neppure di contemperare gli interessi dei datori di lavoro che erogano i servizi se non per
garantire la salvaguardia dell’«integrità degli impianti». La legge 146/90 si ripromette, invece, lo
«scopo di contemperare l'esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona,
costituzionalmente tutelati». Per cui nei s.p.e. lo sciopero deve avvenire con modalità tali da non
pregiudicare la realizzazione dei «diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla
salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza sociale,
all'istruzione ed alla libertà di comunicazione» (art. 1). In questo risiede il contemperamento tra il
diritto di sciopero e gli altri diritti della persona aventi rilevanza costituzionale di cui gli utenti sono
titolari (Corte cost. n. 317/92). I S.P.E. sono tali anche quando gestiti (ad es. in regime di
concessione) da privati. Cià che conta è la loro diretta destinazione alla pubblica fruizione e che
realizzino interessi essenziali dei cittadini di rilievo costituzionale. Così, ad es., tra i pubblici esercizi
essenziali è stato inserito anche «l’apertura al pubblico di musei e luoghi della cultura» così come
sono definiti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 (d.l. n. 146 del 2015). I diritti
costituzionali da contemperare con lo sciopero per assicurarne «l’effettività nel loro contenuto
essenziale» sono quelli espressamente e tassativamente indicati dalla legge 146/90.
I s.p.e
Mentre i servizi nei quali in caso di conflitto collettivo si applicano le regole e le procedure della l.
n. 146/90, sono indicati nella medesima legge in via solamente esemplificativa («in particolare nei
seguenti servizi e limitatamente all'insieme delle prestazioni individuate come indispensabili»).

 per quanto concerne la tutela della vita, della salute, della libertà e della sicurezza della
persona, dell'ambiente e del patrimonio storico-artistico: la sanità; l'igiene pubblica; la
protezione civile; la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti urbani e di quelli speciali, tossici e
nocivi; le dogane, limitatamente al controllo su animali e su merci deperibili;
l'approvvigionamento di energie, prodotti energetici, risorse naturali e beni di prima
necessità, nonché la gestione e la manutenzione dei relativi impianti, limitatamente a
quanto attiene alla sicurezza degli stessi; l'amministrazione della giustizia, con particolare
riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed
urgenti, nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione; i servizi di protezione
ambientale e di vigilanza sui beni culturali; l'apertura al pubblico regolamentata di musei e
altri istituti e luoghi della cultura, di cui all'articolo 101 co. 3 Codice dei beni culturali e del
paesaggio, ex d.lgs 42/2004;
 per quanto concerne la tutela della libertà di circolazione: i trasporti pubblici urbani ed
extraurbani autoferrotranviari, ferroviari, aerei, aeroportuali e quelli marittimi
limitatamente al collegamento con le isole;
 per quanto concerne l'assistenza e la previdenza sociale, nonché gli emolumenti retributivi
o comunque quanto economicamente necessario al soddisfacimento delle necessità della
vita attinenti a diritti della persona costituzionalmente garantiti: i servizi di erogazione dei
relativi importi anche effettuati a mezzo del servizio bancario;
 per quanto riguarda l'istruzione: l'istruzione pubblica, con particolare riferimento
all'esigenza di assicurare la continuità dei servizi degli asili nido, delle scuole materne e
delle scuole elementari, nonché lo svolgimento degli scrutini finali e degli esami, e
l'istruzione universitaria, con particolare riferimento agli esami conclusivi dei cicli di
istruzione;
 per quanto riguarda la libertà di comunicazione: le poste, le telecomunicazioni e
l'informazione radiotelevisiva pubblica.
La procedimentalizzazione, le prestazioni indispensabili e il ruolo dell’autonomia collettiva
Il contemperamento tra il diritto di sciopero e altri diritti costituzionali si realizza in concreto
attraverso la procedimentalizzazione dell’esercizio del diritto di sciopero. La legge impone al
sindacato l’obbligo di comunicare per iscritto, con un preavviso di almeno dieci giorni, la durata, le
modalità di attuazione nonché le motivazioni dello sciopero. La comunicazione deve essere data
sia alle amministrazioni o imprese che erogano il servizio, sia all'apposito ufficio costituito presso
l'autorità competente ad adottare l'ordinanza di precettazione, che ne cura la immediata
trasmissione alla Commissione di garanzia scioperi (CGS art. 2, co. 2). Le amministrazioni o imprese
che erogano il servizio devono a loro volta dare comunicazione agli utenti in forme adeguate
almeno cinque giorni prima dell’inizio dello sciopero, dei modi e dei tempi di erogazione dei servizi
minimi essenziali garantiti nel corso dello sciopero e delle misure per la riattivazione degli stessi. La
legge 146/90 impone che nei s.p.e. anche in caso di sciopero siano comunque garantite le
«prestazioni indispensabili» idonee a realizzare i diritti degli utenti, nel contemperamento con
l’esercizio effettivo del diritto di sciopero. L’individuazione delle «prestazioni indispensabili» è
rimessa alla contrattazione collettiva. Questa può ad es. disporre che siano comandati durante lo
sciopero i lavoratori tenuti a garantire le prestazioni indispensabili, indicando come individuarli,
oppure disporre in che termini il servizio verrà comunque erogato (ad es. con le cd. fasce
garantite). Viene così recuperato il ruolo chiave che già il contratto collettivo svolgeva nella fase
della cd. autoregolamentazione, con la modifica determinante che questa volta il contratto
collettivo interviene all’interno di una complessa procedimentalizzazione operata dalla legge, e
questo gli consente di superare le difficoltà derivanti dalla mancanza di efficacia erga omnes
dell’autonomia collettiva attingendo alla efficacia generalizzata disposta dalla legge.
Corte Cost. 18\10\1996 n 344
Non contrastano con l'art. 39 cost. gli art. 1, 2º comma, 2, 2º e 3º comma, e 8, 2º comma, l. 12
giugno 1990 n. 146, nella parte in cui, in caso di sciopero nei servizi pubblici essenziali, impongono
le prestazioni indispensabili - individuate nei contratti collettivi nel settore privato e degli accordi
collettivi (oggi ai sensi degli art. 45 seg. d.leg. 3 febbraio 1993 n. 29) nel settore pubblico - a tutti i
lavoratori indipendentemente dall'appartenenza alle organizzazioni stipulanti: la situazione è,
infatti, diversa da quella disciplinata dalla l. c.d. erga omnes 14 luglio 1959 n. 741, e dichiarata
incostituzionale dalla corte, in quanto:
1. la l. n. 146 del 1990 si riferisce anche ai contratti ed agli accordi successivi;
2. l'oggetto della contrattazione collettiva avente in qualche modo effetto generale non è un
conflitto di interessi tra imprenditori e lavoratori incidente sull'assetto generale del
mercato del lavoro, bensì il conflitto tra i lavoratori addetti ai pubblici servizi essenziali ed i
terzi utenti, in ordine alla misura entro cui l'esercizio del diritto di sciopero deve essere
mantenuto per contemperarlo con i diritti costituzionali della persona;
3. l'atto conclusivo del procedimento di contrattazione è individuato in un regolamento di
servizio emanato dalle imprese o dalle amministrazioni recettivo delle conclusioni del
negozio collettivo;
4. occorre una valutazione di idoneità della autorità di garanzia, capace, se negativo, di
produrre l'inefficacia dell'accordo, laddove viceversa il reale contratto collettivo, quale
mezzo di composizione del conflitto fra datori e lavoratori, sarebbe impermeabile a
qualsiasi controllo di razionalità;
5. in caso di mancanza di accordo o di giudizio di inidoneità supplisce il potere di ordinanza
dell'autorità che si adegua alle proposte della commissione.
Non contrastano con l'art. 40 cost. gli art. 1, 2º comma, 2, 2º e 3º comma, e 8, 2º comma, l. 12
giugno 1990 n. 146, nella parte in cui, in caso di sciopero nei servizi pubblici essenziali, impongono
le prestazioni indispensabili - individuate nei contratti collettivi nel settore privato e negli accordi
collettivi (oggi ai sensi degli art. 45 seg. d.leg. 3 febbraio 1993 n. 29) nel settore pubblico - a tutti i
lavoratori; la riserva di legge prevista nella norma parametro non esclude, infatti, che la
determinazione di certi limiti o modalità di esercizio del diritto di sciopero, specie di fronte alla
varietà delle situazioni organizzative e di servizio, possa essere rimessa non solo a fonti statali
subprimarie, ma anche alla contrattazione collettiva, purché con condizioni che garantiscano le
finalità per le quali la riserva è disposta, fra le quali l'affidamento ex post ad un organo pubblico
del controllo di idoneità degli accordi collettivi. Allorché sussista una situazione di pericolo di grave
pregiudizio ai diritti della persona costituzionalmente garantiti a causa del mancato funzionamento
dei s.p.e. conseguente ad un'astensione collettiva dal lavoro, l'art. 8 l. n. 146/90 prevede
l'intervento di una commissione (la CGS) i cui poteri di ordinanza in ordine alla individuazione delle
prestazioni indispensabili si deve intendere siano di norma vincolati, pur con un margine di
discrezionalità di adattamento alle circostanze concrete, alle determinazioni dell'autonomia
collettiva di cui all'art. 2 stessa legge.
Dopo la legge n. 83 del 2000 la contrattazione collettiva prevede anche gli intervalli minimi tra la
effettuazione di uno sciopero e la proclamazione del successivo (cd. rarefazione), al fine di evitare
che per effetto di scioperi proclamati in successione da soggetti sindacali diversi e che incidono
nello stesso servizio o sullo stesso bacino di utenza sia oggettivamente compromessa la continuità
dei servizi pubblici. La Commissione di garanzia ha il compito di rilevare «l’eventuale concomitanza
tra interruzioni o riduzioni di servizi pubblici alternativi, che interessano il medesimo bacino di
utenza, per effetto di astensioni collettive proclamate da soggetti sindacali diversi». In caso di
concomitanza la Commissione invita i soggetti la cui proclamazione è stata comunicata
«successivamente in ordine di tempo» a differire lo sciopero. Secondo l’opinione prevalente la
disciplina degli intervalli minimi si applica non solo per gli scioperi proclamati in successione da
soggetti sindacali diversi (c.d. rarefazione oggettiva), ma anche nel caso di scioperi proclamati dallo
stesso soggetto sindacale (c.d. rarefazione soggettiva). L’accordo deve prevedere procedure di
raffreddamento e conciliazione obbligatorie prima della proclamazione dello sciopero (art. 2,
secondo comma). Ovvero in alternativa la legge riconosce loro la possibilità di richiedere un
tentativo preventivo di conciliazione alla pubblica autorità. Le fondamentali disposizioni in tema di
preavviso minimo e di indicazione della durata non si applicano nei casi di «astensione dal lavoro
in difesa dell'ordine costituzionale», o di «protesta per gravi eventi lesivi dell'incolumità e della
sicurezza dei lavoratori». Anche i lavoratori autonomi, i professionisti ed i piccoli imprenditori sono
tenuti ad adottare codici di autoregolamentazione che devono indicare la durata e le motivazioni
dell’astensione collettiva ed assicurare in ogni caso l’erogazione delle prestazioni indispensabili
alla tutela degli utenti (art. 2 bis).

La commissione di garanzia
La Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali
(CGS) è chiamata a tutelare gli interessi degli utenti che, come visto, non partecipano alla
individuazione delle prestazioni indispensabili. La CGS ha il compito di valutare l’idoneità delle
misure volte ad assicurare il contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il
godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. La CGS, composta allo stato da
cinque membri compreso il Presidente (ridotti rispetto ai precedenti nove ai sensi dell’art. 23, 1
co., lett. i), del d.l. n. 201 del 2011, conv. L. n. 214/ 2011) scelti su designazione dei Presidenti della
Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica – tra esperti in materia di diritto costituzionale,
di diritto del lavoro e di relazioni industriali, e nominati con decreto del Presidente della
Repubblica – è una autorità amministrativa indipendente che ha, fra gli altri, il compito di valutare
la congruità degli accordi e dei codici di autoregolamentazione. La legge n. 83 del 2000 ha
attribuito alla Commissione di garanzia anche il potere di indicare «immediatamente ai soggetti
interessati eventuali violazioni delle disposizioni relative al preavviso, alla durata massima,
all’esperimento delle procedure preventive di raffreddamento e di conciliazione, ai periodi di
franchigia, agli intervalli minimi tra successive proclamazioni, e ad ogni altra prescrizione
riguardante la fase precedente all’astensione collettiva». Se lo sciopero contravviene alla delibera
di indicazione immediata della CGS le sanzioni previste dalla legge sono automaticamente
raddoppiate nel massimo (art. 4, quarto ter comma). La CGS può invitare con un’apposita delibera
i soggetti interessati a «riformulare la proclamazione in conformità alla legge e agli accordi o codici
di autoregolamentazione differendo l’astensione dal lavoro ad altra data». Se mancano gli accordi
sindacali di regolamentazione dello sciopero o non sono idonei, la legge attribuisce alla
Commissione esperito un tentativo di conciliazione tra le parti il potere di adottare una propria
delibera di provvisoria regolamentazione delle prestazioni indispensabili, delle procedure di
raffreddamento e conciliazione e delle altre misure di contemperamento. Tale delibera diviene
obbligatoria per le parti ma decade al raggiungimento di un accordo valutato idoneo dalla stessa
Commissione (provvisoria).
Nella provvisoria regolamentazione le prestazioni indispensabili devono essere contenute (salvo
deroghe motivate da parte della Commissione per casi particolari, e tenuto conto di eventuali
servizi alternativi) in misura non eccedente mediamente il 50% delle prestazioni normalmente
erogate, e riguardare quote strettamente necessarie di personale non superiori mediamente ad un
terzo del personale normalmente utilizzato per la piena erogazione del servizio. Quando si tratta di
assicurare fasce orarie di erogazione dei servizi (c.d. fasce protette, ad esempio, per i “pendolari”
del trasporto pubblico locale), questi ultimi devono essere garantiti in misura piena e conforme a
quella normalmente erogata. Questi criteri costituiscono ormai il parametro di riferimento anche
della valutazione di congruità degli accordi sindacali (art. 13, primo comma, lett. a). La l. 146/90
dispone sanzioni civili e amministrative: a) per i lavoratori che non collaborino all’erogazione delle
«prestazioni indispensabili» concordate sindacalmente o definite dall’ordinanza o dalla delibera di
provvisoria regolamentazione; b) per le organizzazioni sindacali e per i sindacalisti che proclamino
uno sciopero senza rispettare l’obbligo del preavviso o in contrasto con la legge; c) per i preposti al
settore o i legali rappresentanti degli enti e delle imprese che non assicurino adeguati livelli di
funzionamento dei s.p.e.. Per i lavoratori sono previste «sanzioni disciplinari», anche pecuniarie,
«proporzionate alla gravità dell’infrazione», escluse le misure estintive del rapporto o che
comportino mutamenti definitivi; per le OO.SS. che violano gli obblighi di cui all’art. 2 della legge n.
146 del 1990 possono essere «sospesi i permessi sindacali retribuiti ovvero i contributi sindacali
comunque trattenuti dalla retribuzione, ovvero entrambi, per la durata dell’astensione stessa» e
comunque per un ammontare complessivo non inferiore a euro 2.500 e non superiore a euro
50.000, graduabile «tenuto conto della consistenza associativa, della gravità della violazione e
della eventuale recidiva, nonché della gravità degli effetti dello sciopero sul servizio pubblico». Alla
prova dei fatti l’apparato sanzionatorio della 146/1990 si è spesso dimostrato inoffensivo a ragione
della cronica incapienza delle organizzazioni sindacali minori. La l. 83/2000 ha quindi aggiunto un
co. 4bis all’art. 4 l. 146/90 per cui se le OO.SS. sanzionate «non fruiscono dei benefici di ordine
patrimoniale», ovvero «non partecipano alle trattative», la CGS può deliberare in via sostitutiva
una sanzione amministrativa pecuniaria a carico di coloro che «rispondono legalmente» per l’O.S.,
graduabile tra un minimo di euro 2.500 ed un massimo di euro 50.000. La Corte costituzionale ha
ritenuto illegittima la disposizione dell’art. 4, 2 co., l. 146/90, nella parte in cui consentiva che
l’applicazione, ad opera del datore di lavoro, delle sanzioni previste per l’ipotesi di violazioni
commesse dalle OO.SS. avvenisse anche in assenza di una specifica «indicazione della CGS» (sent.
n. 57/1995).
La CGS su richiesta delle parti interessate, delle associazioni degli utenti, delle autorità nazionali o
locali che vi abbiano interesse o di propria iniziativa, apre il procedimento di valutazione del
comportamento di tutti i soggetti coinvolti nella astensione collettiva del lavoro. L’apertura del
procedimento viene notificata alle parti che hanno trenta giorni per presentare osservazioni e per
chiedere di essere sentite. Decorso tale termine e comunque non oltre sessanta giorni
dall’apertura del procedimento, la Commissione formula la propria valutazione e, se valuta
negativamente il comportamento, delibera le sanzioni ed i termini entro cui queste devono essere
applicate. La l. 146/90 all’art. 20-bis devolve il controllo giudiziario sulle deliberazioni della
Commissione di garanzia «in materia di sanzioni» al giudice del lavoro. Diversamente compete al
giudice amministrativo il controllo sui restanti atti della Commissione di garanzia tra cui le delibere
di provvisoria regolamentazione dello sciopero.
In caso di fondato pericolo di pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona
costituzionalmente garantiti, a causa del mancato funzionamento dei servizi di interesse generale
per lo sciopero di lavoratori subordinati, ma anche autonomi, professionisti o piccoli imprenditori,
l’autorità governativa - il Presidente del Consiglio dei Ministri o un Ministro da lui delegato, ovvero
il Prefetto, a seconda della competenza nazionale regionale o infra-regionale dettata dalla
rilevanza del conflitto - su segnalazione della CGS ovvero di propria iniziativa nei casi di necessità
ed urgenza, può invitare le parti a desistere dai comportamenti che determinano la situazione di
pericolo, a esperire, nel più breve tempo possibile, un tentativo di conciliazione e se il tentativo
non riesce può adottare con ordinanza le misure necessarie a prevenire il pregiudizio dei diritti
degli utenti (art. 8, primo comma). L’ordinanza, da adottare almeno 48 prima dello sciopero salvo
che sia ancora in corso il tentativo di conciliazione o vi siano ragioni di urgenza, può:

 disporre il differimento della astensione collettiva ad altra data;


 unificare astensioni collettive già proclamate con riferimento allo stesso servizio;
 disporre la riduzione della durata dello sciopero;
 prescrivere l’osservanza delle misure ritenute idonee a garantire il funzionamento del
servizio pubblico essenziale, tenuto conto, laddove formulati, dei pareri, delle segnalazioni
e delle proposte della Commissione di garanzia
L’ordinanza di precettazione deve specificare il periodo di tempo durante il quale i provvedimenti
dovranno essere osservati dalle parti. Dell'ordinanza viene altresì data notizia mediante adeguate
forme di pubblicazione sugli organi di stampa, nazionali o locali, o mediante diffusione attraverso
la radio e la televisione. Dei provvedimenti adottati ai sensi del presente articolo, il Presidente del
Consiglio dei ministri dà comunicazione alle Camere. Avverso l’ordinanza è possibile il ricorso al
TAR entro sette giorni dalla sua comunicazione ovvero dalla sua affissione nei luoghi di lavoro, per
chiedere la sospensione del provvedimento impugnato.

CAPITOLO 5= i diritti sindacali in azienda


I diritti sindacali nei luoghi di lavoro
Nel primo ventennio (1950-1970) di applicazione, la piena realizzazione degli alti ideali
Repubblicani presenti nella Costituzione di tutela del lavoro ha trovato un serio ostacolo nella
incapacità del sindacato di controbilanciare il potere del datore di lavoro all’interno dei luoghi di
lavoro. A questa condizione di debolezza poteva rispondere solo il legislatore. Di qui la necessità di
una legge di sostegno sindacale la cui faticosa elaborazione è poi culminata nella legge n. 300 del
1970, cd. Statuto dei lavoratori (SL, ma più precisamente: «… sulla tutela della libertà e dignità dei
lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro…»). Lo SL è ancora
oggi la legge fondamentale del diritto del lavoro e sindacale italiano. Contiene infatti una serie di
disposizioni, in larga parte rimaste immodificate nell’originaria versione, che garantiscono l’azione
sindacale all’interno delle aziende private e nelle pubbliche amministrazioni. Lo SL si apre con un
Titolo I dedicato alla Libertà e dignità del lavoratore (artt. 1-13)che contiene una serie di principi
guida che si applicano a tutti i lavoratori indistintamente, anche considerati singolarmente e
prescindendo da una loro affiliazione sindacale. Segue il Titolo II Della libertà sindacale (artt. 14-
18) che fissa alcuni principi di tutela diretta ed indiretta dell’azione di ogni sindacato anche non
(ancora) rappresentativo. Quindi culmina in un Titolo III (artt. 19-27) Dell’attività sindacale che
individua ed attribuisce una serie di diritti, prerogative e facoltà (assemblea, referendum, permessi
retribuiti ecc.) soltanto al sindacato ritenuto e selezionato come rappresentativo dal legislatore.
Infine col Titolo IV Disposizioni varie e generali regola alcuni fondamentali aspetti applicativi e
soprattutto introduce uno strumento processuale straordinario e fondamentale (art. 28) per
evitare che l’intera impalcatura normativa venga affossata dai tempi della giustizia ordinaria.
Segue il Titolo V che dettava norme sul collocamento ed il Titolo VI con le Disposizioni finali e
penali tra cui il fondamentale art. 35 sul campo di applicazione del Titolo III.
Segue il campo di applicazione del Titolo III (artt. 19-27)
Art. 35 Per le imprese industriali e commerciali, le disposizioni del Titolo III, ad eccezione del primo
comma dell'articolo 27 (che ha un campo di applicazione autonomo almeno 200 dipendenti), dello
SL si applicano a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di
quindici dipendenti. Le stesse disposizioni si applicano alle imprese agricole che occupano più di
cinque dipendenti. Le norme suddette si applicano, altresì, alle imprese industriali e commerciali
che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole
che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti anche se ciascuna unità
produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti.
Le norme a tutela della libertà e dignità dei lavoratori
Lo SL si apre non a caso con l’enunciazione del fondamentale principio di tutela della libertà di
opinione di diretta ascendenza costituzionale (art. 21 Cost).
Art. 1 (Libertà di opinione) I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede
religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il
proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge. A
questo principio si ricollega anche la libertà di proselitismo e di collettaggio riconosciuti a ciascun
lavoratore
Art. 26 (Contributi sindacali) I lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera
di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all'interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio
del normale svolgimento dell'attività aziendale. che concretamente poi alimentano
l’associazionismo sindacale: Art. 14 (Diritto di associazione e di attività sindacale) Il diritto di
costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, è garantito a tutti i
lavoratori all'interno dei luoghi di lavoro.
Con il Titolo I dello SL è la persona del lavoratore direttamente riguardata dall’istanza protettiva,
ad essere perciò coinvolta integralmente ed olisticamente – identità, corpo, personalità, psiche –
direttamente all’interno della «struttura stessa del rapporto di lavoro, arricchendo la sua nucleare
relazione di debito credito» (Grandi).
Per cui con lo Statuto, è stato autorevolmente rilevato, il «dato peculiare dell’implicazione della
persona» finisce per assumere «una ulteriore e più penetrante rilevanza giuridica quale criterio di
attrazione nell’area degli interessi protetti dal contratto anche di interessi non patrimoniali del
debitore del lavoro, sottratti in tutto o in parte alla disponibilità del creditore» (Mengoni).
Si pensi solo alla innovativa normativa sul diritto allo studio (art. 10: «I lavoratori studenti, iscritti e
frequentanti corsi regolari di studio in scuole di istruzione primaria, secondaria e di qualificazione
professionale, statali, pareggiate o legalmente riconosciute o comunque abilitate al rilascio di titoli
di studio legali, hanno diritto a turni di lavoro che agevolino la frequenza ai corsi e la preparazione
agli esami e non sono obbligati a prestazioni di lavoro straordinario o durante i riposi settimanali».
I «lavoratori studenti, compresi quelli universitari, che devono sostenere prove di esame, hanno
diritto a fruire di permessi giornalieri retribuiti»). Ovvero a quella sulla cogestione sindacale delle
«attività culturali, ricreative ed assistenziali e controlli sul servizio di mensa» (art.11).
Riconoscere nei luoghi di lavoro i diritti fondamentali della persona ha significato anche garantire
ai lavoratori un vero e proprio Habeas corpus act, una carta che sancisce in maniera irretrattabile il
principio della inviolabilità personale. Inviolabilità che si estrinseca tanto nel principio del
contraddittorio e nell’obbligo di motivato addebito per ogni infrazione disciplinare (art. 7), quanto
nel riconoscere la sacralità laica della personalità e del corpo del lavoratore implicato nello sforzo
fisico di lavorare sottraendoli alla sfera di dominio datoriale. Vediamo le previsioni più importanti.
Art. 3 (Personale di vigilanza) I nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla
vigilanza dell'attività lavorativa debbono essere comunicati ai lavoratori interessati.
Art. 2 (Guardie giurate) Il datore di lavoro può impiegare le guardie particolari giurate… soltanto
per scopi di tutela del patrimonio aziendale. Le guardie giurate non possono contestare ai
lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che attengono alla tutela del patrimonio aziendale. È fatto
divieto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull'attività lavorativa le guardie giurate, le quali
non possono accedere nei locali nei quali si svolge tale attività, durante lo svolgimento della
stessa, se non eccezionalmente per specifiche e motivate esigenze attinenti alla tutela del
patrimonio aziendale. In caso di inosservanza da parte di una guardia particolare giurata delle
disposizioni di cui al presente articolo, la DTL ne promuove presso il questore la sospensione dal
servizio, salvo il provvedimento di revoca della licenza da parte del prefetto nei casi più gravi.
Contro il sistema delle schedature dei dipendenti: Art. 8 (Divieto di indagini sulle opinioni) E' fatto
divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di
lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali
del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale
del lavoratore. (nel 1970 non era prevedibile il fenomeno dei social media).
Con l’art. 4 dopo la riforma del 2015 vengono poi regolati a tutela della privacy e dunque della
personalità dei lavoratori anche gli impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo, stabilendo
che: «Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a
distanza dell'attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze
organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e
possono essere installati previo accordo collettivo stipulato da RSA o RSU. In alternativa, nel caso
di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più
regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al
primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’INL o, in
alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più
sedi territoriali, della sede centrale dell’INL». Il divieto in questione non si applica agli «strumenti
utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli
accessi e delle presenze» e «le informazioni raccolte» sono «utilizzabili a tutti i fini connessi al
rapporto di lavoro» a condizione che sia data al lavoratore una adeguata informativa e che
l’effettuazione dei controlli rispetti la normativa privacy.
Lo SL vieta la prassi del medico di fabbrica.
Art. 5 (Accertamenti sanitari) Sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità
e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente. Il controllo delle assenze per
infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali
competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda. Il datore di
lavoro ha la facoltà di far controllare l'idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed
istituti specializzati di diritto pubblico. E pone fine alle umilianti visite e perquisizioni sulla persona
del lavoratore.
Art. 6 (Visite personali di controllo) Le visite personali di controllo sul lavoro sono vietate fuorché
nei casi in cui siano indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla
qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti.
In tali casi le visite personali potranno essere effettuate soltanto a condizione che siano eseguite
all'uscita dei luoghi di lavoro, che siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore e
che avvengano con l'applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla collettività o a
gruppi di lavoratori. Le ipotesi nelle quali possono essere disposte le visite personali, nonché…
[fermi i limiti già visti che non possono essere derogati e vanno eventualmente sindacati dal
giudice] le relative modalità debbono essere concordate dal datore di lavoro con le RSA oppure, in
mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di
lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro. Contro i provvedimenti dell'Ispettorato del lavoro …, il
datore di lavoro, le RSA o, in mancanza di queste, la commissione interna… possono ricorrere,
entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il lavoro e la previdenza
sociale.
La tutela della libertà di azione sindacale e la lotta alle distorsioni
Art. 15 (Atti discriminatori) È nullo qualsiasi patto od atto diretto a:

 subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad


una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;
 licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei
trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della
sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.
Art. 16 (Trattamenti economici collettivi discriminatori) «E' vietata la concessione di trattamenti
economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio» ai sensi della disciplina dell’art. 15. Il
giudice del lavoro «su domanda dei lavoratori nei cui confronti è stata attuata la discriminazione…
o delle associazioni sindacali alle quali questi hanno dato mandato, accertati i fatti, condanna il
datore di lavoro al pagamento, a favore del fondo adeguamento pensioni, di una somma pari
all'importo dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamente corrisposti nel periodo
massimo di un anno».
Divieto di sindacato cd. giallo.
Art. 17 (Sindacati di comodo) E' fatto divieto ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di
lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di
lavoratori.

I diritti del titolo III. L’assemblea e il referendum


Art. 20 (Assemblea) I lavoratori hanno diritto di riunirsi, nell'unità produttiva in cui prestano la loro
opera, fuori dell'orario di lavoro, nonché durante l'orario di lavoro, nei limiti di dieci ore annue, per
le quali verrà corrisposta la normale retribuzione. Migliori condizioni possono essere stabilite dalla
contrattazione collettiva.
Le riunioni - che possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi - sono indette,
singolarmente o congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali nell'unità produttiva,
con ordine del giorno su materie di interesse sindacale e del lavoro e secondo l'ordine di
precedenza delle convocazioni, comunicate al datore di lavoro.
Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso (non consenso) al datore di lavoro, dirigenti
esterni del sindacato che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale. Ulteriori modalità
per l'esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro,
anche aziendali.
Le RSA, singolarmente o congiuntamente, o le RSU, possono indire assemblee nei luoghi di lavoro
che possono riguardare la generalità dei lavoratori ovvero solo gruppi di essi ma che devono
necessariamente trattare materie di interesse sindacale e del lavoro. Partecipano di diritto iscritti e
non iscritti ai sindacati le cui RSA o RSU hanno indetto l’assemblea .
Le assemblee possono essere convocate sia fuori che durante l’orario di lavoro. Occorre la previa
comunicazione al datore di lavoro dell’ordine del giorno e un preavviso in caso eventuale
partecipazione di dirigenti esterni del sindacato nel cui ambito sono state costituite le
rappresentanze sindacali aziendali o quelle unitarie. Il datore di lavoro non ha diritto di
partecipazione all’assemblea, ma può essere invitato. Deve in ogni caso consentire l’assemblea
legittimamente indetta, secondo l’ordine di precedenza delle convocazioni pervenutegli, mettendo
a disposizione idonei spazi (id est illuminati, riscaldati, accessibili, agibili, sicuri, ecc.) e
corrispondere la normale retribuzione per almeno dieci ore annue di assemblea. Le ore ulteriori
non sono retribuite, salve condizioni più favorevoli stabilite dalla contrattazione collettiva. Pur
essendo uno strumento di democrazia diretta le assemblee, salvo casi specifici, non hanno poteri
deliberativi per quanto concerne l’azione sindacale né vero e proprio potere contrattuale nelle
negoziazioni, ma esprimono una valutazione di politica sindacale (ad es. sulla cosiddetta
piattaforma rivendicativa nell’ambito delle trattative per il rinnovo del contratto collettivo, o per
ratificare l’ipotesi di accordo), dunque sono uno strumento utile di consultazione (ma non un
organo dell’organizzazione sindacale istituzionale).
Art. 21 (Referendum) «Il datore di lavoro deve consentire nell'ambito aziendale lo svolgimento,
fuori dell'orario di lavoro, di referendum, sia generali che per categoria, [solo] su materie inerenti
all'attività sindacale, indetti da tutte le RSA tra i lavoratori, con diritto di partecipazione di tutti i
lavoratori appartenenti all'unità produttiva e alla categoria particolarmente interessata. Ulteriori
modalità per lo svolgimento del referendum possono essere stabilite dai contratti collettivi di
lavoro anche aziendali».
Focus: chi può convocare l’assemblea?
Come visto il potere di indire l’assemblea sindacale spetta “singolarmente o congiuntamente” alle
RSA presenti nell’unità produttiva e, per l’effetto degli accordi conclusi, alle RSU. Sulla
convocazione ad opera delle RSA non sorgono problemi, in quanto ogni RSA agisce in autonomia
senza confliggere con le altre (se non in relazione al rispetto del limite di dieci ore di assemblea).
Diversamente le RSU hanno una struttura intersindacale essendo una in ciascuna impresa o unità
produttiva. Dunque la titolarità del potere di convocazione ex art. 20 chiama in causa la questione
circa la natura collegiale/maggioritaria e dunque autonoma della RSU quasi si tratti di una sorta di
organo sindacale istituzionale e non della sommatoria di esponenti delle diverse organizzazioni
sindacali di riferimento. La giurisprudenza di legittimità inizialmente aveva ritenuto (Cass. 20 aprile
2002, n. 5756 e Cass. 26 febbraio 2002, n. 2855 ) che per la convocazione dell’assemblea da parte
della RSU fosse necessario applicare il criterio della collegialità. Successivamente è prevalsa la
linea interpretativa secondo cui il diritto di convocare l’assemblea spetta a ciascun singolo
componente della RSU (Cass., S.U., 6 giugno 2017, n. 13978). Le Sezioni Unite della Corte di
Cassazione hanno ritenuto che l’affermazione di legittimazioni concorrenti della RSU come organo
collegiale e di ogni suo componente non collide con il principio della democrazia maggioritaria. Il
principio di maggioranza che governa le RSU non è incompatibile con il diritto di ciascun membro
di richiedere la convocazione dell’assemblea sindacale perché la RSU non è una mera sommatoria
di distinte rappresentanze sindacali ed il principio di maggioranza va applicato nel momento in cui
si delibera, ma non quando si esercitano diritti, come quello di indizione, che non implicano
decisioni vincolanti nei confronti di una minoranza dissenziente.
Locali e bacheche sindacali (art 27)
RSA e RSU hanno diritto, nelle unità produttive con almeno 200 dipendenti, a disporre
permanentemente (si tratta di uno spossessamento di diritto) di un idoneo (anche qui illuminato,
riscaldato, accessibile, agibile, sicuro, ecc.) locale comune, ubicato nella medesima unità
produttiva o nelle immediate vicinanza. Nelle unità produttive con meno di 200 dipendenti,
debbono potere usufruire previa richiesta di un luogo dove effettuare le riunioni sindacali (art. 27
Locali delle rappresentanze sindacali aziendali), A ciascuna RSA o RSU spetta anche il diritto di
affiggere – su appositi spazi che il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre all’interno dell’unità
produttiva in un luogo a sua scelta purché accessibile a tutti i lavoratori – pubblicazioni, testi e
comunicati che siano, però, inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro (art. 25, legge n.
300 del 1970). Si tratta, anche qui, di uno spazio ormai al di fuori della disponibilità del datore di
lavoro. Al datore di lavoro non compete alcun potere di sindacare, autorizzare o rimuovere quanto
affisso nelle c.d. bacheche sindacali, può solo ricorrere al giudice perché intervenga in caso ravvisi
un uso illecito. La responsabilità per i testi o le immagini eventualmente offensivi o diffamatori
ricade sui responsabili sindacali che li hanno inseriti nella bacheca, nonché eventualmente sulle
rappresentanza sindacale che gestisce lo spazio.
Contributi sindacali (art 26)
Tutti i lavoratori hanno poi il diritto di chiedere il versamento, mediante trattenuta sulla
retribuzione, del contributo sindacale all’associazione da loro indicata (art. 26). La
contabilizzazione delle deleghe sindacali dovrebbe garantire la segretezza del dato individuale e la
sua riconducibilità al singolo lavoratore. Uno dei referendum popolari tenutisi l’11 giugno 1995 ha
però abrogato la disposizione dell’art. 26 della legge n. 300 del 1970 che imponeva al datore di
lavoro l’obbligo di riscuotere i contributi sindacali, operando una trattenuta cd. alla fonte sulla
retribuzione, per poi versare al sindacato designato dal lavoratore. Di conseguenza, la trattenuta
sindacale è, ora, consentita soltanto alle organizzazioni sindacali che sottoscrivono od aderiscono
ad un contratto collettivo che prevede l’obbligo del datore di lavoro di eseguire la trattenuta
richiesta dal lavoratore. In mancanza di tale obbligo contrattuale il datore di lavoro può invece
legittimamente rifiutare la delegazione di pagamento (art. 1269 co. 2 Cod. Civ. per cui «il terzo
delegato per eseguire il pagamento non è tenuto ad accettare l'incarico, ancorché sia debitore del
delegante») Se l’obbligo di ritenuta alla fonte viene invece introdotto all’interno della parte
obbligatoria appunto dal contratto collettivo, il sindacato, a condizione che sia garantita la
segretezza, ha tutto il diritto di percepire i contributi corrispondenti alle trattenute operate dai
datori di lavoro in busta paga.
Tutela dei dirigenti e componenti dei direttivi sindacali
Per un più efficace svolgimento dell’attività sindacale la legge riconosce ai dirigenti sindacali
facoltà e diritti ed in particolare una tutela rafforzata contro alcuni provvedimenti nei quali si
esercita il potere del datore di lavoro. Chi sono i dirigenti sindacali? In assenza di una definizione
legale, la giurisprudenza riconosce come dirigenti sindacali quei lavoratori/sindacalisti che, a
prescindere dalla qualificazione meramente nominalistica della loro posizione, svolgono all’interno
dell’organizzazione sindacale, per le specifiche funzioni da essi espletate, un’attività tale da poterli
far considerare responsabili della conduzione della rappresentanza sindacale. In realtà nei casi
controversi il giudice deve attingere alle fonti endo-sindacali (ad es. lo statuto) per decidere se si
tratti o meno di un dirigente
Il trasferimento del dirigente sindacale da un’unità produttiva ad un’altra deve essere autorizzato
dalle associazioni sindacali di appartenenza, al fine di tutelare la continuatività dell’azione
sindacale (cd. nulla osta preventivo ex art. 22, primo comma, legge n. 300 del 1970).
Nell’ipotesi di licenziamento di uno dei dirigenti sindacali aziendali è poi previsto che il giudice, su
istanza congiunta del lavoratore e del sindacato, in ogni stato e grado del giudizio di merito,
disponga con un’ordinanza – reclamabile, ma non revocabile, se non dalla sentenza che definisce
la causa – la provvisoria reintegrazione del dirigente nel posto di lavoro, se ritiene irrilevanti o
insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro come fatti costitutivi del licenziamento
stesso (art. 18 co 11 della legge n. 300 del 1970 ).
I componenti degli organi direttivi, provinciali e nazionali, delle associazioni che hanno
rappresentanza sindacale ex art. 19 SL hanno poi diritto a permessi retribuiti, secondo le norme
dei contratti di lavoro, per la partecipazione alle riunioni degli organi suddetti (art. 30).
Mentre i lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali possono, a
richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita, per tutta la durata del loro mandato (art.
31), ed i periodi di aspettativa sono considerati utili a richiesta dell'interessato, ai fini del
riconoscimento del diritto e della determinazione della misura della pensione a carico dell’AGO,
nonché a carico di enti, fondi, casse e gestioni per forme obbligatorie di previdenza sostitutive od
esonerative. Inoltre durante i periodi di aspettativa l'interessato, in caso di malattia, conserva
anche il diritto alle prestazioni a carico dei competenti enti preposti alla erogazione delle
prestazioni medesime (art. 31).
Permessi sindacali
Per svolgere l’attività sindacale, i dirigenti sindacali hanno, altresì, diritto di fruire di permessi
retribuiti e non retribuiti, per un numero di ore stabilito dalla legge o eventualmente dalla
contrattazione collettiva. I PR sono concessi per l'espletamento del mandato sindacale e la loro
fruizione deve essere comunicata dal lavoratore beneficiario al datore di lavoro per iscritto con 24
ore di anticipo tramite le RSA/RSU (art. 23, legge n. 300 del 1970). Salvo clausole più favorevoli dei
contratti collettivi di lavoro hanno diritto ai PR almeno : a) un dirigente per ciascuna RSA nelle
unità produttive che occupano fino a 200 dipendenti della categoria per cui la stessa è organizzata;
b) un dirigente ogni 300 o frazione di 300 dipendenti per ciascuna RSA nelle unità produttive che
occupano fino a 3.000 dipendenti della categoria per cui la stessa è organizzata; c) un dirigente
ogni 500 o frazione di 500 dipendenti della categoria per cui è organizzata la RSA nelle unità
produttive di maggiori dimensioni, in aggiunta al numero di cui alla precedente lettera b). I
permessi retribuiti non possono essere inferiori a otto ore mensili nelle aziende di cui alle lettere
b) e c); mentre nelle aziende di cui alla lettera a) i permessi retribuiti non possono essere inferiori
ad un'ora all'anno per ciascun dipendente. I PNR invece, possono essere richiesti tramite la
rappresentanza sindacale per la partecipazione a trattative sindacali o a congressi o convegni di
natura sindacale, con un preavviso scritto di tre giorni (art. 24, legge n. 300 del 1970). In entrambi i
casi viene alterato, in vista dell’effettivo esercizio dell’azione sindacale che per sua natura
confligge con le esigenze della produzione, l’assetto di interessi anche economici che caratterizza il
rapporto di lavoro, atteso che il dirigente sindacale può così sospendere unilateralmente l’attività
lavorativa senza rendersi inadempiente ed anzi mantenendo in alcuni casi il diritto alla
retribuzione (Persiani).
Il rischio della ineffettività dello SL e l’art 28
Il legislatore del 1970 avvertì in maniera lungimirante che l’intera legge di sostegno sindacale era
seriamente a rischio di ineffettività senza una specifica previsione che derogasse e innovasse
rispetto al quadro ordinario delle tutele processuali. Anticipò nello SL una preoccupazione più
generale che poi spinse alla revisione del codice di procedura civile italiano, con l’introduzione del
rito speciale del lavoro con la legge 11 agosto 1973, n. 533 per la trattazione di tutte le
controversie relative a rapporti di lavoro ed in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie.
Non a caso prima del 1970 il sindacato riteneva molto più tempestivo ed efficiente il ricorso
all’autotutela collettiva rispetto alla via giudiziaria. Finché con l’art. 28, legge n. 300 del 1970 è
stato introdotto un particolare procedimento giudiziario volto a garantire l’effettivo godimento dei
diritti sindacali e, in particolare, a garantire la libertà dell’azione sindacale e dell’esercizio del
diritto di sciopero, attraverso la repressione delle eventuali condotte datoriali definite
antisindacali.
L’art. 28 prevede che: «Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad
impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero,
su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il
[Giudice del lavoro] del luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato, nei due giorni
successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la
violazione…, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la
cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. La legge non detta in
maniera puntuale i comportamenti tassativamente vietati e neppure definisce la nozione di
comportamento antisindacale del datore di lavoro. Lo stesso una nozione si ricava anche se ha
natura teleologica. Per cui può essere represso ogni comportamento finalizzato ed idoneo ad
impedire o, quanto meno, a limitare:

 la libertà sindacale;
 l’azione sindacale;
 l’esercizio del diritto di sciopero.
Secondo la giurisprudenza, per accertare l’esistenza di una condotta antisindacale si può
prescindere dall’esistenza di un elemento intenzionale nella condotta del datore di lavoro,
essendo sufficiente la rilevanza oggettivamente antisindacale della sua condotta. Viene così risolto
un dissidio dottrinale che vedeva alcuni autori sostenere la limitazione del campo di applicazione
alle sole condotte nominate dalla legge o in violazione di diritti sanciti dalla legge (ad esempio la
mancata informazione sindacale in un trasferimento di azienda) o dal contratto collettivo (es.
estromissione dal tavolo negoziale in violazione di un precedente accordo). Ma questo non
significa che ogni condotta datoriale illegittima o illecita costituisca comportamento antisindacale.

Le condotte cd plurioffensive e il pubblico impiego


Tra le attività antisindacali reprimibili vi possono essere quelle così dette «plurioffensive», perché
hanno la duplice capacità di ledere un diritto di un singolo lavoratore e di impedire,
contemporaneamente, l’azione sindacale. Ad esempio, se il datore di lavoro licenzia un lavoratore
sindacalista o trasferisce un dirigente sindacale senza il preventivo nulla osta. Se non paga gli
arretrati della retribuzione soltanto ai lavoratori che avevano scioperato per protestare avverso i
ritardati pagamenti. In questi casi, il lavoratore potrebbe agire anche in via ordinaria (ex art. 414
c.p.c.) per far valere, a tutela del suo interesse individuale, la illegittimità del suo licenziamento
(art. 18, legge n. 300 del 1970) o del trasferimento (art. 2103 Cod. civ.) o reclamare le differenze
retributive. Contemporaneamente anche l’organizzazione sindacale può agire autonomamente
per la repressione della condotta antisindacale, in quanto l’illegittimo provvedimento del datore di
lavoro, privandola di un’attivista sindacale, o minandone la credibilità (come ad esempio nel caso
dell’inadempimento intenzionale all’obbligo assunto con il contratto che vada oltre il mero ritardo
fisiologico) ha impedito o limitato lo svolgimento della sua attività sindacale. Deve però avere un
interesse attuale e concreto, di qui l’opportunità di non far decorrere un tempo incompatibile con
l’urgenza tipica del procedimento (cd. requisito della attualità). Anche al sindacato può residuare
peraltro l’azione ordinaria. Dopo la c.d. privatizzazione del rapporto di pubblico impiego l’art. 28 SL
si applica anche ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (cfr. art. 63,
terzo comma, del d.lgs. n. 165 del 2001). Il procedimento si svolge innanzi al Tribunale civile
ordinario Giudie del lavoro e non al TAR, non solo quando il ricorso abbia ad oggetto
comportamenti lesivi dei diritti delle organizzazioni sindacali, ma anche quando esso riguardi
comportamenti plurioffensivi che, come visto, incidono contestualmente su situazioni giuridiche
individuali del pubblico dipendente, ancorché sia richiesta al giudice l'eliminazione del
provvedimento amministrativo incidente su posizioni soggettive di singoli dipendenti e la
rimozione dei relativi effetti.
Legittimazione attiva
La legge legittima ad iniziare lo speciale procedimento giudiziario esclusivamente gli organismi
locali delle organizzazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse. Per la giurisprudenza il
requisito della nazionalità (che non coincide con la rappresentatività) si ha se l’organizzazione
sindacale dimostri di svolgere «un’effettiva azione sindacale» a livello nazionale (con eventuale ma
non necessario riferimento alla stipulazione del contratto collettivo). Non basta cioè la mera
deduzione del requisito dalle disposizioni statutarie che ad es. individuano lo scopo
dell’organizzazione nel sostenere strutture ed attività sindacali di rilievo nazionale. Sempre
secondo la giurisprudenza per organismi locali dobbiamo intendere le strutture periferiche del
sindacato, ma non le RSA o RSU. Ciò per evitare la proliferazione senza filtri dei ricorsi alla speciale
azione giudiziaria. La legittimazione a proporre l’azione per la repressione della condotta
antisindacale spetta piuttosto alle organizzazioni provinciali dei sindacati (requisito della località
inteso come dimensionamento territoriale dell’interesse collettivo gestito). Viene perciò negata la
legittimazione a ricorrere nel caso del sindacato nazionale proprio perché la legge abilita alla
promozione del ricorso ex art. 28 SL le istanze sindacali territoriali più vicine alla specifica realtà
aziendale coinvolta ed il sindacato nazionale o confederale non è annoverabile tra le strutture
sindacali «locali» . Ciò non toglie però che il sindacato nazionale possa agire per l’accertamento di
una condotta antisindacale, ma solo instaurando un processo ordinario.

Il procedimento
Quello dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970 è un procedimento urgente e a cognizione
sommaria. Il giudice del lavoro, senza bisogno di una istruttoria formale e completa, ma
semplicemente sentendo sommari informatori, se ravvisa l’esistenza di un’attività antisindacale
posta in essere dal datore di lavoro, ordina, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo,
la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. Anche qui si tratta di
provvedimento a contenuto aperto, anche se non sempre demolitorio rispetto all’atto datoriale
contestato. Il decreto che decide il ricorso può essere impugnato, entro quindici giorni dalla sua
comunicazione, depositano una opposizione davanti al medesimo Tribunale, ancorché in diversa
composizione monocratica (altrimenti ha l'obbligo di astenersi, ai sensi dell'art. 51, 1° comma, n. 4,
c.p.c., cfr. Corte Cost. 15 ottobre 1999 n. 387), che decide con sentenza immediatamente
esecutiva all’esito di un procedimento ordinario e non più a cognizione sommaria. Il decreto oltre
che motivato ed immediatamente esecutivo è particolarmente resistente visto che la sua efficacia
esecutiva non può essere revocata fino alla diversa sentenza del Giudice del lavoro all’esito della
cognizione ordinaria. Ciò comporta che è inammissibile l'istanza di sospensione degli effetti del
decreto con cui sia stato accolto un ricorso per la soppressione di condotta antisindacale, né quel
decreto è suscettibile di reclamo immediato ex art. 669 terdecies c.p.c. Nonostante l’urgenza e la
sommarietà il decreto ex art. 28 SL ha una funzione decisoria di per sé idonea a realizzare un
assetto dei rapporti tra le parti e definire il contenzioso, non in via meramente incidentale o
strumentale e provvisorio ovvero interinale (fino alla decisione del merito), ma anzi suscettibile - in
caso di mancata opposizione - di assumere valore di pronuncia definitiva, con effetti di giudicato
tra le parti. Inoltre il datore di lavoro che non ottempera al decreto incorre nelle sanzioni penali
previste dall’art. 650 c.p. che puniscono l’inottemperanza agli ordini del giudice («Chiunque non
osserva un provvedimento legalmente dato dall'Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza
pubblica, o d'ordine pubblico o d'igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato ,
con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a euro 206»). Come ulteriore disincentivo
l’autorità giudiziaria ordina la pubblicazione della sentenza penale di condanna il datore di lavoro
ai sensi dell’art. 36 c.p. mentre il giudice del lavoro può ordinare la pubblicazione del decreto su
quotidiani nazionali o locali.

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