DIRITTO Sindacale Definitivo
DIRITTO Sindacale Definitivo
Il diritto sindacale ha ad oggetto l’organizzazione dei sindacati intesi come associazioni volontarie
dei lavoratori e l’attività/l’azione sindacale. Al diritto sindacale si affianca il diritto delle relazioni
industriali che attiene alle interrelazioni tra le oo.ss e i datori di lavoro e le loro organizzazioni. In
entrambi i casi sono centrali gli istituti del contratto collettivo e lo sciopero, oltre alle altre forme di
azione e lotta sindacale.
Il diritto sindacale italiano, oltre a dedicarsi alla gestione dei rapporti individuali di lavoro,
storicamente ha svolto anche un ruolo importante nell’area del diritto pubblico dell’economia. Si
tratta della cd concertazione, fenomeno e dinamica a carattere anche politico, in cui il sindacato
assume un ruolo nella gestione pubblica dell’economia e partecipa all’esercizio dei poteri dello
Stato, divenendo parte e di atti giuridici di cui non è l’unico autore.
Il diritto sindacale (non ovviamente quello delle relazioni industriali) si occupa coerentemente
anche della cd sindacalizzazione dei pubblici dipendenti. Salvo registrare in quella sede un diverso
ruolo della legge anche in ragione di precisi vincoli costituzionali (art 97 cost).
Sindacalizzata deve ormai ritenersi anche una parte del lavoro autonomo (ad es i cd riders), in
special modo quella che si pone al confine con il lavoro subordinato e dunque ne eredita quasi per
osmosi necessità, urgenze, e conflittualità.
Questo complesso intreccio di rapporti è stato ritenuto dalla nostra Costituzione meritevole di
normative di attuazione. Ma il legislatore ordinario non ha dato attuazione agli artt. 39 e 40 cost.
Per cui manca una compiuta disciplina legislativa in tema di: costituzione delle associazioni
sindacali, organizzazione e rappresentanza sindacale, contratto collettivo e contrattazione
collettiva nell’impiego privato, e sciopero in generale ad eccezione dei servizi pubblici essenziali
Pertanto, anche i suoi effetti erano quelli propri del diritto comune dei contratti. Di qui
l'impossibilità di estendere l'efficacia del contratto collettivo ai singoli lavoratori non iscritti al
sindacato stipulante, secondo la regola generale del diritto comune, tuttora vigente, per cui il
contratto ha effetto soltanto per i soggetti che ne sono parti (cfr., ora, art. 1372 Cod. civ.). Inoltre
secondo il diritto comune il contratto collettivo poteva essere validamente derogato con un
accordo o patto individuale di lavoro, anche se questo avesse previsto condizioni meno favorevoli
per il lavoratore. E questo minava alla radice la stessa funzione dell' istituto e del sindacato.
Nondimeno la rilevanza giuridica del fenomeno sindacale venne colta e valorizzata dalla
giurisprudenza dei collegi probivirali istituiti, per il settore industriale, con la legge 15 giugno 1893,
n. 295, che, nell'esercizio delle loro funzioni di equità, seppero, a volte, assegnare rilevanza alla
contrattazione collettiva, assumendola a punto di riferimento per la decisione dei singoli casi
concreti.
Tali collegi dovevano assolvere, istituzionalmente, la funzione in precedenza svolta da collegi
arbitrali costituiti per la soluzione dei primi conflitti tra capitale e lavoro originati dalla rivoluzione
industriale: i collegi dovevano mirare soprattutto alla composizione amichevole delle controversie
di lavoro ma ben presto, complice la sfiducia della classe operaia nei giudici e nei giudizi borghesi
divennero soggetti decisori delle controversie.
La composizione dei collegi era paritaria tra rappresentanti eletti dalle rispettive categorie degli
industriali e degli operai, mentre il Presidente, uno effettivo ed uno supplente, era nominato con
decreto reale su proposta del Ministro dell'agricoltura, industria e commercio, e scelto «fra i
funzionari dell'ordine giudiziario e fra coloro che possono... essere nominati conciliatori».
I collegi dei probiviri furono un primo esempio di giudice effettivamente specializzato che assunse
il compito di rendere esplicito quando di non plasmare dall’esperienza del caso concreto quel
diritto operaio che viveva negli accordi tra industriali e gruppi di lavoratori, nelle consuetudini,
negli usi locali.
Il sindacato corporativo
La presa del potere da parte del fascismo con la marcia su Roma dell'Ottobre 1922 ebbe
conseguenze anche con riguardo al movimento sindacale che era nel frattempo divenuto una forza
sociale e politica che si opponeva al regime. Con l'instaurazione dell'ordinamento corporativo
(legge 3 aprile 1926, n. 563), il fascismo utilizzo il sindacato come strumento per realizzare la sua
politica di ordine pubblico, cercando di assorbirne la forza ed il dinamismo all'interno
dell'organizzazione stessa dello Stato. Il Consiglio Nazionale delle Corporazioni avrebbe dovuto nel
progetto di riforma fascista dello Stato sostituire la Camera dei deputati.
Il corporativismo ne snaturò peraltro la funzione originaria, in quanto la cd. concezione
corporativa basata sull'«autogoverno dei produttori» negava l'inevitabilità del conflitto di interessi
fra datori e prestatori di lavoro e immaginava di eliminare il conflitto tra capitale e lavoro per
legge, imponendo loro di cedere ed armonizzarsi nell'interesse comune, per far prevalere
l'interesse pubblico dell'economia.
L'organizzazione sindacale corporativa si fondava sul concetto di categoria professionale, intesa
come dato preesistente e non volontario, riferito all'insieme, indeterminato e variabile, dei datori
e lavoratori che operavano nello stesso settore merceologico, a prescindere dalla loro adesione al
sindacato.
Le categorie professionali erano individuate dal legislatore in base a criteri che facevano
riferimento alle categorie merceologiche della produzione e per ogni categoria professionale era
ammesso il riconoscimento giuridico di una sola associazione sindacale dei datori di lavoro e di una
sola associazione sindacale dei lavoratori.
Solo i sindacati corporativi riconosciuti avevano la personalità giuridica di diritto pubblico e la
rappresentanza legale della categoria professionale ossia di tutti i soggetti che in essa operavano.
Di conseguenza il contratto collettivo stipulato dai sindacati corporativi era efficace nei confronti di
tutti gli appartenenti alla categoria professionale proprio perché i sindacati agivano come
rappresentanti legali di chiunque ne facesse parte, indipendentemente da una manifestazione di
volontà.
Solo in teoria, potevano essere costituiti anche sindacati non riconosciuti. Nei fatti non vennero
costituiti.
Sia perché con il Patto di palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925 Confindustria e le
Confederazioni delle corporazioni fasciste si promisero esclusivo reciproco riconoscimento,
isolando definitivamente i preesistenti sindacati liberi, quelli cattolici come le leghe
bianche, o quelli socialisti (cgdl). L'accordo fu decisivo per il consolidamento del regime al
pari dei successivi passaggi come la Carta del lavoro del 1927 e la costituzione della Camera
dei fasci e delle corporazioni del 1939;
sia perché ai loro iscritti si sarebbe applicato comunque il contratto collettivo corporativo.
Il contratto collettivo corporativo perseguendo interessi pubblici veniva inserito tra le fonti del
diritto (cfr., art. 1 disp. prel. Cod. civ.) ed era non solo efficace erga omnes al pari della legge ma
anche inderogabile se non a favore dei lavoratori (art. 2077 Cod. civ.).
Lo Stato poteva revocare i dirigenti sindacali designati ed esercitava poteri di vigilanza sull'attività
delle associazioni sindacali corporative.
Il sindacato dei datori di lavoro e quello dei prestatori di lavoro costituirono la «corporazione», che
doveva realizzare «l'organizzazione unitaria delle forze di produzione» (VI dichiarazione della Carta
del lavoro) e designare, insieme con il Consiglio nazionale del partito fascista, i membri della
Camera dei fasci e delle corporazioni, che sostituì la Camera dei deputati (legge 19 gennaio 1939,
n. 129).
Inoltre, il sistema corporativo prevedeva anche una speciale magistratura del lavoro in sede
collettiva, chiamata a decidere sia le controversie giuridiche collettive, sia i conflitti economici
collettivi, comprese le richieste di nuove condizioni di lavoro, ove fosse risultato impossibile un
accordo in sede sindacale.
L'azione sindacale era peraltro soffocata all'interno del sistema dirigistico. A partire dallo sciopero
che era sanzionato penalmente come anche la serrata dei datori di lavoro, in quanto costituivano
un attentato all'interesse pubblico dell'economia (art. 393 Cod. pen.).
Il sindacato nella Costituzione repubblicana
Con la caduta del regime fascista furono soppresse le corporazioni (d.l. 9 agosto 1943 n 721) ed i
sindacati corporativi (d.l 23 novembre 1944 n 3). Furono invece mantenuti in vita i contratti
collettivi corporativi per non lasciare privi di regolazione i lavoratori cui si applicavano.
I sindacati, liberi nuovamente di rappresentare e perseguire gli interessi dei lavoratori, ripresero il
loro ruolo nella società. Ripartirono le negoziazioni di contratti collettivi. Vennero nuovamente
proclamati scioperi. Il tutto in un contesto di regolazione assimilabile al periodo cd liberale pre-
corporativo
Finchè il 1 gennaio 1948 entra in vigore la costituzione italiana repubblicana, dove rinveniamo due
fondamentali disposizioni di diritto sindacale nettamente contrapposte rispetto alla concezione
corporativa appartenuta allo statalismo fascista.
Art 39: l’organizzazione sindacale è libera (anche art 18)
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o
centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a
base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in
proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti
gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
Art 40: il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano.
Quello che conta nel modello associativo è che, in ogni caso, sia rispettato il metodo democratico
e garantiti la contendibilità e l'eventuale rinnovo della governance sindacale. Dal punto di vista
strutturale di norma abbiamo una rappresentazione piramidale, il cui vertice è costituito dal
sindacato nazionale della categoria merceologica o del settore della produzione (cd.
Confederazione). Anche se le categorie professionali non sono più predeterminate dalla legge o
dalla autorità amministrativa, ma liberamente determinate dagli stessi sindacati. Ciascun
sindacato nazionale è poi articolato in Federazioni di base che rappresentano i lavoratori ai livelli
territoriali e a livello aziendale. Il rapporto tra Confederazione e Federazioni è solitamente
gerarchico e di continenza, ma può essere anche di tipo paritario e federativo. Per ogni settore o
categoria esistono una pluralità di organizzazioni sindacali. Le <> O.S. storicamente sono: la
Confederazione Italiana Generale del Lavoro (CGIL); la Confederazione Italiana Sindacati Liberi
(CISL); la Unione Italiana Lavoratori (UIL). Queste tre organizzazioni sindacali nel corso degli ani '60
hanno intrapreso un processo promosso dalla base tendente alla loro federazione (cd. unità
sindacale). Tale processo, sull'onda lunga dell'approvazione dello Statuto dei lavoratori, approdò il
3 luglio 1972 alla Federazione CGIL, CISL, UIL che riuniva pariteticamente i tre sindacati confederali
italiani CGIL CISL e UIL. Questo complesso processo, che si intreccia a doppio filo con le vicende
storiche e politiche del Paese, rimase di fatto incompiuto, salvo esaurirsi negli anni ottanta in
conseguenza del cd. Decreto Legge « di San Valentino» del 14/2/1984 conv. con I. n. 219/1984 che
taglio di 3 punti% la scala mobile. Oltre alla cd. triplice ne sono state costituite altre come l'Unione
Generale del Lavoro (UGL), o la Confederazione Italiana dei Sindacati Autonomi dei Lavoratori
(CISAL). Altre confederazioni e formazioni sindacali hanno rappresentatività limitatamente a
settori particolari (i Cobas, a Gilda, l'Orsa ecc.). Discorso a parte deve essere fatto per il
sindacalismo dei dirigenti e dirigenti pubblici per i quali, anzi, è stata prevista una separata area di
contrattazione, a differenza della categoria dei «quadri» direttivi (legge 13 maggio 1985, n. 190).
Allo stesso tempo è stato escluso che il requisito della maggiore rappresentatività possa essere
assegnato a confederazioni che, rappresentando una sola categoria di lavoratori (cfr. Corte cost.,
sent. 24 maggio 1988, n. 334). Specularmente, anche i datori di lavoro privati sono organizzati in
base al settore della produzione in cui operano anche se non mancano casi in cui per uno stesso
settore esiste più di un'organizzazione sindacale (ad es.: la Confindustria e l'Associazione delle
piccole industrie; la Confcommercio e la Confesercenti).
Il sindacato istituzione
Nonostante le resistenze datoriali, già nel primo dopoguerra, il sindacato, oltre ad organizzarsi
come associazione libera, viveva all'interno delle fabbriche come istituzione o coalizione
spontanea. Queste esperienze erano solitamente non prive di collegamento con il sindacato
associazione, ma anche a ragione del mancato riconoscimento datoriale, si sviluppavano in una
dimensione istituzionale. Una prima forma di sindacato istituzione è la Commissione interna
organo che agisce nell'interesse di tutti i lavoratori sulla scorta di una legittimazione elettorale
molto simile a quella politica. Ebbero un primo riconoscimento nel 1906, poi furono osteggiate nel
periodo liberale e soppresse anche nel periodo fascista, salvo poi venire ricostituite in seguito al
Patto del settembre 1943, sottoscritto fra Confindustria e CGIL unitaria. Con l'Accordo
interconfederale del 7 agosto 1947 tra la CGIL e la Confindustria, vengono disciplinate la
costituzione e il funzionamento delle Commissioni interne. Dunque con le Commissioni interne
viene prevista una struttura sindacale in rappresentanza di lavoratori e lavoratrici impiegati (sia
tecnici che amministrativi) ed operai, nei confronti della Direzione aziendale in tutte le imprese
industriali che occupino più di 25 lavoratori.
consentire l'ingresso del nostro paese nella moneta unica europea (Accordo del 31 luglio
1992);
razionalizzare le relazioni industriali (Protocollo del 23 luglio 1993);
disciplinare i diritti sindacali in azienda (Accordo dicembre 1993);
riformare le pensioni e il mercato del lavoro (Patto per il Lavoro del 24 settembre 1996,
Patto per l'Italia del 5 luglio 2002 e Protocollo su previdenza, lavoro e competitività del 23
luglio 2007); -
istituzionalizzare la concertazione (Patto di Natale del 22 dicembre 1998);
condividere strumenti per la gestione in sicurezza delle attività lavorative nel contesto
della pandemia Covid-19 (Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il
contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-COV-2/COVID-19 negli ambienti
di lavoro del 6 aprile 2021, che aggiorna i due Protocolli condivisi sottoscritti
successivamente alla dichiarazione dello stato di emergenza, il 14 marzo e il 24 aprile
2020, sviluppati anche con il contributo tecnico-scientifico dell'INAIL; od il Protocollo
nazionale per la realizzazione dei piani aziendali finalizzati all'attivazione di punti
straordinari di vaccinazione anti SARS-CoV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro del 6 aprile
2021).
La concertazione ha assicurato in vista della realizzazione di interessi generali il coordinamento
tra: legge, provvedimenti amministrativi e contrattazione collettiva. Questo metodo non è però
previsto dalla Costituzione né è regolato dalla legge onde il suo utilizzo non è necessario, avendo
esclusivo «valore» politico (Corte cost. n. 34 del 1985) né può esserne garantita la diretta
giustiziabilità.
Dalla concertazione al dialogo sociale (e ritorno)
Allo stesso tempo la concertazione può comportare una limitazione della discrezionalità legislativa
che la Costituzione riserva al Parlamento. Anche per questo gli anni 2000 si aprono all'insegna
della proposta del Governo di sostituire la concertazione sociale con il cd. «dialogo sociale». Nel
Libro Bianco del 2000, il Governo definisce così il metodo di «confronto basato su accordi specifici,
rigorosamente monitorati nella loro fase implementativa». L'idea è di realizzare incontri su temi
individuati di volta in volta dal Governo e rispetto ai quali le parti sociali svolgono un ruolo
essenzialmente consultivo (si pensi alla fase che ha preceduto l'approvazione della I. n. 92 del
2012). Ad es. il Patto per l'Italia del 5 luglio 2002, sottoscritto solo da Cisl e Uil senza la Cgil ad
esempio prevedeva una proposta di modifica sperimentale del campo di applicazione dell'art. 18
della legge n. 300 del 1970 in tema di licenziamento (non computo nel numero dei dipendenti
occupati delle nuove assunzioni mediante rapporti di lavoro a tempo indeterminato). Attraverso il
dialogo sociale saranno condotti molti dei negoziati bilaterali che condurranno ad esempio alla
stagione dei cd. accordi separati (ad es. Accordo separato del gennaio 2009 per il superamento
delle regole della contrattazione collettiva sancite nel Protocollo del 23 luglio 1993).
Vediamo come:
la RSU può essere costituita nelle unità produttive nelle quali il datore di lavoro occupi più
di quindici dipendenti, su iniziativa delle organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle
confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo
del 31 maggio 2013 ovvero del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014.
In concreto la costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie avviene mediante
elezioni a suffragio universale ed a scrutinio segreto, che si svolgono in collegi elettorali il
cui ambito deve essere predefinito tenendo conto della rappresentanza di ciascuna
categoria di lavoratori, e che vedono contrapporsi liste di candidati che, al loro interno,
devono anche garantire una adeguata rappresentanza di genere.
Le liste concorrenti possono essere presentate:
da ogni organizzazione sindacale di categoria che aderisca ad una confederazione
firmataria del Testo unico del 10 gennaio 2014;
da ogni organizzazione sindacale di categoria firmataria del contratto collettivo
nazionale di lavoro applicato nell'unità produttiva.
Anche altre associazioni sindacali possono presentare proprie liste a tre condizioni:
La cd serrata
La serrata dei datori di lavoro consiste nella sospensione dell’attività dell’impresa decisa ed attuata
da parte di un singolo imprenditore o, previa concertazione, da più imprenditori, contro gli
interessi collettivi dei lavoratori. Non esiste alcun parallelismo od equiparazione con lo sciopero.
Anche perché la Costituzione riconosce e tutela soltanto il diritto di sciopero, mentre pone limiti
significativi alla libertà di impresa (art. 41, co. 2 Cost.). Non esiste un diritto di serrata. La serrata
dunque è inquadrabile soltanto nell’area delle libertà. Che significa però che, di per sé, la serrata, a
fini contrattuali, di solidarietà o di protesta, non può essere penalmente perseguita (cfr. Corte
cost. n. 29/1960 sull’art. 502, co. 2 c.p. e n. 141 /1967 sull’art. 505 c.p.). La libertà di serrata opera
nei riguardi dello Stato ma, non essendoci un diritto di serrata, l’esercizio della serrata genera un
inadempimento contrattuale, per cui di norma il datore di lavoro è tenuto ugualmente a retribuire
eventuali propri dipendenti inoperanti. Nella pratica la serrata è un mezzo di lotta sindacale
residuale e recessivo nell’applicazione, anche perché costoso ed inefficiente. I datori di lavoro
preferiscono agire sul piano dell’organizzazione del lavoro o mobilitarsi per esercitare una
pressione sulle istituzioni. La serrata viene dunque praticata quasi esclusivamente se lo sciopero
determina una impossibilità di gestione dell’impresa o dello stabilimento, nella forma del cd.
«ritiro della direzione» e cioè dell’abbandono dell’impresa nelle mani degli scioperanti con declino
di ogni responsabilità. È questa la cd. serrata di ritorsione che se effettivamente lo sciopero si
dimostrasse illegittimo escluderebbe l’obbligo di erogare le retribuzioni, in applicazione del
principio di diritto comune inadimplenti non est adimplendum (art. 1460 Cod. civ.).
Se invece il datore di lavoro si limita a rifiutare le prestazioni inutilizzabili di coloro che non
scioperano non si parla di serrata. In questo caso del resto se lo sciopero si assume legittimo al di
là delle forme più o meno anomale di effettuazione dunque non è possibile invocare l’eccezione di
inadempimento (art. 1460 Cod. civ.). Dunque, non resta che valutare l’eventuale esistenza di un
legittimo motivo di rifiutare le prestazioni dei lavoratori, dimostrando che la loro prestazione
configura un adempimento inesatto e non utile (cd. mora credendi ex art. 1206 c.c. «il creditore è
in mora quando, senza motivo legittimo, non riceve il pagamento offertogli nei modi indicati dagli
articoli seguenti o non compie quanto è necessario affinché il debitore possa adempiere
l’obbligazione»).
Tipologie di sciopero (ordinate secondo i fini)
La mancanza di una legge generale sullo sciopero ha come conseguenza anche la carenza di una
definizione capace di descrivere i comportamenti e fatti da ricondurre, o no, alla nozione di
sciopero. Nozione che dunque venendo determinata casisticamente dalla giurisprudenza è rimasta
elastica e duttile. Nel dibattito conseguente la principale distinzione attiene alle finalità dello
sciopero. Si ritiene infatti certamente ricompresa nella nozione di sciopero l’astensione per la
tutela dell’interesse collettivo professionale di chi sciopera ad esempio per conseguire un più
favorevole rinnovo del CCNL (cd. sciopero a fini contrattuali o economicoprofessionali). Da sempre
si ammette anche lo sciopero per la soluzione di controversie giuridiche di lavoro ad es. attinenti
all’interpretazione o alla applicazione della disciplina legale o collettiva. Anche perché qui gli
scioperanti più che influenzare l’esercizio della giurisdizione vogliono ottenere una nuova
disciplina contrattuale che superi la vecchia e faccia cessare la materia del contendere. Più
controverso lo sciopero cd. politico che travalica vistosamente la dimensione individuale del
rapporto di lavoro tendendo oggettivamente al perseguimento di risultati di cui il datore di lavoro
non ha la disponibilità e che nondimeno la Corte Cost. ritiene legittimo se proclamato per
«rivendicazioni riguardanti il complesso degli interessi dei lavoratori che trovano disciplina nelle
norme poste sotto il titolo terzo della parte prima della Costituzione» e cioè agli artt. 35-47 sotto la
rubrica «diritti economico-sociali» (sentt.: n. 123/62; n. 141/67; n. 1/74; n. 290/74; n. 222/75; n.
165/83). In questo caso infatti lo sciopero, sebbene sia esercitato non per influire sul datore di
lavoro ma sul legislatore o sul governo, deve comunque attenere alla realizzazione di interessi
economico-professionali dei lavoratori, ossia alle loro condizioni sociali ed economiche. Secondo
questa ricostruzione, eventuali scioperi esclusivamente a fini politici – non aventi ad oggetto
quindi diritti economico-sociali dei scioperanti o dei lavoratori – sarebbero da considerare
illegittimi, perché, non esiste un diritto di sciopero politico, quindi rientreremmo nello schema
sciopero-libertà/inadempimento dell’obbligazione di lavorare con possibilità di sanzione
disciplinare. Allo stesso tempo sarebbero però penalmente leciti a meno che «non siano diretti a
sovvertire l’ordinamento costituzionale ovvero ad impedire o ostacolare il libero esercizio dei
poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare».
Allo stesso tempo, va considerato come la giurisprudenza tenda a considerare in maniera piuttosto
ampia lo spettro delle rivendicazioni economiche sociali ricomprendendovi ad es. il caro vita,
problemi abitativi e persino l’opposizione alla guerra. («La collocazione del ripudio della guerra tra
i principi fondamentali della Costituzione consente di affermare che esso costituisce un interesse
fondamentale della collettività e quindi la legittimità dello sciopero contro la guerra è riconducibile
– oltre che in generale alla fattispecie dello sciopero per fini non contrattuali quale “mezzo idoneo
a favorire il perseguimento dei fini di cui all’art 3, comma 2, cost. – anche, in particolare, alla
specifica previsione dell’art. 2, comma ultimo, l. n. 146 del 1990» Cassazione civile , sez. lav., 21
agosto 2004, n. 16515). Ricorre nella prassi poi lo sciopero cd. di solidarietà esercitato per
sostenere le rivendicazioni di altri lavoratori ovvero per protestare contro la violazione degli
interessi o dei diritti di un lavoratore. Per la giurisprudenza lo sciopero di solidarietà viene ritenuto
legittimo se il giudice accerta che «l’affinità delle esigenze che motivano l’agitazione sia tale da far
ritenere che, senza l’associazione di tutti in uno sforzo comune, esse rischino di rimanere
insoddisfatte» (Corte cost. n. 123/1962).
Forme cd anomale di sciopero (ordinate secondo i modi) limiti e legittimità
Ovviamente nell’esperienza il sindacato ha immaginato molte e varie forme o modalità di sciopero
diverse dalla mera astensione dal lavoro proprio per massimizzare il danno al datore di lavoro e
minimizzare le conseguenze per gli scioperanti. In mancanza di una definizione legale di sciopero si
fatica a rispondere alla domanda se ogni forma o modalità di sciopero è legittima? O ci siano limiti
da non valicare? La giurisprudenza ritiene non esistano limiti «interni» allo sciopero e cioè
attinenti alla modalità o forma. Lo sciopero è legittimo anche se l’astensione non riguarda l’intero
orario di lavoro giornaliero (c.d. sciopero a singhiozzo). É legittima anche l’astensione che riguardi
soltanto di una parte o di singole mansioni (c.d. blocco delle mansioni). Come anche l’astensione
dallo svolgimento del solo straordinario (c.d. blocco del lavoro straordinario) o l’astensione che
non riguarda tutti i lavoratori dell’impresa o dello stabilimento ma solo quelli addetti ai reparti cd.
a monte (c.d. sciopero a scacchiera, il cd. salto della scocca od il cd. gatto selvaggio). Così ancora lo
sciopero che consiste in un atteggiamento non collaborativo ed anzi ostruzionistico rispetta alla
normale attività di produzione (cd. sciopero pignolo o bianco) o che si traduca in un sostanziale
decalage della produzione abituale ed attesa (cd. sciopero del rendimento). Certamente tutte
queste forme cd. anomale di sciopero sono espressione della libertà della azione sindacale, ma
occorre lo stesso ogni volta verificare: a) entro quali limiti, se ce ne sono si tratti di comportamenti
legittimi; b) se i non scioperanti siano immunizzati da conseguenze sulla retribuzione, ad es. nelle
ipotesi in cui i cd. scioperi a singhiozzo o a scacchiera vengano attuati in imprese con lavorazioni a
ciclo continuo. Va infatti considerato che queste forme anomale di sciopero impongono in taluni
casi la fermata di impianti che possono essere rimessi in funzione solo dopo un certo tempo o
possono determinare la inutilità della prestazione lavorativa offerta dai lavoratori non scioperanti
(le cd. ore improduttive).
Net strike
Twitter storm
Off simultaneo
Sciopero virtuale
Crumiraggio
Come visto la sostituzione degli scioperanti con altri lavoratori è legittima anzi necessaria nel caso
delle imprese che erogano servizi pubblici essenziali per l’utenza, quando serve ad evitare danni
irreparabili alla produttività (c.d. presidi o comandate). Altra cosa è il crumiraggio, termine che ha
origini antiche ed accezione negativa. La giurisprudenza, ritenendo antisindacale l’opposizione al
conflitto, ma non l’opposizione nel conflitto, consente al datore di lavoro in occasione di uno
sciopero, di reagire per fronteggiare il calo o l’interruzione della produzione utilizzando gli
strumenti della gestione dell’organizzazione del lavoro di cui dispone per sostituire i lavoratori
scioperanti con altri lavoratori già presenti nell’organico dell’azienda (c.d. crumiraggio interno). In
questo caso, si esclude, infatti, che la sostituzione configuri condotta antisindacale, vietata ai sensi
dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970 (C. Cost. n. 125/80). La legge vieta di sostituire i lavoratori
che esercitano il diritto di sciopero con lavoratori assunti con contratto di lavoro a termine (art. 20,
1. co, lett. a), d.lgs. n. 81/2015) e con contratti di lavoro intermittente e di somministrazione di
lavoro (artt. 14, 1 co., lett. a) e 32, 1 co., lett. a), d.lgs. n. 81 /2015). Nei casi non vietati dalla legge
occorre bilanciare diritto di sciopero (art. 40 Cost.), diritto al lavoro del crumiro (art. 4 Cost.) e
libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.). La giurisprudenza vieta le assunzioni finalizzate a
sostituire gli scioperanti (c.d. crumiraggio c.d. esterno). Mentre ha ammesso la sostituzione del
personale scioperante con personale che già era stato somministrato all’azienda al momento della
proclamazione dello sciopero, per assimilazione al crumiraggio c.d. interno. In altri casi, ha negato
la sostituzione degli scioperanti con lavoratori in part-time impiegati al di fuori della collocazione
oraria dedotta in origine nel contratto. Nel crumiraggio interno ritenuto legittimo il datore di
lavoro può avvalersi del c.d. scorrimento delle mansioni che adibendo lavoratori incaricati di
sostituire gli scioperanti alle mansioni di questi ultimi per scegliere dove subire lo sciopero. La
giurisprudenza non ammette però la modifica delle mansioni del c.d. crumiro interno se ciò
comporta violazione dell’art. 2103 Cod. civ. (tra l’altro oggi riformulato in base all’art. 3, d.lgs. n.
81 del 2015).
Crumiraggio tecnologico.
I servizi essenziali e il fenomeno della cd autoregolamentazione dello sciopero
La perdurante mancanza della legge sullo sciopero promessa dall’art. 40 Cost. ha avuto
ripercussioni soprattutto in quei settori e servizi pubblici dove i cd. «scioperi selvaggi», spesso non
preavvisati, o ad oltranza, amplificavano enormemente le conseguenze dannose ripercuotendosi
principalmente sull’utenza. La Costituzione prevedeva peraltro una chiara riserva di legge dunque
non era consentito regolare autoritativamente o alternativamente lo sciopero. L’opinione pubblica
evidentemente scossa dai disagi spinse infine nel 1990 il legislatore a farsi carico dell’esigenza di
una qualche regolazione dell’esercizio del diritto di sciopero. Nel frattempo si diffuse la prassi di
inserire nei contratti collettivi specifiche clausole che limitavano il ricorso allo sciopero (cd.
clausole di tregua sindacale) lo sciopero. Ma si trattava di disposizioni di difficile gestione con limiti
evidenti di esigibilità spesso rese ineffettive dalla stessa concorrenza interna tra sindacati. La
Federazione unitaria CGIL-CISL-UIL nel 1980 predispose per i settori «volti a garantire la tutela
della salute e dell’incolumità delle persone» una procedura generale cui dovevano poi conformarsi
le singole procedure di autoregolamentazione delle singole associazioni di categoria. Secondo la
procedura l’organizzazione sindacale di categoria che intendeva proclamare uno sciopero doveva
darne comunicazione alle strutture territoriali indicando le modalità di esecuzione. La struttura
territoriale doveva valutare a livello locale l’iniziativa anche in relazione «agli effetti di carattere
sociale che essa comporta per la collettività». E solo all’esito di questa valutazione poi prendere la
decisione di proclamare lo sciopero. L’esperienza della autoregolamentazione si sviluppò
ulteriormente grazie ai protocolli di disciplina nel settore (chiave) dei trasporti pubblici.
Nondimeno permaneva dubbia l’effettività di un sistema di regolazione di interessi generali che si
basava di fatto su prodotti dell’autonomia collettiva privata, come tali per definizione sprovvisti di
quella vincolatività ed efficacia erga omnes che è propria della legge.
Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali
I limiti di effettività della autoregolamentazione collettiva hanno perciò reso necessario
l’intervento del legislatore per regolare l’esercizio dello sciopero quantomeno nei pubblici servizi
essenziali a salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati (l. n. 146/1990, poi
mod. dalla l. n. 83/2000). La legge 146/90 infatti non regola lo sciopero in tutti i settori
merceologici, ma solo nei Servizi pubblici essenziali, dove solo vigono le regole in essa prevista. La
legge n. 146/90 peraltro non intende affatto impedire lo sciopero nei s.p.e. La legge 146/90 non si
occupa neppure di contemperare gli interessi dei datori di lavoro che erogano i servizi se non per
garantire la salvaguardia dell’«integrità degli impianti». La legge 146/90 si ripromette, invece, lo
«scopo di contemperare l'esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona,
costituzionalmente tutelati». Per cui nei s.p.e. lo sciopero deve avvenire con modalità tali da non
pregiudicare la realizzazione dei «diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla
salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza sociale,
all'istruzione ed alla libertà di comunicazione» (art. 1). In questo risiede il contemperamento tra il
diritto di sciopero e gli altri diritti della persona aventi rilevanza costituzionale di cui gli utenti sono
titolari (Corte cost. n. 317/92). I S.P.E. sono tali anche quando gestiti (ad es. in regime di
concessione) da privati. Cià che conta è la loro diretta destinazione alla pubblica fruizione e che
realizzino interessi essenziali dei cittadini di rilievo costituzionale. Così, ad es., tra i pubblici esercizi
essenziali è stato inserito anche «l’apertura al pubblico di musei e luoghi della cultura» così come
sono definiti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 (d.l. n. 146 del 2015). I diritti
costituzionali da contemperare con lo sciopero per assicurarne «l’effettività nel loro contenuto
essenziale» sono quelli espressamente e tassativamente indicati dalla legge 146/90.
I s.p.e
Mentre i servizi nei quali in caso di conflitto collettivo si applicano le regole e le procedure della l.
n. 146/90, sono indicati nella medesima legge in via solamente esemplificativa («in particolare nei
seguenti servizi e limitatamente all'insieme delle prestazioni individuate come indispensabili»).
per quanto concerne la tutela della vita, della salute, della libertà e della sicurezza della
persona, dell'ambiente e del patrimonio storico-artistico: la sanità; l'igiene pubblica; la
protezione civile; la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti urbani e di quelli speciali, tossici e
nocivi; le dogane, limitatamente al controllo su animali e su merci deperibili;
l'approvvigionamento di energie, prodotti energetici, risorse naturali e beni di prima
necessità, nonché la gestione e la manutenzione dei relativi impianti, limitatamente a
quanto attiene alla sicurezza degli stessi; l'amministrazione della giustizia, con particolare
riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed
urgenti, nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione; i servizi di protezione
ambientale e di vigilanza sui beni culturali; l'apertura al pubblico regolamentata di musei e
altri istituti e luoghi della cultura, di cui all'articolo 101 co. 3 Codice dei beni culturali e del
paesaggio, ex d.lgs 42/2004;
per quanto concerne la tutela della libertà di circolazione: i trasporti pubblici urbani ed
extraurbani autoferrotranviari, ferroviari, aerei, aeroportuali e quelli marittimi
limitatamente al collegamento con le isole;
per quanto concerne l'assistenza e la previdenza sociale, nonché gli emolumenti retributivi
o comunque quanto economicamente necessario al soddisfacimento delle necessità della
vita attinenti a diritti della persona costituzionalmente garantiti: i servizi di erogazione dei
relativi importi anche effettuati a mezzo del servizio bancario;
per quanto riguarda l'istruzione: l'istruzione pubblica, con particolare riferimento
all'esigenza di assicurare la continuità dei servizi degli asili nido, delle scuole materne e
delle scuole elementari, nonché lo svolgimento degli scrutini finali e degli esami, e
l'istruzione universitaria, con particolare riferimento agli esami conclusivi dei cicli di
istruzione;
per quanto riguarda la libertà di comunicazione: le poste, le telecomunicazioni e
l'informazione radiotelevisiva pubblica.
La procedimentalizzazione, le prestazioni indispensabili e il ruolo dell’autonomia collettiva
Il contemperamento tra il diritto di sciopero e altri diritti costituzionali si realizza in concreto
attraverso la procedimentalizzazione dell’esercizio del diritto di sciopero. La legge impone al
sindacato l’obbligo di comunicare per iscritto, con un preavviso di almeno dieci giorni, la durata, le
modalità di attuazione nonché le motivazioni dello sciopero. La comunicazione deve essere data
sia alle amministrazioni o imprese che erogano il servizio, sia all'apposito ufficio costituito presso
l'autorità competente ad adottare l'ordinanza di precettazione, che ne cura la immediata
trasmissione alla Commissione di garanzia scioperi (CGS art. 2, co. 2). Le amministrazioni o imprese
che erogano il servizio devono a loro volta dare comunicazione agli utenti in forme adeguate
almeno cinque giorni prima dell’inizio dello sciopero, dei modi e dei tempi di erogazione dei servizi
minimi essenziali garantiti nel corso dello sciopero e delle misure per la riattivazione degli stessi. La
legge 146/90 impone che nei s.p.e. anche in caso di sciopero siano comunque garantite le
«prestazioni indispensabili» idonee a realizzare i diritti degli utenti, nel contemperamento con
l’esercizio effettivo del diritto di sciopero. L’individuazione delle «prestazioni indispensabili» è
rimessa alla contrattazione collettiva. Questa può ad es. disporre che siano comandati durante lo
sciopero i lavoratori tenuti a garantire le prestazioni indispensabili, indicando come individuarli,
oppure disporre in che termini il servizio verrà comunque erogato (ad es. con le cd. fasce
garantite). Viene così recuperato il ruolo chiave che già il contratto collettivo svolgeva nella fase
della cd. autoregolamentazione, con la modifica determinante che questa volta il contratto
collettivo interviene all’interno di una complessa procedimentalizzazione operata dalla legge, e
questo gli consente di superare le difficoltà derivanti dalla mancanza di efficacia erga omnes
dell’autonomia collettiva attingendo alla efficacia generalizzata disposta dalla legge.
Corte Cost. 18\10\1996 n 344
Non contrastano con l'art. 39 cost. gli art. 1, 2º comma, 2, 2º e 3º comma, e 8, 2º comma, l. 12
giugno 1990 n. 146, nella parte in cui, in caso di sciopero nei servizi pubblici essenziali, impongono
le prestazioni indispensabili - individuate nei contratti collettivi nel settore privato e degli accordi
collettivi (oggi ai sensi degli art. 45 seg. d.leg. 3 febbraio 1993 n. 29) nel settore pubblico - a tutti i
lavoratori indipendentemente dall'appartenenza alle organizzazioni stipulanti: la situazione è,
infatti, diversa da quella disciplinata dalla l. c.d. erga omnes 14 luglio 1959 n. 741, e dichiarata
incostituzionale dalla corte, in quanto:
1. la l. n. 146 del 1990 si riferisce anche ai contratti ed agli accordi successivi;
2. l'oggetto della contrattazione collettiva avente in qualche modo effetto generale non è un
conflitto di interessi tra imprenditori e lavoratori incidente sull'assetto generale del
mercato del lavoro, bensì il conflitto tra i lavoratori addetti ai pubblici servizi essenziali ed i
terzi utenti, in ordine alla misura entro cui l'esercizio del diritto di sciopero deve essere
mantenuto per contemperarlo con i diritti costituzionali della persona;
3. l'atto conclusivo del procedimento di contrattazione è individuato in un regolamento di
servizio emanato dalle imprese o dalle amministrazioni recettivo delle conclusioni del
negozio collettivo;
4. occorre una valutazione di idoneità della autorità di garanzia, capace, se negativo, di
produrre l'inefficacia dell'accordo, laddove viceversa il reale contratto collettivo, quale
mezzo di composizione del conflitto fra datori e lavoratori, sarebbe impermeabile a
qualsiasi controllo di razionalità;
5. in caso di mancanza di accordo o di giudizio di inidoneità supplisce il potere di ordinanza
dell'autorità che si adegua alle proposte della commissione.
Non contrastano con l'art. 40 cost. gli art. 1, 2º comma, 2, 2º e 3º comma, e 8, 2º comma, l. 12
giugno 1990 n. 146, nella parte in cui, in caso di sciopero nei servizi pubblici essenziali, impongono
le prestazioni indispensabili - individuate nei contratti collettivi nel settore privato e negli accordi
collettivi (oggi ai sensi degli art. 45 seg. d.leg. 3 febbraio 1993 n. 29) nel settore pubblico - a tutti i
lavoratori; la riserva di legge prevista nella norma parametro non esclude, infatti, che la
determinazione di certi limiti o modalità di esercizio del diritto di sciopero, specie di fronte alla
varietà delle situazioni organizzative e di servizio, possa essere rimessa non solo a fonti statali
subprimarie, ma anche alla contrattazione collettiva, purché con condizioni che garantiscano le
finalità per le quali la riserva è disposta, fra le quali l'affidamento ex post ad un organo pubblico
del controllo di idoneità degli accordi collettivi. Allorché sussista una situazione di pericolo di grave
pregiudizio ai diritti della persona costituzionalmente garantiti a causa del mancato funzionamento
dei s.p.e. conseguente ad un'astensione collettiva dal lavoro, l'art. 8 l. n. 146/90 prevede
l'intervento di una commissione (la CGS) i cui poteri di ordinanza in ordine alla individuazione delle
prestazioni indispensabili si deve intendere siano di norma vincolati, pur con un margine di
discrezionalità di adattamento alle circostanze concrete, alle determinazioni dell'autonomia
collettiva di cui all'art. 2 stessa legge.
Dopo la legge n. 83 del 2000 la contrattazione collettiva prevede anche gli intervalli minimi tra la
effettuazione di uno sciopero e la proclamazione del successivo (cd. rarefazione), al fine di evitare
che per effetto di scioperi proclamati in successione da soggetti sindacali diversi e che incidono
nello stesso servizio o sullo stesso bacino di utenza sia oggettivamente compromessa la continuità
dei servizi pubblici. La Commissione di garanzia ha il compito di rilevare «l’eventuale concomitanza
tra interruzioni o riduzioni di servizi pubblici alternativi, che interessano il medesimo bacino di
utenza, per effetto di astensioni collettive proclamate da soggetti sindacali diversi». In caso di
concomitanza la Commissione invita i soggetti la cui proclamazione è stata comunicata
«successivamente in ordine di tempo» a differire lo sciopero. Secondo l’opinione prevalente la
disciplina degli intervalli minimi si applica non solo per gli scioperi proclamati in successione da
soggetti sindacali diversi (c.d. rarefazione oggettiva), ma anche nel caso di scioperi proclamati dallo
stesso soggetto sindacale (c.d. rarefazione soggettiva). L’accordo deve prevedere procedure di
raffreddamento e conciliazione obbligatorie prima della proclamazione dello sciopero (art. 2,
secondo comma). Ovvero in alternativa la legge riconosce loro la possibilità di richiedere un
tentativo preventivo di conciliazione alla pubblica autorità. Le fondamentali disposizioni in tema di
preavviso minimo e di indicazione della durata non si applicano nei casi di «astensione dal lavoro
in difesa dell'ordine costituzionale», o di «protesta per gravi eventi lesivi dell'incolumità e della
sicurezza dei lavoratori». Anche i lavoratori autonomi, i professionisti ed i piccoli imprenditori sono
tenuti ad adottare codici di autoregolamentazione che devono indicare la durata e le motivazioni
dell’astensione collettiva ed assicurare in ogni caso l’erogazione delle prestazioni indispensabili
alla tutela degli utenti (art. 2 bis).
La commissione di garanzia
La Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali
(CGS) è chiamata a tutelare gli interessi degli utenti che, come visto, non partecipano alla
individuazione delle prestazioni indispensabili. La CGS ha il compito di valutare l’idoneità delle
misure volte ad assicurare il contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il
godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. La CGS, composta allo stato da
cinque membri compreso il Presidente (ridotti rispetto ai precedenti nove ai sensi dell’art. 23, 1
co., lett. i), del d.l. n. 201 del 2011, conv. L. n. 214/ 2011) scelti su designazione dei Presidenti della
Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica – tra esperti in materia di diritto costituzionale,
di diritto del lavoro e di relazioni industriali, e nominati con decreto del Presidente della
Repubblica – è una autorità amministrativa indipendente che ha, fra gli altri, il compito di valutare
la congruità degli accordi e dei codici di autoregolamentazione. La legge n. 83 del 2000 ha
attribuito alla Commissione di garanzia anche il potere di indicare «immediatamente ai soggetti
interessati eventuali violazioni delle disposizioni relative al preavviso, alla durata massima,
all’esperimento delle procedure preventive di raffreddamento e di conciliazione, ai periodi di
franchigia, agli intervalli minimi tra successive proclamazioni, e ad ogni altra prescrizione
riguardante la fase precedente all’astensione collettiva». Se lo sciopero contravviene alla delibera
di indicazione immediata della CGS le sanzioni previste dalla legge sono automaticamente
raddoppiate nel massimo (art. 4, quarto ter comma). La CGS può invitare con un’apposita delibera
i soggetti interessati a «riformulare la proclamazione in conformità alla legge e agli accordi o codici
di autoregolamentazione differendo l’astensione dal lavoro ad altra data». Se mancano gli accordi
sindacali di regolamentazione dello sciopero o non sono idonei, la legge attribuisce alla
Commissione esperito un tentativo di conciliazione tra le parti il potere di adottare una propria
delibera di provvisoria regolamentazione delle prestazioni indispensabili, delle procedure di
raffreddamento e conciliazione e delle altre misure di contemperamento. Tale delibera diviene
obbligatoria per le parti ma decade al raggiungimento di un accordo valutato idoneo dalla stessa
Commissione (provvisoria).
Nella provvisoria regolamentazione le prestazioni indispensabili devono essere contenute (salvo
deroghe motivate da parte della Commissione per casi particolari, e tenuto conto di eventuali
servizi alternativi) in misura non eccedente mediamente il 50% delle prestazioni normalmente
erogate, e riguardare quote strettamente necessarie di personale non superiori mediamente ad un
terzo del personale normalmente utilizzato per la piena erogazione del servizio. Quando si tratta di
assicurare fasce orarie di erogazione dei servizi (c.d. fasce protette, ad esempio, per i “pendolari”
del trasporto pubblico locale), questi ultimi devono essere garantiti in misura piena e conforme a
quella normalmente erogata. Questi criteri costituiscono ormai il parametro di riferimento anche
della valutazione di congruità degli accordi sindacali (art. 13, primo comma, lett. a). La l. 146/90
dispone sanzioni civili e amministrative: a) per i lavoratori che non collaborino all’erogazione delle
«prestazioni indispensabili» concordate sindacalmente o definite dall’ordinanza o dalla delibera di
provvisoria regolamentazione; b) per le organizzazioni sindacali e per i sindacalisti che proclamino
uno sciopero senza rispettare l’obbligo del preavviso o in contrasto con la legge; c) per i preposti al
settore o i legali rappresentanti degli enti e delle imprese che non assicurino adeguati livelli di
funzionamento dei s.p.e.. Per i lavoratori sono previste «sanzioni disciplinari», anche pecuniarie,
«proporzionate alla gravità dell’infrazione», escluse le misure estintive del rapporto o che
comportino mutamenti definitivi; per le OO.SS. che violano gli obblighi di cui all’art. 2 della legge n.
146 del 1990 possono essere «sospesi i permessi sindacali retribuiti ovvero i contributi sindacali
comunque trattenuti dalla retribuzione, ovvero entrambi, per la durata dell’astensione stessa» e
comunque per un ammontare complessivo non inferiore a euro 2.500 e non superiore a euro
50.000, graduabile «tenuto conto della consistenza associativa, della gravità della violazione e
della eventuale recidiva, nonché della gravità degli effetti dello sciopero sul servizio pubblico». Alla
prova dei fatti l’apparato sanzionatorio della 146/1990 si è spesso dimostrato inoffensivo a ragione
della cronica incapienza delle organizzazioni sindacali minori. La l. 83/2000 ha quindi aggiunto un
co. 4bis all’art. 4 l. 146/90 per cui se le OO.SS. sanzionate «non fruiscono dei benefici di ordine
patrimoniale», ovvero «non partecipano alle trattative», la CGS può deliberare in via sostitutiva
una sanzione amministrativa pecuniaria a carico di coloro che «rispondono legalmente» per l’O.S.,
graduabile tra un minimo di euro 2.500 ed un massimo di euro 50.000. La Corte costituzionale ha
ritenuto illegittima la disposizione dell’art. 4, 2 co., l. 146/90, nella parte in cui consentiva che
l’applicazione, ad opera del datore di lavoro, delle sanzioni previste per l’ipotesi di violazioni
commesse dalle OO.SS. avvenisse anche in assenza di una specifica «indicazione della CGS» (sent.
n. 57/1995).
La CGS su richiesta delle parti interessate, delle associazioni degli utenti, delle autorità nazionali o
locali che vi abbiano interesse o di propria iniziativa, apre il procedimento di valutazione del
comportamento di tutti i soggetti coinvolti nella astensione collettiva del lavoro. L’apertura del
procedimento viene notificata alle parti che hanno trenta giorni per presentare osservazioni e per
chiedere di essere sentite. Decorso tale termine e comunque non oltre sessanta giorni
dall’apertura del procedimento, la Commissione formula la propria valutazione e, se valuta
negativamente il comportamento, delibera le sanzioni ed i termini entro cui queste devono essere
applicate. La l. 146/90 all’art. 20-bis devolve il controllo giudiziario sulle deliberazioni della
Commissione di garanzia «in materia di sanzioni» al giudice del lavoro. Diversamente compete al
giudice amministrativo il controllo sui restanti atti della Commissione di garanzia tra cui le delibere
di provvisoria regolamentazione dello sciopero.
In caso di fondato pericolo di pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona
costituzionalmente garantiti, a causa del mancato funzionamento dei servizi di interesse generale
per lo sciopero di lavoratori subordinati, ma anche autonomi, professionisti o piccoli imprenditori,
l’autorità governativa - il Presidente del Consiglio dei Ministri o un Ministro da lui delegato, ovvero
il Prefetto, a seconda della competenza nazionale regionale o infra-regionale dettata dalla
rilevanza del conflitto - su segnalazione della CGS ovvero di propria iniziativa nei casi di necessità
ed urgenza, può invitare le parti a desistere dai comportamenti che determinano la situazione di
pericolo, a esperire, nel più breve tempo possibile, un tentativo di conciliazione e se il tentativo
non riesce può adottare con ordinanza le misure necessarie a prevenire il pregiudizio dei diritti
degli utenti (art. 8, primo comma). L’ordinanza, da adottare almeno 48 prima dello sciopero salvo
che sia ancora in corso il tentativo di conciliazione o vi siano ragioni di urgenza, può:
la libertà sindacale;
l’azione sindacale;
l’esercizio del diritto di sciopero.
Secondo la giurisprudenza, per accertare l’esistenza di una condotta antisindacale si può
prescindere dall’esistenza di un elemento intenzionale nella condotta del datore di lavoro,
essendo sufficiente la rilevanza oggettivamente antisindacale della sua condotta. Viene così risolto
un dissidio dottrinale che vedeva alcuni autori sostenere la limitazione del campo di applicazione
alle sole condotte nominate dalla legge o in violazione di diritti sanciti dalla legge (ad esempio la
mancata informazione sindacale in un trasferimento di azienda) o dal contratto collettivo (es.
estromissione dal tavolo negoziale in violazione di un precedente accordo). Ma questo non
significa che ogni condotta datoriale illegittima o illecita costituisca comportamento antisindacale.
Il procedimento
Quello dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970 è un procedimento urgente e a cognizione
sommaria. Il giudice del lavoro, senza bisogno di una istruttoria formale e completa, ma
semplicemente sentendo sommari informatori, se ravvisa l’esistenza di un’attività antisindacale
posta in essere dal datore di lavoro, ordina, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo,
la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. Anche qui si tratta di
provvedimento a contenuto aperto, anche se non sempre demolitorio rispetto all’atto datoriale
contestato. Il decreto che decide il ricorso può essere impugnato, entro quindici giorni dalla sua
comunicazione, depositano una opposizione davanti al medesimo Tribunale, ancorché in diversa
composizione monocratica (altrimenti ha l'obbligo di astenersi, ai sensi dell'art. 51, 1° comma, n. 4,
c.p.c., cfr. Corte Cost. 15 ottobre 1999 n. 387), che decide con sentenza immediatamente
esecutiva all’esito di un procedimento ordinario e non più a cognizione sommaria. Il decreto oltre
che motivato ed immediatamente esecutivo è particolarmente resistente visto che la sua efficacia
esecutiva non può essere revocata fino alla diversa sentenza del Giudice del lavoro all’esito della
cognizione ordinaria. Ciò comporta che è inammissibile l'istanza di sospensione degli effetti del
decreto con cui sia stato accolto un ricorso per la soppressione di condotta antisindacale, né quel
decreto è suscettibile di reclamo immediato ex art. 669 terdecies c.p.c. Nonostante l’urgenza e la
sommarietà il decreto ex art. 28 SL ha una funzione decisoria di per sé idonea a realizzare un
assetto dei rapporti tra le parti e definire il contenzioso, non in via meramente incidentale o
strumentale e provvisorio ovvero interinale (fino alla decisione del merito), ma anzi suscettibile - in
caso di mancata opposizione - di assumere valore di pronuncia definitiva, con effetti di giudicato
tra le parti. Inoltre il datore di lavoro che non ottempera al decreto incorre nelle sanzioni penali
previste dall’art. 650 c.p. che puniscono l’inottemperanza agli ordini del giudice («Chiunque non
osserva un provvedimento legalmente dato dall'Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza
pubblica, o d'ordine pubblico o d'igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato ,
con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a euro 206»). Come ulteriore disincentivo
l’autorità giudiziaria ordina la pubblicazione della sentenza penale di condanna il datore di lavoro
ai sensi dell’art. 36 c.p. mentre il giudice del lavoro può ordinare la pubblicazione del decreto su
quotidiani nazionali o locali.