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Riassunto Marcello Clarich - Manuale di diritto amministrativo

Diritto Amministrativo (Università degli Studi di Parma)

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DIRITTO AMMINISTRATIVO DELL’ECONOMIA

“Manuale di diritto amministrativo”


di Marcello Clarich
Capitolo 1: Introduzione

1. Premessa
Il diritto amministrativo può essere definito come quella parte del diritto pubblico interno che ha per og-
getto l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione.
Esso in particolare riguarda i rapporti che quest’ultima instaura con i soggetti privati nell’esercizio dei poteri
ad essa conferiti dalla legge, per la cura di interessi della collettività.
Una delle prime definizione fu data da Vittorio Emanuele Orlando nei “Principi di diritto amministrativo”,
che la definì come “il sistema di quei principi giuridici che regolano l’attività dello Stato per il raggiungimen-
to dei suoi fini”.
Il diritto amministrativo si compone di un corpo di regole e di principi che si è andato formando nell’Europa
continentale nel corso del XIX secolo in parallelo all’evoluzione dello Stato di diritto: si tratta dunque di un
diritto recente.
Il diritto pubblico si ricollega infatti culturalmente al dibattito politico e filosofico del ‘700 sul fondamento e
sulla legittimità del potere del sovrano. Assunse poi la consistenza di una branca sviluppata del diritto
quando giunse a maturazione lo Stato costituzionale di diritto; infatti le costituzioni liberali ottocentesche
posero le basi normative sulle quali la dottrina, soprattutto tedesca, elaborò i concetti fondamentali del di-
ritto pubblico.
Il diritto amministrativo può essere avvicinato lungo una pluralità dei percorsi. In primo luogo, esso va colto
in una prospettiva storica. In secondo luogo, è utile muovere dalle scienze sociali che analizzano con i pro-
pri metodi il fenomeno delle amministrazioni pubbliche e gettano le basi concettuali della teoria della rego-
lazione. In terzo luogo, occorre fissare le distinzioni e i nessi del diritto amministrativo rispetto ad altre
branche del diritto. Infine, conviene prendere in considerazione alcuni caratteri generali e le principali par-
tizioni della materia.

2. Modelli di Stato e nascita del diritto amministrativo


Stato amministrativo
La presenza di apparati burocratici organizzati è una costante nella storia, i quali però non fanno compren-
dere il fenomeno amministrativo moderno, poiché hanno presupposti diversi.
Per comprendere il fenomeno amministrativo nella realtà contemporanea, si parte dalla formazione degli
stati nazionali in Europa a partire dal XVI secolo e dal graduale superamento dell'ordinamento feudale.
Considerando come paradigmatico il caso francese, la nascita dello stato moderno, con l'unificazione del
potere politico in capo al re (Stato assoluto), andò di pari passo proprio con la formazione di apparati am-
ministrativi stabili, al centro e in periferia, posti alle dirette dipendenze del sovrano (intendenti del re).
Nell’esperienza francese lo stato assoluto si connotava già come stato amministrativo, e riconduceva in ca-
po al sovrano il potere politico e statuale.
Nel corso del XVIII secolo lo Stato assoluto assunse i caratteri dell’assolutismo illuminato, emerse così lo
stato di polizia che curava la convivenza ordinata e il benessere della collettività.
L'espansione dei compiti dello stato e l'attribuzione di poteri amministrativi ai funzionari delegati del so-
vrano e agli apparati burocratici stabili portarono poco a poco all'emersione della funzione amministrativa
come funzione autonoma, non più inglobata in quella giudiziaria (in età medievale soltanto la funzione giu-
diziaria, jurisdictio, e quella legislativa, imperium, assunsero una fisionomia abbastanza definita; soltanto in
seguito alla formulazione della teoria della separazione dei poteri, il potere esecutivo acquisì un profilo più
autonomo).

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La rivoluzione francese del 1789 e le costituzioni liberali approvate nei decenni successivi nell'Europa conti-
nentale segnarono la nascita del modello dello stato di diritto (o Stato costituzionale).

Stato di diritto e Stato a regime di diritto amministrativo


Lo stato di diritto è oggi uno dei principi fondanti dell'Unione europea, insieme a quelli della dignità umana,
della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza.
Lo stato di diritto si regge su alcuni elementi strutturali, che costituiscono le precondizioni necessarie per
sottoporre gli apparati amministrativi alla signoria della legge e dunque per la stessa nascita di un diritto
amministrativo. Questi sono:
1. Lo stato di diritto presuppone il trasferimento della titolarità della sovranità dal rex legibus solutus a
un parlamento eletto da un corpo elettorale.
2. Si fonda sul principio della separazione dei poteri, necessaria per rompere il monopolio del potere in
capo al sovrano assoluto, secondo la tripartizione dei poteri teorizzata nel XVIII secolo da Montesquieu:
 il potere legislativo al parlamento elettivo,
 il potere esecutivo al re e agli apparati burocratici da esso dipendenti,
 il potere giudiziario a una magistratura indipendente.
3. L'inserimento nelle Costituzioni di riserva di legge, queste escludono (riserva di legge assoluta) o limi-
tano (riserve di legge relativa) anzitutto il potere normativo del governo. Quindi il potere regolamenta-
re dell’esecutivo è ammesso solo nelle materie sottoposte a riserva di legge relativa sempre nel rispet-
to dei limiti e dei principi stabiliti dalla legge: Il principio di legalità si pone al centro dell'intera costru-
zione del diritto amministrativo.
4. Per rendere effettive la sottoposizione del potere esecutivo alla legge e la garanzia dei diritti di libertà,
lo stato di diritto riconosce al cittadino la possibilità di ottenere la tutela delle proprie ragioni anche nei
confronti della pubblica amministrazione innanzi a un giudice imparziale, indipendente del potere ese-
cutivo (XIXs. Conseil d’Etat in Francia e Consiglio di Stato in Italia). Lo stato di diritto sfociò dunque nella
variante costituita dallo Stato di diritto a regime di diritto amministrativo.
Nei Paesi di common law invece all’amministrazione non era riservato nessun privilegio e il giudice al quale
il cittadino poteva rivolgersi per far valere le proprie ragioni contro il potere esecutivo fosse quello ordina-
rio.
Lo Stato di diritto è sempre esposto a rischi di involuzione, come attualmente il problema di movimenti po-
pulisti e sovranisti.

Stato guardiano notturno, Stato sociale, Stato imprenditore, Stato regolatore


Nel corso del XIX e del XX secolo si sono succeduti nei vari paesi una pluralità di fasi e di esperienze e ad es-
se corrispondono altrettanti tipi o modelli di stato.
Con la Rivoluzione francese si fecero strada le ideologie di impronta liberista tendenti a ridurre al minimo le
ingerenze dirette dello Stato nei rapporti economici e sociali. Emerse così il cosiddetto “Stato guardiano
notturno” dominante per buona parte del XIXs. Lo stato assunse su di sé principalmente due compiti: la ga-
ranzia dell'ordine pubblico interno e la difesa del territorio da potenziali nemici esterni; spettavano dunque
alla società civile e al mercato lo svolgimento delle attività economiche e la cura di altri interessi della col-
lettività. Venivano considerati con sfavore le aggregazioni sociali e i corpi intermedi tra Stato e individuo. In
questo contesto la presenza di apparati burocratici stabili era ridotta al minimo.
La visione liberista e liberale dello stato entrò in crisi, verso la fine del XIX secolo, con l'affermarsi sulla
scena politica e istituzionale di nuove ideologie e classi sociali. Sulla scena politica comparivano movimenti
e partiti portatori di istanze di redistribuzione e socializzazione della ricchezza nell'interesse delle classi me-
no abbienti. Queste trasformazioni segnarono il passaggio a un modello di stato detto “stato interventi-
sta”, “stato sociale” o “stato del benessere” (welfare state”).
A livello centrale, l'amministrazione dello stato si potenziò con la crescita dimensionale e numerica dei mi-
nisteri e degli enti deputati a svolgere le nuovi funzioni. A livello locale, presero avvio esperimenti di socia-
lismo municipale, cioè di assunzione da parte dei poteri locali di servizi pubblici (es:illuminazione pubbluca).
La svolta autoritaria, con l'affermarsi del regime fascista in Italia e del regime nazista in Germania, favorì
negli anni Trenta una forte espansione della presenza dello stato, un influenza diretta e indiretta su tutte
le principali espressioni della società civile e dell'economia.

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La crisi economica degli anni Trenta, provocata dal crollo del mercato borsistico nel 1929 richiese interventi
di salvataggio da parte dei pubblici poteri. Accrebbe così la presenza diretta dello stato nell'economia e si
affermò il modello dello “stato imprenditore”.
Interventi sotto forma di ausili e contributi finanziari pubblici, diretti o indiretti. volti a sostenere particolari
settori di attività diedero origine alla variante dello “stato finanziatore”. Proliferarono enti pubblici, impre-
se in mano pubblica, aziende per la gestione diretta di attività economiche.
L’influenza delle ideologie collettivistiche, nel secondo dopoguerra, portò all’approvazione di programmi di
nazionalizzazione si settore economici strategici (trasporti, sanità, energia elettrica).
Emerse così anche nelle democrazie occidentali in forma più o meno accentuata, lo “stato pianificatore”,
quest'ultimo si caratterizza per predisposizioni a livello centrale di piani e programmi settoriali, volti a in-
dirizzare risorse pubbliche e private verso obiettivi predeterminati.
La presenza diretta o indiretta dello stato nelle attività economiche e sociali determinò una crescita espo-
nenziale della spesa pubblica. Nel lungo periodo ciò provocò una crisi finanziaria dello Stato, questo portò
alla riprese di ideologie antistataliste e furono avviate politiche di liberalizzazioni, con la soppressione di
regime di monopolio legale e di privatizzazione di molte attività assunte direttamente dai pubblici poteri.
Lo “stato imprenditore” si trasformò così via via in uno “stato regolatore”, quest'ultimo rinuncia cioè a diri-
gere o gestire direttamente attività economiche e sociali e si fa invece carico di predisporre soltanto la cor-
nice di regole e gli strumenti di controllo necessari affinché l'attività dei privati, non vada a ledere gli inte-
ressi pubblici rilevanti.
Il modello dello stato regolatore con varianti più o meno estreme ha costituito il paradigma di riferimento
dell'ultimo trentennio. Tuttavia la crisi finanziaria e la recessione economica del 2008 hanno messo in luce
le carenze strutturali delle concezioni economiche sottostanti a tale modello. Di fronte a tale crisi, per evi-
tare il crollo del sistema finanziario internazionale, sono state attuate misure di intervento pubblico diretto
e indiretto con la mobilitazione di tantissime risorse pubbliche. Si è parlato, a questo riguardo, della rinasci-
ta dello stato interventista. È emersa anche la consapevolezza che i processi di globalizzazione economica
vanno governati con istituzioni e meccanismi di regolazione anch’essi globali.

Cenni agli ordinamenti anglosassoni: L’Inghliterra e gli Stati Uniti


Diverso fu in parte il percorso degli ordinamenti anglosassoni.
L'Inghilterra anzitutto non conobbe il fenomeno dell'accentramento amministrativo che connotò l'espe-
rienza francese; i poteri locali mantennero ampi spazi di autonomia.
Fu mantenuta la tradizione della common law, cioè di un diritto non codificato di derivazione giurispruden-
ziale. Un solo diritto, l'ordinary law of the land, governava i rapporti di tutti i soggetti dell'ordinamento a
prescindere dalla loro natura pubblica o privata. Un unico sistema di corti giudiziarie era deputato a risolve-
re tutte le controversie.
Anche in Inghilterra, verso la fine del XIX secolo prese avvio una legislazione di stampo sociale, che portò
all'istituzione di apparati di vario tipo (commissions, boards) per la gestione di programmi intervento.
I poteri dell’esecutivo furono rafforzati e vennero istituiti, settore per settore, i Tribunals: organi ammini-
strativi incaricati di dirimere in forma paragiurisdizionali controversie in particolari materie, le cui decisioni
furono assoggettate al controllo giurisdizionale delle corti ordinarie.
Solo a partire dalla seconda metà del XX secolo si delineò una distinzione tra diritto pubblico e diritto pri-
vato e iniziarono a operare un controllo giurisdizionale più intenso sull’attività dell’esecutivo.
Fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso fece seguito una fase di ritirata dello stato dall'intervento
nell'economia con le politiche di liberalizzazione e di privatizzazione.
L'organizzazione dei dipartimenti ministeriali venne ripensata secondo il modello dell'agenzie, cioè con la
costituzione di una serie di unità operative autonome o semiautonome dagli apparati centrali e legate a
queste da relazioni di tipo contrattuale. Si affermò la scuola del New Public Management, con elementi di
managerialità nel settore pubblico.
Anche negli Stati Uniti lo sviluppo dello stato regolatore e la comparsa del diritto amministrativo avvennero
in epoca relativamente recente. La prima agenzia venne istituita nel 1887 con il compito di regolare le tarif-
fe praticate dai gestori privati delle linee ferroviarie (interstate commerce commission). Nel 1890 per com-
battere i cartelli e i monopoli, venne approvato lo sherman act, primo esempio di legge antitrust. Negli anni
Trenta in reazione alla grande crisi del 1929, vennero istituite numerose autorità di regolazione, vennero

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altresì varati numerosi programmi di intervento pubblico in campo economico e sociale. Questo tipo di evo-
luzione comportò una forzatura della Costituzione americana, quest'ultima infatti non prevede che il Con-
gresso possa delegare poteri normativi e amministrativi così ampi ad apparati amministrativi indipendenti
dal presidente.
Un compromesso fu raggiunto nel 1946 con l'approvazione dell' ”administrative procedure act” che costi-
tuisce uno dei modelli principali di legge sul procedimento amministrativo. Questa legge, per un verso, le-
gittimò e consolidò il modello delle agenzie di regolazione; per latro verso, sottopose la loro attività a una
serie di regole procedurali che costituiscono l'ossatura del diritto amministrativo negli Stati Uniti.
Con la svolta reganiana (Ronal Reagan limitò la capacità impositiva dello Stato), a partire dagli anni 80, fu-
rono introdotte misure volte a controllare e limitare l'attività delle agenzie e a operare una sostanziale ri-
duzione della quantità e intrusività della regolazione esistente (deregulation).
I processi di liberalizzazione e privatizzazione non produssero sempre i risultati attesi in termini di recupero
di efficienza E di qualità delle prestazioni e dei servizi.
In generale, si discute sempre più frequentemente, quasi per simmetria rispetto ai cosiddetti fallimenti del
mercato, di fallimenti dello Stato. Per porre rimedio a questi ultimi, negli Stati Uniti
nel 2010 sono state introdotte riforme incisive degli assetti istituzionali vigenti, rafforzando in particolare il
sistema della vigilanza sulle attività finanziarie.
Peraltro, in seguito alle elezioni presidenziali del 2016, il pendolo ritorna a muoversi nella direzione della
deregolamentazione.

L’evoluzione della pubblica amministrazione in Italia


In Italia, in epoca cavouriana (1850-1861), fu adottato il modello dell'amministrazione per ministeri, con la
concentrazione delle poche funzioni pubbliche in capo a un nucleo ristretto di apparati organizzati in base
al principio gerarchico e rappresentati al vertice da un ministro politicamente responsabile dell'attività
complessiva nei confronti del parlamento. Sul finire del XIX sec. Il governo crispi porto alla pubblicizzazione
delle Opere pie, cioè enti e strutture private sorte dall’impulso della società civile e delle organizzazioni re-
ligiose nel capo dell’assistenza sanitaria e sociale. Esse divennero enti pubblici (IPAB) e pggi sono state an-
cora privatizzate.
All'inizio del XX secolo, in epoca giolittiana, furono potenziate le strutture ministeriali e istituite le prime
aziende ed enti pubblici nazionali (INA, INPS); a livello locale molti comuni costituirono aziende per la ge-
stione di numerose attività (1903: legge sulla municipalizzazione dei pubblici servizi).
La svolta autoritaria negli anni Venti e l'ideologia statalista e corporativa affermatasi negli anni Trenta in-
nescarono un processo di pubblicizzazione di molte attività economiche e sociali con l'istituzione di nume-
rosi enti pubblici. La Grande Crisi determinò l'estensione della mano pubblica in numerosi settori economi-
ci. Nel 1933 venne istituito l'IRI (istituto per la ricostruzione industriale), ente pubblico economico al quale
venne attribuita la titolarità delle azioni di numerose imprese oggetto di interventi di salvataggio. Nel 1936
venne approvata una legge bancaria e vennero così attribuiti ad apparati pubblici funzioni di controllo mo-
netario e di vigilanza sugli istituti di credito.
La Costituzione del 1948 che rifondò su basi democratiche e secondo il principio dello Stato di diritto l'ordi-
namento italiano, incorporò una matrice interventista nei rapporti tra stato, società ed economia.
Il secondo dopoguerra fu contrassegnato nei primi decenni da una sostanziale continuità nell'organizzazio-
ne amministrativa, improntata a un forte centralismo, pur in vigenza di una Costituzione ispirata ai principi
di pluralismo e del decentramento. Le imprese di proprietà pubblica vennero riordinate nel sistema delle
partecipazioni statali: venero istituiti gli enti di gestione con funzione di holding finanziaria di controllo delle
imprese pubbliche.
L'espansione dei pubblici poteri continuò negli anni Sessanta e Settanta. Nel 1962 venne nazionalizzato il
settore dell'energia elettrica e istituito un ente pubblico economico (ENEL) per la gestione in regime di mo-
nopolio di tutte le attività della filiera. Nel 1978 venne istituito il Servizio sanitario nazionale, ispirato a una
logica pianificatoria e di gestione prevalentemente pubblica dell'assistenza sanitaria incentrata su una rete
di apparati pubblici che coprono l'interro territorio nazionale (oggi denominate aziende sanitarie locali).
Negli anni Settanta con l'attuazione del disegno costituzionale del regionalismo, vennero istituiti nuovi ap-
parati burocratici a livello regionale, anch'essi articolati, in assessorati con competenze riferite alle varie
materie di spettanza regionale e in enti pubblici dipendenti.

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In conseguenza di questi e altri interventi legislativi, guidati dalla logica dello Stato interventista, l'ammini-
strazione pubblica assunse la conformazione di una costellazione multilivello e policentrica di enti pubblici
che affiancano gli apparati ministeriali centrali.
A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, a causa dei costi sempre meno sostenibili, vennero avviati
processi di liberalizzazione e di privatizzazione. Si attuò inizialemente una privatizzazione calda, in cui av-
venne la trasformazione degli enti pubblici economici in società per azioni, propedeutica alla privatizzazio-
ne calda, cioè di dismissione totale o parziale dei pacchetti azionari in mano pubblica.
Si affermò così una concezione dello stato che favorisce processi di decentramento e valorizza le autono-
mie territoriali e funzionali, in particolare le regioni e gli enti locali acquisirono nuove funzioni e spazi di au-
tonomia statutaria, organizzativa e finanziaria e fu operata una riforma dei ministeri.
Il processo culminò con la legge costituzionale del 2001 n.3 che ridisegnò l'assetto delle competenze legi-
slative dello Stato e delle regioni e delle funzioni amministrative dei vari livelli di governo in base al princi-
pio della sussidiarietà verticale. Quest'ultimo privilegia nell'allocazione delle funzioni le unità organizzative
più vicine ai cittadini destinatari delle attività e dei servizi. Iniziò ad essere visto con favore anche il coinvol-
gimento di espressioni della società civile nello svolgimento di attività di interesse pubblico, secondo il mo-
dello di sussidiarietà orizzontale.
Il processo di riforma della pubblica amministrazione sembra comunque un’operazione mai conclusa. Negli
ultimi anni si registra anzi un nuovo attivismo legislativo con l’obiettivo di migliorare la funzionalità e accre-
scere l’efficienza del sistema amministrativo.
A fine 2012 è stata approvata la legge anticorruzione (l.n.190/2012) che impone alle amministrazioni l'ado-
zione di misure di prevenzione e obblighi di pubblicità.

Cenni conclusivi
Pur nella varietà dei contesti e con percorsi legati alle specificità di ciascuno stato, lo sviluppo storico del
XIX secolo ad oggi è stato caratterizzato da due tipi di fenomeni: un andamento ciclico nell'espansione e
nella contrazione del campo di intervento dei pubblici poteri secondo i vari modelli dello Stato via via suc-
cedutisi; il consolidarsi degli apparati amministrativi e l'emergere, anche nei Paesi di common law di un di-
ritto speciale per le pubbliche amministrazioni. Il diritto amministrativo cerca di conciliare l'esigenza di cu-
rare molteplici interessi della collettività (interessi pubblici) con quella di garantire al massimo grado le li-
bertà dei singoli.

3. Diritto amministrativo e scienze sociali: la scienza del diritto amministrativo


Premessa
Oggetto del diritto amministrativo sono l'organizzazione e l'attività della pubblica amministrazione e i prin-
cipi speciali che le regolano. Qualsiasi branca del diritto presuppone infatti una percezione esatta degli og-
getti ai quali si riferisce, cioè dei fatti e degli interessi che stanno alla base delle regole da porre (de jure
condendo) e successivamente da applicare e interpretare (de jure condictio).
Da qui la necessità di tener conto dei metodi e dei contributi di una pluralità di discipline non giuridiche che
prendono in considerazione anche la pubblica amministrazione e gli strumenti di intervento dio cui essa di-
spone per la cura di interessi economici e sociali della collettività.

La sociologia
La sociologia analizza le relazioni fattuali di potere interne ed esterne agli apparati burocratici e la varietà
dei bisogni e degli interessi della collettività di cui essi si fanno carico.
Il potere è un fenomeno sociale prima ancora che giuridico, va ricordata l'analisi di Max Weber dei tipi sto-
rici di potere, definito come la possibilità per specifici comandi di trovare obbedienza da parte di un deter-
minato gruppo di uomini. Il potere si presta a essere classificato in base a tre criteri di legittimazione: il po-
tere tradizionalmente fondato sul carattere sacro delle tradizioni; il potere carismatico fondato sulla forza
eroica o sul valore esemplare di una persona; il potere razionale fondato sulla legalità di ordinamenti sta-
tuiti.
La sociologia studia anche la struttura degli apparati burocratici e del personale che in essi opera.

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Le scienze politiche ed economiche. Fallimenti del mercato e “regulation”


Le scienze politiche analizzano il ruolo degli apparati burocratici all'interno del circuito politico rappresen-
tativo, cioè come strumenti per realizzare le politiche pubbliche decise dal parlamento e inquadrare i rap-
porti tra classe politica, burocrazie e potere economico. Esse mettono in evidenza come la burocrazia non
sia in realtà un attore neutrale nei processi decisionali, ma assume spesso un ruolo attivo di elaborazione e
di condizionamento delle politiche governative.
Le scienze politiche ed economiche analizzano le situazioni nelle quali è giustificato l'intervento dei pubblici
poteri sotto forma di regolazione.
Nel mondo anglosassone ha avuto impulso la teoria della regolazione pubblica (o regulation), che analizza
le ragioni e le modalità di intervento dei poteri pubblici in campo sociale ed economico. Si distinguono ge-
neralmente due modelli di regolazione pubblica, la prima indirizzata a promuovere scopi sociali (social reg-
ulation), come la tutela della salute o le provvidenze; la seconda indirizzata a massimizzare l'efficienza eco-
nomica e il benessere dei consumatori (economic regulation), mirando a correggere le situazioni di falli-
mento del mercato.
I principali casi di fallimento del mercato che giustificano l'intervento dei poteri pubblici sono:
1. i monopoli naturali: creano un potere di mercato che non permette lo sviluppo della concorrenza
e solitamente vengono rimediati sottoponendo l’impresa a vincoli.;
2. i cosiddetti beni pubblici, come la difesa esterna o l'ordine pubblico, dei quali beneficia l'intera col-
lettività;
3. le esternalità negative dovute per esempio a produzioni industriali inquinanti i cui benefici vanno a
vantaggio delle imprese, ma i cui costi gravano sull'intera collettività;
4. le asimmetrie informative tra chi offre e chi acquista beni e servizi circa le caratteristiche qualitati-
ve essenziali di questi ultimi;
5. le esigenze di coordinamento per esempio relative al sistema dei pesi e misure o al traffico strada-
le che richiedono la fissazione di standard uniformi.

Misure correttive e il prinicipio di proporzionalità Le misure autoritative necessarie per prevenire e correg-
gere i fallimenti del mercato (command and control) si prestano a essere classificate secondo il criterio che
muove dalla maggiore alla minore intrusività rispetto alla dinamica del mercato. Il principio che dovrebbe
guidare il regolatore nella scelta degli strumenti correttivi è quello secondo il quale vanno preferiti, tra gli
strumenti astrattamente idonei a tutelare l'interesse pubblico, quelli meno restrittivi della libertà d'impre-
sa.

Cenni agli indirizzi della “public choice” e al modello “principal-agent”


Nell'ambito delle scienze economiche va menzionato l'indirizzo della public choice affermatosi negli Stati
Uniti. Per spiegare il funzionamento effettivo degli apparati pubblici è errato muovere dall’ipotesi che gli
apparati pubblici agiscano sempre e necessariamente per il perseguimento di obiettivi di interesse pubbli-
co, bisogna invece considerare che anche il loro comportamento è animato, al pari degli attori privati, da
self-interest (potere,reputazione ecc).
Gli apparati pubblici agiscono cioè come attori in un'arena pubblica nella quale le decisioni sono il frutto di
scambi e di negoziazioni tra vari gruppi politici e sociali e i rappresentanti degli interessi organizzati che
mimano in qualche modo il mercato. Anche gli apparati amministrativi al pari degli agenti politici (parla-
mento e governo) tendono a essere influenzati nelle loro decisioni da interessi sopratutto economici
(lobby) deviando cosi dalla loro missione di cura dell'interesse pubblico generale (governament failures). Da
qui la necessità di un disegno istituzionale atto a prevenire o, quanto meno, a limitare questo rischio.
Dal punto di vista macroeconomico, lo Stato nelle sue varie articolazioni può essere considerato come un
meccanismo di gestione e redistribuzione delle risorse alternativo al mercato.
La microeconomia elabora a sua volta una serie di strumenti concettuali utili per inquadrare il fenomeno
burocratico. In particolare la teoria del principal-agent (principale-agente o delegante-delegato) studia i
meccanismi e gli incentivi per far si che l'attività dell'agente, delegato dal principale a compiere una certa
attività, venga posta in essere nell'interesse di quest'ultimo e non venga piegata all'interesse egoistico
dell'agente.

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Anche gli apparati burocratici possono essere considerati come agenti del parlamento che attribuisce ad
essi, per legge, funzioni e risorse per la cura di interessi pubblici.

La scienza dell’amministrazione
La scienza dell'amministrazione ha una tradizione che risale al XIX secolo, in Italia, essa si ricollega agli studi
di finanza pubblica, ma non ha mai assunto in realtà uno statuto ben definito all'interno delle scienze non
giuridiche che studiano la pubblica amministrazione. I principi riuniti sotto il titolo di questa scienza non co-
stituiscono un ramo autonomo di coscienza.

La scienza del diritto amministrativo


Alla scienza giuridica spettano alcuni compiti specifici. I fenomeni infatti devono essere colti nella loro di-
mensione giuridica, devono cioè essere inquadrati nel contesto delle norme vigenti (diritto positivo).
Spetta dunque al giurista il compito di procedere a una ricognizione delle fonti normative che disciplinano
una determinata materia, poi il materiale normativo deve essere riordinato e organizzato in modo sistema-
tico tramite l’elaborazione di categorie e concetti giuridici.
L'applicazione rigorosa del metodo giuridico al diritto amministrativo risale in Italia alla fine del XIX secolo,
Vittorio Emanuele Orlando pose le basi della scienza del diritto pubblico all'interno del quale si colloca an-
che il diritto amministrativo.
In questa prima fase il diritto amministrativo concentrò la propria attenzione sull'attività amministrativa.
Venne elaborata la teoria dell’atto amministrativo come espressione del potere unilaterale attribuito dalla
legge agli apparati pubblici; con l'evolversi dei rapporti politici e sociali e con l'espandersi della legislazione
amministrativa, la scienza del diritto amministrativo estese il proprio campo di indagine a fenomeni emer-
genti come l'ordinamento del credito, gli enti pubblici e l'impresa pubblica. Maggiore attenzione venne de-
dicata, per esempio, ai profili organizzativi di un amministrazione sempre più multilivello.
Gli anni Novanta del secolo scorso, segnati dall'introduzione della legge del 7 agosto 1990, n.241 sul proce-
dimento amministrativo e dall'influenza del diritto europeo, costituiscono idealmente una cesura tra una
concezione più autoritaria del diritto amministrativo che privilegia il punto di vista dell'amministrazione e
pone l'accento sui poteri unilaterali attribuiti a quest'ultima e propone un nuovo paradigma interpretativo,
quest'ultimo valorizza la posizione del cittadino ed enfatizza la sottoposizione del potere al principio di le-
galità.

4. Il diritto amministrativo e i suoi rapporti con altre branche del diritto


Il diritto costituzionale
Bisogna distinguere il diritto costituzionale da quello amministrativo. Il primo riguarda i rami alti dell'ordi-
namento (corpo elettorale, parlamento governo, corte costituzionale), i diritti dei privati (libertà persona-
le, manifestazione del pensiero) e le fonti del diritto.
Il secondo i rami bassi e cioè qual complesso poliedrico di apparati pubblici che si è sviluppato sopratutto
nel corso del XX secolo, ciascuno dei quali è dotato di una gamma più o meno ampia di poteri.
Il primo trova fondamento e una disciplina positiva nelle Costituzioni scritte. Il secondo è regolato in preva-
lenza da fonti normative sub-costituzionali (leggi, regolamenti, statuti) e dai principi di derivazione giuri-
sprudenziale. Il diritto costituzionale e il diritto amministrativo sono tuttavia strettamente correlati, almeno
due sono i nessi:
1) in primo luogo il diritto amministrativo non è altro che il diritto costituzionale reso concreto cioè colto
nella sua effettiva realizzazione nella legislazione e nella vita dell'ordinamento. Per esempio, il grado di
tutela dei diritti di libertà e dei diritti sociali si misura dalle leggi amministrative che attuano il disegno
costituzionale e dalla concreta applicazione che essere ricevono ad opera principalmente degli appara-
ti amministrativi.
2) Un secondo nesso tra diritto costituzionale e diritto amministrativo riguarda un affermazione di uno
dei maggiori giuristi tedeschi (Otto Mayer) “il diritto costituzionale passa, il diritto amministrativo re-
sta”. Essa mette in luce il disallineamento temporale dei mutamenti costituzionali rispetto alle riforme
amministrative. I mutamenti costituzionali possono verificarsi anche in modo rapido in seguito a moti
rivoluzionari, rotture della Costituzione; le riforme amministrative, al contrario, mirano a modificare

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l'organizzazione e il modo di operare degli apparati burocratici, strutturalmente poco permeabili al


cambiamento.
La testimonianza di ciò è data dall’adeguamento dell’organizzazione amministrativa al disegno della Costi-
tuzione del 1948, improntato ai valori del decentramento e dell’autonomia, che richiese decenni.

Il diritto europeo
Il diritto amministrativo italiano ha acquisito peraltro una dimensione europea sotto cinque profili principa-
li: la legislazione amministrativa, l'attività, l'organizzazione, la finanza, la tutela giurisdizionale.
1. La legislazione amministrativa--> L'art.117Cost. stabilisce che la potestà legislativa dello stato e delle re-
gioni deve essere esercitata nel rispetto oltre che della Costituzione, “dei vincoli derivanti dall'ordina-
mento comunitario”. Questo vincolo condiziona sempre di più la legislazione amministrativa statale e
regionale che in molte materie si limita alla trasposizione, con gli adattamenti e le integrazioni necessa-
rie, delle direttive europee.
2. L’attività amministrativa: L'art.1,1 241/1990 include tra i principi generali dell'attività amministrativa (e-
conomicità, efficacia, imparzialità, pubblicità) anche “i principi generali dell'ordinamento comunitario”.
Questi ultimi sono ricavabili dai Trattati e dalle altre fonti del diritto europeo, sia dalla giurisprudenza
della Corte di giustizia dell'Unione europea. L'art.5 del Trattato sull'Unione europea enuncia, per esem-
pio, tra i criteri per l'allocazione delle funzioni tra l'Unione e gli stati membri il principio di sussidiarietà;
enuncia anche quello di proporzionalità rivolto anche all’amministrazione allorché esercita poteri discre-
zionali. La pubblica amministrazione è menzionata anche nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea. L'art.41 rubricato “Diritto ad una buona amministrazione” garantisce infatti a ogni individuo
nei rapporti con le istituzioni europee il diritto di essere trattato in modo imparziale ed equo, di essere
ascoltato prima che venga adottato nei suoi confronti un provvedimento che gli rechi pregiudizio, di ac-
cedere ai documenti del fascicolo che lo riguarda, di ottenere una decisione motivata adottata entro un
termine ragionevole.
3. L’organizzazione: Il diritto europeo condiziona l'assetto organizzativo e funzionale degli apparati pub-
blici. Così numerose agenzie e autorità indipendenti sono state istituite in Italia in attuazione di direttive
europee. Esse hanno dato origine a una vera e propria rete integrata di organismi istituiti in ciascuno
Stato membro che svolgono in modo coordinato la propria attività in gran parte allo scopo di curare l'at-
tuazione del diritto europeo in particolari materie. Ad esempio si pensi al Sistema della banche centrali
del quale fanno parte le banche centrali nazionali, oppure al settore dell’energia elettrica. I procedimen-
ti amministrativi vedono coinvolte sempre più spesso amministrazioni nazionali ed europee
4. La finanza pubblica: Il diritto europeo impone poi, agli stati membri vincoli sempre più stringenti alla fi-
nanza pubblica che condizionano l'operatività delle pubbliche amministrazioni e l'attuazione dei loro
programmi di intervento;
5. La tutela giurisdizionale: Il diritto europeo esercita un'influenza anche sul dritto processuale amministra-
tivo. Il codice del processo amministrativo stabilisce che la giurisdizione amministrativa assicura una tu-
tela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo.
Il diritto amministrativo si è aperto non soltanto a una dimensione europea, ma sta assumendo anche una
dimensione globale. Essa è collegata allo sviluppo a livello mondiale di un numero elevato di organizzazioni
internazionali (banca mondiale, organizzazione mondiale del commercio), che producono regole e standard
che condizionano direttamente e indirettamente i diritti nazionali.

Il diritto privato
I nessi tra diritto amministrativo e diritto privato possono essere ricondotti a tre preposizioni principali:
il diritto amministrativo è un diritto autonomo dal diritto privato; non esaurisce tutta la disciplina dell'attivi-
tà e dell'organizzazione della pubblica amministrazione che attinge sempre più a moduli privatistici; ha una
capacità espansiva in quanto si applica a certe condizioni, anche a soggetti privati.
L'autonomia del diritto amministrativo
L'autonomia del diritto amministrativo dal diritto privato emerge indirettamente da un istituto disciplinato
dalla legge n.241/1990 e cioè dagli accordi stipulati tra amministrazione e soggetti privati e che discipli-
nano l'esercizio dei poteri discrezionali.

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L’amministrazione può infatti concludere con gli interessati di un provvedimento accordi al fine di determi-
nare il miglior assetto degli interessi da incorporare nel provvedimento finale.
Quel che rileva è che a questo tipo di accordi di natura pubblicistica si applicano, ove non diversamente
previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili.
Il diritto amministrativo è un diritto in sé completo e autosufficiente.
Esso può attingere talora al diritto privato, ma in modo indiretto e selettivo:
indiretto perché il rinvio è operato non già alle disposizioni del codice civile, bensì ai principi da esse desu-
mibili in via di interpretazione; selettivo, perché anche l'applicazione dei principi così ricavati non è auto-
matica, in quanto è subordinata a un giudizio di compatibilità con i principi del diritto amministrativo che
dunque prevalgono su quelli del diritto civile. Inoltre l’applicazione del diritto privato può essere escluso da
norme speciali. Il diritto amministrativo e il diritto privato non si pongono dunque in un rapporto di regola-
eccezione, essi si collocano invece in una relazione di autonomia reciproca.
Negli ordinamenti anglosassoni, invece, nei quali il diritto amministrativo ha avuto uno sviluppo più recen-
te ed è meno completo, esso si pone rispetto alla common law in termini di deroga o eccezione, piuttosto
che di autonomia.
Per tradizione la nascita del diritto amministrativo come disciplina autonoma si fa risalire in Francia al cele-
bre arrêt Blanco del 1873. La specialità del diritto amministrativo si giustifica per la necessità di curare
l’interesse generale attraverso un opportuno bilanciamento degli interessi in gioco.
L'autonomia del diritto amministrativo sostanziale trova un parallelo nell'autonomia del diritto amministra-
tivo processuale rispetto al diritto processuale civile.
I moduli privatistici dell'attività e dell'organizzazione delle pubbliche amministrazioni
L'attività delle pubbliche amministrazioni è regolata in parte da leggi amministrative e in parte dal diritto
privato. Le pubbliche amministrazioni sono dotate anzitutto di soggettività piena nell’ordinamento giuridi-
co. Esse godono, al pari delle persone giuridiche private, di una capacità giuridica generale, quest’ultima
intesa come l’attitudine ad assumere la titolarità dei diritti e obblighi in conformità alle norme del codice
civile e delle leggi speciali.
L'art.1,1-bis, 241/1990 enuncia il principio secondo il quale la pubblica amministrazione “nell'adozione di
atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge non disponga
diversamente”.
Il solo limite generale che sussiste per esse è costituito dal fatto che la capacità giuridica generale è attri-
buita alla pubbliche amministrazioni per realizzare le finalità di interesse pubblico affidata a loro (no con-
tratti aleatori).
La capacità generale di diritto privato delle p.a. viene integrata da una sorta di capacità speciale, attraverso
l’attribuzione per legge di poteri amministrativi necessari per la cura di interessi pubblici.
L'esercizio di poteri amministrativi si sostanzia nell'adozione di atti aventi natura autoritativa, caratterizza-
ti dall'unilateralità nella produzione degli effetti e sottoposti al principio di legalità e agli altri principi del di-
ritto amministrativo. L'amministrazione è tenuta a curare l'interesse pubblico affidatole privilegiando l'e-
sercizio dei poteri amministrativi ad essa conferiti piuttosto che far uso della capacità generale di diritto
privato.
Così in materia di contratti della pubblica amministrazione per la fornitura di beni e servizi e per l'esecu-
zione di lavori, convivono regole pubblicistiche e regole privatistiche.
Le prime riguardano sopratutto la formazione della volontà della pubblica amministrazione, finalizzate a ga-
rantire la trasparenza; le regole privatistiche riguardano la fase dell'esecuzione degli obblighi contrattuali
assunti.
La capacità di diritto privato ha consentito alle pubbliche amministrazioni di ricorrere al modello della so-
cietà di capitali di diritto comune per l'esercizio di servizi pubblici E di altre attività di rilevanza pubblicistica.
Alcune leggi settoriali hanno però previsto deroghe molto ampie alla disciplina del codice civile, dando ori-
gine al fenomeno delle società di diritto speciale, per le quali valgono anche regole pubblicistiche (RAI).
In seguito alla spinta alla privatizzazione che ha caratterizzato l'ultimo ventennio, molti enti pubblici sono
stati trasformati in enti privati anch’essi ricondotti al diritto comune, salvo le deroghe previste da leggi spe-
ciali.
Il diritto privato penetra anche all'interno dell'organizzazione pubblica sotto più profili.

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In primo luogo, non tutta l'organizzazione delle pubbliche amministrazioni è disciplinata da fonti giuridiche
pubblicistiche e dai principi del diritto pubblico, in quanto si opera una distinzione tra macro-organizzazione
e micro-organizzazione. La “macro-organizzazione”, cioè le linee fondamentali di organizzazione degli uffi-
ci, l'individuazione degli uffici di maggiore rilevanza, i modi di conferimento della titolarità dei medesimi e
le dotazioni organiche, è definita con atti organizzativi di tipo pubblicistico adottati da ciascun ente secon-
do il proprio ordinamento.
La “micro-organizzazione”, invece, riguardante l'articolazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione
dei rapporti di lavoro, è determinata dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato
datore di lavoro, cioè con atti organizzativi di diritto privato.
Il pubblico impiego privatizzato In secondo luogo, il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, in preceden-
za sottoposto a un regime pubblicistico è stato ricondotto in gran parte al diritto comune. Di regola si appli-
ca il diritto comune, salvo le eccezioni previste dalla disciplina speciale contenuta nello stesso decreto legi-
slativo o in altre leggi amministrative.
La tendenza espansiva del diritto amministrativo
In presenza di determinate condizioni, anche soggetti formalmente privati sono sottoposti almeno in parte,
a un regime di diritto amministrativo. Ciò accade, in particolare, per soggetti privati che sono qualificati
come organismi di diritto pubblico o imprese pubbliche. Alcuni atti di soggetti privati hanno dunque natura
di provvedimenti e sono sottoposti al controllo giurisdizionale da parte del giudice amministrativo.
Il Codice del processo amministrativo, nel definire l’ambito della giurisdizione amministrativa, infatti, fa ri-
ferimento ai “soggetti equiparati” alle pubbliche amministrazioni o a quelli “comunque tenuti al rispetto dei
principi del procedimento amministrativo”.
Anche la normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi ha un campo di applicazione che va al
di là delle amministrazioni pubbliche in senso stretto. L'art.22, comma 1, 241/ 1990, infatti, include nella
definizione di pubblica amministrazione i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubbli-
co interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario, i quali sono tenuti a rispettare gli obblighi in
materia di trasparenza.
Infine la costituzione di società per azioni da parte di soggetti pubblici regolate in linea di principio dal dirit-
to privato non comporta sempre e necessariamente che esse siano qualificabili come persone giuridiche
private, e in considerazione della rilevanza pubblicistica della loro attività, attribuisce ad alcune società in
mano pubblica la natura giuridica di enti pubblici (Poste spa, ENEL spa).
In ogni caso la privatizzazione formale di molti enti pubblici, cioè la loro trasformazione in società di diritto
privato (privatizzazione “fredda”), se non è accompagnata da una privatizzazione sostanziale, attraverso la
dismissione del controllo azionario da parte dello stato o di enti pubblici (privatizzazione “calda”), non alte-
ra la sostanza pubblicistica delle società, con la conseguente applicazione di regole pubblicistiche.
Va segnalato per completezza che anche il diritto privato in qualche caso incorpora principi propri del dirit-
to amministrativo: nel diritto societario le società facenti parte di un gruppo possono assumere decisioni
influenzate dall’attività di direzione e coordinamento della società capogruppo anche sacrificando
l’interessa della società a favore di quello del gruppo; tuttavia le decisioni di questo tipo, al pari degli atti
amministrativi, devono essere analiticamente motivate.
In conclusione, il diritto amministrativo non costituisce oggi né l’unico diritto applicabile alle pubbliche
amministrazioni, né un diritto applicabile solo ad esse.

Il diritto penale
Il diritto amministrativo ha molte interconnessioni con il diritto penale. Il codice penale dedica l’intero Tito-
lo II del libro II ai delitti ocntro la pubblica amministrazione distinguendo tra reati commessi dai pubblici uf-
ficiali e dagli incaricati di pubblici serivizi.
Inoltre il diritto penale rafforza l’effettività di molte discipline amministrative di settore punendo compor-
tamenti dei singoli individui o di imprese che ne violino i precetti.

5. I caratteri generali del diritto amministrativo


La natura giurisprudenziale del diritto amministrativo
Conviene dar conto di alcuni caratteri generali del diritto amministrativo e delle principali partizioni della
materia. La nascita del diritto amministrativo in Francia e in Italia è legata all'istituzione di un giudice spe-

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ciale per le controversie tra cittadino e pubblica amministrazione. Ciò spiega un suo primo tratto distintivo,
vale a dire di essere un diritto avente natura giurisprudenziale.
In Francia la giustizia amministrativa si sviluppò, senza soluzione di continuità, dal sistema del contenzioso
amministrativo all'istituzione di un giudice speciale. Il contenzioso amministrativo era dato da quel com-
plesso di ricorsi e rimedi amministrativi interni al potere esecutivo.
Nel 1872 al Conseil d'Etat venne attribuita in via permanente la funzione di giudice del contenzioso ammi-
nistrativo. Nel 1873 il Tribunal des Conflits emanò la celebre pronuncia sull'arrêt Blanco,che, segna con-
venzionalmente la nascita del diritto amministrativo. Fu lo stesso Conseil d'Etat a elaborare i principi fon-
damentali di questo diritto che dunque ha assunto e mantenuto nel tempo il carattere generale di un dirit-
to non codificato di natura essenzialmente giurisprudenziale.
In Italia lo sbocco naturale del sistema del contenzioso amministrativo nell’istituzione di un giudice speciale
in senso proprio subì una cesura in occasione della riunificazione nazionale. Venne abolito il contenzioso
amministrativo, ritenuto non compatibile con una visione liberale dello Stato e, attribuì al giudice ordinario
tutte le controversie tra privati e pubblica amministrazione involgenti relative alla tutela di diritti soggettivi.
Nel 1889, in seguito al fallimento dell’esperienza del giudice unico, fu istituita la IV Sezione del Consiglio di
Stato che si autoattribuì la qualifica di giudice in senso proprio e intraprese l'opera di costruzione dei prin-
cipi generali del diritto amministrativo. Il consiglio di stato elaborò via via, in assenza di una disciplina legi-
slativa compiuta, i principi generali dell'azione amministrativa, dell'atto amministrativo e dell'organizzazio-
ne. Il consiglio di stato si fece cioè carico di colmare le lacune contenute nella disciplina positiva del proces-
so amministrativo. La giurisprudenza amministrativa finisce così per assumere un ruolo essenziale per pro-
muovere l'uniforme applicazione del diritto.
Per dirimere le questioni di principio più controverse, che hanno dato origine a orientamenti giurispruden-
ziali difformi, interviene l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, collegio allargato composto da giudici
provenienti da tutte le sezioni giudicanti, essa svolge una funzione nomofilattica, cioè di promozione di
un'applicazione del diritto uniforme.
Infatti nel caso in cui una singola sezione giudicante ritiene preferibile un’interpretazione diversa da quella
dell’Adunanza Plenaria, non può decidere, ma deve rimettere il caso alla decisione di quest’ultima e deve
poi conformarsi al suo orientamento (art. 99).
La L.241/1990, integrata dalla legge 11 febbraio 2005 e da altre leggi successive, che contiene una serie di
disposizioni generali sul procedimento amministrativo e sul provvedimento, offre sicuramente una base le-
gislativa più solida; ma neppure essa supera del tutto la natura giurisprudenziale del diritto amministrativo
Dalla natura giurisprudenziale del diritto amministrativo consegue un'altra sua caratteristica che lo avvicina
in qualche modo all'esperienza della common law e cioè la sua elasticità e adattabilità al variare delle situa-
zioni e all'emergere di nuove esigenze.

Il diritto amministrativo generale e speciale


Il diritto amministrativo si caratterizza per vastità del materiale normativo e per l'ampiezza e varietà delle
materie incluse nel suo campo di indagine. È emersa così la distinzione tra diritto amministrativo speciale e
generale.
Il diritto amministrativo speciale è costituito dai filoni legislativi che disciplinano i vari campi di intervento
delle pubbliche amministrazioni (urbanistica, sanità, ambiente, beni culturali).
Il diritto amministrativo generale è opera sopratutto della scienza giuridica. Essa procede anzitutto alla rie-
laborazione del materiale giuridico grezzo, costituito dal complesso delle norme vigenti e dalle sentenze dei
giudici, attraverso un'attività di classificazione, di individuazione di strutture portanti e di costanti. Intervie-
ne poi l’attività di elaborazione dei concetti giuridici che costituiscono il nucleo essenziale della dogmatica
del diritto amministrativo.
Il diritto amministrativo generale è ora in buona parte codificato nella l. n. 241/1990.
Il diritto amministrativo generale, dunque, per propria natura non può aspirare a un inquadramento com-
pleto, coerente e definitivo del proprio oggetto; può mirare soltanto a tracciare le coordinate principali e le
costanti volte a inquadrare nel modo più preciso i fenomeni analizzati. Il diritto amministrativo generale è
comunque il nucleo costitutivo della materia. Il diritto amministrativo speciale è invece oggetto di tratta-
zioni organiche, dedicate a uno solo dei sub-settori.

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Capitolo 3: Il rapporto giuridico amministrativo

1. Le funzioni e l’attività amministrativa


La funzione di amministrazione attiva consiste nell'esercizio, attraverso moduli procedimentali, dei poteri
amministrativi attribuiti dalla legge ad apparati pubblici al fine di curare l'interesse pubblico.
• Le funzioni: La legge nel momento in cui istituisce un apparato amministrativo, ne delinea anzitutto le
funzioni correlate alle finalità di interesse pubblico. Queste ultime concorrono a definire la “missione” affi-
data a un soggetto pubblico che consiste appunto nella cura in concreto di un determinato interesse pub-
blico individuato dalla legge. Quanto più le finalità sono definite dalla legge in modo preciso e focalizzato,
tanto più efficacie può risultare l'azione posta in essere dall'apparato e tanto più agevole è valutare ex post
l'operato dell'ente.
Quanto alle funzioni amministrative, il termine funzione ha una molteplicità di significati, può essere riferito
ai vari tipi di attività posti in essere dagli apparati pubblici, e in questo senso si distingue tra funzione di
amministrazione attiva, di regolazione e di controllo.
Per funzioni amministrative si intendono i compiti che la legge individua come propri di un determinato ap-
parato amministrativo, in coerenza con la finalità ad esso affidata. L'apparato è tenuto a esercitarle per la
cura in concreto dell'interesse pubblico (principio di doverosità dell'esercizio delle funzioni). In relazione ad
esse la legge conferisce agli apparati amministrativi i poteri necessari (attribuzioni) e distribuisce la titolari-
tà di questi ultimi tra gli organi che compongono l'apparato (competenze).
Di regola le funzioni amministrative vengono elencate dalla legge in modo più o meno particolareggiato o al
momento dell’istituzione di un apparato amministrativo o in sede di modifica della legislazione di settore e
di riassetto complessivo degli apparati amministrativi.

• L'attività amministrativa L'esercizio delle funzioni amministrative comporta lo svolgimento da parte


dell'apparato pubblico di una varietà di attività materiali e giuridiche. L’attività amministrativa consiste ap-
punto nell'insieme delle operazioni, comportamenti e decisioni posti in essere o assunti da una pubblica
amministrazione nell'esercizio di funzioni affidate ad essa da una legge.
L’attività amministrativa è rivolta a una scopo o fine pubblico ed è dotata del carattere della doverosità; il
mancato esercizio dell’attività può essere fonte di responsabilità.
All'attività amministrativa fa riferimento l'art.1.l n. 241/1990 secondo il quale “l'attività amministrativa
persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di
pubblicità e di trasparenza”.
Sotto il profilo giuridico, l'attività amministrativa assume una rilevanza autonoma rispetto a quella dell'atto
o provvedimento amministrativo. Essa si presta a qualificazioni che consentono di valutare in modo globale
e unitario l'operato delle singole amministrazioni in termini sia di legalità, sia di efficienza, efficacia ed eco-
nomicità. L'atto amministrativo, che costituisce un singolo episodio o un frammento dell'attività posta in
essere da un apparato, si presta invece a essere valutato sopratutto sotto il profilo della conformità o meno
all'ordinamento (legittimità) e dell'attitudine a soddisfare nel caso concreto l'interesse pubblico (merito
amministrativo).
La giurisprudenza tende a ritenere che l'amministrazione svolge attività amministrativa “non solo quando
esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dell'ordinamento,
persegue le proprie finalità istituzionali mediante un'attività disciplinata in tutto od in parte dal diritto pri-
vato”. È emersa così la distinzione tra “attività amministrativa in forma privatistica” e “attività d'impresa di
enti pubblici”. La tendenza ad attribuire una connotazione pubblicistica ad attività svolte con moduli priva-
tistici mira in realtà a colpire il fenomeno, in crescita, che vede le amministrazioni far ricorso a forme orga-
nizzative e operative privatistiche al solo fine di sottrarsi al regime del diritto amministrativo.

2. Il potere, il provvedimento, il procedimento


L'attività amministrativa può esprimersi, oltre che in operazioni materiali, nell'adozione di atti o provvedi-
menti amministrativi che sono la manifestazione e la concretizzazione dei poteri amministrativi previsti dal-
la legge. Quest’ultima in relazione a ciascuna funzione individua in modo puntuale i poteri conferiti al singo-
lo apparato.

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• Il Potere I poteri amministrativi conferiscono agli apparati che ne assumono la titolarità una capacità giu-
ridica speciale di diritto pubblico che si concretizza nell'emanazione di provvedimenti produttivi di effetti
giuridici nella sfera dei destinatari. Essa si aggiunge, integrandola, alla capacità giuridica generale di diritto
comune, intesa come attitudine ad assumere la titolarità delle situazioni giuridiche soggettive, attive e pas-
sive, previste dall’ordinamento.
Va posta la distinzione tra potere in astratto e potere in concreto.
La legge definisce gli elementi costituivi di ciascun potere (potere in astratto). Il potere in astratto ha carat-
tere dell'inesauribilità, nel senso che fin tanto che resta in vigore la norma attributiva, esso si presta a esse-
re esercitato in una serie indeterminata di situazioni concrete.
Ogni qual volta poi si verifica una situazione di fatto conforme alla fattispecie tipizzata nella norma di con-
ferimento del potere, l'amministrazione è legittimata a esercitare il potere (potere in concreto) e a provve-
dere così alla cura dell'interesse pubblico.
L’amministrazione è tenuta ad avviare un procedimento che si conclude con l'emanazione di un atto o
provvedimento autoritativo idoneo a incidere unilateralmente nella sfera giuridica del soggetto destinata-
rio e a porre una disciplina del rapporto che sorge tra privato e l'amministrazione.

• L'atto e il provvedimento Nell'ordinamento italiano manca una definizione legislativa di atto o provve-
dimento amministrativo. L'atto amministrativo costituisce una nozione elaborata essenzialmente dalla dot-
trina e dalla giurisprudenza. Alcune indicazioni si possono ricavare sia dalla Costituzione che da alcune leggi
generali.
In particolare l'art.113Cost. stabilisce che “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammes-
sa la tutela giurisdizionale”; la legge determina quali organi giurisdizionali abbiano il potere di “annullare gli
atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge”.
Queste disposizioni richiamano due aspetti del sistema giuridico degli atti amministrativi:
1) la loro sottoposizione necessaria a un controllo giurisdizionale, operato dal giudice amministrativo e dal
giudice ordinario;
2) la loro annullabilità nei casi di accertata difformità dei medesimi rispetto alle norme giuridiche.
Sul piano storico, la nozione di atto amministrativo assunse una rilevanza autonoma proprio allorché alla
fine del XIX secolo, venne istituito in Italia un giudice amministrativo, distinto da quello ordinario, allo sco-
po di sindacare l'operato delle pubbliche amministrazioni.
A questo riguardo, l'art.26 Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, abrogato dal Codice del processo
amm e sostituito con disposizioni analoghe, stabilisce che il giudice amministrativo può decidere circa un
atto emanato da un'autorità amministrativa, ritenuto illegittimo (per incompetenza, eccesso di potere o vi-
olazione di legge) e lesivo di una situazione giuridica soggettiva del privato (il c.d. interesse legittimo).
L'art.1, 1-bis,241/1990 stabilisce che la pubblica amministrazione agisce di regola secondo le norme del di-
ritto privato nell'adozione di atti di natura non autoritativa. Questi ultimi vanno dunque distinti dagli atti
aventi natura autoritativa, per i quali, invece, vale il regime pubblicistico proprio degli atti amministrativi.
Inoltre l'art.3 stabilisce che ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, indicando anche qui
un elemento formale tipico degli atti amministrativi che li differenzia dagli atti privati.
L’art. 7 prevede che l’avvio del procedimento deve essere comunicato ai soggetti nei confronti dei quali il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti; e l’art 21 specifica che il provvedimento limita-
tivo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia con la comunicazione allo stesso effettuata.
Queste disposizioni richiamano implicitamente un'altra caratteristica dei provvedimenti è cioè l'autoritarie-
tà (o imperatività) intesa come attitudine a determinare in modo unilaterale la produzione degli effetti giu-
ridici nei confronti di terzi.
Pur utilizzando indifferentemente, in tali disposizioni cost. e legislative, i termini “atto amministrativo” e
“provvedimento amministrativo” è necessario effettuare una distinzione:
- L’atto amministrativo include ogni dichiarazione di volontà, di desiderio, di conoscenza, di giudizio,
compiuta da un soggetto dell'amministrazione pubblica nell'esercizio di una potestà amministrativa. Per
esempio costituiscono atti amministrativi quelli endoprocedimentali come i pareri, le valutazioni tecni-
che, le proposte, le intimazioni.
- Il provvedimento amministrativo, che costituisce la sub categoria più importante degli atti amministra-
tivi, può essere definito come: una manifestazione di volontà espressa dall'amministrazione titolare del

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potere all'esito di un procedimento amministrativo, volta alla cura in concreto di un interesse pubblico e
tesa a produrre in modo unilaterale effetti giuridici nei rapporti esterni con i soggetti destinatari del
provvedimento medesimo, per es: un decreto di espropriazione, un'autorizzazione, una sanzione ammi-
nistrativa.

• Il procedimento La nozione di procedimento è stata elaborata dalla dottrina amministrativa. Le leggi


amministrative attribuiscono alle pubbliche amministrazioni poteri finalizzati alla cura degli interessi pub-
blici. L'esercizio del potere avviene secondo il modulo del procedimento amministrativo, cioè attraverso
una sequenza, individuata anch'essa dalla legge, di operazioni e di atti strumentali all'emanazione di un
provvedimento amministrativo produttivo degli effetti giuridici tipici nei rapporti esterni.
Il procedimento assolve a una pluralità di funzioni:
- garantire la partecipazione dei privati all'esercizio del potere attraverso la presentazione di memorie, di
documenti, e ciò a tutela dei propri interessi che sono suscettibili di essere pregiudicati dal provvedi-
mento amministrativo;
- consentire all'amministrazione di acquisire informazioni utili ai fini dell'adozione del provvedimento;
- assicurare il coordinamento tra le pubbliche amministrazioni.
Il procedimento costituisce, in realtà, la modalità ordinaria di esercizio di tutte le funzioni pubbliche corri-
spondenti ai tre poteri dello Stato.
La funzione legislativa assume la forma del procedimento legislativo, disciplinato in gran parte dai regola-
menti parlamentari e finalizzato all'emanazione di atti con forza o valore di legge; la funzione giurisdizionale
assume quella del processo la cui disciplina si ritrova nei vari codici processuali e si conclude con una sen-
tenza dotata dell'autorità del giudicato; la funzione amministrativa si manifesta nel procedimento ammini-
strativo, che si conclude con un provvedimento dotato di autoritarietà o imperatività.

3. Il rapporto giuridico amministrativo


Il rapporto giuridico amministrativo, è il rapporto che intercorre tra la pubblica amministrazione che eserci-
ta un potere e il soggetto privato titolare di un interesse legittimo.
Per definire con precisione i caratteri di questa relazione conviene muovere da alcuni concetti base allo
scopo di inquadrare la varietà dei rapporti giuridici di diritto comune:
I rapporti giuridici interprivati vengono ricostruiti partendo dalla coppia diritto soggettivo-obbligo, i cui
termini si imputano rispettivamente al soggetto attivo e passivo del rapporto. Il diritto soggettivo consiste
in un potere di agire, riconosciuto e garantito dall'ordinamento giuridico per soddisfare un proprio interes-
se. Alla titolarità del diritto soggettivo corrisponde, in capo al soggetto passivo del rapporto giuridico, a se-
conda dei casi: un dovere generico e negativo di astensione, cioè di non interferire o turbare l'esercizio del
diritto; oppure un vero e proprio obbligo giuridico, cioè il dovere specifico e positivo di porre in essere un
determinato comportamento o attività (prestazione, per esempio diritti di credito)..
Accanto alla coppia fondamentale diritto soggettivo-obbligo (rapporto paritario), il diritto privato conosce
altri tipi di situazioni giuridiche e di relazioni non paritarie (sovra-sottordinazione) come quella che intercor-
re tra la pubblica amministrazione che esercita il potere e il titolare dell'interesse legittimo.
Per un verso viene individuata una situazione giuridica soggettiva attiva, la potestà che è attribuita al singo-
lo soggetto per il soddisfacimento, anziché di un interesse proprio, come per il diritto soggettivo, di un inte-
resse altrui (potestà genitoriale).
Per altro verso, una particolare categoria di diritti soggettivi è costituita dal diritto potestativo, che consiste
nel potere di produrre un effetto giuridico con una propria manifestazione unilaterale di volontà (diritto di
recesso, di prelezione).
Il diritto potestativo rappresenta una particolare tecnica o modalità di produzione degli effetti giuridici nei
rapporti intersoggettivi che vale più in generale, anche per il potere amministrativo.

La produzione degli effetti giuridici segue usualmente lo schema norma-fatto-effetto giuridico (tipico del
rapporto diritto soggettivo-obbligo). La norma individua in termini astratti gli elementi della fattispecie e
l'effetto giuridico che ad essa si ricollega, ponendo direttamente essa stessa la disciplina degli interessi in
conflitto in relazione a un determinato bene (es= art.2043 c.c. individua gli elementi costitutivi del fatto il-
lecito dal quale consegue, come effetto giuridico, il sorgere dell’obbligo di risarcire il danno).

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Il diritto conosce anche un'altra tecnica di produzione degli effetti che segue lo schema norma-fatto-
potere-effetto giuridico. Questa sequenza si differenzia da quella precedente poiché viene meno l'automa-
tismo nella produzione dell'effetto giuridico. Infatti, il verificarsi di un fatto concreto conforme alla norma
attributiva del potere determina in capo a un soggetto (titolare del potere) la possibilità di produrre l'effet-
to giuridico individuato a livello di fattispecie normativa attraverso una propria dichiarazione unilaterale di
volontà. Tra il fatto e l'effetto giuridico si interpone cioè un elemento aggiuntivo, il potere, e il titolare di
quest'ultimo è pienamente libero di decidere se provocare con una propria manifestazione di volontà l'ef-
fetto giuridico tipizzato dalla norma. È questo lo schema proprio del diritto potestativo.

La dottrina processualcivilistica ha elaborato questa controversa figura di situazione giuridica soggettiva per
inquadrare la tutela giurisdizionale di tipo costitutivo che si aggiunge a quella di accertamento e di condan-
na. Essa distingue due tipologie di diritti potestativi: i diritti potestativi stragiudiziali e i diritti potestativi a
necessario esercizio giudiziale.
Diritti potestativi stragiudiziali: la produzione dell'effetto giuridico tipico discende in modo diretto dalla
manifestazione di volontà del titolare del potere. Si tratta dunque di un potere unilaterale e autosufficien-
te. Un esempio è il potere del datore di lavoro di licenziare un dipendente per giusta causa o per giusto mo-
tivo;
Diritti potestativi a necessario esercizi: il prodursi dell'effetto giuridico tipico presuppone un previo accer-
tamento giudiziale, in aggiunta alla dichiarazione di volontà del titolare del potere, che verifichi la sussi-
stenza nella fattispecie concreta degli elementi previsti in astratto a livello di fattispecie normativa. Esempi
sono la separazione giudiziale tra coniugi, il disconoscimento della paternità.

Anche per i diritti potestativi stragiudiziali è prevista una fase di verifica giurisdizionale che, tuttavia, pre-
senta due caratteristiche:
1) è posticipata rispetto alla produzione dell'effetto giuridico;
2) l'iniziativa processuale spetta a colui nella cui sfera giuridica si è prodotto l'effetto giuridico. Questa
seconda peculiarità determina un’inversione tra posizione processuale e posizione sostanziale delle
parti: il sogg passivo nel rapporto sostanziale (che si trova in uno stato di soggezione= dipendente) di-
venta parte attiva (nella veste di attore) nel rapporto processuale ed è dunque gravato dall’onere di
contestare il prodursi il prodursi dell’effetto giuridico che altrimenti si consolida (licenziato deve dimo-
strare assenza giusta causa).

La seconda tipologia di diritti potestativi (a necessario esercizio giudiziali), grazie al preventivo accertamen-
to giurisdizionale in contraddittorio tra le parti, tutela meglio gli interessi di colui che subisce in modo pas-
sivo il prodursi nella propria sfera giuridica dell'effetto tipico.
Il potere amministrativo può essere ricondotto allo schema del diritto potestativo del primo tipo. Infatti, la
produzione dell'effetto giuridico discende in modo immediato dalla dichiarazione di volontà dell'ammini-
strazione che emana il provvedimento. L'accertamento giurisdizionale può avvenire solo in via posticipata,
in seguito alla proposizione di un ricorso giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo su iniziativa del
soggetto privato nella cui sfera giuridica l'atto impugnato ha prodotto l'effetto.
Nel caso del potere amministrativo questo schema trova giustificazione nell'esigenza, ritenuta prevalente,
di garantire l'immediata realizzazione dell'interesse pubblico la cui cura è affidata all'amministrazione. Inol-
tre poiché essa, in base alla l 241/1990 è tenuta ad ispirare la propria attività a criteri di correttezza, impar-
zialità e trasparenza e al principio di partecipazione, la posizione dei soggetti destinatari del provvedimento
trova già una qualche tutela nella fase procedimentale, cioè prima che l’effetto giuridico sia prodotto.
Sussistono tuttavia alcune specificità del potere amministrativo rispetto allo schema del diritto potestativo
e in particolare di quello stragiudiziale:
- Nei rapporti interprivati, il diritto potestativo stragiudiziale trova usualmente un fondamento consensu-
ale di tipo pattizio (nel licenziamento il dipendente aveva firmato il contratto di lavoro). L'unilateralità e
l'immediatezza nella produzione dell'effetto giuridico trovano un temperamento nel fondamento con-
sensuale del potere. Inoltre, nei rapporti privati la fattispecie normativa che disciplina il diritto potesta-
tivo determina in modo rigido l'effetto giuridico che può essere prodotto attraverso la dichiarazione di
volontà del titolare del diritto: il potere e l'effetto giuridico sono cioè interamente vincolati.

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- Il potere amministrativo, invece, per un verso, trova fondamento diretto nella legge, cioè nella norma di
conferimento del potere, piuttosto che nel consenso di colui nella cui sfera giuridica si produce l'effetto
e senza che sussista, di regola, un rapporto giuridico preesistente tra il soggetto privato e la pubblica
amministrazione. Per altro verso, il potere conferito dalla legge alla pubblica amministrazione non è
sempre integralmente vincolato. Anzi, di regola, all'amministrazione sono attribuiti margini più o meno
ampi di apprezzamento e valutazione discrezionale che, possono determinare una modulazione degli ef-
fetti e del contenuto del provvedimento emanato. La disciplina degli interessi in conflitto in ordine ai
beni non è posta integralmente e direttamente dalla norma, ma quest’ultima rimette almeno una parte
della determinazione dell’assetto finale degli interessi al soggetto titolare del potere
(l’amministrazione).

4. La norma attributiva del potere


Le norme che si riferiscono alla pubblica amministrazione sono di due tipi:
- le norme di azione disciplinano il potere amministrativo nell'interesse esclusivo della pubblica ammini-
strazione, hanno come scopo assicurare che l'emanazione degli atti sia conforme a parametri predeter-
minati e non hanno una funzione di protezione dell'interesse dei soggetti privati;
- le norme di relazione sono volte a regolare i rapporti intercorrenti tra l'amministrazione e i soggetti pri-
vati, a garanzia anche di quest'ultimi, definendo direttamente l’assetto degli interessi e dirimendo i con-
flitti insorgenti tra cittadino e p.a.
Dalla coppia norma di azione, che segna i limiti interni al potere volti a guidare l'attività dell'amministrazio-
ne, e norma di relazione, che segna i limiti esterni al potere tracciando i confini tra la sfera giuridica dei
soggetti privati rispetto a quella dell'amministrazione, derivano, a cascata, una serie di conseguenze:
- sul piano delle situazioni giuridiche soggettive, la distinzione tra interesse legittimo, correlato alla pri-
ma, e diritto soggettivo, correlato alla seconda;
- sul piano delle qualificazioni giuridiche, l'applicazione della categoria dell'illegittimità (annullabilità) o
dell'illiceità (nullità) agli atti che violano l'uno o l'altro tipo di norma;
- sul piano della giurisdizione, l'attribuzione delle controversie al giudice amministrativo o al giudice ordi-
nario e la definizione dei rispettivi poteri.
Una siffatta ricostruzione dicotomica delle norme appare troppo meccanica e legata a una concezione
dell’interesse legittimo che si sta superando. In realtà, anche alle norme che disciplinano l’attività ammini-
strativa va riconosciuta ormai una valenza relazionale e una funzione di tutela dell’interesse del soggetto
privato, oltre che pubblico.
Appare dunque preferibile utilizzare la formula più generica di “norma attributiva del potere”, la quale in-
dividua in termini astratti, gli elementi caratterizzanti il particolare potere attribuito ad un apparato pubbli-
co: il soggette competente; il fine pubblico; i presupposti e i requisiti; le modalità di esercizio del potere e i
requisiti di forma; gli effetti giuridici.
1. Quanto al soggetto competente, in un sistema amministrativo multilivello e articolato in una moltepli-
cità e varietà di apparati, ogni potere amministrativo deve essere attribuito in modo specifico alla tito-
larità di uno e un solo soggetto/organo. La norma deve individuarlo con precisione. E ogni atto emana-
to da un sogg/organo non competente è affetto da vizio di competenza.

2. Il fine pubblico, correlato a quello che viene definito come l'interesse pubblico primario affidato alla
cura dell'apparato amministrativo titolare del potere, costituisce un elemento che è specificato dalla
norma di conferimento del potere o che può essere ricavato implicitamente dalle legge che disciplina
quella particolare materia. Il fine pubblico è eteroimposto dalla norma: quest'ultima orienta le scelte
effettuate in concreto dall'amministrazione e condiziona, in ultima analisi, la legittimità del provvedi-
mento emanato (perseguire un fine diverso configura un vizio di potere per sviamento).

3. Un terzo elemento posto dalla norma attributiva del potere consiste nell'individuazione dei presuppo-
sti e dei requisiti sostanziali in presenza dei quali il potere sorge e può essere esercitato. La loro sussi-
stenza in concreto è una delle condizioni per l'esercizio legittimo del potere (es: il Testo unico in mate-

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ria edilizia, a proposito del permesso a costruire, indica come presupposti la conformità del progetto
ad esempio al piano particolareggiato).

A proposito dei presupposti e dei requisiti sostanziali bisogna porre l’attenzione sul grado di analiticità ri-
chiesto nell’individuazione del loro contenuto: Il potere può risultare più o meno ampiamente vincolato o,
per converso, più o meno ampiamente discrezionale. Ciò dà luogo a 2 estremi:
- Al primo estremo si collocano i poteri integralmente vincolati, ad essi l'amministrazione non ha altro
compito se non quello di verificare, se nella fattispecie concreta siano rinvenibili tutti gli elementi indica-
ti dalla norma attributiva e, nel caso positivo, di emanare il provvedimento che produce gli effetti
anch'essi rigidamente predeterminati dalla norma.
- Al secondo estremo si pongono i poteri sostanzialmente “in bianco” (ordinanze di necessità e di urgen-
za) che rimettano al soggetto titolare del potere spazi pressoché illimitati di apprezzamento, di valuta-
zione delle fattispecie concrete e di determinazione delle misure necessarie per tutelare un determinato
interesse pubblico.
La discrezionalità emerge allorché la norma autorizza ma non obbliga l'amministrazione a emanare un certo
provvedimento.
In generale gli spazi di valutazione dei fatti costitutivi del potere sono tanto più ampi quanto più la norma
d'azione fa ricorso ai cosiddetti “concetti giuridici indeterminati”. La norma definisce cioè i presupposti e i
requisiti con formule linguistiche tali da non consentire di accertare in modo univoco il loro verificarsi in
concreto (interesse storico-artistico “particolarmente rilevante”).
I concetti giuridici indeterminati possono essere di due categorie: i concetti empirici o descrittivi (es. in-
tralcio alla circolazione) che si riferiscono al modo di essere di una situazione di fatto e i concetti normativi
o di valore che contengono un ineliminabile elemento di soggettività (es. persona in stato di bisogno).
I primi involgono giudizi a carattere tecnico-scientifico e coprono, l'area delle valutazioni tecniche; i secondi
involgono giudizi di valore e coprono l'area della discrezionalità amministrativa.
Riguardo ai primi l’indeterminatezza rende problematica la sussunzione della fattispecie concreta nel pa-
rametro normativo; con riguardo ai secondi è la stessa interpretazione in astratto del parametro normativo
a presentare margini di opinabilità elevati.
Il problema è stabilire entro quali limiti le valutazione compiute dall’amministrazione in sede di interpreta-
zione e di applicazione dei concetti giuridici indeterminati possano essere sindacate dal giudice (problema
di chi abbia diritto all’ultima decisione). La tecnica normativa dei concetti giuridici indeterminati, nei limiti
in cui concedono all'amministrazione spazi di valutazione e di decisione non sindacabili, comporta inevita-
bilmente una caduta del valore della legalità sostanziale.
In realtà di fronte alla complessità crescente dei fenomeni economici e sociali e alla rapidità dei cambia-
menti, il parlamento è sempre meno in grado di porre un sistema completo e preciso di regole che defini-
scono per ogni possibile evento futuro l'assetto degli interessi. È dunque in qualche misura costretto a de-
legare ad apparati pubblici secondo la tecnica della normativa attributiva di poteri, ambiti più o meno ampi
di valutazione di fatti e interessi e di composizione dei conflitti tra questi ultimi. Anche in ambito civilistico, i
codici hanno abbandonato il metodo casistico, caratterizzato dalla definizione minuziosa per adottare quel-
lo delle clausole generali.

4. La norma attributiva del potere prescrive anche i requisiti formali degli atti (di regola forma scritta) e le
modalità di esercizio del potere, individuando la sequenza degli atti e degli adempimenti necessari per
l'emanazione del provvedimento finale che danno origine al procedimento amministrativo. Quest'ulti-
mo è stato definito come forma o manifestazione sensibile della funzione, cioè della trasformazione
del potere in astratto in un atto produttivo di effetti nella sfera giuridica di un determinato soggetto
(potere in concreto).

5. La norma di conferimento del potere può disciplinare anche l'elemento temporale dell'esercizio del
potere. Deve, in primo luogo, individuare un termine di avvia del procedimento d’ufficio. In secondo
luogo, l'art. 2 241/1990 pone un sistema di regole volto a individuare per tutti i tipi di procedimenti il
termine massimo entro il quale la p.a. deve emanare il provvedimento conclusivo, attuando così il

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principio di certezza del tempo dell'agire della pubblica amministrazione. In terzo luogo le leggi ammi-
nistrative scandiscono talora anche i tempi per l’adozione degli atti endoprocedimentali.

6. Infine la norma attributiva del potere individua in termini astratti gli effetti giuridici che l'atto ammini-
strativo può produrre una volta emanato all'esito del procedimento. I provvedimenti amministrativi,
proprio perché correlati a poteri che possono essere inquadrati, nella categoria generale dei diritti po-
testativi stragiudiziali, hanno l'attitudine a produrre effetti costitutivi, cioè possono costituire, modifi-
care o estinguere situazioni giuridiche di cui sono titolari i destinatari dei provvedimenti. Sono esempi
di provvedimenti con effetti costitutivi in senso stretto le concessioni amministrative, che attribuiscono
in capo a un soggetto privato un diritto soggettivo a svolgere una certa attività. Sono esempi di prov-
vedimenti con effetti modificativi la sanzione disciplinare di sospensione dall'iscrizione ad un albo pro-
fessionale. L'esempio più rilevante di provvedimento con effetti estintivi è il decreto di espropriazione
che fa venir meno in capo al proprietario del bene immobile il diritto di proprietà la cui titolarità viene
trasferita alla pubblica amministrazione o ad altro soggetto in favore del quale il procedimento di e-
spropriazione è stato attivato.

5.Il potere discrezionale


La discrezionalità, che può essere riferita, oltre che al potere (potere discrezionale vs vincolato), anche
all'attività e al provvedimento amministrativo, costituisce la nozione forse più caratteristica del diritto am-
ministrativo.
La discrezionalità
Nel diritto amministrativo la discrezionalità connota l'essenza stessa dell'amministrare, cioè della cura in
concreto degli interessi pubblici. Tale attività presuppone che l'apparato titolare del potere abbia la possibi-
lità di scegliere la soluzione migliore nel caso concreto.
Emerge qui una tensione quasi insanabile con il principio di legalità inteso in senso sostanziale che nella sua
accezione più estrema porterebbe ad attribuire all'amministrazione, soltanto poteri vincolati. Ma le situa-
zioni concrete nelle quali l'amministrazione deve intervenire hanno un grado ineliminabile di contingenza e
imprevedibilità tale da richiedere nel decisore un qualche spazio di adattabilità della misura da disporre.
Inoltre se il potere è vincolato, la stessa funzione dell'atto amministrativo cambia: l'atto amministrativo a-
vrebbe dunque natura meramente dichiarativa, cioè ricognitiva di un effetto già prodottosi, e non costituti-
va (come accade, invece, nel settore tributario nel quale l’obbligazione tributaria sorge a prescindere
dall’emanazione di un atto di accertamento del tributo da parte dell’amministrazione finanziaria).
Se dunque, i veri poteri sono quelli discrezionali sorge il problema teorico e pratico di come conciliare due
esigenze: attribuire all'amministrazione quel tanto di discrezionalità che consente la flessibilità necessaria
per gestire i problemi della collettività; evitare che la discrezionalità si traduca in arbitrio.
E su questo punto emerge una differenza rispetto al diritto privato nel quale l'autonomia negoziale è e-
spressione della libertà dei privati di provvedere alla cura dei propri interessi, le scelte dei privati non sono
sottoposte a regole e principi particolari volti a guidare la formazione della volontà; basta solo che il sogget-
to sia capace e la sua volontà non sia affetta da vizi. L'amministrazione titolare di un potere invece ha un
ambito di libertà più ristretto, in quanto la scelta tra una pluralità di soluzioni può avvenire, non solo nel ri-
spetto dei limiti per così dire esterni posti dalla norma di conferimento del potere e dei principi generali
dell'azione amministrativa, ma anche nel rispetto di un vincolo per così dire interno consistente nel dovere
perseguire il fine pubblico. Queste regole sono ora enunciate nell'art 1. 241/1990 secondo il quale, l'attività
amministrativa “ persegue i fini determinati dalla legge” ed è retta, in particolare, dai criteri “ di imparziali-
tà, di pubblicità e di trasparenza”.
Volendo porre una definizione di discrezionalità amministrativa essa consiste, nel margine di scelta che la
norma rimette all'amministrazione affinché essa possa individuare, tra quelle consentite, la soluzione mi-
gliore per curare nel caso concreto l'interesse pubblico.
La scelta avviene attraverso una valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati rilevanti nella fat-
tispecie, acquisiti nel corso dell'istruttoria procedimentale. Tra di essi vi è anzitutto il cosiddetto interesse
pubblico primario (fine pubblico) individuato dalla norma di conferimento del potere e affidato alla cura
dell'amministrazione titolare del potere. L'interesse primario deve essere messo a confronto e valutato alla
luce dei cosiddetti interessi secondari rilevanti. In alcuni casi essi sono individuati direttamente dalle nor-

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me che disciplinano il particolare tipo di procedimento. Altri emergono nel corso dell'istruttoria. Tra gli in-
teressi secondari si annoverano non soltanto gli altri interessi pubblici incisi dal provvedimento, ma anche
gli interessi dei privati i quali possono partecipare al procedimento proprio allo scopo di rappresentare il
proprio punto di vista.
(Esempio: per elaborare e approvare il progetto di un’autostrada, l’amministrazione deve tener conto, oltre
che dell’interesse primario alla viabilità, anche di quello relativo alla tutela dell’ambiente ecc).
In definitiva, la scelta operata dall'amministrazione deve contemperare l'esigenza di massimizzare l'interes-
se pubblico primario con quella di causare il minor sacrificio possibile degli interessi secondari incisi dal
provvedimento. L’amministratore deve dar conto dell’attività di ponderazione degli interessi nella motiva-
zione del provvedimento.
La discrezionalità amministrativa incide su quattro elementi logicamente distinti:
1. sull'an, cioè sul se esercitare il potere in una determinata situazione concreta ed emanare il provvedi-
mento;
2. sul quid, cioè sul contenuto del provvedimento che, all'esito della valutazione degli interessi, pone la re-
gola per il caso singolo;
3. sul quomodo, cioè sulle modalità da seguire per l'adozione del provvedimento al di là delle sequenze di
atti imposti dalla legge che disciplina lo specifico provvedimento. Pur sempre nel rispetto del principio
del divieto di aggravare il procedimento (art.1.2. 241/1990);
4. sul quando, cioè sul momento più opportuno per esercitare un potere d'ufficio avviando il procedimen-
to e, una volta aperto quest'ultimo, per emanare il provvedimento, pur tenendo conto dei termini mas-
simi per la conclusione del procedimento.
In base alla norma di conferimento, un potere può essere discrezionale o vincolato in relazione a uno o più
di questi elementi. C'è una distinzione tra discrezionalità (o vincolatezza) in astratto e discrezionalità in
concreto. All'esito dell'attività istruttoria operata dall'amministrazione per accertare i fatti e acquisire gli
interessi e gli altri elementi di giudizio rilevanti e all'esito della ponderazione di interessi può darsi che resi-
dui, un'unica scelta legittima tra quelle consentite in astratto dalla legge. Nel corso del procedimento la di-
screzionalità può cioè ridursi via via fino ad annullarsi del tutto. In questo casi si parla di vincolatezza in
concreto, da contrapporre alla vincolatezza in astratto che si verifica, allorché la norma predefinisce in
modo puntuale tutti gli elementi che caratterizzano il potere.
Una riduzione dell'ambito della discrezionalità può avvenire anche attraverso il cosiddetto autovincolo alla
discrezionalità. Di frequente tra la norma di conferimento del potere che concede all'amministrazione spazi
di discrezionalità più o meno ampi e il provvedimento concreto assunto all'esito della valutazione si inter-
pone la predeterminazione da parte della stessa amministrazione di criteri e parametri che vincolano l'e-
sercizio della discrezionalità. Ciò accade ad esempio nei giudizi valutativi espressi da commissioni di con-
corso le quali sono tenute a specificare, prima di esprimere le proprie valutazioni sui singoli candidati, i pa-
rametri di giudizio già previsti nella normativa di riferimento e nel bando. L'autovincolo alla discrezionalità
costituisce in definitiva un tentativo di salvaguardare e di recuperare in parte le esigenze sottese alla legali-
tà sostanziale necessariamente sacrificate attraverso la tecnica del conferimento di poteri discrezionali.

Il merito amministrativo
E’ il momento della ponderazione degli interessi coinvolti, ovvero la fase in cui la p.a. nel vagliare, fra le va-
rie soluzioni ragionevoli, sceglierà quella più opportuna (o di altri parametri e giudizi di valore, comunque
non giuridici) rispetto all’interesse pubblico.
Il merito ha una dimensione essenzialmente negativa e residuale: esso si riferisce all'eventuale ambito di
scelta spettante all'amministrazione che si pone al di là dei limiti coperti dall'area della legalità (cioè dei
vincoli giuridici posti dalle norme e dai principi dell'azione amministrativa). Se il potere è integralmente vin-
colato lo spazio del merito risulta nullo. Rientra di regola nel merito, per esempio, il giudizio espresso dalla
commissione su un candidato che partecipa ad un concorso pubblico. Il merito connota, in definitiva, l'atti-
vità dell'amministrazione da considerare da considerare essenzialmente libera. Essa è insindacabile da par-
te del giudice amministrativo nell'ambito del giudizio di legittimità.
La distinzione tra legittimità e merito rileva in più contesti:

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1) Il primo è quello dei controlli amministrativi, questi si articolano in controlli di legittimità e in controlli
di merito, i primi finalizzati ad annullare gli atti amministrativi, i secondi a modificare o sostituire l'atto
oggetto del controllo e di tutela giurisdizionale.
2) In secondo luogo, il Codice del processo amministrativo contrappone la giurisdizione di legittimità, che
è quella di cui è investito in via ordinaria il giudice amministrativo, alla giurisdizione “con cognizione
estesa al merito”, nell'esercizio della quale “il giudice amministrativo può sostituirsi all'amministrazio-
ne”. Il giudice amministrativo può cioè rivalutare le scelte discrezionali dell'amministrazione e sostitui-
re la propria valutazione (es:può modifica l’ammontare di una sanzione pecuniaria irrogata). La giuri-
sdizione di merito rompe il diaframma tra giurisdizione e amministrazione (il giudice “si fa amministra-
tore”), in deroga al principio della separazione dei poteri, essa è limitata a pochi casi tassativi (art 134
proc.amm).
3) In terzo luogo, i confini tra legittimità e merito rilevano anche in materia di responsabilità amministra-
tiva alla quale sono soggetti i funzionari pubblici in relazione al cosiddetto danno erariale, cioè al dan-
no provocato all'amministrazione stessa e che rientra nella giurisdizione della Corte dei Conti (insinda-
cabilità nel merito delle scelte discrezionali).

Le valutazioni tecniche
La discrezionalità amministrativa va tenuta distinta dalle valutazioni tecniche. Queste ultime si riferiscono ai
casi in cui la norma attributiva del potere, rinvia a nozioni tecnologiche o scientifiche che in sede di applica-
zione alla fattispecie concreta presentano margini di opinabilità. L’art 17. 241/1990 regola le modalità at-
traverso le quali il responsabile del procedimento procede ad acquisirle e i rimedi in caso di ritardi.
Tra le valutazioni tecniche rientrano per esempio: i giudizi medici aventi per oggetto l’idoneità ad essere ar-
ruolati nelle forze militari o di polizia o la riconducibilità di una determinata malattia alla causa di servizio.
Mentre la discrezionalità amministrativa attiene al piano della valutazione e comparazione degli interessi,
le valutazioni tecniche attengono al piano dell'accertamento e della qualificazione di fatti alla luce di criteri
tecnico-scientifici. Tuttavia in entrambi i casi, soprattutto nel passato, si riteneva precluso un sindacato
pieno che comporti una valutazione autonoma del giudice che si sovrapponga (e sostituisca) a quella
dell'amministrazione.
La valutazione del giudice è necessariamente altrettanto opinabile rispetto a quella dell'amministrazione e
dunque non ci sarebbe ragione per preferirla: il giudice può soltanto effettuare un sindacato estrinseco vol-
to a verificare se la valutazione è affetta da vizi logici, incongruenze o da altre carenze.
Tuttavia il giudice amministrativo, in epoca più recente, ha intrapreso un'opera volta a differenziare e ren-
dere più intenso il proprio sindacato sulle valutazioni tecniche e si spinge a verificare l'attendibilità e la cor-
rettezza del criterio tecnico utilizzato. Nel sindacare le valutazioni tecniche il giudice amministrativo è age-
volato dal fatto di poter ricorrere allo strumento della consulenza tecnica d'ufficio.
La valutazione tecnica può essere sindacata solo se non è stata effettuata in base a presupposti, metodi e
procedimenti obiettivi, se non abbia accertato in modo pertinente e completo tutti i fatti rilevanti o se sia-
no stati commessi altri errori.
Negli Stati Uniti la giurisprudenza mantiene un atteggiamento di maggiore deferenza (deference doctrine)
nei confronti delle valutazioni tecniche (al pari delle valutazioni discrezionali) dell’amministrazione limitan-
dosi a un sindacato di ragionevolezza.
Valutazioni tecniche ed esercizio della discrezionalità amministrativa, proprio perché riguardano momenti
logici diversi (la prima attiene al momento dell'accertamento del fatto / o nel momento della determina-
zione del contenuto (quid) del provvedimento, la seconda alla valutazione degli interessi), possono coesi-
stere in una stessa fattispecie. Al riguardo si usa talora l'espressione di discrezionalità mista. Un esempio
può essere: l’accertamento del carattere epidemico di una malattia e la successiva scelta dei rimedi alterna-
tivi per contenere i rischi di propagazione.
Le valutazioni tecniche vanno tenute distinte, oltre che dalla discrezionalità amministrativa, anche dai meri
accertamenti tecnici. Questi ultimi si riferiscono a fatti la cui esistenza o inesistenza è verificabile in modo
univoco, sia pure con l'impiego di strumenti tecnici (come gli strumenti per la rilevazione della presenza e
della quantità di sostanze inquinanti in un terreno). A differenza della valutazioni tecniche i meri accerta-
menti tecnici possono essere sindacati in modo pieno dal giudice amministrativo nell'ambito del giudizio di
legittimità.

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6. L’interesse legittimo
Il termine passivo del rapporto giuridico amministrativo, cioè l'interesse legittimo, è situazione giuridica
soggettiva che costituisce una delle principali specificità del nostro sistema giuridico. Al pari del diritto sog-
gettivo, l'interesse legittimo trova un riconoscimento costituzionale nelle disposizioni dedicate alla tutela
giurisdizionale (art. 24.103.113) e costituisce dunque una situazione giuridica soggettiva dalla quale non si
può prescindere.
La rilevanza della distinzione tra le due categorie di situazioni giuridiche è stata tradizionalmente duplice:
- è assurta a criterio di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, il primo
investito della giurisdizione sui diritto soggettivi, il secondo della giurisdizione sugli interessi legittimi;
- è servita a delimitare l'ambito della responsabilità civile della pubblica amministrazione che non inclu-
deva il danno derivante da una lesione di interessi legittimi (aspetto ormai superato dalla Cassazione
con sentenza n.500/1999 che ha aperto la strada alla risarcibilità del danno da lesione di interesse legit-
timo).
Riguardo il primo aspetto la Corte Cost ha affermato che la giurisdizione amministrativa ha al suo centro il
potere amministrativo correlato a situazioni giuridiche di interesse legittimo e che ad essa può essere devo-
luta la cognizione di diritti soggettivi, solo quando questi ultimi sono in qualche modo connessi e intrecciati
a un rapporto nel quale l'amministrazione si presenta essenzialmente in veste di autorità.

Evoluzione storica dell’interesse legittimo Per parlare della nascita dell'interesse legittimo occorre partire
dalla legge 2248/1865, di abolizione del contenzioso amministrativo che impresse una svolta al nostro si-
stema di giustizia amministrativa adottando, sulla scorta del modello inglese e belga, il modello del giudice
unico. Venne cioè attribuita al giudice civile la giurisdizione in tutte le controversie tra il privato e la pubbli-
ca amministrazione nelle quali si facesse questione di un diritto civile o politico, ossia di un diritto soggetti-
vo, ancorché la controversia fosse correlata all’emanazione di un provvedimento amministrativo. Tuttavia
l'area delle situazioni inquadrabili in termini di diritto soggettivo divenne sempre più ristretta, creando in
tal modo un vero e proprio vuoto di tutela di fronte a numerosi casi di illegittimità e abusi da parte
dell'amministrazione.
Da qui l'origine della legge del 1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di stato, che mirava a integrare
la legge del 1865 introducendo un nuovo rimedio per tutelare tutte le situazioni non qualificabili come dirit-
to soggettivo: fatto salvo l'ambito della giurisdizione dei giudice ordinario, la IV Sezione venne dunque inve-
stita del potere di decidere sui ricorsi per incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge contro gli
atti o provvedimenti amministrativi aventi per oggetto “un interesse d'individui o di enti morali giuridici”.
La giurisprudenza e la dottrina si trovarono di fronte al compito di dover riempire di contenuto la formula
generica di “interesse”, posta dal legislatore come requisito per poter proporre il ricorso alla IV Sezione e
ottenere l’annullamento del provvedimento.
La previsione di una nuova forma di tutela processuale precedette storicamente l'individuazione di una si-
tuazione giuridica soggettiva in relazione alla quale la tutela poteva essere accordata. Dell'interesse legitti-
mo sono state offerte nel tempo una pluralità di ricostruzioni, che meritano di essere ricordate prima di e-
saminare quelle più recenti.

Il diritto fatto valere come interesse Inizialmente vi fu chi ritenne che la situazione giuridica soggettiva fos-
se un normale diritto “fatto valere come interesse”. La scelta della via giurisdizionale da seguire (civile o
amministrativa) spettava al privato in funzione del tipo di tutela che intendeva ottenere. Ma questa conce-
zione fu subito disattesa dalla giurisprudenza che invece ancorò il riparto di giurisdizione al criterio più og-
gettivo della causa petendi, cioè della situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio.
L'interesse legittimo come interesse di mero fatto Per lungo tempo l'interesse legittimo fu considerato
come un interesse di mero fatto, correlato alla norma d'azione volta a tutelare in modo esclusivo l'interesse
pubblico. L'interesse di mero fatto è tale però da far sorgere in capo al privato un interesse processuale ad
attivare la tutela innanzi al giudice amministrativo nel momento in cui l'amministrazione emana un atto
amministrativo illegittimo che determina una lesione a tale interesse.
Il diritto alla legittimità degli atti Secondo un altra visione risalente, l'interesse legittimo doveva essere
qualificato come un diritto “alla legittimità degli atti della funzione governativa”, cioè un diritto soggettivo

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avente per oggetto esclusivamente la pretesa formale a che l'azione amministrativa sia conforme alle nor-
me che regolano il potere esercitato.
Il diritto affievolito Il provvedimento autoritativo è idoneo a travolgere (“degradare” “affievolire”) il diritto
soggettivo trasformandolo in semplice interesse legittimo. Tipico esempio di diritto affievolito è il diritto di
proprietà che può essere inciso dal potere espropriativo. Simile figura è quella dei diritti soggettivi “in atte-
sa di espansione” sono diritti attribuiti in astratto alla titolarità di un soggetto privato, il cui esercizio è però
condizionato all’esercizio di un potere da parte della p.a., nei confronti del quale il titolare del diritto può
vantare un semplice interesse legittimo.
L'interesse occasionalmente protetto Secondo tale teoria l'interesse legittimo è un interesse occasional-
mente (indirettamente) protetto dalla norma d'azione, volta a tutelare in modo diretto e immediato l'inte-
resse pubblico. Secondo questa visione le norme che disciplinano il potere hanno come scopo primario la
tutela di quest'ultimo e il soggetto privato può trovare in esse una qualche protezione solo in via riflessa e
indiretta.
L’interesse legittimo si distingue dunque dal diritto soggettivo proprio per il fatto che l’acquisizione o la
conservazione di un determinato bene della vita non è assicurato in modo immediato dalla norma, che tu-
tela in modo diretto soltanto l’interesse pubblico, bensì passa attraverso l’esercizio del potere amministra-
tivo, senza che peraltro sussista una garanzia in ordine all’acquisizione o conservazione.
L'interesse legittimo fonda, dunque, in capo al suo titolare soltanto la pretesa che l'amministrazione eserciti
il potere in modo legittimo, cioè in conformità con la norma d'azione.
La norma attributiva del potere offre in definitiva al titolare dell'interesse legittimo una tutela strumentale,
mediata attraverso l'esercizio del potere, anziché finale, come accade invece per il diritto soggettivo, nel
quale la norma attribuisce al suo titolare in modo diretto un certo bene della vita o utilità.
Ove il potere sia esercitato in modo non conforme alla norma attributiva del potere, il titolare dell'interesse
può proporre ricorso al giudice amministrativo al fine di ottenere l'annullamento del provvedimento lesivo,
cioè la rimozione con efficacia ex tunc degli effetti da esso prodotti.

Le ricostruzioni più recenti dell'interesse legittimo L'impianto delineato è entrato in crisi in seguito all'e-
mergere di una nuova sensibilità, più in linea con i valori espressi dalla Costituzione, dall'ordinamento eu-
ropeo e dalla l. n.241/1990. Essa muove dai diritti di libertà del cittadino e dall'esigenza di offrire una pro-
tezione più completa delle situazioni giuridiche soggettive. La Costituzione attribuisce ai diritti soggettivi e
agli interessi legittimi una pari dignità e che pertanto ad entrambi l'ordinamento deve assicurare una tutela
piena ed effettiva (art.24 Cost).
Al superamento della concezione tradizionale dell'interesse legittimo ha concorso in modo decisivo l'evolu-
zione giurisprudenziale in tema di risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo, per lungo tempo
negata. La svolta è avvenuta con la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n.500/1990 che ha supe-
rato la rilevanza della distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi ai fini della risarcibilità.
La natura sostanziale dell’interesse legittimo emerge anche dal modo nel quale la giurisprudenza ha inqua-
drato la tutela risarcitoria dell'interesse legittimo devoluta ora alla giurisprudenza del giudice amministra-
tivo. La Corte Costituzionale, ha inteso l'azione risarcitoria come tecnica di tutela dell'interesse legittimo
che si affianca e integra la tecnica di tutela più tradizionale costituita dall'annullamento. Se l'interesse legit-
timo incorpora anche una pretesa risarcitoria, è evidente che esso ha per oggetto un bene della vita che il
titolare dell'interesse medesimo mira ad acquisire o a conservare, sia pure tramite l'intermediazione del
potere amministrativo, e che è suscettibile di subire una lesione ad opera di un provvedimento illegittimo.

In definitiva nella ricostruzione dell'interesse legittimo il baricentro si sposta così dal collegamento con l'in-
teresse pubblico a quello con l'utilità finale o “bene della vita” che il soggetto titolare dell'interesse legitti-
mo mira a conservare o ad acquisire. L'interesse legittimo accentua così la connotazione sostanziale. All'e-
sito dell'evoluzione ora tratteggiata si può dunque affermare che la norma di conferimento del potere ab-
bia la doppia ed equiordinata funzione di tutelare l'interesse pubblico e di tutelare l'interesse del privato.
L'interesse pubblico non assorbe quello privato, né quest'ultimo il primo.
Nell'ambito di un rapporto di sovra-sottordinazione secondo lo schema del diritto potestativo, i vincoli posti
dalla norma attributiva del potere hanno una doppia funzione: per un verso fungono da guida e vincolo per

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l'amministrazione nella realizzazione dell'interesse pubblico; per altro verso, hanno una funzione di garan-
zia della situazione giuridica soggettiva del privato.
Nella dinamica del rapporto giuridico amministrativo, da un lato, l'amministrazione titolare del potere cura
in via primaria l'interesse pubblico; dall'altro, il titolare dell'interesse legittimo mira esclusivamente al pro-
prio interesse individuale.
In definitiva volendo proporre una definizione sintetica, “l'interesse legittimo è una situazione giuridica
soggettiva, correlata al potere della pubblica amministrazione e tutelata in modo diretto dalla norma di
conferimento del potere, che attribuisce al suo titolare una serie di poteri e facoltà volti a influire sull'eser-
cizio del potere medesimo allo scopo di conservare o acquisire un bene della vita”.
I poteri e le facoltà in questione si esplicano principalmente, all'interno del procedimento attraverso l'istitu-
to della partecipazione; quest’ultima consente al privato di rappresentare il proprio punto di vista presen-
tando memorie e documenti, egli può così cercare di orientare le valutazioni discrezionali dell'amministra-
zione in senso a sé favorevole. Il privato può persino sottoporre all'amministrazione proposte che possono
sfociare, ove accolte, in un accordo avente per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento
(art.11 l. n. 241 /1990).
Siffatti poteri e facoltà tendono a riequilibrare in parte la posizione di soggezione nei confronti del titolare
del potere. L'interesse legittimo acquista così una dimensione attiva. Ad essa corrispondono in capo
all'amministrazione una serie di doveri comportamentali nella fase procedimentale e nella fase decisionale
(buona fede, imparzialità, proporzionalità) che sono finalizzati anche alla tutela dell'interesse del soggetto
privato.

Una dottrina recente (2003) fa emergere una visione che dissolve l'interesse legittimo nella figura più gene-
rale del diritto soggettivo. Infatti all'interno del diritto soggettivo vi sono figure di diritti diversi tra loro es.
diritto di proprietà, diritto di credito avente per oggetto somme di denaro o il diritto di comportarsi secon-
do buona fede nell'ambito delle trattative finalizzate alla stipula di un contratto (“doveri di protezione”,
non vi è però una garanzia di un risultato predeterminato). Questa categoria di diritti ultima è struttural-
mente analoga a quella dell'interesse legittimo, il quale potrebbe essere ricondotto a una figura particolare
di diritto avente per oggetto una prestazione-comportamento da parte dell'amministrazione a favore del
soggetto privato.

In conclusione, l'interesse legittimo ingloba in sé una dimensione passiva (situazione di soggezione, rispet-
to alla produzione degli effetti); sia una dimensione attiva (pretesa a un esercizio corretto del potere alla
quale corrispondono una serie di poteri e facoltà nei confronti dell'amministrazione da far valere nel pro-
cedimento o anche in sede giurisdizionale). Questa duplice dimensione costituisce forse la cifra più caratte-
ristica dell'interesse legittimo che condiziona la dinamica del rapporto amministrativo.

7. Gli interessi legittimi oppositivi e pretensivi


Sotto il profilo funzionale degli interessi legittimi possono essere suddivisi in due categorie:
- gli interessi legittimi oppositivi sono correlati a poteri amministrativi il cui esercizio determina la produ-
zione di un effetto giuridico che incide negativamente e che restringe la sfera giuridica del destinatario,
sacrificando l'interesse di quest'ultimo. Si pensi al potere di espropriazione, all'irrogazione di una sanzione
amministrativa.
- gli interesse legittimi pretensivi al contrario, sono correlati a poteri amministrativi il cui esercizio deter-
mina la produzione di un effetto giuridico che incide positivamente e che amplia la sfera giuridica del de-
stinatario, dando soddisfazioni all'interesse di quest'ultimo. Si pensi al potere di rilasciare una concessio-
ne per l'uso di un bene demaniale o un'autorizzazione per l'avvio di una attività economica.
Gli interessi legittimi oppositivi si riferiscono, di regola, all'amministrazione che sottrae o sacrifica altrimen-
ti i beni o altre utilità private. Gli interessi legittimi pretensivi si riferiscono all'amministrazione per presta-
zioni che attribuisce beni o altre utilità ai soggetti privati.
Negli interessi legittimi oppositivi il rapporto procedimentale assume una dinamica di contrapposizione, nel
senso che il titolare dell'interesse legittimo oppositivo cercherà di intraprendere tutte le iniziative volte a
contrastare l'esercizio del potere che sacrifica un suo bene della vita. Il suo interesse a evitare che si deter-
mini una compressione della propria sfera giuridica è soddisfatto nel caso in cui l'amministrazione, all'esito

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del procedimento, si astenga dall'emanare il provvedimento che produce l'effetto negativo (pretesa a un
non facere da parte dell'amministrazione).
Al titolare dell'interesse legittimo oppositivo infatti interessa soltanto non veder sacrificata o compressa la
propria sfera giuridica, cioè a conservare il bene della vita.

Negli interessi legittimi pretensivi il rapporto procedimentale assume una dinamica più collaborativa, nel
senso che il titolare dell'interesse legittimo pretensivo cercherà di porre in essere tutte le attività volte a
stimolare l'esercizio del potere e a orientare la scelta dell'amministrazione in modo tale da poter consegui-
re il bene della vita. Il suo interesse a far sì che si determini un ampliamento della propria sfera giuridica è
soddisfatto nel caso in cui l'amministrazione, all'esito del procedimento, emani il provvedimento che pro-
duce l'effetto positivo (pretesa a un facere dell'amministrazione).
Al titolare dell'interesse legittimo pretensivo infatti interessa soltanto poter veder ampliata la propria sfera
giuridica, cioè acquisire un bene della vita.
I due tipi di dinamica si riflettono sia sulla struttura del procedimento, sia su quella del processo ammini-
strativo.Nel caso degli interessi legittimi oppositivi il procedimento si apre usualmente d'ufficio e la comu-
nicazione di avvio del procedimento instaura il rapporto giuridico amministrativo. Nel caso degli interessi
legittimi pretensivi il procedimento si apre in seguito alla presentazione di un'istanza o domanda di parte
che fa sorgere l'obbligo di procedere e di provvedere in capo all'amministrazione titolare del potere e in-
staura il rapporto giuridico amministrativo.
Anche il processo amministrativo e la tipologia di azioni in esso esperibili presentano caratteri propri in fun-
zione del diverso bisogno di tutela.
Nel caso degli interessi legittimi oppositivi il bisogno di tutela è correlato all'interesse alla conservazione
del bene della vita suscettibile di essere sacrificato o compresso in seguito all'emanazione del provvedi-
mento restrittivo della sfera giuridica del privato. L'annullamento dell'atto impugnato con efficacia ex tunc
soddisfa in modo specifico tale bisogno.
Nel caso degli interessi legittimi pretensivi il bisogno di tutela è correlato invece nell'interesse all'acquisi-
zione del bene della vita per mezzo dell'emanazione del provvedimento ampliativo della sfera giuridica del
privato. Rispetto a tale bisogno l'annullamento del provvedimento di diniego o, nel caso di silenzio-
inadempimento si rivelano insufficienti. Infatti non determinano in via immediata l'acquisizione del bene
della vita in capo al titolare dell'interesse legittimo che richiede invece l'adozione da parte del dell'ammini-
strazione del provvedimento richiesto. Soltanto una sentenza che accerti la spettanza del bene della vita e
che condanni l'amministrazione a emanare il provvedimento richiesto risulta pienamente satisfattiva.
L'azione che consente un siffatto risultato è la cosiddetta azione di adempimento, cioè l'azione di condan-
na a un facere specifico.
Anche la tutela risarcitoria, che è necessaria per soddisfare i bisogni di tutela non coperti dalla tutela speci-
fica (di annullamento del provvedimento illegittimo e di condanna al rilascio del provvedimento richiesto) si
atteggia diversamente con riferimento agli interessi legittimi oppositivi e agli interessi legittimi pretensivi.
Con riferimento agli interessi oppositivi essa è correlata ai danni derivanti dalla privazione o limitazione nel
godimento del bene della vita nel caso in cui il provvedimento illegittimo abbia trovato esecuzione. La sen-
tenza di annullamento con efficacia retroattiva, infatti, pur eliminando l'atto e i suoi effetti, non può porre
rimedio per il passato a questo particolare profilo di danno. Con riferimento agli interessi legittimi
pretensivi la tutela risarcitoria è correlata ai danni conseguenti alla mancata o ritardata acquisizione del
bene della vita nel caso in cui sia stato emanato un provvedimento di diniego o l'amministrazione sia rima-
sta inerte. La sentenza che accoglie l'azione di adempimento, pur costringendo l'amministrazione a emana-
re il provvedimento richiesto, non riesce infatti a porre rimedio per il passato a questo particolare profilo di
danno.

La distinzione tra i due tipi di interessi legittimi consente di inquadrare i cosiddetti provvedimenti “a dop-
pio effetto”, che producono cioè ad un tempo un effetto ampliativo e un effetto restrittivo nella sfera giu-
ridica di due soggetti distinti. Si pensi per esempio al rilascio di un permesso a costruire per realizzare un
edificio che impedirà una vista panoramica al proprietario del terreno confinante. In questi casi, la dinamica
dei rapporti tra l'amministrazione e i soggetti privati titolari di un interesse legittimo pretensivo e oppositi-

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vo diventa più articolata, sia nell'ambito del procedimento, sia nell'ambito del processo, proprio perché si
instaura anche una dialettica che vede contrapposti due interessi privati.
Nella fase procedimentale le parti private tenderanno infatti a sottoporre all'amministrazione gli elementi
istruttori e valutativi che inducano quest'ultima a provvedere in senso conforme al proprio interesse e con-
trario all'interesse dell'altra parte privata.
Nella fase processuale successiva all'emanazione del provvedimento che determina contestualmente un
effetto ampliativo nei confronti di un soggetto e uno restrittivo nei confronti dell'altro, invece, accanto alla
parte ricorrente che impugna il provvedimento chiedendone l'annullamento e all'amministrazione resisten-
te interviene come parte processuale necessaria il controinteressato.

8. I criteri di distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi


I diritti soggettivi e gli interessi legittimi presentano caratteri distintivi precisi.
a)Un primo criterio si incentra sulla struttura della norma attributiva del potere. Ricorre ancora nella giuri-
sprudenza la distinzione tra norma di relazione e norma d'azione: la prima volta a regolare il rapporto giu-
ridico tra pubblica amministrazione e cittadino delimitando le rispettive sfere giuridiche e alla quale è cor-
relato il diritto soggettivo; la seconda, volta a disciplinare l'attività dell'amministrazione ai fini di tutela
dell'interesse pubblico e alla quale è correlato l'interesse legittimo.
Nella norma di relazione la produzione dell'effetto giuridico avviene, come si è visto, in modo automatico
sulla base dello schema norma-fatto-effetto. L'eventuale atto dell'amministrazione che accerta il prodursi
dell'effetto giuridico e dei diritti e degli obblighi posti in capo alle parti ha un carattere meramente ricogni-
tivo. Si pensi per esempio, nell'ambito dei rapporti di impiego alle dipendenze della pubblica amministra-
zione, alla categoria dei cosiddetti “atti paritetici” attraverso i quali l'amministrazione riconosce (o discono-
sce) al dipendente un'indennità di carica o un altro beneficio attribuito direttamente da una norma di rango
legislativo o sublegislativo, atti che pertanto hanno un'efficacia meramente ricognitiva dei diritti e degli ob-
blighi dei dipendente pubblico.
Il comportamento assunto in violazione della norma di relazione va qualificato come illecito e lesivo del di-
ritto soggettivo. L'accertamento dell'illiceità, spetta di regola, al giudice ordinario.
Nella norma di azione la produzione dell'effetto giuridico avviene secondo lo schema norma-fatto-potere-
effetto. Il provvedimento emanato dall'amministrazione nell'esercizio del potere disciplinato dalla norma
d'azione ha un carattere costitutivo dell'effetto giuridico nella sfera giuridica del destinatario. Il provvedi-
mento assunto in violazione della norma di azione va qualificato, come illegittimo e lesivo di un interesse
legittimo. L'annullamento del provvedimento illegittimo spetta al giudice ordinario.

b)Un secondo criterio consiste nella distinzione tra potere vincolato e potere discrezionale. In presenza di
un potere discrezionale la situazione giuridica di cui è titolare il soggetto privato è sempre ed esclusiva-
mente l'interesse legittimo. Ciò perché la conservazione o l'acquisizione del bene della vita in capo al sog-
getto privato è rimessa alla valutazione dell'amministrazione titolare del potere. Di fronte al potere discre-
zionale il soggetto privato non è in grado di prevedere con certezza se la sua pretesa verrà soddisfatta
dall'amministrazione all'esito del procedimento.
Diversa è la situazione, invece, nel caso in cui il potere sia vincolato in tutti i suoi elementi dalla norma giu-
ridica. In questo caso il soggetto privato è in grado di prevedere con certezza ex ante se l'amministrazione,
ove agisca in modo conforme alle norme applicabili, riconoscerà o meno il vantaggio o il bene della vita. Il
c.d. giudizio di spettanza ha un carattere univoco, ove la situazione di fatto e di diritto venga ricostruita in
modo corretto dall’amministrazione.

c)Un terzo criterio tradizionale per distinguere il diritto soggettivo dall'interesse legittimo, si fonda sulla di-
versa natura del vizio dedotto dal soggetto privato nei confronti dell'atto emanato.
Ove venga contestata la cosiddetta carenza di potere, cioè l'assenza di un fondamento legislativo del pote-
re (carenza di potere in astratto) o una deviazione abnorme dallo schema normativo (straripamento del po-
tere), l'atto emanato dall'amministrazione è in realtà una parvenza di provvedimento, privo dell'idoneità a
produrre l'effetto tipico nella sfera giuridico del destinatario (provvedimento nullo o addirittura inesisten-
te). La situazione giuridica di cui quest'ultimo è titolare,e in particolare il diritto soggettivo, resiste di fronte
al potere e non subisce alcun “affievolimento” tramutandosi in un interesse legittimo.

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Ci sono alcuni diritti soggettivi che ricevano una tutela rafforzata nella Costituzione (diritto alla salute,
all'integrità dell'ambiente), che di regola non possono essere incisi dal potere amministrativo (i cosiddetti
diritti soggettivi non comprimibili o non degradabili) e la cui tutela è rimessa di conseguenza in via esclusi-
va al giudice ordinario.
Ove invece il soggetto privato lamenti il cattivo esercizio del potere, deducendo uno dei vizi tipici del prov-
vedimento (incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge) che possono comportare ,l'annullabilità la
situazione giuridica fatta valere nei confronti dell'amministrazione ha la consistenza di un interesse legitti-
mo.
La giurisprudenza della Corte di cassazione ha incluso nella carenza di potere anche la cosiddetta carenza di
potere in concreto, ipotesi che si verifica nei casi in cui la norma in astratto attribuisce il potere all'ammini-
strazione, ma manca nella fattispecie concreta un presupposto essenziale per poterlo esercitare (per esem-
pio nel caso in cui l’espropriazione non sia stata preceduta dalla dichiarazione di pubblica utilità).
I tre criteri seguiti dalla giurisprudenza per distinguere i diritti soggettivi dagli interessi legittimi non risolvo-
no nella pratica tutti i problemi di qualificazione.

9. Il “diritto” di accesso ai documenti amministrativi


Il diritto di accesso ai documenti amministrativi costituisce uno degli strumenti principali volti ad accrescere
la trasparenza dell'attività amministrativa e promuovere l'imparzialità. L'accesso ai documenti amministra-
tivi consiste nel “diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrati-
vi”. Esso è incluso dalla l. n. 241/1990 tra i livelli essenziali delle prestazioni ai quali fa riferimento l'art.117
Cost. e rientra dunque nella competenza legislativa esclusiva dello Stato. È inoltre definito come “principio
generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurare l'imparzialità e la
trasparenza”.
In primo luogo, rientra, tra i diritti attribuiti ai soggetti che possono partecipare a un determinato proce-
dimento amministrativo in modo da consentire ad essi di tutelare meglio le loro ragioni avendo cognizione
di tutti gli atti e documenti acquisiti al procedimento che li riguardano. Si parla in questo caso di accesso
procedimentale.
In secondo luogo, costituisce un diritto autonomo che può essere esercitato anche al di fuori dal procedi-
mento da chi ha interesse a esaminare documenti detenuti stabilmente da una pubblica amministrazione
(accesso non procedimentale).
La l. n. 241/1990 sembra costruire il diritto di accesso in termini di protezione diretta di un bene della vita,
cioè secondo lo schema del diritto soggettivo. In particolare con riguardo all'accesso non procedimentale,
esso sorge quando il soggetto che richieda l'accesso dimostri “un interesse diretto, concreto e attuale, cor-
rispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'acces-
so”. L'accesso non è dunque attribuito a chiunque, è necessario invece che la richiesta di accesso sia corre-
lata a un interesse in qualche modo differenziato e alla titolarità di una posizione giuridicamente rilevante
(non necessariamente un diritto soggettivo o un interesse legittimo in senso proprio, ma anche una situa-
zione giuridica soggettiva allo stato potenziale).
Un'eccezione prevista per legge si ha in materia ambientale nella quale l'accesso alle informazioni è con-
sentito a chiunque ne faccia richiesta senza necessità di dichiarare un proprio interesse. Un'altra eccezione
più recente è il cosiddetto accesso civico, in base al quale chiunque può richiedere l'accesso alle informa-
zioni che le amministrazioni avrebbero comunque l'obbligo di pubblicare sui propri siti o con altre modalità
tutte le volte in cui esse hanno omesso questo adempimento; l’accesso civico serve a rendere effettiva l'os-
servanza degli obblighi di pubblicità e trasparenza.
Sotto il profilo oggettivo, l'accesso è escluso in una serie tassativa di casi e cioè in relazione ai documenti
coperti dal segreto di Stato, a quelli relativi a procedimenti tributari o a procedimenti per l'adozione di atti
amministrativi generali, ai documenti contenti informazioni di carattere psicoattitudinale di terzi (art.24,1.
241/1990). Altri casi di esclusione possono essere individuati tramite regolamento di delegificazione laddo-
ve sussista il rischio di una lesione di interessi pubblici.
Allorché siano presenti esigenze di tutela della riservatezza l'amministrazione deve dunque compiere una
duplice operazione. Deve anzitutto operare una comparazione tra l'interesse all'accesso e il contrapposto
interessa alla riservatezza di terzi. Deve inoltre valutare se l'accesso ha il carattere della “necessarietà”,
poiché la l. n. 241/1990 prescrive che deve essere comunque garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti

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“la cui conoscenza sia necessaria per curare e difendere i propri interessi giuridici”. L'accoglimento dell'i-
stanza di accesso sembra dunque subordinata, almeno nel caso in cui siano presenti esigenze di riservatez-
za, a valutazioni dell'amministrazione che sembrano avere natura in qualche misura discrezionale.
Inoltre la l. n. 241/ 1990 attribuisce all'amministrazione un potere di differimento che consiste nella posti-
cipazione del momento in cui l'accesso può essere esercitato e che costituisce un'alternativa che va preferi-
ta, là dove possibile, al diniego di accesso. Anche in questo caso la scelta tra differimento e diniego richiede
una valutazione che può avere una componente di discrezionalità.
È discussa la natura giuridica del diritto di accesso: di recente sembra prevalere l’interpretazione che non si
tratti di un diritto soggettivo in senso proprio, ma che esso vada inquadrato, al di là del nomen utilizzato
dalla legge, nella categoria dell’interesse legittimo.

10. Interessi di fatto, diffusi e collettivi


Le norme che disciplinano l'organizzazione e l'attività della pubblica amministrazione possono imporre
all'amministrazione doveri di comportamento, finalizzati alla tutela di interessi pubblici, in modo per così
dire irrelato, cioè senza che ad essi corrisponda alcuna situazione giuridica. Si pensi per esempio alle norme
che impongono alle amministrazioni di adottare atti di pianificazione, di contenere livelli di spesa, di rag-
giungere determinati standard qualitativi nell'erogazione dei servizi.
La violazione di siffatti doveri rileva, di regola, soltanto all'interno dell'organizzazione degli apparati pubblici
e può dar origine, a seconda dei casi, a interventi ti tipo propulsivo (diffide) o sostitutivo da parte di organi
dotati di poteri di vigilanza, a sanzioni che colpiscono i dirigenti e i funzionari responsabili della violazione o
ad altre forme di penalizzazione.
I soggetti privati che possono trarre un beneficio o un pregiudizio da siffatte attività poste in essere
dall'amministrazione per la cura di interessi pubblici possono vantare, di regola, un interesse di mero fatto
(interesse semplice) in relazione al quale le norme in questione offrono soltanto una tutela di tipo non giu-
risdizionale. I portatori di un interesse di mero fatto possono infatti promuovere l'osservanza da parte delle
amministrazioni dei doveri, per esempio, sollecitandole ad attivarsi (segnalazioni, petizioni) o attraverso
campagne di sensibilizzazione dell'opinione pubblica.
Emerge così la necessità di distinguere gli interessi di fatto dagli interessi legittimi. I criteri sono essenzial-
mente due: il criterio della differenziazione e il criterio della qualificazione.
Quanto al criterio della differenziazione, perché posso configurarsi l'esistenza di un interesse giuridicamen-
te protetto, occorre anzitutto che la posizioni in cui si trova il soggetto privato rispetto all'amministrazione
gravata da un dovere di agire sia in qualche modo differenziata rispetto a quella della generalità dei sogget-
ti dell'ordinamento.
Può essere rilevante a questo riguardo l'elemento fisico-spaziale della vicinanza (o vicinitas) che rende più
concreto il pregiudizio in capo a taluni soggetti.
Una volta appurato il carattere differenziato di un interesse rispetto a quello della generalità dei soggetti,
occorre valutare se tale interesse rientri in qualche modo nel perimetro della tutela offerta dalle norme e,
in particolare, da quelle che attribuiscono il potere (criterio della qualificazione giuridica dell'interesse) e
se, pertanto, il suo titolare possa vantare una posizione qualificabile come interesse legittimo.
Gli interessi di mero fatto possono avere una dimensione individuale o superindividuale. È così emersa in
dottrina e in giuri la nozione di interesse diffuso. Gli interessi diffusi sono stati definiti variamente come in-
teressi non personalizzati (o adespoti), senza struttura, riferibili in modo indistinto alla generalità della col-
lettività o a categorie più o meno ampie di soggetti (consumatori, utenti); il carattere “diffuso” dell'interes-
se deriva dalla caratteristica del bene materiale o immateriale ad esso correlato che non è suscettibile di
appropriazione e di godimento esclusivi (ambiente, patrimonio storico-artistico). Si tratta in genere di beni
pubblici “non rivali” e “non escludibili”: non rivali perché il loro consumo o utilizzo da parte di uno non ne
impedisce la fruizione da parte di un altro; “ non escludibili”, perché, una volta fornito il bene, nessuno può
esserne escluso dalla fruizione.
L'ordinamento giuridico, tuttavia, ha iniziato a prendere in considerazione gli interessi diffusi attribuendo
ad essi una certa rilevanza sia in sede procedimentale, sia in sede processuale.
Sotto il primo profilo l'art.9 241/1990 attribuisce la facoltà di intervenire nel procedimento a qualsiasi sog-
getto portatore di interessi pubblici o privati nonché ai “portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni
o comitati” ai quali possa derivare un pregiudizio dal provvedimento.

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Il diritto di partecipazione consente dunque di immettere nel procedimento interessi riferibili alla collettivi-
tà (es:tutela ambiente) che non coincidono necessariamente con quello curato in via istituzionale e
dall’amministrazione titolare del potere.
Più complessa è la questione della tutela giurisdizionale degli interessi diffusi che ha avuto oscillazioni in
dottrina e in giuri: i principali criteri elaborati per aprire la strada alla tutela giurisdizionale sono essenzial-
mente tre: il collegamento con la partecipazione procedimentale; l'elaborazione della nozione di interesse
collettivo; la legittimazione ex lege.
1) La prima strada proposta in dottrina è stata quella di individuare nella partecipazione al procedimento
amministrativo ai sensi della l. n. 241/1990 un elemento di differenziazione e qualificazione tale da con-
sentire l'impugnazione innanzi al giudice amministrativo del provvedimento conclusivo del procedimen-
to (non accolta dalla giuri);
2) Un 'altra via è stata quella di ampliare le maglie dell'interesse legittimo fino a includervi, alcune situa-
zioni nelle quali il ricorrente agisce in giudizio per tutelare in realtà un interesse superindividuale. È stata
posta in proposito la distinzione tra interesse propriamente diffusi e interessi collettivi, cioè interessi ri-
feribili a specifiche categorie o gruppi organizzati (associazioni sindacali dei lavoratori, partiti politici). A
questi organismi è stata riconosciuta in giurisprudenza una legittimazione processuale autonoma, corre-
lata a una situazione di interesse legittimo, allo scopo di tutelare gli interessi non già dei singoli apparte-
nenti alla categoria, bensì della categoria in quanto tale;
3) In settori particolari il legislatore ha provveduto ad attribuire a determinati soggetti istituiti per la cura di
interessi diffusi una speciale legittimazione a ricorrere (legittimazione ex lege). Così per es. in materi
ambientale, le associazioni che abbiano ottenuto un riconoscimento dal ministero dell’ambiente in base
a certe caratteristiche minime possono ricorrere al giudice amministrativo a tutela degli interessi am-
bientali.
Queste e altre analoghe previsioni legislative, hanno una rilevanza prettamente processuale finalizzata a
individuare casi di legittimazione ad agire straordinaria, cioè non collegata alla titolarità di una situazione
giuridica soggettiva.
Gli interessi individuali “omogenei” o “isomorfi” vanno distinti dagli interessi diffusi e collettivi, che hanno
una dimensione superindividuale in senso proprio, in quanto essi hanno di per sé una natura individuale e
acquistano una dimensione collettiva solo per il fatto di essere comuni a una pluralità o molteplicità di sog-
getti. (Si pensi per esempio agli utenti del servizio elettrico di una città nella quale si verifica una situazione
di interruzione della fornitura di energia elettrica protratta nel tempo). Per questi interessi l'ordinamento
prevede forme di tutela non giurisdizionale semplificate, meno formalizzate e costose, innanzi a organismi
di mediazione o conciliazione, oppure innanzi alle stesse autorità amministrative di regolazione ( ADR al-
trnative dispute resolution). Il legislatore ha introdotto rimedi processuali particolari, “azioni di classe”
(class actions) nelle quali i diritti lesi dal comportamento illecito sono dedotti in giudizio da un rappresen-
tante dall'intera classe (salva la facoltà dei singoli di dichiarare la loro non adesione: la cosiddetta clausola
opt out). Nell'ambito delle riforme amministrative più recenti è stato anche introdotto un ricorso per l'effi-
cienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici da esperire innanzi al giudice ammini-
strativo. Il ricorso non consente una tutela risarcitoria, ma mira soltanto a ottenere una pronuncia del giu-
dice che ripristini il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio pubblico e
può essere proposto, oltre che dai singoli interessati, anche da associazioni o comitati costituiti costituiti ad
hoc

11. I principi generali


Per inquadrare il rapporto giuridico amministrativo sono stati trattati in maniera generica i concetti e gli i-
stituti di base, ma è necessario anche individuare i principi giuridici ad essi correlati.
La scelta qui effettuata è quella di distinguere, da un lato, i principi che presiedono all'attribuzione e alla di-
sciplina delle funzioni che sono rivolti essenzialmente al legislatore (statale e regionale); dall'altro, i principi
che hanno come destinatarie le amministrazioni. Questi ultimi possono essere riferiti, con una scomposi-
zione analitica, alle funzioni, all'attività amministrativa, all'esercizio del potere discrezionale, al provvedi-
mento, al procedimento.
In questa parte verranno trattati soltanto i principi correlati al rapporto giuridico amministrativo.

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I Principi sulle funzioni: Il principio fondamentale che presiede all'allocazione delle funzioni è il principio di
sussidiarietà, menzionato nei Trattati europei e, in seguito alla legge costituzionale n. 3/2001, nella Costitu-
zione. In particolare l'art.5 TUE enuncia il principio di sussidiarietà con riguardo ai rapporti tra Stati mem-
bri e istituzioni dell'Unione. Da esso deriva anzitutto che l'Unione europea agisce esclusivamente nei limiti
delle competenze assegnate (tassatività delle competenze) e che, per contro, gli Stati membri sono titolari
della generalità delle competenze residue. Inoltre le competenze attribuite all'Unione europea devono es-
sere soltanto quelle necessarie per conseguire gli scopi dell'Unione che non possono essere conseguiti me-
glio dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello locale.
L'art.5 menziona anche il principio di proporzionalità in base al quale il contenuto e la forma dell'azione
dell'Unione non devono eccedere quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati.
Nel diritto interno l'art.118 Cost richiama i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza che
vanno a integrare e a rafforzare il principio autonomistico posto dall'art.5.
L'art 118 Cost. prevede che la generalità delle funzioni sia attribuita al livello di governo più vicino al citta-
dino e cioè al comune. Sole le funzioni delle quali è necessario assicurare un esercizio unitario che supera la
dimensione territoriale dei comuni possono essere attribuite ai livelli di governo via via più elevati e cioè
alle province, alle città metropolitane, alle regioni e allo Stato.
Le funzioni amministrative vanno dunque allocate tra gli enti territoriali secondo il criterio della dimensione
degli interessi (locale, regionale o nazionale).
I principi posti dall'art.118Cost. Trovano svolgimento nelle singole materie di legislazione amministrativa
nel d.lgs. 31 marzo 1998 n.112 emanato sulla base della legge delega 15 marzo 1997 n.59 per il conferimen-
to delle funzioni ai vari livelli di governo.
La l. n. 59/1997 definisce meglio il principio di adeguatezza, che si riferisce all'idoneità organizzativa
dell'amministrazione ricevente (le funzioni) e il principio di differenziazione, che mira a tener conto delle
“diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi”.
Si è fatto sin qui riferimento al principio della sussidiarietà cosiddetta verticale, che riguarda appunto la di-
stribuzione delle funzioni all'interno di un'amministrazione pubblica multilivello. La Costituzione richiama
anche la sussidiarietà cosiddetta orizzontale che attiene invece ai rapporti tra poteri pubblici e società civi-
le. L'art.118Cost stabilisce, infatti che lo Stato e gli enti territoriali “favoriscono l'autonoma iniziativa dei cit-
tadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sus-
sidiarietà”. Questa disposizione ha il valore simbolico, da un lato, di escludere che i poteri pubblici deten-
gono il monopolio nella cura degli interessi della collettività, e dall'altro, di valorizzare le forme di auto-
organizzazione della società civile.
I principi in questione, essendo rivolti al legislatore, sono sopratutto principi e criteri di policy da far valere
nelle sedi politiche, più che principi giuridici che fondano pretese azionabili in sede giurisdizionale.

I Principi sull'attività: L'art. 1. 241/1990 dispone che “l'attività amministrativa persegue i fini determinati
dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza
nonché dai principi dell'ordinamento comunitario”. Tali criteri, sebbene riferiti testualmente all'attività,
possono valere in realtà anche per l'atto e il procedimento amministrativo.
Poiché, l'attività amministrativa riguarda in modo unitario il complesso delle operazioni, comportamenti e
atti posti in essere da un apparato amministrativo, anche l’applicazione dei criteri enunciati dall’art 1 con-
sente di formulare un giudizio globale sull’operato dell’amministrazione (tale giudizio verte sia sulla con-
formità dell’operato dell’amministrazione alla “missione” affidatagli, sia sui risultati ottenuti).
A tal proposito di recente è stata di recente elaborata la nozione di “amministrazione di risultato” che si
correla a quella più tradizionale di buon andamento cui fa riferimento l'art.87Cost. L'amministrazione di ri-
sultato pone in primo piano il concetto di buon andamento, introducendo criteri di valutazione delle per-
formance degli apparati amministrativi di tipo aziendalistico. Di recente, il legislatore, nel contesto di una
riforma volta a promuovere l'efficienza della pubblica amministrazione, ha disciplinato il cosiddetto “ciclo
delle performance” che si applica agli apparati amministrativi nel loro complesso. Le fasi del ciclo delle per-
formance sono principalmente la definizione di obiettivi, l'allocazione delle risorse, il monitoraggio in corso
di esercizio, la misurazione e valutazione della performance organizzativa e dei singoli dipendenti, l'utilizzo
si sistemi premianti. La performance organizzativa è collegata, in particolare, al grado di soddisfazione dei

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cittadini e degli utenti, all'efficienza nell'impiego delle risorse, nella quantità e qualità dei servizi erogati. Ad
essa si collega poi la performance individuale dei dipendenti pubblici.
Il principio di efficienza mette in rapporto la quantità di risorse impiegate con il risultato dell'azione ammi-
nistrativa. È efficiente l'attività amministrativa che raggiunge un certo livello di “performance” utilizzando
in maniera economica le risorse disponibili e scegliendo tra le alternative possibili quella che produce il
massimo dei risultati con il minor impiego di mezzi.
Il principio di efficacia mette in invece in rapporto i risultati effettivamente ottenuti con gli obiettivi prefis-
sati (livelli qualitativi di un servizio, soddisfazione dell'utenza) in un piano o un programma. L'economicità si
riferisce alla capacità di lungo periodo di un'organizzazione di utilizzare in modo efficiente le proprie risorse
raggiungendo in modo efficacie i propri obiettivi e, in qualche modo, condensa gli altri due principi.

Principi sull'esercizio del potere discrezionale: I principi che presiedono all'esercizio del potere discreziona-
le fungono da guida per l'amministrazione nei casi in cui la norma di conferimento le attribuisce ambiti di
scelta tra una pluralità di soluzioni tutte quante in astratto compatibili con la norma. Essi sono principal-
mente il principio di imparzialità, di proporzionalità, di ragionevolezza, di tutela del legittimo affidamento,
di precauzione.
Il principio di imparzialità è richiamato dall'art.97Cost. e dall'art.41 della Carta dei diritti fondamentali Ue.
Riferito all'esercizio della discrezionalità, esso consiste essenzialmente nel divieto di favoritismi, nel divieto
di discriminazione: l'amministrazione, nel momento in cui opera la ponderazione degli interessi in gioco,
non può essere indebitamente influenzata nelle sue decisioni da interessi politici di parte (lobby) o da sin-
goli individui o imprese. Il principio di imparzialità così inteso, è posto a garanzia della parità di trattamento
(par condicio) e, in definitiva, dell'uguaglianza dei cittadini di fronte all'amministrazione.
Il principio di imparzialità può entrare in tensione con il principio della responsabilità politica delle ammi-
nistrazioni volto a inserirle nel circuito politico amministrativo (art.95Cost.). I vertici delle pubbliche ammi-
nistrazioni (ministri, presidenti di regioni, sindaci) che costituiscono il punto di raccordo tra politica e am-
ministrazione, sono portati a perseguire obiettivi coerenti con le priorità della propria base elettorale.
Un secondo principio che presiede all'esercizio della discrezionalità è il principio di proporzionalità che trae
origine dalla giurisprudenza costituzionale e amministrativa tedesca. Il principio di proporzionalità, che as-
sume particolare rilievo nel caso di poteri che incidono negativamente nella sfera giuridica del destinatario,
richiede all'amministrazione che opera la valutazione discrezionale un giudizio guidato, in sequenza, da tre
criteri: idoneità, necessarietà e adeguatezza della misura prescelta.
L'idoneità mette in relazione il mezzo adoperato con l'obiettivo da perseguire. La necessarietà detta anche
la “regola del mezzo più mite”, mette a confronto le misure ritenute idonee e orienta la scelta su quella che
comporta il minor sacrificio possibile degli interessi incisi dal provvedimento. L'adeguatezza consiste nella
valutazione della scelta finale in termini di tollerabilità della restrizione o incisione nella sfera giuridica del
destinatario del provvedimento.
Il principio di proporzionalità costituisce una specificazione di un principio ancor più generale, di natura in
realtà pregiuridica, costituito dal principio di ragionevolezza. In base alla teoria delle scelte razionali, anche
la pubblica amministrazione è in grado di conseguire determinati obiettivi ponendo in essere azioni logiche,
coerenti e ad essi funzionali. Il principio di ragionevolezza ha una dimensione più ampia rispetto a quello di
proporzionalità e assume rilievo generale nell'ambito del sindacato di legittimità dei provvedimenti ammi-
nistrativi come figura sintomatica dell'eccesso di potere.
Un altro principio che presiede all'esercizio della discrezionalità è il principio del legittimo affidamento. Es-
so mira a tutelare le aspettative ingenerate della pubblica amministrazione con un proprio atto o compor-
tamento. Nel diritto interno, in particolare, il principio del legittimo affidamento interviene a proposito del
potere di annullamento d'ufficio del provvedimento illegittimo, per l'esercizio del quale è richiesta all'am-
ministrazione una valutazione degli interessi dei destinatari del provvedimento e una considerazione del
tempo ormai trascorso.
Il principio della tutela del legittimo affidamento si ricollega a un principio più generale di diritto europeo
che è quello della certezza del diritto, che mira a garantire un quadro giuridico stabile e chiaro. Tale princi-
pio ha come destinatario anzitutto il legislatore, ma implica che anche l'agire dell'amministrazione deve es-
sere prevedibile e coerente nel suo svolgimento.

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Il principio di precauzione, espressamente riconosciuto in materia ambientale nel Trattato sul funziona-
mento dell'unione europea (TFUE) ed elevato dalla giurisprudenza comunitaria a principio di carattere ge-
nerale applicabile nei cambi di azione che involgono interessi pubblici come la salute e la sicurezza dei con-
sumatori. Il principio di precauzione comporta che, quando sussistono incertezza giuridiche in ordine all'e-
sistenza o al livello di rischi per la salute delle persone, le autorità competenti possono adottare misure
protettive senza dover attendere che sia dimostrata in modo compiuto la realtà e la gravità di tali rischi.

I Principi sul provvedimento: I principi che si riferiscono specificamente al provvedimento amministrativo,


in aggiunta al principio di legalità, sono essenzialmente il principio della motivazione e il principio di sinda-
cabilità degli atti. Il primo è desumibile dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea laddove
sancisce “l'obbligo per l'amministrazione di motivare le proprie decisioni”. Il principio della motivazione
può essere messo in relazione con il principio di trasparenza e, in ultima analisi con quello dell'imparzialità
della decisione.
Il principio di sindacabilità degli atti amministrativi è sancito dagli artt. 24 e 113 Cost.: gli atti amministrati-
vi che ledono i diritti soggettivi e gli interessi legittimi sono sempre assoggettati al controllo giurisidizionale
del giudice ordinario o del giudice amministrativo.

I Principi sul procedimento: I principi relativi alle modalità di esercizio del potere amministrativo, cioè al
procedimento amministrativo, sono il principio del contraddittorio e il principio di pubblicità e trasparenza.
Il principio del contraddittorio è richiamato nella Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea secon-
da la quale ogni individuo ha diritto “ di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un
provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio”. La stessa Corte di giustizia qualifica tale principio co-
me “ principio di diritto amministrativo ammesso in tutti gli Stati membri della comunità e che risponde alle
esigenze della giustizia e della sana amministrazione”.
Talora, a proposito del diritto dei privati di esporre le proprie ragioni prima che venga emanato un provve-
dimento limitativo di diritti, si fa riferimento al principio del giusto procedimento.
Anche il principio di pubblicità e di trasparenza è enunciato nella Carta dei diritti fondamentali dell'unione
europea, secondo la quale ogni individuo ha diritto “di accedere al fascicolo che lo riguarda, nel rispetto dei
legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale”. Viene altresì stabilito che le istituzioni, gli
organi e organismi dell'unione si basano su “un'amministrazione europea aperta” ispirandosi così al princi-
pio dell'open governament in base al quel le determinazioni assunte devono essere rese accessibili a chi vi
ha interesse. Il principio in questione rileva in due ambiti.
Il primo, più ampio, si riferisce alla messa a disposizione della generalità degli interessati, con modalità di
pubblicazione predeterminate da parte dell'amministrazione, di una serie di informazioni riguardanti l'or-
ganizzazione e l'attività dell'amministrazione stessa.
La recente normativa anticorruzione ha accresciuto gli obblighi di pubblicità di una seri di informazioni rela-
tive ai dati patrimoniali di chi ricopre cariche elettive e incarichi in enti pubblici e società pubbliche.
Il secondo ambito, più specifico, si riferisce al diritto di accesso ai documenti amministrativi che, come si è
già visto la l. n. 241/1990 definisce come “principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire
partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza”.
La pubblicità e la trasparenza divenendo così un fattore volto a promuovere la verificabilità ex post e dun-
que, in definitiva, l'imparzialità delle decisioni.
Un altro principio è costituito dal principio di certezza del tempo dell'agire amministrativo e di celerità. La
Carta europea dei diritti fondamentali attribuisce a ogni individui anche il diritto a “ che le questioni che lo
riguardano siano trattate entro un termine ragionevole”. La l. n. 241/1990 lo rende concreto nella disciplina
volta a individuare per ciascun tipo di procedimento un termine massimo entro il quale l'amministrazione
deve emanare il provvedimento finale che conclude il procedimento amministrativo.
La durata ragionevole del procedimento e il rispetto dei termini massimi perseguono due obiettivi:
in primo luogo tutelano gli interessi dei soggetti coinvolti, in secondo luogo, tendono a promuovere l'effi-
cienza e l'efficacia dell'azione amministrativa.

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Infine la l. n. 241/1990 richiama il principio di efficienza, prevedendo, che l'amministrazione “non può ag-
gravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istrut-
toria (art.1, c.2).

Capitolo 4: Il provvedimento

1. Premessa
Il provvedimento è la manifestazione del potere amministrativo volta a disciplinare un rapporto giuridico
intercorrente tra la pubblica amministrazione e un soggetto privato e avente per oggetto un bene della vi-
ta.
Nel nostro ordinamento manca sia una definizione legislativa di atto o provvedimento, sia una disciplina
organica delle sue caratteristiche.
Il suo regime giuridico si ricava in parte dalle disposizioni contenute nella l. n. 241/1990 e in parte dall'ela-
borazione dottrinale e giurisprudenziale.
Il provvedimento amministrativo costituisce dunque una manifestazione dell'autorità dello Stato volta alla
cura in concreto dell'interesse pubblico di cui essa è tenuta a farsi carico in base alla legge.
In un sistema costituzionale improntato al principio della tendenziale separazione dei poteri l'atto ammini-
strativo, espressione del potere esecutivo, si colloca a fianco di due atti tipici riconducibili agli altri due po-
teri dello Stato: la legge che è espressione del potere legislativo e la sentenza, espressione del potere giuri-
sdizionale attribuito a magistrature indipendenti.
Questi 3 atti hanno in comune il fatto di essere assunti all’esito di un procedimento atto a garantire traspa-
renza e tutela degli interessi coinvolti.

2. Il regime del provvedimento: a) La tipicità


Passando a considerare il regime e i caratteri dell'atto amministrativo, va richiamata anzitutto la tipicità. Es-
sa si contrappone all'atipicità dei negozi giuridici privati (1322 c.c.); atipicità che riguarda sia i fini perseguiti,
sia gli strumenti giuridici per perseguirli.
Il principio di tipicità è uno dei corollari del principio di legalità (in senso sostanziale) secondo il quale le
pubbliche amministrazioni possono perseguire esclusivamente il fine stabilito dalla norma di conferimento
del potere e può utilizzare soltanto lo strumento giuridico definito dalla stessa norma.
Un’attenuazione del principio di tipicità sono le c.d. ordinanze contingibili e urgenti che possono essere
emanate soltanto nei casi e per i fini previsti dalla legge ma non sono tipizzate, nel senso che la legge lascia
all’organo competente la determinazione del contenuto e degli effetti del provvedimento.
I provvedimenti emanati devono trovare dunque un fondamento espresso nella legge (normatività dei
provvedimenti amministrativi): in questo caso si può dire che le ordinanze contingibili e urgenti sono no-
minate.
Il principio di tipicità esclude che si possano riconoscere in capo all'amministrazione poteri impliciti, cioè
poteri non espressamente previsti dalla legge ma ricavabili indirettamente da norme che definiscono altri
poteri; tuttavia, secondo la giurisprudenza, è sufficiente in molti casi che le disposizioni legislative conten-
gano un fondamento generico del potere.

3. b) La cosiddetta imperatività
L'atto amministrativo si differenzia dai negozi di diritto privato, perché è dotato di una particolare forza giu-
ridica atta a far prevalere, ove occorra, l'interesse pubblico sugli interessi dei soggetti privati.
Dunque un secondo carattere tradizionale del provvedimento amministrativo è la cosiddetta imperatività o
autoritarietà. Essa consiste nel fatto che la pubblica amministrazione titolare di un potere attribuito dalla
legge può, mediante l'emanazione del provvedimento, imporre al soggetto privato destinatario di quest'ul-
timo le proprie determinazioni operando in modo unilaterale una modifica nella sua sfera giuridica (espro-
priazione=effetto traslativo= compravendita).
Nell'imperatività si manifesta la dimensione verticale (sovraordinazione) dei rapporti tra Stato e cittadino
che si contrappone a quella orizzontale (di equiordinazione) delle relazioni giuridiche privatistiche.

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Il provvedimento è imperativo in quanto ha l'attitudine a modificare in modo unilaterale la sfera giuridica


del soggetto privato destinatario senza che sia necessario acquisire il suo consenso.
L'imperatività coincide dunque con l'unilateralità nella produzione di un effetto giuridico che accomuna
ogni atto di esercizio di un potere in senso proprio.
L’efficacia di un provvedimento non dipende dalla validità del medesimo, cioè dalla sua piena conformità
alla norma attributiva del potere, anche l’atto illegittimo è in grado di produrre effetti tipici, tuttavia gli ef-
fetti possono essere rimossi. Vale cioè quello che è stato definito il principio dell'equiparazione dell'atto
invalido all'atto valido. Solo il provvedimento affetto da nullità non ha carattere imperativo.
La volontà eventualmente contraria del soggetto privato non preclude il prodursi dell'effetto giuridico: il
destinatario del provvedimento si trova dunque in una posizione di passività (di soggezione).
Tale imperatività emerge con più evidenzia negli atti amministrativi che determinano effetti ablatori o co-
munque restrittivi della sfera giuridica del destinatario (int.leg. oppositivi); ma la relazione giuridica con
l’amministrazione non è paritaria neppure nel caso di atti amministrativi emanati su domanda o istanza
dell’interessato e che determinano un effetto ampliativo della sfera giuridica di quest’ultimo attribuendogli
un diritto, una facoltà o altra utilità (int.leg. pretensivi), infatti l’effetto giuridico ampliativo viene comun-
que prodotto in via unilaterale dal provvedimento emanato (emanato, ove ricorrano i presupposti, all’esito
di un procedimento, avviato su istanza del privato).

4. c)L’esecutorietà e l’efficacia
Una seconda caratteristica di molti provvedimenti amministrativi è la cosiddetta esecutorietà disciplinata
dall’art.21-ter .241/1990. Essa può essere definita come il potere dell'amministrazione di procedere all'e-
secuzione coattiva del provvedimento in caso di mancata cooperazione da parte del privato obbligato, sen-
za dover rivolgersi preventivamente a un giudice allo scopo di ottenere l'esecuzione forzata.
Se l'imperatività (intesa come unilateralità) deroga al principio generale che ricollega, nei rapporti paritari,
il prodursi dell'effetto giuridico negoziale al perfezionamento dell'accordo tra le parti, l'esecutorietà deroga
al principio civilistico del divieto di autotutela, cioè di farsi giustizia da sé.
Prima dell’introduzione dell’art. sopracitato si è discusso in dottrina il fondamento dell’esecutorietà del
provvedimento amministrativo che è stato rinvenuto in passato nella c.d. presunzione di legittimità del
provvedimento. La giustificazione teorica di quest’ultima venne trovata nel fatto che, di norma, gli atti
amministrativi siano emanati in modo legittimo e dunque possano essere portati a esecuzione
dell’amministrazione direttamente. Tuttavia la dottrina ha dimostrato l’inconsistenza teorica di questo
principio, collegato ad una’ideologia autoritaria dei rapporti fra Stato e cittadino.
L'art.21-ter l. n. 241/1990 pone una disciplina embrionale del potere dell'amministrazione di provvedere
all'esecuzione coattiva dei propri provvedimenti. L'esecutorietà non è una caratteristica propria di tutti i
provvedimenti amministrativi, ma deve essere di volta in volta prevista dalla legge.
L'esecutorietà è riferibile non soltanto agli obblighi nascenti dal provvedimento, ma anche a quelli aventi
fonte negoziale.
In relazione agli obblighi che sorgono per effetto di un provvedimento amministrativo, quest'ultimo deve
indicare il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del soggetto obbligato. Inoltre, l'esecuzione coat-
tiva può avvenire solo previa adozione di un atto di diffida, concedendo così al privato un ultima chance. In
definitiva, l'esecutorietà del provvedimento si concretizza nell'avvio di un procedimento d'ufficio in con-
traddittorio con il soggetto privato. L'esecutorietà del provvedimento presuppone che il provvedimento
emanato sia efficacie ed esecutivo.
Secondo l'art. 21-bis il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia con la
comunicazione al destinatario. Emerge così la distinzione tra provvedimenti limitativi della sfera giuridica
dei privati e provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati. I primi hanno la natura di atti recetti-
zi, poiché la loro efficacia è subordinata alla comunicazione all'interessato. Sono peraltro esclusi dall'obbli-
go di comunicazione i provvedimenti aventi carattere “cautelare ed urgente” che sono sempre immediata-
mente efficaci. Alcuni provvedimenti limitativi non aventi carattere sanzionatorio possono contenere una
clausola motivata di immediata efficacia.
L'esecutività del provvedimento è disciplinata dall'art. 21-quater, secondo il quale i provvedimenti ammi-
nistrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal prov-
vedimento amministrativo. All'efficacia del provvedimento consegue dunque la necessità che esso, in linea

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di principio, venga portato subito ad esecuzione, a seconda dei casi, dalla stessa amministrazione che ha
emanato l’atto, oppure dal destinatario del medesimo là dove il provvedimento faccia sorgere in capo a
quest’ultimo un obbligo di dare o di fare.
In base all'art.21-quater l'esecuzione del provvedimento può essere differita o sospesa discrezionalmente
dall'amministrazione.

5. d) L’inoppugnabilità
Un'ultima caratteristica generale del provvedimento amministrativo consiste nella cosiddetta inoppugnabi-
lità (incontestabilità), che si ha allorché decorrono i termini previsti per l'esperimento dei rimedi giurisdi-
zionali innanzi al giudice amministrativo. In particolare, l'azione di annullamento del provvedimento va po-
sta nel termine di decadenza di 60 giorni; l'azione di nullità è soggetta a un termine di 180 giorni; l'azione
risarcitoria può essere proposta in via autonoma (cioè senza la parallela azione di annullamento) nel termi-
ne di 120 giorni.
Esigenze di certezza e di stabilità dell'assetto dei rapporti giuridici conseguenti all'emanazione di un prov-
vedimento giustificano in definitiva la previsione di termini decadenziali brevi per l'esperimento dei mezzi
di tutela giurisdizionale.
L'inoppugnabilità non esclude peraltro che l'amministrazione possa rimettere in discussione il rapporto giu-
ridico esercitando il potere di autotutela.
L'atto amministrativo può diventare inoppugnabile anche in relazione a un altro fenomeno, cioè per l'ac-
quiescenza da parte del suo destinatario. Essa consiste in una dichiarazione espressa o tacita (per facta
concludentia) di assenso all'effetto prodotto dal provvedimento. Nella pratica, una misura cautelativa adot-
tata dal destinatario del provvedimento consiste nel dichiarare che l’atto o il comportamento effettuato
non può essere interpretato come acquiescenza al provvedimento.

6. Gli elementi strutturali dell’atto amministrativo. L’obbligo di motivazione


Come per tutti gli atti giuridici, anche per l'atto amministrativo possono essere individuati alcuni elementi
strutturali che consentono, di volta in volta, di identificarlo e di qualificarlo. Questi sono essenzialmente il
soggetto, la volontà, l'oggetto, il contenuto, i motivi, la motivazione, la forma.
1. Il soggetto, cioè l'organo che, in base alle norme sulla competenza e sull'investitura, è deputato ad ema-
nare l'atto. Si tratta di pubbliche amministrazioni, ma in casi particolari anche soggetti privati sono titolari
di poteri amministrativi e i loro atti sono qualificabili come amministrativi (impresa privata concessionaria
di un pubblico servizio).
2. Un secondo elemento è costituito dalla volontà. Il provvedimento amministrativo è manifestazione della
volontà dell'amministrazione, anche se quest'ultima va intesa non già in senso psicologico (stato psichico
del dirigente che emana l'atto) bensì in senso oggettivato (volontà procedimentale); i vizi della volontà non
determinano in via diretta l’annullabilità ma costituiscono una figura sintomatica dell’eccesso di potere.
3. Un terzo elemento può essere individuato nell'oggetto del provvedimento, cioè nella cosa, attività o si-
tuazione soggettiva cui il provvedimento si riferisce (bene demaniale o terreno espropriato); l’oggetto deve
essere determinato o determinabile.
4. Un quarto elemento è il contenuto del provvedimento che si ritrova nella parte dispositiva dell'atto, e
che consiste in “ciò che con esso l'autorità intende disporre, ordinare, permettere, attestare, certificare”.
Rileva sopratutto la distinzione tra contenuto vincolato e discrezionale del provvedimento che va determi-
nato sulla base della norma di conferimento del potere.
Il contenuto dell'atto discrezionale può essere integrato con clausole accessorie che fissano condizioni e
altre prescrizioni particolari (elementi accidentali): esse non possono snaturare il contenuto tipico del prov-
vedimento e devono essere coerenti con il fine pubblico previsto dalla legge attributiva del potere.
Tra gli elementi dell'atto amministrativo, non assume rilievo autonomo la causa, perché i poteri ammini-
strativi sono tutti riconducibili a schemi tipici individuati per legge.
Con riferimento all'atto amministrativo ricorre invece più frequentemente la nozione di motivi dell'atto,
cioè le ragioni di interesse pubblico poste alla base del provvedimento.
5. Le ragioni sostanziali che stanno alla base dell'atto amministrativo (i motivi) si desumono da un quinto
elemento, cioè dalla motivazione. Quest'ultima è la parte del provvedimento che enuncia i presupposti di
fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione in relazione alle risul-
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tanze dell'istruttoria. Nel caso in cui il provvedimento si fondi su una pluralità di motivi, è sufficiente che
uno solo sia conforme alla legge per salvaguardarne la legittimità (prova di resistenza).
L'obbligo di motivazione, la cui violazione può essere una causa di annullabilità, costituisce uno dei principi
generali del regime degli atti amministrativi che lo differenzia da quello sia degli atti legislativi sia degli atti
negoziali.
La motivazione adempie a tre funzioni:
• promuove la trasparenza dell'azione amministrativa perché esplicita le ragioni sottostanti le scelte am-
ministrative;
• rende più agevole l'interpretazione del provvedimento amministrativo;
• costituisce una garanzia per il soggetto privato che subisca dal provvedimento un pregiudizio perché
consente un controllo giurisdizionale più incisivo sull'operato dell'amministrazione.
Nella motivazione l'amministrazione deve dar di conto di tutti gli elementi rilevanti, acquisiti nel corso
dell'istruttoria procedimentale, che l'hanno indotta a operare una determinata scelta, cioè nella motivazio-
ne deve essere possibile ricostruire l’iter logico seguito dall’amministrazione per addivenire ad una certa
determinazione.
La motivazione può essere anche per relationem, cioè con un rinvio ad altro atto acquisito al procedimento
del quale si fanno proprie le ragioni.
La motivazione assume particolare importanza nel caso di provvedimenti discrezionali, mentre in quelli vin-
colati essa può essere limitata all'enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che giustificano l'eserci-
zio del potere.
Essa è infatti lo strumento principale per sindacare la legittimità, in particolare in termini di ragionevolezza
e di proporzionalità, delle scelte operate dall'amministrazione. In generale, quanto più ampio è l'ambito
della discrezionalità tanto più stringente è da ritenere l'obbligo di motivazione.
L'art.3,2. 241/1990 esclude dall'obbligo di motivazione gli atti normativi e quelli a contenuto generale.
Tuttavia si è riacceso il dibattito, sulla motivazione del provvedimento, in seguito ad alcune disposizioni
contenute nella l.n. 15/2005, di riforma della legge n.241/1990, e nella legge 190/2012, che sembrano in-
dicare direttrici contrastanti.
Per un verso: L'art.6,1, 241/1990 prevede ora che l'organo competente ad adottare un provvedimento
amministrativo, ove ritenga di discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del pro-
cedimento, deve indicare nella motivazione le ragioni. Un obbligo di motivazione è stato introdotto anche
per gli accordi tra amministrazione e privati aventi per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimen-
to, equiparando così ancor più il loro regime a quello ordinario dell'atto amministrativo.
Per altro verso: l'art.21-octies,2 l. n. 241/1990 esclude che il provvedimento possa essere annullato per vizi
formali o procedurali ove il contenuto dispositivo del medesimo in ogni caso non avrebbe potuto essere di-
verso.
Si discute dunque se la motivazione abbia perso in parte la sua rilevanza e possa essere per così dire
“dequotata” a vizio meramente formale. Ciò che importa è che la decisione sia sorretta da ragione valide,
anche se non esternate nella motivazione.
Si pone così la questione di se ed entro quali limiti sia superato il divieto tradizionale dell'integrazione della
motivazione nel corso del giudizio, enunciato dalla giurisprudenza amministrativa, e dunque dell'ammissibi-
lità della cosiddetta motivazione successiva (o postuma).
6. Infine ultimo elemento è la forma dell'atto amministrativo. È richiesta di regola la forma scritta (per gli
atti degli organi collegiali è prevista la verbalizzazione). In taluni casi l'atto può essere esternato oralmente
(l'ordine di polizia), oppure l'atto può essere sottoscritto con la firma digitale e comunicato utilizzando le
tecnologie informatiche.
L'atto amministrativo può assumere, a determinate condizioni, la veste formale di un accordo tra l'ammini-
strazione titolare del potere e il privato destinatario degli effetti volto a determinare il contenuto discrezio-
nale del provvedimento. Si prevede al riguardo i cosiddetti accordi integrativi o sostitutivi per i quali è pre-
scritta a pena di nullità la forma scritta.
La nozione di provvedimento implicito emersa in giurisprudenza, cioè che si ricava da un altro provvedi-
mento espresso o da un comportamento concludente dei quali costituisca un presupposto necessario (no-
mina di un dipendente pubblico che, senza l’adozione di un atto formale, venga inserito
nell’organizzazione).

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Completata l'analisi degli elementi strutturali dell'atto amministrativo, va sottolineato gli “elementi essen-
ziali” del provvedimento, la mancanza dei quali costituisce una delle cause di nullità. Gli elementi essenziali
dell'atto amministrativo non sono elencati in modo puntuale dalla legge e dunque essi vanno individuati in
via di interpretazione.
Per identificare l'atto amministrativo e il suo contenuto dispositivo soccorrono le regole di interpretazione
che sono quelle previste in via generale dal codice civile per l'interpretazione dei contratti (1362). La giuri-
sprudenza ritiene peraltro che alcune di esse non possono essere applicate ai provvedimenti (è il caso degli
artt. 1370 e 1371).

Su un piano più descrittivo, l'atto amministrativo indica nell'intestazione l'autorità emanante, contiene nel
preambolo i riferimenti alle norme legislative e regolamentari che fondano il potere esercitato, richiama gli
atti endoprocedimentali e altri atti ritenuti rilevanti e la motivazione, enuncia nel dispositivo la determina-
zione o situazione finale. Reca anche la data e la sottoscrizione e menziona i destinatari e l'organo giurisdi-
zionale cui è possibile ricorrere contro l'atto e il termine entro il quale il ricorso va proposto.

7. I provvedimenti ablatori reali, i provvedimenti ordinatori e le sanzioni amministrative


Per quanto riguarda la tipologia dei provvedimenti amministrativi va fatta una premessa: classificazioni e
sub classificazioni hanno più che altro un valore descrittivo di una realtà che nella legislazione amministra-
tiva si presenta variegata.
Bisogna distinguere da un lato i poteri il cui esercizio determina effetti limitativi della sfera giuridica del de-
stinatario ai quali sono correlati gli interessi legittimi oppositivi, e dall'altro poteri il cui esercizio determina
effetti ampliativi della sfera giuridica del destinatario ai quali sono correlati gli interessi legittimi pretensi-
vi.
Le principali subcategorie dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei destinatari sono i provvedi-
menti ablatori, gli ordini e le diffide, i provvedimenti sanzionatori.

I provvedimenti ablatori reali


Tra i provvedimenti ablatori (reali, personali, obbligatori) rientra in realtà un amplissima gamma di atti au-
toritativi che restringono la sfera personale patrimoniale e personale del destinatario, estinguendo o modi-
ficando una situazione giuridica soggettiva attraverso l'imposizione di prestazioni (imposte,tributi) o obbli-
ghi di fare o non fare.
Tra i provvedimenti ablatori reali va ricordata sopratutto l'espropriazione per pubblica utilità, nella quale
si manifesta al massimo grado il conflitto tra interesse pubblico e gli interessi privati. Da un lato si consente
alla pubblica amministrazione all'esito di un procedimento articolato, di trasferire coattivamente il diritto di
proprietà del privato all'amministrazione o al soggetto beneficiario dell'espropriazione, prescindendo dal
consenso di quest'ultimo; dall'altro attribuendo al privato il diritto, che è costituzionalmente garantito, a un
indennizzo ( art. 42). L'indennizzo non deve coincidere necessariamente con il valore di mercato, ma non
deve essere comunque irrisorio.
Tra i provvedimenti ablatori reali rientra anche l'occupazione temporanea preordinata all’espropriazione di
opere dichiarate indifferibili e urgenti che consente così la presa in possesso e l’avvio immediato del lavori
nelle more della conclusione del procedimento espropriativo.

I provvedimenti ordinatori
Tra i provvedimenti ablatori personali vanno collocati gli ordini amministrativi e i provvedimenti che im-
pongono ai destinatari obblighi di fare o di non fare puntuali.
Nelle organizzazioni improntate al principio gerarchico (l'esercito e le forze di polizia), l'ordine è lo stru-
mento in base al quale il titolare dell'organo o dell'ufficio sovraordinato impone la propria volontà e guida
all'attività dell'organo o dell'ufficio sottordinato. Esso presuppone che l’ambito della competenza attribuito
a quest’ultimo sia inclusa nell’ambito della competenza del primo.
Se l’ordine appare illegittimo, l’impiegato è tenuto a farne reclamo motivato al superiore, il quale ha sem-
pre il potere di rinnovarlo per iscritto. In questo caso l’impiegato è tenuto a darvi esecuzione, a meno che

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non si tratti di un atto vietato dalla legge penale. La mancata osservanza dell’ordine impartito può compor-
tare l’adozione di sanzioni disciplinari.
Gli ordini amministrativi possono essere previsti anche al di fuori dei rapporti interorganici e dunque ri-
guardare rapporti intersoggettivi tra l’amministrazione titolare del potere e i soggetti privati destinatari.
Gli ordini di polizia sono emanati dalle autorità di pubblica sicurezza. Tra di essi vi è l'invito a comparire di-
nanzi all'autorità di pubblica sicurezza entro un termine assegnato, la cui inosservanza è sanzionata anche
penalmente, oppure l'ordine di sciogliere una riunione o un assembramento che metta in pericolo l'ordine
pubblico preceduto da un invito e da tre intimazioni formali.
Gli ordini di polizia, al pari degli altri provvedimenti dell'autorità di pubblica sicurezza, sono dotati di esecu-
torietà, cioè possono essere eseguiti in via amministrativa.
L’effettività di questo provvedimento è rafforzata, sotto il profilo penale, da una figura di reato che punisce
chiunque non osservi un provvedimento legalmente dato da un’autorità amministrativa, emanato per ra-
gioni di sicurezza pubblica o di ordine pubblico.
L'imposizione di obblighi comportamentali che hanno contenuto prescrittivo ordinatorio, è prevista da nu-
merose leggi, specie nell'ambito di rapporti con autorità preposte alla vigilanza di categorie di imprese o a
controlli su attività private, per esempio in materia bancaria e creditizia.
Un'altra tipologia di provvedimenti ordinatori è costituita dalla diffida, che consiste nell'ordine di cessare
da un determinato comportamento posto in essere in violazione di norme amministrative, anche con la fis-
sazione di un termine per eliminare gli effetti dell'infrazione. La diffida può comportare in caso di inottem-
peranza sanzioni di tipo amministrativo. Un esempio di diffida è il potere attribuito all’autorità competente
al controllo degli scarichi di acque inquinanti di ordinare al titolare dell’autorizzazione, che non rispetta le
condizioni in essa contenute, di cessare il comportamento entro un termine determinato.

Le sanzioni amministrative
Le sanzioni amministrative costituiscono un'altra tipologia di provvedimenti restrittivi della sfera giuridica
del destinatario. Esse sono volte a reprimere illeciti di tipo amministrativo e hanno dunque una funzione
afflittiva e una valenza dissuasiva. Le sanzioni amministrative sono previste dalle leggi amministrative sia in
caso di violazione dei precetti in esse contenuti (es: sanzioni contenute nel Codice della strada), sia nel caso
di violazione dei provvedimenti emanati sulla base di tali leggi (es: previste dal Testo unico degli enti locali).
In molti casi, la minaccia delle sanzioni amministrative è accresciuta dalla previsione, per gli stessi compor-
tamenti, di sanzioni di tipo penale. In realtà sussiste un certo grado di fungibilità tra sanzioni penali e san-
zioni amministrative, tanto da giustificare interventi periodici del legislatore vuoi nella direzione di depena-
lizzare gli illeciti minori, vuoi, anche, con minor frequenza nella direzione opposta.
La legge 689/1981 detta una disciplina generale delle sanzioni amministrative, richiamando a sé una serie
di principi tipicamente penalistici: il principio di legalità; il principio della personalità; le regole relative al
concorso di persone; la non trasmissibilità agli eredi.
Le sanzioni amministrative sono riconducibili a più tipi: le sanzioni pecuniarie, che fanno sorgere l'obbligo
di pagare una somma di danaro determinata entro un minimo e un massimo stabilito dalla norma; le san-
zioni interdittive che incidono sull'attività posta in essere dal soggetto destinatario del provvedimento (so-
spensione da un albo professionale); le sanzioni disciplinari (talvolta accompagnate da sanzioni accessorie).
Le sanzioni amministrative pecuniarie presentano alcune peculiarità. L'obbligazione pecuniaria grava a ti-
tolo di solidarietà in capo a soggetti diversi da colui che pone in essere il comportamento illecito (es: l'ente
del quale è dipendente l’autore dell’illecito). Inoltre è data la facoltà di estinguere l'obbligazione tramite il
pagamento di una somma in misura ridotta (oblazione) entro 60 giorni dalla contestazione della violazione,
cioè prima che abbia corso il procedimento in contraddittorio per l'accertamento dell'illecito. L’oblazione
evita dunque che si arrivi a un accertamento definitivo dell’illecito e per l’amministrazione ha il vantaggio di
non gravare gli uffici di un’attività istruttoria talora onerosa.
Le sanzioni disciplinari si applicano a soggetti che intrattengono una relazione particolare con le pubbliche
amministrazioni (dipendenti pubblici) e sono volte a colpire comportamenti posti in violazione di obblighi
speciali collegati allo status particolare (doveri di servizio). Esse consistono a seconda della gravità dell'ille-
cito, nell'ammonizione (o censura), nella sospensione del servizio o dall'albo per un periodo di tempo de-
terminato, nella radiazione da un albo o nella destituzione. Le sanzioni disciplinari sono regolate da leggi
speciali e non dalla legge 689/1981.

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Sotto il profilo funzionale va posta anche la distinzione tra sanzioni in seno proprio, che hanno una valenza
essenzialmente repressiva e punitiva del colpevole, e sanzioni cosiddette ripristinatorie, che hanno come
scopo principale quello di reintegrare l'interesse pubblico leso da un comportamento illecito.
Le sanzioni amministrative sono applicate di regola soltanto nei confronti della persona fisica del trasgres-
sore cioè in coerenza con il carattere personale della responsabilità. La persona giuridica può essere chia-
mata a rispondere solo a titolo di responsabilità solidale e, in ogni caso, l'ente che paghi la sanzione può e-
sercitare l'azione di regresso nei confronti dell'autore dell'illecito.
Una particolare forma di responsabilità è la responsabilità amministrativa delle imprese e degli enti “per
gli illeciti amministrativi dipendenti da reato”. Questa responsabilità sorge direttamente in capo all'ente
“per reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio” dagli amministratori e dipendenti; ciò comporta
l’applicazione di sanzioni pecuniarie e interiettive come, ad esempio, la sospensione o revoca di licenze.
L’ente può sottrarsi a questo tipo di responsabilità solo se dimostra di aver adottato modelli di organizza-
zione atti a minimizzare il rischio della commissione di reati.

8. Le attività libere sottoposte a regime di comunicazione preventiva. La segnalazione certificata


di inizio attività
I provvedimenti amministrativi correlati a poteri il cui esercizio determina effetti ampliativi nella sfera giu-
ridica del destinatario sono essenzialmente quelli di tipo autorizzativo. Per trattare questa tipologia di
provvedimenti occorre fare una premessa generale.
Negli ordinamenti giuridici fondati sullo Stato di diritti di matrice liberale, l'attività dei privati, in linea di
principio, è libera, nel senso che essa è sottoposta esclusivamente al diritto comune. Vale cioè la regola che
è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato, salvi i limiti generali posti dall'ordinamento civile e
dai principi quali quello del neminem ledere. Tuttavia, nei casi in cui l’attività dei privati può interferire o
mettere a rischio un interesse della collettività, vi sono regole speciali volte a porre prescrizioni e vincoli
particolari, sempre nel rispetto del principio di proporzionalità (la misura introdotta deve comportar il mi-
nor sacrificio possibile dell’interesse del privato).
Così il rispetto delle norme poste dalle leggi amministrative può essere assicurato in un primo gruppo di ca-
si esclusivamente attraverso un'attività di vigilanza, che può portare all'esercizio di poteri repressivi e san-
zionatori se vengono accertate violazioni. Per esempio il pedone o il ciclista che non rispetti le regole poste
dal codice della strada.
Per agevolare i controlli effettuati dall'amministrazione, in un secondo gruppo di casi di attività libere nel
senso ora precisato, la legge grava i privati di un obbligo di comunicare preventivamente a una pubblica
amministrazione l'intenzione di intraprendere un'attività. Per esempio agricoltore che voglia vendere diret-
tamente al dettaglio i propri prodotti deve darne comunicazione al comune.
La fattispecie delle attività libere regolate da leggi di tipo amministrativo e sottoposte a un regime di co-
municazione preventiva è ora disciplinata in termini generali dall'art. 19.241/1990. Questo articolo prevede
l'istituto della segnalazione certificata d'inizio attività (SCIA).
La SCIA riconduce una serie di attività, per le quali in precedenza era previsto un regime di controllo pre-
ventivo (ex ante) sotto forma di “autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta
comunque denominato”, a un regime meno intrusivo di controllo successivo (ex post), effettuato cioè
dall'amministrazione una volta ricevuta la comunicazione di avvio dell'attività.
L'avvio dell'attività può essere contestuale alla presentazione della dichiarazione. Il privato deve corredare
la segnalazione con un'autocertificazione del possesso dei presupposti e requisiti previsti dalla legge per lo
svolgimento dell'attività. In caso di dichiarazioni mendaci scattano sanzioni amministrative e penali.
La SCIA non ha la natura di una istanza che dà avvio a un procedimento amministrativo volto al rilascio di
un titolo abilitativo, essa ha soltanto la funzione di sollecitare l'amministrazione a verificare se l'attività in
questione è conforme alle norme amministrative e a richiedere se del cosa informazioni e chiarimenti.
In caso di “accertata carenza dei requisiti e dei presupposti” previsti dalla legge per lo svolgimento dell'atti-
vità l'amministrazione, nel termine di 60 giorni, può richiedere al privato di conformare l'attività alla nor-
mativa vigente entro un termine fissato. Ove ciò non avvenga, emana un provvedimento motivato di divie-
to di prosecuzione dell'attività e di rimozione dei suoi effetti.
Le attività assoggettate al regime della SCIA restano dunque libere.

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Vero è peraltro che anche dopo la scadenza del termine di 60 giorni per l’attività di controllo,
l’amministrazione può esercitare i poteri di vigilanza, prevenzione e controllo e persino attivare il potere di
autotutela se vi è pericolo di un danno pubblico (quest’ultimo crea perplessità perché l’autotutela dovreb-
be avere ad oggetto solo i provvedimenti amministrativi in senso proprio).
Il campo di applicazione della SCIA, che non è definito in modo specifico, prevede che questa sostituisca di
diritto ogni atto di tipo autorizzativo “il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento di requisiti e
presupposti richiesti dalla legge”, cioè ogni atto di tipo vincolato. Inoltre deve trattarsi si atti autorizzativi
per i quali non occorra individuare qualche criterio per selezionare gli aspiranti a svolgere l’attività e attiva-
re di conseguenza un procedimento comparativo che risulterebbe incompatibile con l’avvio della stessa sul-
la base di una semplice comunicazione.
La SCIA ha dato origine a un dibattito dottrinale circa la sua natura.
La SCIA, secondo alcune ricostruzioni, sarebbe una forma di “autoamministrazione” dei privati, resa possi-
bile proprio dal fatto che lo svolgimento dell'attività è subordinato dalle leggi amministrative alla presenza
di presupposti e requisiti vincolati, la sussistenza dei quali, in una fattispecie concreta, può essere accertata
in modo agevole dal soggetto interessato che valuta autonomamente la propria situazione e per così dire,
emana l'atto autorizzativo “in luogo” dell'amministrazione.
Le ricostruzioni più recenti, avallate dalla giurisprudenza amministrativa, riconducono la SCIA all’ambito
delle attività libere, anche se conformate dalle leggi amministrative, sottoposte a vigilanza da parte delle
autorità pubbliche.
Resta peraltro incerta la questione della tutela del terzo che affermi di subire una lesione nella propria sfe-
ra giuridica per effetto dell'avvio dell'attività. Infatti, mentre l'autorizzazione espressa costituisce un atto
impugnabile da parte del terzo che vuole opporsi all'avvio dell'attività nel caso della SCIA manca un provve-
dimento che consenta il ricorso al giudice amministrativo da parte del terzo.
Una disposizione legislativa ha precisato che la dichiarazione di inizio attività e la denuncia della stessa non
costituiscono provvedimenti direttamente impugnabili; dunque il terzo che desideri contrastare l'avvio
dell'attività deve invitare l'amministrazione a emanare un provvedimento che ne vieti l'avvio o la prosecu-
zione e se l'amministrazione non provvede può rivolgersi al giudice per far accertare l'obbligo di provvede-
re.

9. Le autorizzazioni e le concessioni
I regimi che subordinano l’avvio dell’attività a un provvedimento di assenso (controllo ex ante) determina-
no effetti ampliativi della sfera giuridica del privato.
I regimi autorizzatori possono essere istituiti o mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi di interes-
se generale (indicati in un elenco tassativo piuttosto esteso). L'autorizzazione preventiva è giustificata
quando l'obiettivo della tutela dell'interesse pubblico non può essere conseguito tramite una misura meno
restrittiva, in particolare in quanto un controllo a posteriori interverrebbe troppo tardi per avere reale effi-
cacia.
Nell'ambito del modello del controllo preventivo sulle attività dei privati vanno considerate principalmente
le autorizzazioni e le concessioni.
1. L'autorizzazione è l'atto con il quale l'amministrazione rimuove un limite all'esercizio di un diritto sogget-
tivo del quale è già titolare il soggetto che presenta la domanda. Il suo rilascio presuppone una verifica del-
la conformità dell'attività ai parametri normativi posti a tutela dell'interesse pubblico (funzione di control-
lo).
Le autorizzazioni danno origine al fenomeno dei diritti soggettivi in attesa di espansione, il cui esercizio è
subordinato a una verifica preventiva da parte di una p.a. [l’amministrazione ha un potere “confermativo”;
il soggetto privato vanta una posizione di interesse legittimo (pretensivo) che fa coppia con il diritto sogget-
tivo preesistente].
La concessione è invece l'atto con il quale l'amministrazione attribuisce ex novo o trasferisce la titolarità di
un diritto soggettivo in capo a un soggetto privato [il soggetto privato è titolare di un interesse legittimo
(pretensivo) allo stato puro, solo in seguito all’emanazione del provvedimento concessorio sorge in capo ad
egli un diritto sogg. pieno].
Sotto il profilo funzionale l'autorizzazione è uno strumento di controllo da parte dell'amministrazione sullo
svolgimento dell'attività allo scopo di verificare preventivamente che esse non si ponga in contrasto con un

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interesse pubblico. L'autorizzazione spesso si esaurisce senza che si instauri una relazione stabile con l'am-
ministrazione che vada al di là di una generica attività di vigilanza da parte di quest’ultima sulla permanenza
in capo al soggetto privato delle condizioni previste dalla legge.
La concessione instaura in molti casi un rapporto di lunga durata con il concessionario caratterizzato da di-
ritti e obblighi reciproci e da poteri di vigilanza più continuativa e talora anche di indirizzo delle attività po-
ste in essere in base alla concessione. La concessione costituisce spesso uno strumento attraverso il quale
l’amministrazione affida a soggetti privati la gestione di beni, attività o prerogative proprie.
La concessione può avere dunque una valenza di tipo organizzativo e può realizzare una forma di partena-
riato pubblico-privato. Le concessioni si suddividono in due subcategorie:
- le concessioni traslative à trasferiscono in capo a un soggetto privato un diritto o un potere del quale è
titolare l'amministrazione. Un esempio è la concessione dell'uso di un bene demaniale per l'installazione
di uno stabilimento balneare.
- le concessioni costitutive àattribuiscono al soggetto privato un nuovo diritto (onorificenza).
Quanto all'oggetto, invece, le concessioni sono riconducibili a varie specie:
Vi sono le concessioni di beni pubblici, come in particolare i beni demaniali sui quali possono essere attribu-
ti diritti d'uso esclusivi.
Una seconda specie è data dalle concessioni di servizi pubblici o di attività ancor oggi sottoposte a un regi-
me di monopolio legale o di riserva di attività a favore dello Stato o di enti pubblici come ad esempio la di-
stribuzione dell'energia.
Una terza specie è data dalle concessioni di lavori o di servizi assimilati dal Codice dei contratti pubblici e
normali contratti (concessioni≠contratti di appalto di lavoro e servizi).
Rientrano infine nel fenomeno concessorio alcuni tipi di sovvenzioni, sussidi e contributi di danaro pubblico
erogati, spesso con criteri discrezionali per il perseguimento di interessi pubblici.

2. La bipartizione delle autorizzazioni e delle concessioni appare troppo rigida e si individua così all'interno
di ciascuna categoria, una serie di subcategorie intermedie.
In particolare, la distinzione tra autorizzazioni costitutive, talune connotate da un'ampia discrezionalità e in
relazioni alle quali è dubbia la preesistenza di un diritto soggettivo in capo al privato; autorizzazioni per-
missive che operano come condiciones juris, cioè come fatti permissivi o ostativi all'esercizio di una deter-
minata attività con funzione talora di mero controllo di quest'ultima; autorizzazioni ricognitive volte in pre-
valenza a valutare l'idoneità tecnica di persone o di cose (abilitazioni).
Tra le categorie ibride vanno menzionate anche le licenze aventi due caratteristiche:
- riguardano attività nelle quali non sono rinvenibili preesistenti diritti soggettivi dei soggetti privati;
- il loro rilascio è subordinato a valutazioni di tipo tecnico o discrezionale o di coerenza con un quadro
programmatorio.
La dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato la nozione di concessione-contratto volta ad attenuare il
carattere unilateral-pubblicistico dell'atto concessorio. Infatti ci si rese conto che, soprattutto nei casi di af-
fidamento della gestione di servizi pubblici per periodi di tempo prolungati e richiedenti la realizzazione di
infrastrutture complesse e onerose, l’unilateralità della concessione era una finzione; in realtà i privati con-
cessionari pretendevano garanzie per investimenti di lunga durata e altri impegni da parte del concedente
incompatibili con la concezione autoritaria tipica del provvedimento amministrativo discrezionale.
Con la concessione-contratto il fenomeno concessorio si sdoppia così in due componenti:
- un provvedimento (atto di sovranità) volto ad attribuire al concessionario il diritto a svolgere una certa
attività;
- un contratto o una convenzione volti a regolare su base paritaria i diritti e gli obblighi delle parti
nell'ambito di un rapporto di durata.
Di fatto poi, nonostante la posizione formale di sovraodinazione dell'amministrazione che rilascia la conces-
sione, la parte contrattualmente più forte finisce spesso per essere l'impresa privata che gestisce il servizio.

3.1 La distinzione tra autorizzazioni e concessioni ha richiesto un ripensamento complessivo sia alla luce del
diritto europeo, sia alla luce del diritto interno.
La direttiva 123/2006 recepita con d.lgs 59/2010 dà una definizione onnicomprensiva di regime autorizza-
torio. Il diritto europeo è nemico della discrezionalità: subordinare l'esercizio di un'attività a una valutazio-

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ne discrezionale dell'amministrazione significa costituire una “barriera all'entrata” in un determinato mer-


cato nei confronti del privato o dell'impresa.
Proprio per questa ragione numerose direttive europee hanno trasformato i regimi di concessione discre-
zionale in regimi di autorizzazione vincolata: come es. in campo creditizio, ove prima era necessaria un rila-
scio di una concessione discrezionale da parte della Banca d'Italia, oggi invece può solo emettere una valu-
tazione tecnica ma non può impedire la formazione di nuovi istituti. Il regime concessorio venne così tra-
sformato in regime autorizzatorio espungendo ogni elemento di discrezionalità propriamente amministra-
tiva.
Le direttive di liberalizzazione emanate verso la fine del secolo scorso, volte a eliminare i regimi di monopo-
lio legale segnando, come si è visto il passaggio dallo Stato regolatore hanno interessato i grandi servizi
pubblici (energia elettrica, gas, poste). Da qui la sostituzione dei regimi concessori con regimi di autorizza-
zioni vincolate.
Il d.lgs 59/2010 enuncia il principio che l’accesso e l’esercizio delle attività di servizi “costituiscono espres-
sione della libertà di iniziativa economica” e individua una serie di requisiti di accesso all’attività vietati in
modo assoluto perché non giustificati o discriminatori: es. la richiesta della cittadinanza italiana: l'econo-
mia deve essere in libera concorrenza. Altri requisiti sono ammessi invece solo per motivi di interesse gene-
rale come la salute pubblica o l'ordine pubblico, tutela dei lavoratori es. la previsione di tariffe minime o
massime, di un numero minimo di dipendenti.
Nei casi in cui il numero delle autorizzazioni deve essere limitato “per ragioni correlate alla scarsità delle ri-
sorse naturali o delle capacità tecniche disponibili” o per altri motivi imperativi di interesse generale, il loro
rilascio deve avvenire attraverso una procedura di selezione pubblica sulla base di criteri resi pubblici, atti
ad assicurare l'imparzialità.
In definitiva, le condizioni alle quali i regimi autorizzatori subordinano l'accesso e l'esercizio di un'attività
di servizi devono essere, oltre che non discriminatorie e giustificate da un motivo di interesse generale
“chiare e inequivocabili”, “oggettive”, “rese pubbliche preventivamente”.

3.2 Nel diritto interno, con la sentenza delle Sezioni unite della Cass. 500/1990, la distinzione tra diritti
soggettivi e interessi legittimi non segna più la linea di confine della risarcibilità del danno conseguente a
un’attività amministrativa illegittima:ciò che conta è soltanto il c.d. giudizio prognostico, nel quale è essen-
ziale determinare se e quali margini di discrezionalità sussistano in capo all’amministrazione.

In conclusione alla luce dell'evoluzione del diritto europeo e del diritto interno, la distinzione più rilevante
in materia di autorizzazioni e concessioni, è tra atti vincolati e atti discrezionali, tra “autorizzazioni discre-
zionali costitutive” e “autorizzazioni vincolate ricognitive”. Nelle prime l'atto amministrativo è la fonte di-
retta dell'effetto giuridico prodotto ; nelle seconde l'effetto giuridico, si ricollega direttamente alla legge,
cioè al verificarsi in concreto di un fatto sussumibile nella norma.
In ogni caso, la presenza o meno della discrezionalità assume un rilievo determinante in caso di diniego ille-
gittimo dell'atto autorizzativo ai fini della tutela giurisdizionale. Infatti la natura vincolata o discrezionale
del potere condiziona la possibilità di veder accolta da parte del giudice amministrativo la cosiddetta azione
di adempimento, cioè l'azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto.

10. Gli atti dichiarativi


Negli atti amministrativi dichiarativi il momento volitivo, tipico dei provvedimenti, è assente, invece, questi
hanno una funzione meramente ricognitiva e dichiarativa finalizzata alla produzione di certezze giuridiche.
Nella categoria degli atti dichiarativi rientrano le certificazioni. L'amministrazione pubblica organizza, ela-
bora, verifica la correttezza e detiene stabilmente una gran massa di dati e informazioni in registri, elenchi,
albi (data di nascita, cittadinanza, stato civile).
Le certificazioni relative a questo tipo di dati si ricollegano alla funzione di “certezza pubblica”; quest’ultima
si realizza con due modalità:
- la tenuta e l'aggiornamento di registri, albi, elenchi pubblici nei quali certe categorie di soggetti o di be-
ni possono essere iscritti in base a procedimenti tipizzati e in relazione al possesso di determinati requi-
siti;

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- la messa a disposizione ai soggetti interessati dei dati in essi contenuti per mezzo di attestazioni e certi-
ficazioni che costituiscono la modalità tradizionale per dimostrare il possesso di presupposti e requisiti
richiesti ai privati per potere svolgere molte attività.
In molti casi le certificazioni possono essere sostituite con l'autocertificazione, cioè tramite una dichiara-
zione formale assunta sotto propria responsabilità del soggetto. L'amministrazione che utilizza il dato auto-
certificato nell'ambito di un procedimento può verificarne, almeno a campione, la correttezza e deve farlo
nei casi in cui sorgono dubbi sulla veridicità delle dichiarazioni. Se l'autocertificazione è falsa possono esse-
re irrogate sanzioni anche di tipo penale. Inoltre in caso di dichiarazioni mendaci e di false attestazioni vie-
ne disposta nei confronti dell’interessato la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti dal provve-
dimento emanato in base alla dichiarazione non veritiera.
Tra gli atti dichiarativi vanno inclusi i cosiddetti atti paritetici. Si tratta di una categoria di atti elaborata dal-
la giurisprudenza amministrativa per attribuire al giudice amministrativo la cognizione di diritti soggettivi in
aggiunta ai tradizionali interessi legittimi. È un atto meramente ricognitivo di un assetto già definito in tutti
i suoi elementi dalla norma
attributiva di un diritto soggettivo, e serviva a superare il termine dei 60 gg, e quindi il privato poteva far
valere la sua richiesta secondo i normali termini di prescrizione.
Un'altra specie di atti dichiarativi è costituita dalle verbalizzazioni, che consistono nella “narrazione storico
giuridica” da parte di un ufficio pubblico di atti, fatti e operazioni avvenuti in sua presenza. Il processo ver-
bale così redatto può essere poi incluso tra gli atti di un procedimento in senso proprio volto per esempio a
sanzionare il comportamento illecito sul piano amministrativo. La verbalizzazione assume un rilievo partico-
lare i relazione alle attività deliberative degli organi collegiali.
Tra gli atti amministrativi non provvedimentali vanno menzionati i pareri e le valutazioni tecniche. Esse so-
no manifestazioni di giudizio da parte di organi o enti pubblici contenenti valutazioni e apprezzamenti in
ordine a interessi pubblici secondari o a elementi di carattere tecnico di cui l'amministrazione titolare del
potere amministrativo e competente a emanare un provvedimento amministrativo deve tenere in conside-
razione.

11. Altre classificazioni: atti collettivi, atti plurimi, atti di alta amministrazione, atti collegiali
I provvedimenti amministrativi possono essere classificati anche in base ad altri criteri.
1. il criterio dei destinatari del provvedimento consente di individuare anzitutto la categoria degli atti am-
ministrativi generali. Questi atti si rivolgono, anziché a singoli destinatari, a classi omogenee più o meno
ampie di soggetti (determinabili in concreto solo in un momento successivo all'emanazione dell'atto).
Dagli atti generali vanno tenuti distinti gli atti collettivi e gli atti plurimi, anche i primi si indirizzano a cate-
gorie, generalmente ristrette, di soggetti considerati in modo unitario, i quali, però, a differenza degli atti
generali, sono già individuati con precisione individualmente. Gli atti plurimi invece, sono atti rivolti
anch'essi a una pluralità di soggetti, ma i loro effetti, a differenza di quanto accade per gli atti collettivi, so-
no scindibili in relazione a ciascun destinatario.
La distinzione rileva sopratutto in sede di tutela giurisdizionale, a differenza di quanto accade per gli atti
collettivi, l'impugnazione proposta da uno dei destinatari dell'atto plurimo, proprio in virtù della scindibilità
degli effetti, non può andare a beneficio né intaccare la situazione giuridica soggettiva degli altri destinata-
ri.
2. In base al criterio della natura della funzione esercitata e dell'ampiezza della discrezionalità è stata ela-
borata la tipologia degli atti di alta amministrazione. Questa fattispecie è emersa per distinguere gli atti
amministrativi dagli atti politici, quest’ultimi non sottoposti a regime del provvedimento amministrativo.
L'atto politico comprende quegli atti che, a differenza di quelli amministrativi, sono liberi nel fine e che so-
no emanati da un organo costituzionale (in particolare il governo) nell'esercizio di un funzione di governo.
Altri atti del governo, definiti atti di alta amministrazione, hanno invece natura amministrativa, tra di essi
rientrano i provvedimenti di nomina e revoca dei vertici militari o dei ministeri o dei direttori generali delle
aziende sanitarie locali. Questi atti operano un raccordo tra la funzione di indirizzo politico e la funzione
amministrativa. In quanto atti amministrativi esse devono essere motivati e sono impugnabili innanzi al
giudice amministrativo, il quale però esercita su di essi un sindacato meno intenso, limitandosi a rilevare le
violazioni più macroscopiche dei principi che presiedono all’esercizio del potere discrezionale.

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3. Un altro criterio di distinzione riguarda la provenienza soggettiva del provvedimento. Ci sono casi nei
quali il provvedimento è emanato da un organo competente di tipo monocratico e, casi nei quali il provve-
dimento è espressione della volontà di più organi o soggetti e ha dunque natura di atto complesso. Vanno
menzionati anche gli atti collegiali nei quali il provvedimento è emanato da un organo composto da una
pluralità di componenti designati con vari criteri (elezione, nomina da parte di organi politici o in rappre-
sentanza di enti pubblici).
Le delibere assunte dagli organi collegiali avvengono con modalità procedurali definite negli statuti o nei
regolamenti dei singoli enti e amministrazioni. La riunione del collegio viene convocata di regola dal presi-
dente e a ciascuno dei componenti è comunicato in anticipo l'ordine del giorno. Prima di procedere alla di-
scussione e all'assunzione della delibera va verificata la presenza alla riunione del numero legale (quorum
costitutivo). La delibera è validamente assunta ove sia approvata dalla maggioranza (semplice, qualificata)
dei presenti (quorum deliberativo). La delibera è riferibile unitariamente all’organo collegiale, ma le even-
tuali responsabilità non ricadono sui componenti assenti o dissenzienti.
Di tutte le operazioni, inclusa la votazione, dà conto il verbale della seduta, predisposto da un segretario
verbalizzante e approvato dall'organo collegiale nella seduta successiva.

12. L’invalidità dell’atto amministrativo


Anzitutto va precisato che non tutti i casi di difformità tra il provvedimento e le norme che lo disciplinano
dà origine a invalidità. Nei casi di imperfezioni minori, l'atto è semplicemente irregolare ed è suscettibile di
rettifica o regolarizzazione.
Si ha invalidità allorché la difformità tra atto e norme determina una lesione di interessi tutelati da queste
ultime e determina la nullità o di annullabilità dell’atto.
L’invalidità trova una disciplina compiuta nella l 241/1990 e nel Codice del processo amministrativo.
In sede di teoria generale viene operata una distinzione contenutistica tra norme che regolano una con-
dotta e norme che conferiscono poteri. Le prime impongono obblighi o attribuiscono diritti; le seconde
conferiscono poteri. Esse sono state variamente etichettate come norme primarie e secondarie, norme di
condotta e norme sulla produzione giuridica, norme di relazione e norme di azione.
I comportamenti che violano il primo tipo di norme sono qualificabili come illeciti e contro di essi l'ordina-
mento reagisce attraverso l'imposizione di sanzioni di varia natura (sanzioni penali, obbligo di risarcimen-
to). Gli atti posti in essere in violazione delle norme del secondo tipo sono qualificabili come invalidi e con-
tro di essi l'ordinamento reagisce disconoscendone gli effetti.
L'invalidità può essere definita più precisamente come la difformità di un negozio o di un atto dal suo mo-
dello legale. Essa può essere sanzionata, in funzione della gravità della violazione, secondo due modalità:
1. l'inidoneità dell'atto a produrre gli effetti giuridici tipici, cioè a creare diritti e obblighi o altre modifica-
zioni nella sfera giuridica dei soggetti dell'ordinamento (nullità);
2. l'idoneità a produrli in via precaria, cioè fin tanto che non intervenga un giudice che, accertata l'invali-
dità, rimuova con efficacia retroattiva gli effetti prodotti medio tempore (annullamento).
Si è affermato nel tempo il principio che equipara il provvedimento invalido a quello valido ai fini della
produzione dell'effetto giuridico tipico (salva sua successiva rimozione in seguito all'annullamento). Que-
sto principio appare infatti più rispettoso delle prerogative delle amministrazioni e dell'esigenza di consen-
tire la realizzazione immediata della cura in concreto dell'interesse pubblico. In definitiva, il regime dell'an-
nullabilità costituisce il regime ordinario del provvedimento amministrativo invalido, mentre la nullità è un
fenomeno marginale.
Viene operata un altra distinzione tra invalidità totale e parziale: la prima investe l'intero atto, la seconda
una parte di questo, lasciando inalterata la validità e l'efficacia della parte non affetta dal vizio. Anche il
provvedimento amministrativo può essere colpito da invalidità totale o parziale. Quest'ultima si ha nel caso
di provvedimenti con effetti scindibili, degli atti plurimi (es: se 1 dei vincitori deve essere escluso ciò non
travolge pure gli altri).
In genere si ritiene applicabile al provvedimento il principio enunciato dall’art 159 c.p.c., secondo il quale
l’invalidità di una parte dell’atto si estende alle altre parti solo ove esse siano strettamente dipendenti da
quella viziata. Può assumere rilievo anche il principio civilistico in base al quale la nullità di una parte o di
una clausola del contratto comporta la nullità del contratto solo quando risulta essenziale per la conclusio-
ne dello stesso (1419 c.c.).

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L'invalidità di un provvedimento può essere propria o derivata, originaria o sopravvenuta.


a. Nel caso di invalidità propria assumono rilievo diretto i vizi dei quali è affetto l'atto.
Nel caso di invalidità derivata, l'invalidità dell'atto discende per così dire per propagazione dall'invalidità di
un atto presupposto. L'invalidità derivata può essere di due tipi:
1. ad effetto caducante, e in questo caso travolge in modo automatico l'atto assunto sulla base dell'atto
invalido; L'effetto caducante si verifica in presenza di un rapporto di stretta casualità tra i due atti: il
secondo costituisce una mera esecuzione del primo. Se invece l’atto successivo non costituisce una
conseguenza inevitabile del primo, ma richiede ulteriori apprezzamenti, l’invalidità derivata ha soltan-
to un effetto viziante, con la conseguenza che essa deve essere fatta valere attraverso l’impugnazione
autonoma di quest’ultimo.
2. ad effetto invalidante, e in questo caso l'atto affetto da invalidità derivata, per quanto a sua volta in-
valido, conserva i suoi effetti fin tanto che non venga annullato.
b. Passando a considerare l'invalidità originaria e l'invalidità sopravvenuta, va premesso che in linea di
principio trova applicazione anche nel diritto amministrativo il principio del tempus regit actum, secondo il
quale la validità del provvedimento si determina con riguardo alle norme in vigore al momento della sua
adozione. Poiché l'esercizio del potere avviene nella forma del procedimento, cioè di una pluralità di atti
funzionalmente collegati e strumentali all'adozione del provvedimento finale, si pone talora la questione
delle conseguenze del mutamento delle norme vigenti sui procedimenti avviati, ma non ancora conclusi
(es: se successivamente alla presentazione di una domanda di concessione e all’avvio dell’istruttoria inter-
viene una normativa più ristrettiva, la concessione non può essere più rilasciata; in altri casi il mutamento
normativo non incide sulle procedure già iniziate).
Si parla di invalidità sopravvenuta dei provvedimenti amministrativi nel caso di legge retroattiva, di legge
di interpretazione autentica e di dichiarazione di illegittimità costituzionale. Nelle prime due ipotesi, la re-
troattività rende viziato il procedimento emanato in base alla norma abrogata. Nella terza ipotesi poiché le
sentenze di accoglimento della Corte costituzionale hanno efficacia retroattiva, esse rendono invalidi i
provvedimenti assunti sulla base delle norme dichiarate illegittime e ai rapporti giuridici sorti anteriormen-
te (tranne se i rapporti sono esauriti).

Conviene svolgere ancora due considerazioni generali sull'invalidità del provvedimento:


La prima è che l. n. 241/1990 non ha fatto altro che razionalizzare le acquisizioni giurisprudenziali e dottri-
nali. Così in primo luogo, la giurisprudenza interpretò subito la formula “eccesso di potere” non già come
“straripamento di potere”, bensì come “sviamento di potere”. Il primo si riferisce ai casi di macroscopico
sconfinamento dell'ambito di competenza da parte di un'autorità amministrativa; il secondo ai casi nei qua-
li il potere viene esercitato per un fine diverso da quello posto dalla norma attributiva del potere. In segui-
to, il giudice amministrativo, allo scopo di accertare l'eccesso di potere elaborò le cosiddette figure sinto-
matiche dell'eccesso di potere rendendo così sempre più penetrante il sindacato sulla discrezionalità am-
ministrativa.
In secondo luogo, la giurisprudenza individuò ipotesi nelle quali il provvedimento è affetto da deviazioni co-
sì abnormi dalla norma attributiva del potere o è addirittura emanato in assenza di una base legislativa tan-
to da non potere essere inquadrato all'interno del regime dell'illegittimità, che non far venir meno la forza
imperativa del provvedimento. Emerse così una tipologia di vizi più gravi sussunti nella categoria della ca-
renza del potere (in astratto e in concreto) o anche della nullità, in presenza dei quali il provvedimento
perde il carattere imperativo e dunque non è in grado di travolgere i diritti soggettivi.
Gli atti assunti in carenza di potere vennero pertanto attribuiti alla cognizione del giudice ordinario, mentre
gli atti con riferimento ai quali veniva contestato soltanto il cattivo esercizio del potere restarono affidati
alla cognizione del giudice amministrativo.
È stata anche elaborata la distinzione tra due tipi di comportamenti patologici dell'amministrazione.
Da un lato vi sono i “meri comportamenti” (o comportamenti senza potere) assunti in violazione di una
norma di relazione, cioè lesivi di un diritto soggettivo, e ascrivibili alla categoria della illiceità (danno a un
veicolo a causa della cattiva manutenzione della strada).
Dall'altro vi sono i comportamenti nei quali il collegamento funzionale tra provvedimento invalido e l'attivi-
tà materiale esecutiva posta in essere dall'amministrazione integra una violazione della norma attributiva

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del potere e lede un interesse legittimo, facendo confluire, in definitiva, l'intera fattispecie nell'ambito della
giurisdizione del giudice amministrativo.
Nel settore dell'espropriazione si contrappone “l'occupazione usurpativa” alla “occupazione appropriati-
va”.
- L’occupazione usurpativa si ha allorché il terreno viene occupato in carenza di qualsivoglia titolo (in via
di fatto o in carenza di potere); in questo caso i comportamenti che danno origine a un’occupazione u-
surpativa vanno qualificati come illeciti e sono attribuiti alla giurisdizione del giudice ordinario
- L’occupazione appropriativa allorché l'occupazione avviene nell'ambito di una procedura di espropria-
zione (a seguito della dichiarazione di pubblica utilità) ancorché illegittima. In questo caso, invece, i
comportamenti costituiscono esercizio, ancorché viziato da illegittimità, della funzione pubblica della
p.a. e pertanto sono inclusi nella giurisdizione del giudice amministrativo.
In definitiva la questione del riparto di giurisdizione ha reso necessario, sfumare la distinzione tra compor-
tamento e atto di esercizio del potere amministrativo, attraendo la fattispecie dei comportamenti ricondu-
cibili all'esercizio del potere nella categoria della illegittimità piuttosto che in quella della illiceità.
Il provvedimento illegittimo infatti, va qualificato come uno degli elementi costituivi dell'illecito extracon-
trattuale ai sensi dell'art.2043 c.c., cioè alla stregua di un qualsivoglia comportamento dell'amministrazione
assunto in violazione del principio del neminem ledere, e assume dunque rilievo non già una mera illegitti-
mità del provvedimento in sé ma un'illiceità della condotta complessiva.
Conviene, ora, individuare anzitutto le disposizioni rilevanti in tema di invalidità del provvedimento conte-
nute nella l. n. 241/1990 e nel Codice del processo amministrativo.
L'annullabilità è disciplinata dall'art.21-octies l. n. 241/1990 e dall'art 20 del Codice. Entrambe le disposi-
zioni riprendono la tripartizione dei vizi di legittimità, e cioè l'incompetenza, l'eccesso di potere e la viola-
zione di legge. La nullità è disciplinata invece dall'art.21-septies l. n. 241/1990, che individua quattro ipo-
tesi tassative, e dall'art. 31,4, Codice che disciplina l'azione di nullità.
A livello europeo, l'art.263 TFUE, per la tipologia dei vizi prevede quattro fattispecie: l'incompetenza, la vio-
lazione delle forme sostanziali, la violazione dei trattati e di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro appli-
cazione, lo sviamento di potere.
In definitiva, anche nel diritto europeo il regime ordinario dell'invalidità è quello dell'annullabilità.

13. L’annullabilità
L'atto amministrativo affetto da incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge viene qualificato
come illegittimo (e per tanto suscettibile di annullamento).
Le conseguenze dell'annullamento, cioè il venire meno degli effetti del provvedimento con efficacia retro-
attiva (ex tunc), non cambiano in relazione al tipo di vizio accertato (cosiddetta teoria della eguale rilevan-
za dei vizi). L'annullamento elimina comunque l'atto e i suoi effetti in modo retroattivo e grava sull'ammini-
strazione l'obbligo di porre in essere tutte le attività necessarie per ripristinare, per quanto possibile, la si-
tuazione di fatto e di diritto in cui si sarebbe trovato il destinatario dell'atto ove quest'ultimo non fosse sta-
to emanato (cosiddetto effetto ripristinatorio).
Ciò che varia in funzione del tipo di vizio è invece, il cosiddetto effetto conformativo dell'annullamento,
cioè il vincolo che sorge in capo all'amministrazione nel momento in cui essa emana un nuovo provvedi-
mento sostitutivo di quello annullato.
Da questo punto di vista la distinzione più rilevante è tra vizi formali e vizi sostanziali.
Infatti, se il vizio accertato ha natura formale o procedurale (error in procedendo) come la mancata acqui-
sizione di un parere obbligatorio o la rilevazione del vizio di incompetenza, non è da escludere che l'ammi-
nistrazione possa emanare un nuovo atto dal contenuto identico rispetto a quello dell'atto annullato. Se al
contrario, il vizio ha natura sostanziale (error in judicando) come per esempio la mancanza di un presuppo-
sto o di un requisito posto dalla norma attributiva del potere o un eccesso di potere per travisamento dei
fatti, l'amministrazione non potrà reiterare, rebus sic stantibus, l'atto annullato.

Inoltre il regime della retroattività dell'atto annullato è oggetto di un ripensamento in dottrina: perchè? Per
evitare la conseguenza che eliminati gli effetti del atto, ritenuto dalla sentenza illegittimo a causa di un vizio
procedurale, riprendesse in vigore la disciplina precedente ancora meno protettiva dell'interesse pubblico
di quella invalida

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Sul versante processuale, contro il provvedimento affetto da violazione di legge, incompetenza ed eccesso
di potere può essere proposta l'azione di annullamento innanzi al giudice amministrativo nel termine di
decadenza di 60 giorni. L'annullabilità non può essere rilevata d'ufficio dal giudice, ma, in base al principio
dispositivo, può essere pronunciata solo in seguito alla domanda proposta nel ricorso il quale deve indicare
anche in modo specifico i profili di vizio denunciati (motivi di ricorso). L'art. 30 Codice stabilisce inoltre che
insieme all'azione di annullamento può essere proposta, anche l'azione risarcitoria.

14. a)L’incompetenza
L'incompetenza è un vizio del provvedimento adottato da un organo o da un soggetto diverso da quello in-
dicato dalla norma attributiva del potere. Si tratta dunque di un vizio che attiene all'elemento soggettivo
dell'atto. L'incompetenza è una sottospecie della violazione di legge, poiché la distribuzione delle compe-
tenze tra i soggetti pubblici e tra gli organi interni è operata da leggi, regolamenti e altre fonti normative
pubblicistiche (statuti).
Si distingue generalmente tra incompetenza relativa e incompetenza assoluta. La prima si ha quando l'atto
viene emanato da un organo che appartiene alla stessa branca, settore o plesso organizzativo dell'organo
titolare del potere; la seconda, che determina nullità o carenza di potere (difetto di attribuzione), si ha in-
vece allorché sussiste un assoluta estraneità sotto il profilo soggettivo e funzionale tra l'organo che ha e-
manato l'atto e quello competente.
Sul piano meramente descrittivo il vizio di incompetenza si articola in tre fattispecie principali: l'incompe-
tenza per materia, per grado, per territorio.
L'incompetenza per materia attiene alla titolarità della funzione; quella per grado si riferisce all'articolazio-
ne interna degli organi negli apparati organizzati secondo il criterio gerarchico; quella per territorio attiene
agli ambiti nei quali gli enti territoriali o le articolazioni periferiche degli apparati statali possono operare.
Si fa riferimento anche alla competenza per valore, che assume rilievo per lo più all'interno di enti pubblici
con riguardo alla ripartizione tra i vari organi del potere di emanare provvedimenti che comportino esborsi
di spesa.
La specificità del regime giuridico dell'incompetenza rispetto a quello della violazione di legge è ormai limi-
tata a pochi profili.
In primo luogo, al vizio di incompetenza non si ritiene applicabile l'art.21-octies c,2 cioè il principio della
dequotazione dei vizi formali volto a limitare l'annullabilità degli atti vincolati e ciò in relazione al maggior
disvalore collegato alla violazione delle norme sulla competenza.
Il vizio di incompetenza assume una priorità rispetto ad altri motivi formulati nel ricorso: se il giudice accer-
ta tale vizio dovrebbe annullare il provvedimento senza esaminare gli ulteriori motivi.
Infine a differenza di quanto accade per i vizi formali, si riteneva ammessa la convalida dell'atto da parte
dell'organo competente anche in corso di giudizio.

15. b)La violazione di legge


La seconda tipologia di vizi che possono causare l'annullabilità è costituita dalla violazione di legge. Essa è
considerata una categoria generale residuale, perché in essa confluiscono tutti i vizi che non sono rubricati
come incompetenza o eccesso di potere.
Essa raggruppa tutte le ipotesi di contrasto tra il provvedimento e le disposizioni normative contenute in
fonti di rango primario e secondario che definiscono i profili vincolati, formali, sostanziali, del potere.
Si discute se la nozione di violazione di legge includa anche la violazione dei principi generali dell'azione
amministrativa ai quali fa esplicitamente o implicitamente rinvio la 241/1990 (imparzialità, proporzionalità,
irretroattività del provvedimento) anche se appare preferibile non operare una siffatta inclusione.
La principale distinzione interna alla violazione di legge è quella tra vizi formali (error in procedendo) e vizi
sostanziali (error in judicando).
L'art,21-octies,2, l. n. 241/1990 enuclea tra le ipotesi di violazione di legge la “violazione di norme sul pro-
cedimento o sulla forma degli atti”, cioè una subcategoria di vizi formali che, a certe condizioni sono
dequotati a vizi che non determinano l'annullabilità del provvedimento.

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La disposizione pone più specificamente le seguenti condizioni: che il provvedimento abbia “natura vincola-
ta”; che pertanto “sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato”.
Riguardo la prima condizione: se si accerta che il potere è integralmente vincolato, ne discende, come con-
seguenza automatica, anche l'altra condizione e cioè che risulta palese che, anche in assenza del vizio for-
male o procedurale rilevato, il contenuto del provvedimento sarebbe rimasta invariato. In questo caso il
provvedimento non può essere annullato né dal giudice amministrativo nell'ambito di un giudizio di impu-
gnazione, né dalla stesse amministrazione in sede di esercizio del potere di autotutela.
Il secondo periodo dell'art 21.241/1990 individua un ipotesi particolare costituita “dall'omessa comunica-
zione dell'avvio del procedimento”. L'operazione richiesta all'interprete è una ricostruzione di quello che
sarebbe stato l'esito del procedimento ove tutte le norme sul procedimento e sulla forma fossero state ri-
spettate. Se la conclusione di questa sorta di simulazione mentale è che il contenuto del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, l'atto non può essere annullato (regime
uguale a quello previsto per il primo periodo del medesimo art).
La disposizione presenta però due specificità:
- manca il riferimento alla natura vincolata del potere;
- si richiede all'amministrazione che ha emanato l'atto di dimostrare “in giudizio” che il vizio procedurale
o formale accertato non ha avuto alcuna influenza sul contenuto del provvedimento.
Quanto al primo aspetto, la disposizione include nel suo campo di applicazione anche i poteri discrezionali
(in astratto). Solo qualora risulti ex post che l'amministrazione non aveva altra scelta legittima se non quella
di emanare un atto con quel contenuto (vincolatezza in concreto), può operare il principio della non annul-
labilità per violazione delle norme formali e procedurali.
Quanto al secondo aspetto, l'onere della prova su questo punto grava sull'amministrazione nei confronti
della quale sia stato proposto un ricorso per l'annullamento del provvedimento viziato. Ciò comporta una
deroga alle regole processuali ordinarie che vietano all'amministrazione di integrare la motivazione nel cor-
so del giudizio.
Poiché si tratta di prova negativa, la disposizione attribuisce al ricorrente l'onere di allegare in giudizio gli
elementi che sarebbero stati prodotti nell'ambito del procedimento ove la comunicazione di avvio del me-
desimo procedimento fosse stata effettuata nelle forme prescritte.
L'art. 21-octies.2 si inserisce nella tendenza del nostro ordinamento a valorizzare il principio di efficienza ed
efficacia dell'azione amministrativa (amministrazione di risultato) a scapito, entro dei limiti, di quello rispet-
to della forma e dunque della funzione di garanzia assoluta dalle norme relative al procedimento e alla
forma.
L’art 21-octies,c.2 ha dato origine a dispute in dottrina e a una cospicua giurisprudenza non ancora qualifi-
cata. Secondo la giurisprudenza, ad esempio, la mancanza di motivazione in un provvedimento integral-
mente vincolato non può giustificare l'annullamento di quest'ultimo, ma applica talora la stessa regola an-
che a provvedimenti che presentano margini di discrezionalità se, dagli atti del procedimento, risultano le
ragioni sottostanti.
La disposizione pone varie questioni interpretative:
1. Una prima interpretazione dice che l'art. ha valenza processuale e non sostanziale. L'atto non può es-
sere annullato dal giudice ma, sotto il profilo sostanziale continua ad essere illegittimo che potrebbe
portare la p.a. a esercitare il potere di annullamento d'ufficio.
2. Secondo un'altra interpretazione la disposizione avrebbe tipizzato in via legislativa una fattispecie di
irregolarità non invalidante del provvedimento. Che cos'è l'irregolarità? Sono casi di imperfezioni mino-
ri che non legano alcun interesse (n'è privato n'è pubblico) es. data indicata su un provvedimento, non
inserire nel provvedimento presso quale attività si può fare un ricorso ed entro quale termine ecc o er-
rori materiali es. individuazione del oggetto. L'irregolarità non rende invalido il provvedimento che è
suscettibile di regolarizzazione attraverso la rettifica del provvedimento.
In realtà, il disvalore della violazione delle norme sulla forma dell'atto e sul procedimento previsto dal me-
desimo art al co.2 sembra essere maggiore, rispetto a quello di una mera irregolarità non lesiva di alcun in-
teresse pubblico apprezzabile.
3. Sembra quindi preferibile una terza interpretazione che qualifica come illegittimi anche i provvedimen-
ti non annullabili ai sensi della disposizione. Quindi in definitiva l'art. 21 octies co.2 seguendo questa

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interpretazione ha stabilito soltanto che per taluni atti illegittimi l'annullabilità, vuoi da parte del giudi-
ce vuoi d'ufficio, costituisce una reazione dell'ordinamento da ritenersi non proporzionata, visto che il
provvedimento risulta sostanzialmente legittimo.
Resta peraltro da appurare quali altre conseguenze possono essere ricollegate ai vizi formali e procedurali.
La tutela risarcitoria non sembra percorribile poiché è difficile configurare un danno in capo al privato da un
atto il cui contenuto non sarebbe stato comunque diverso. Ipotizzabile è invece, a certe condizioni, una
responsabilità di tipo disciplinare nei confronti del funzionario al quale sia imputabile la violazione formale
o procedurale riscontrata; potrebbe essere valutata l'opportunità di introdurre una sanzione di tipo pecu-
niaria a carico dell'amministrazione.

16. c)L’eccesso di potere


L'eccesso di potere è il vizio di legittimità tipico dei provvedimenti discrezionali. Esso consente un sindacato
che va oltre la verifica del rispetto dei vincoli posti in modo esplicito dalla norma attributiva del potere (a-
spetti vincolati del potere) e che può spingersi invece fino alle soglie del cosiddetto merito amministrativo.
L'eccesso di potere è dunque lo strumento che consente al giudice amministrativo, pur mantenendosi
all'interno del giudizio di legittimità, di censurare le scelte operate dall'amministrazione. L'eccesso di potere
ha riguardo all'aspetto funzionale del potere, cioè alla realizzazione in concreto dell'interesse pubblico affi-
dato alla cura dell'amministrazione.
L'eccesso di potere è definito come vizio della funzione, intesa come la dimensione dinamica del potere che
attualizza e concretizza la norma astratta attributiva del potere in un provvedimento produttivo di effetti.
In tale passaggio, all'interno cioè delle fasi del procedimento, possono emergere anomalie, incongruenze e
disfunzioni che danno origine appunto all'eccesso di potere.
La figura primigenia dell'eccesso di potere è lo sviamento di potere che consiste nella violazione del vinco-
lo del fine pubblico posto dalla norma attributiva del potere. Una siffatta violazione si ha allorché il provve-
dimento emanato persegue un fine diverso da quello in relazione al quale il potere è conferito dalla legge
all'amministrazione.
Nella pratica lo sviamento di potere è difficile da provare, in quanto il provvedimento, all'apparenza, si pre-
senta spesso come conforme alle disposizioni normative che regolano quel particolare potere. Ciò ha indot-
to la giurisprudenza a rilevare il vizio in via diretta, attraverso elementi indiziari del cattivo esercizio del po-
tere discrezionale costituiti dalle cosiddette figure sintomatiche dell'eccesso di potere. Le figure sintomati-
che costituiscono una categoria aperta, non tipizzata dal legislatore. Prima di esaminare la ricostruzione te-
orica delle figure sintomatiche conviene analizzarne più da vicino le principali fattispecie.
c1) Errore o travisamento dei fatti Se il provvedimento viene emanato sul presupposto dell'esistenza di un
fatto o di una circostanza che risulta invece inesistente, o viceversa, della non esistenza emerge la figura
dell'eccesso di potere per errore di fatto (o anche travisamento dei fatti). Esempi sono l'imposizione di
un obbligo di bonifica ambientale di un terreno nel quale invece si dimostra che non sono presenti so-
stanze inquinanti. Non rileva se l’errore è inconsapevole o consapevole.
c2) Difetto di istruttoria Nella fase istruttoria del procedimento l'amministrazione è tenuta ad accertare in
modo completo i fatti, ad acquisire gli interessi rilevanti e ogni alto elemento utile per operare una scel-
ta consapevole e ponderata. Ove questa attività, posta in essere dal responsabile del procedimento,
manchi del tutto o sia incompleto, il provvedimento è viziato sotto il profilo dell'eccesso di potere per
difetto di istruttoria. Un piano urbano del traffico comunale non può porre limiti di accesso al centro
storico ove i flussi di traffico non dimostrino una situazione di congestione. A differenza dell’errore di
fatto, in questo caso non può escludersi che annullato l’atto e posta in essere una nuova istruttoria,
questa volta in modo corretto, l’amministrazione potrebbe adottare un atto con il medesimo contenuto.
c3) Difetto di motivazione Nella motivazione del provvedimento l'amministrazione, deve dar conto all'esito
dell'istruttoria, delle ragioni che sono alla base della scelta operata. Per quanto sintetica, essa deve con-
sentire una verifica del corretto esercizio del potere, cioè dell'iter logico seguito per pervenire alla de-
terminazione contenuta nel provvedimento. Il difetto di motivazione ha varie sfaccettature.
La motivazione può essere in primo luogo insufficiente, incompleta o generica, se da essa non traspare
compiutamente in modo percepibile l'iter logico seguito dall'amministrazione e non emergono dunque
le ragioni sottostanti la scelta operata. A questo riguardo la l. n. 241/1990 contiene alcune disposizioni
che specificano il contenuto minimo della motivazione.

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Si può peraltro ritenere che quanto più ampia è la discrezionalità concessa all'amministrazione e quanto
più gravosi sono gli effetti del provvedimento nella sfera soggettiva dei destinatari, tanto più elevato è
lo standard quantitativo e qualitativo imposto alla motivazione.
La motivazione può essere inoltre illogica, contraddittoria o incongrua, allorché essa contenga proposi-
zioni o riferimenti a elementi incompatibili fra loro. Può essere infine perplessa o dubbiosa là dove non
consenta di individuare con precisione il potere che l'amministrazione ha inteso esercitare. Nel caso in
cui la motivazione manchi del tutto, il vizio può essere qualificato come violazione di legge, in quanto
l'obbligo di motivazione è ora previsto espressamente dall'art.2 l. n. 241/1990.

Una questione dibattuta è se nel caso di concorsi o delle procedure di aggiudicazioni di contratti pubblici
l'attribuzione dei punteggi riferiti alle varie prove o ad altri parametri fissati dall'amministrazione assolva
di per sé all'obbligo di motivazione oppure se essa debba essere ulteriormente sviluppata in forma di-
scorsiva. La giurisprudenza tende per altro a ritenere legittima la motivazione in forma numerica qualora
siano stati definiti a monte i parametri molto analitici, con l’indicazione per ciascun parametro esubpa-
ramtero di un numero massimo di punti attribuibili.

c4) Illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà Il diritto amministrativo assume, come principio logico
prima ancora che giuridico, che la pubblica amministrazione agisca come un soggetto razionale. Pertan-
to, emerge un vizio di eccesso di potere tutte le volte che il contenuto del provvedimento e le statuizioni
del medesimo fanno emergere profili di illogicità o irragionevolezza apprezzabili in modo oggettivo in
base a canoni di esperienza.
Può essere considerata come sottospecie dell'illogicità e irragionevolezza la contraddittorietà interna
(intrinseca) al provvedimento. Questa emerge, in particolare, se non vi è consequenzialità tra le pre-
messe del provvedimento e le conclusioni trattate nel dispositivo. Più in generale tutti i passaggi dell'iter
argomentativo seguito dall'amministrazione (ed esplicitato nella motivazione) devono essere legati da
un rapporto di consequenzialità logica.
La contraddittorietà può essere anche esterna (estrinseca) al provvedimento, cioè essere rilevata dal
raffronto tra provvedimento impugnato e altri provvedimenti precedenti dell'amministrazione che ri-
guardano lo stesso soggetto. Se la contraddittorietà riguarda provvedimenti emanati nei confronti di
soggetti diversi si ha la figura sintomatica della disparità di trattamento.
La contraddittorietà intrinseca o estrinseca costituisce una violazione del principio di coerenza che deve
presiedere all'agire della pubblica amministrazione.

c5) Disparità di trattamento Il principio di coerenza e il principio di eguaglianza impongono anche all'am-
ministrazione di trattare in modo eguale casi eguali. Il vizio può emergere sia nel caso in cui casi eguali
siano trattati in modo diseguale, sia nel caso in cui casi diseguali siano trattati in modo eguale.
Il vizio in questione emerge di frequente nei giudizi comparativi, nelle progressioni di carriera o nel rico-
noscimento di altri benefici ai dipendenti pubblici.
Perché possa essere censurata la disparità di trattamento è necessario che il provvedimento dia discre-
zionale e che la comparazione si riferisca a provvedimenti emanati in modo legittimo (nessuno può far
valere la propria pretesa se l’atto è illegittimo).

c6) Violazione delle circolari e delle norme interne, della prassi amministrativa L'attività della pubblica
amministrazione deve essere posta in essere non solo in conformità con le disposizioni contenute in leg-
gi, regolamenti e in altre fonti normative, ma anche in conformità con le norme interne contenute in cir-
colari, direttive, atti di pianificazione o di altri atti contenenti criteri e parametri di vario tipo che hanno
come scopo quello di orientare l'esercizio della discrezionalità da parte dell'organo competente a ema-
nare il provvedimento. I principio di coerenza e di rispetto dell'assetto organizzativo dell'amministrazio-
ne richiedono che l'organo titolare di un potere discrezionale, nel momento in cui emana un provvedi-
mento, tenga conto delle norme interne, se ciò non accade emerge un sintomo dell'eccesso di potere.
Per evitare di cadere in questo vizio il titolare del potere deve esplicitare nella motivazione le ragioni per
le quali ha ritenuto di disattendere nel caso concreto le prescrizioni poste dalle norme interne. Una par-

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ticolare norma interna è la prassi amministrativa che crea anch'essa un vincolo di coerenza e parità di
trattamento.

c7) Ingiustizia grave e manifesta Riguarda i provvedimenti discrezionali il cui contenuto appaia in modo pa-
lese e manifesto ingiusto. L'ingiustizia manifesta è una figura sintomatica che si colloca al confine tra il
sindacato di legittimità e il sindacato di merito. Perché non si debordi nel merito il carattere ingiusto del
provvedimento deve essere “manifesto”, ciò di immediata evidenza per qualsiasi persona di sensibilità
media.

[Vi sono altre figure sintomatiche che hanno una configurazione più dubbia: vizi della volontà, la violazione
dei principi di proporzionalità e del legittimo affidamento. Tuttavia, oggi, la loro violazione è qualificata co-
me violazione di legge.]

La giustificazione teorica delle figure sintomatiche dell'eccesso di potere è controversa.


1. Secondo alcune teorie, esse rilevano essenzialmente come prove indirette dello sviamento di potere e
hanno una valenza essenzialmente processuale. Possono cioè essere ricondotte allo schema civilistico delle
presunzioni (sono le conseguenze che il giudice trae da un fatto noto, per risalire a un fatto ignoto). Le sin-
gole figure sintomatiche sono costituite cioè da situazioni che, sulla base dell'esperienza, consentono di
dubitare che si sia attuata la divergenza dell'atto dalla sua finalità. Si discute se sia ammessa la prova con-
traria da parte dell’amministrazione, tuttavia appare inconciliabile con l’attuale struttura del processo am-
ministrativo che è ispirato al principio del divieto di integrazione della motivazione del procedimento in
corso di giudizio.
2. Secondo altre teorie, le figure sintomatiche hanno ormai raggiunto una completa autonomia dallo svia-
mento di potere e hanno una valenza sostanziale, prima ancora che processuale. Esse cioè sono riconduci-
bili a ipotesi di violazione dei principi logici e giuridici che presiedono all'esercizio della discrezionalità.
Quindi il giudice dovrà riesaminare l’iter logico di formazione del provvedimento amministrativo, coglien-
done le contraddizioni e le incongruenze. Tale sindacato pur essendo molto penetrante, resta pur sempre
esterno e indiretto e pertanto non deborda dal perimetro del sindacato di legittimità.
3. Di recente, le figure sintomatiche sono state qualificate come clausole generali (buona fede, imparziali-
tà) che fanno sorgere obblighi comportamentali nell'ambito del rapporto giuridico amministrativo intercor-
rente tra la pubblica amministrazione e il cittadino.

In definitiva, le figure sintomatiche dell'eccesso di potere, pur essendo ben collaudate nella prassi della giu-
risprudenza, hanno ancora uno statuto teorico incerto.

17. La nullità
La nullità è una categoria introdotta in via giurisprudenziale per inquadrare le patologie più gravi del prov-
vedimento; pur avendo una rilevanza teorica equiparata all’annullabilità, nella pratica costituisce un feno-
meno marginale.
L'art.21-septies 241/1990 individua anzitutto quattro ipotesi tassative di nullità: la mancanza degli elemen-
ti essenziali; il difetto assoluto di attribuzione; la violazione o elusione del giudicato; gli altri casi espressa-
mente previsti dalla legge.
1. La mancanza degli elementi essenziali accomuna la nullità del provvedimento a quella del contratto, la l.
n. 241/1990 non li elenca in modo preciso, rimettendo così all'interprete il compito di individuare le singole
fattispecie.
2. Il difetto assoluto di attribuzione è già stato esaminato trattando della carenza di potere e dell'incompe-
tenza assoluta e non richiede ulteriori svolgimenti. Esso corrisponde alla figura dello straripamento di pote-
re.
3. La violazione o elusione del giudicato è un ipotesi particolare che riprende e legifica gli orientamenti giu-
risprudenziali. Si ha elusione del giudicato allorché l'amministrazione in seguito all'annullamento pronun-
ciato dal giudice con sentenza passata in giudicato emana un nuovo atto che si pone in contrasto con
quest'ultima allorché essa ponga un vincolo puntuale e non lasci all'amministrazione alcuno spazio di valu-

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tazione. Il nuovo atto, cioè “ignora e palesemente trascura il sostanziale contenuto del giudicato e manife-
sta il reale intendimento dell'amministrazione di sottrarsi al giudicato”.
4. La quarta ipotesi di nullità si riferisce ai casi in cui la legge qualifica espressamente come nullo un atto
amministrativo (nullità testuale): esà il Codice dei contratti pubblici sancisce la nullità delle clausole dei
bandi di gara che introducono casi di esclusione dei concorrenti ulteriori rispetto a quelle stabilite dalla leg-
ge. La nullità è talora disposta per legge con riguardo a termini di conclusione di procedimenti amministra-
tivi qualificati dalla legge come termini posti a pena di decadenza (termini perentori).

Si è discusso se un'ipotesi di nullità sia costituita dagli atti adottati dall'amministrazione in applicazione di
norme nazionali contrastanti con il diritto europeo. Questi atti si qualificano come annullabili, e cioè in ra-
gione dell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici di diritto pubblico (invece sono nulli quando è la norma
attributiva del potere si pone in violazione del diritto europeo).

Azione di nullità Sul versante processuale, il Codice del processo amministrativo introduce un'azione per la
declaratoria della nullità (azione di accertamento) che può essere proposta innanzi al giudice amministrati-
vo entro un termine di decadenza assi breve (180 giorni) e ciò in relazione, all'esigenza di garantire stabilità
all'assetto dei rapporti di diritto pubblico.
A differenza di quanto accade per l'annullabilità, la nullità può essere sempre rilevata d'ufficio dal giudice o
opposta dalla parte resistente (p.a.). Inoltre si attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministra-
tivo le controversie relative alla nullità dell'atto adottato in violazione o elusione del giudicato. Il vizio deve
essere fatto valere nella sede del giudizio di ottemperanza, cioè del rito speciale previsto nel caso di manca-
ta esecuzione da parte della p.a. delle sentenze del giudice amministrativo e del giudice ordinario. Il ricorso
può essere promosso nel termine di 10 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza e il giudice ove ac-
colga il ricorso emana una sentenza che dichiara la nullità del provvedimento.

18. L’annullamento d’ufficio, la convalida, la ratifica, la sanatoria, la conferma, la conversione, la


revoca, il recesso
Si tratta di provvedimenti che l'amministrazione può emanare per porre rimedio all'invalidità o alla non
conformità all'interesse pubblico di un provvedimento amministrativo. I provvedimenti in questione sono
assunti nell'ambito di procedimenti definiti di secondo grado proprio perché hanno per oggetto atti già
emanati che l'amministrazione sottopone a un riesame.

L'annullamento d'ufficio
La misura specifica per reagire all'illegittimità del provvedimento è costituita dall'annullamento con effica-
cia ex tunc dell'atto emanato. L'annullamento del provvedimento illegittimo può essere pronunciato oltre
che dal giudice amministrativo in caso di accoglimento del ricorso proposto dal titolare dell'interesse legit-
timo, anche in altri contesti e da altri soggetti: dalla stessa amministrazione in sede di esame dei ricorsi
amministrativi; dagli organi amministrativi preposti al controllo di legittimità di alcune categorie di provve-
dimenti; dal ministro con riferimento agli atti emanati dai dirigenti ad esso sottoposti; dal Consiglio dei mi-
nistri nei confronti di tutti gli atti degli apparati statali, regionali, locali.
Il cosiddetto annullamento straordinario da parte del governo rientra tra gli atti di alta amministrazione
ampiamente discrezionali e persegue appunto un fine specifico cioè quello di “tutela dell'unità dell'ordina-
mento” di fronte al rischio che gli enti territoriali autonomi assumano determinazioni aberranti. Proprio per
la sua particolare delicatezza, l'annullamento straordinario richiede l'acquisizione preventiva di un parere
del Consiglio di Stato.
L'annullamento d'ufficio è disciplinato in termini generali dall'art. 21-nonies 241/1990.
Dal punto di vista soggettivo, il potere di annullamento d'ufficio può essere esercitato dallo stesso organo
che ha emanato l'atto (cosiddetto autoannullamento) o da altro organo al quale sia attribuito per legge
(annullamento gerarchico). In secondo luogo, mentre l'annullamento in sede di ricorsi giurisdizionali e
amministrativi e in sede di controllo consegue automaticamente all'accertamento del vizio e ha dunque na-
tura vincolata, l'annullamento d'ufficio operato dall'amministrazione ha un carattere discrezionale e costi-
tuisce una delle manifestazioni del potere di autotutela della pubblica amministrazione.

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Affinché l'amministrazione possa esercitare in modo legittimo il potere di annullamento d'ufficio devono
sussistere quattro presupposti esplicitati dall'art. 21-nonies l. n. 241/1990.
I. Il primo è che il provvedimento sia “illegittimo ai sensi dell'art. 21 octies”, sia affetto da un vizio di vio-
lazione di legge, di incompetenza o di eccesso di potere.
II. Devono inoltre sussistere “ragioni di interesse pubblico”, rimesse alla valutazione dell'amministrazio-
ne, che rendano preferibile la rimozione dell'atto e dei suoi effetti piuttosto che la loro conservazione,
pur in presenza di una illegittimità accertata.
L'interesse astratto al ripristino della legalità violata non è sufficiente, ma l'amministrazione deve porre a
fondamento un altro interesse pubblico che deve essere presente al momento in cui è disposto l'annulla-
mento d'ufficio.
III. L'annullamento d'ufficio richiede in terzo luogo come chiarisce l'art.21-nonies, una ponderazione di
tutti gli interessi in gioco che deve essere esplicitata nella motivazione. Devono essere valutati, speci-
ficamente, oltre all'interesse pubblico all'annullamento, da un lato, quello del destinatario del provve-
dimento; dall'altro quello degli eventuali controinteressati.
IV. Infine, la valutazione discrezionale deve tener conto del fattore temporale. L'annullamento può essere
disposto “entro un termine ragionevole” (altrimenti prevale l’interessa a mantenere inalterato lo sta-
tus a quo ante e a tutelare l’affidamento creato).
Rientra nella discrezionalità dell’amministrazione stabilire se il termine è ragionevole e poiché ciò introduce
un elemento di incertezza sulla stabilità dei rapporti giuridici amministrativi, è stato fissato il termine di 18
mesi per alcuni tipi di provvedimenti.
Attesa la natura discrezionale dell'annullamento d'ufficio, l'amministrazione non è tenuta a prendere in e-
same e a dar seguito a segnalazioni ed esposti da parte di soggetti privati che denunciano l'illegittimità di
un atto amministrativo.

La convalida
In alternativa all'annullamento d'ufficio, l'art.21-nonies,2 prevede che l'amministrazione possa procedere
alla convalida del provvedimento illegittimo, sempre in presenza di ragioni di interesse pubblico ed entro
un termine ragionevole. La convalida del provvedimento amministrativo è operata dalla stessa amministra-
zione cui è imputabile il vizio rilevato (≠nel dir.priv la convalida spetta al soggetto leso).
Se la convalida riguarda il vizio di incompetenza è ricorrente nell'uso l'espressione di ratifica. La ratifica ri-
guarda più propriamente le ipotesi nelle quali all'interno di un'amministrazione pubblica un organo può, in
base alla legge, esercitare in caso d'urgenza una competenza attribuita in via ordinaria a un altro organo,
che poi è chiamato a far proprio l'atto emanato.

La sanatoria
Si parla talora anche di sanatoria nei casi in cui l'atto è emanato in carenza di un presupposto e quest'ulti-
mo si materializza in un momento successivo, oppure nei casi in cui un atto delle sequenza procedimentale
viene posto in essere dopo il provvedimento conclusivo.

La conferma e l'atto confermativo


All'esito di un procedimento di riesame aperto su sollecitazione di un privato o anche d'ufficio, l'ammini-
strazione può pervenire, inseguito all'istruttoria, alla conclusione che il provvedimento, nonostante i dubbi
iniziali, non è affetto da alcun vizio. In questi casi l'amministrazione emana un provvedimento di conferma.
Si distingue tra conferma che costituisce un provvedimento amministrativo autonomo dal contenuto iden-
tico di quello oggetto del riesame, e atto meramente confermativo; con quest'ultimo l'amministrazione si
limita a comunicare al privato che chiede il riesame che non vi sono motivi di riaprire il procedimento e
procedere a una nuova valutazione.

La conversione
Con riferimento ai provvedimenti affetti da nullità e da annullabilità, si ritiene generalmente applicabile,
anche in assenza di una disposizione legislativa, la conversione.

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La revoca
Anche i provvedimenti perfettamente validi ed efficaci sono passibili di un riesame che ha per oggetto il
merito (opportunità), cioè la conformità all'interesse pubblico dell'assetto degli interessi risultante dall'atto
emanato. Uno degli istituti più caratteristici del diritto amministrativo è la revoca del provvedimento. Nel
diritto amministrativo il potere di revoca è considerato come una manifestazione del potere di autotutela
della pubblica amministrazione ed è ammesso sempre dalla giuris. (≠dir.priv=non è ammessa se gli atti
hanno prodotto effetti nella sfera giuridica di terzi ≠donazione, testamento).
Il potere di revoca è giustificato dall'esigenza di garantire nel tempo la conformità dell'assetto giuridico de-
rivante da un provvedimento amministrativo all'interesse pubblico, esigenza che è ritenuta prevalente ri-
spetto a quella di tutela degli affidamenti creati. Essa dà una connotazione di precarietà e instabilità al rap-
porto giuridico amministrativo.
L'art.21-quinquies,c, 1 distingue due fattispecie:
- la revoca per sopravvenienzaà la “revoca per sopravvenuti motivi di pubblico interesse”, interviene al-
lorché l'amministrazione opera una rivalutazione dell'assetto degli interessi alla luce di fattori ed esigen-
ze sopravvenute, cioè non presenti al momento in cui l'atto era stato emanato; vi è anche la “revoca per
mutamento dell’interesse pubblico originario” sovrapponibile alla prima.
- la revoca espressione dello jus poenitendià riguarda l'ipotesi di nuova valutazione dell'interesse pubbli-
co originario, che si ha nei casi in cui l'amministrazione si rende conto di aver compiuto una ponderazio-
ne errata degli interessi nel momento in cui ha emanato il provvedimento.
Come nel caso dell'annullamento d'ufficio, sotto il profilo soggettivo, la revoca può essere disposta dallo
stesso organo che emanato l'atto ovvero da altro organo previsto dalla legge. A differenza dell'annullamen-
to d'ufficio, che ha efficacia retroattiva (opera cioè ex tunc), la revoca determina l'inidoneità del provvedi-
mento revocato a produrre ulteriori effetti (opera cioè ex nunc).
La revoca ha tipicamente per oggetto provvedimenti a “efficacia durevole” come ad esempio la concessio-
ne di servizi pubblici.
Peraltro si ritiene generalmente che non sono suscettibili di revoca i provvedimenti che hanno già prodotto
gli effetti o siano stati interamente eseguiti (certificazioni e valutazione tecniche).
Una novità introdotta dall'art.21-quinquies in materia di revoca è la generalizzazione dell'obbligo di inden-
nizzo nei casi in cui essa comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati. Ci sono alcuni
criteri per quantificare l'indennizzo in caso di revoca di atti che incidono su rapporti negoziali nell'obiettivo
di limitarne l'importo. L'indennizzo è limitato al danno emergente ed è suscettibile di un'ulteriore riduzione
in relazione alla conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell'atto oggetto di re-
voca all'interesse pubblico. Una riduzione è prevista inoltre nel caso di concorso dei contraenti o di altri
soggetti all'erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico.
Sotto il profilo procedimentale, anche la revoca richiede l'espletamento di un procedimento di secondo
grado che si apre con la comunicazione di avvio e che è aperto alla partecipazione dei soggetti interessati.
Al pari dell'annullamento d'ufficio, la revoca è un provvedimento discrezionale che richiede una motivazio-
ne adeguata. La revoca disciplinata dall'art.21-quinquies va tenuta distinta dalla cosiddetta revoca sanzio-
natoria (decadenza) e dal mero ritiro. La prima può essere disposta dall'amministrazione nel caso in cui il
privato, destinatario di un provvedimento amministrativo favorevole, non rispetti le condizioni e i limiti in
esso previsti, oppure non intraprenda l'attività oggetto del provvedimento entro il termine previsto. Il mero
ritiro ha per oggetto atti amministrativi che non sono ancora efficaci.
Può avvenire per ragioni di legittimità o anche di merito e non necessita di una valutazione specifica dell'in-
teresse pubblico e degli interessi dei destinatari del provvedimento.

Il recesso dai contratti


L'art.21-sexies 241/1990 disciplina anche il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione
prevedendo che esso sia ammesso solo nei casi previsti dalla legge o dal contratto.

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Capitolo 5: Il procedimento
1. Nozione e funzioni del procedimento
Il procedimento amministrativo può essere definito come la sequenza di atti ed operazioni tra loro collegati
funzionalmente in vista e al servizio dell'atto principale, cioè del provvedimento produttivo di effetti nella
sfera giuridica di un soggetto privato.
Sono state individuate alcune funzioni alle quali esso assolve (coordinamento, partecipazione dei privati,
acquisizione di informazioni utili all'amministrazione) e menzionati alcuni principi che ne caratterizzano il
regime (contraddittorio, trasparenza, certezza e celerità).
Nello schema norma-fatto-effetto, l'effetto giuridico sorge in connessione, alcune volte con il verificarsi di
un singolo accadimento (fatto giuridico semplice); altre volte con il verificarsi di una pluralità di accadimenti
(fatti complessi).
Nel caso di fatti complessi, l'effetto giuridico deriva dunque da una combinazione di eventi, comportamenti
o atti che devono verificarsi o essere posti in essere contemporaneamente o in sequenza (fattispecie a for-
mazione successiva). Nella fattispecie a formazione successiva l'effetto giuridico si produce solo allorché la
sequenza si è integralmente realizzata secondo l'ordine normativamente dato.
Restano invece esterni alla fattispecie i c.d. presupposti, cioè fatti che si collocano a monte della fattispecie
e ne condizionano l’operatività, pur non concorrendo direttamente alla produzione dell’effetto giuridico.
L’evoluzione del diritto amministrativo: Nel diritto amministrativo, dopo una prima fase nella quale la no-
zione di procedimento fu ignorata, a partire dalla seconda metà del secolo scorso essa assunse un rilievo
crescente in dottrina e giurisprudenza. Il procedimento trovò ingresso nel diritto amministrativo negli anni
Trenta del secolo scorso come sviluppo della teoria generale in tema di fattispecie. Venne così elaborata
anzitutto la nozione di atto complesso, cioè di provvedimento, che è il frutto della confluenza di manifesta-
zioni di volontà provenienti da più soggetti, tutte necessarie ai fini della produzione dell'effetto giuridico.

Del procedimento sono state offerte in dottrina varie ricostruzioni:


1. La prima elaborazione organica del procedimento amministrativo che risale al 1940, operò un'analisi
formale e strutturale degli atti e delle operazioni della sequenza procedimentale e delle fasi in cui que-
sta è articolata (fase preparatoria,costitutiva, integrativa, dell’efficacia).
2. Un'altra ricostruzione di qualche anno successiva collocò invece il procedimento all'interno della di-
namica del potere (considerato come funzione) cioè come momento della concretizzazione del potere
in un atto. Il procedimento non è niente altro che la manifestazione sensibile della funzione, cioè la
forma esterna del potere colto nel suo momento dinamico.
3. Una terza ricostruzione mise in luce sopratutto la connessione con il fenomeno della discrezionalità
amministrativa: per potere operare una scelta corretta, tutti i fatti e gli interessi rilevanti devono esse-
re, prima ancora che valutati e ponderati, acquisiti all'interno del procedimento dall'organo decidente.

Il procedimento amministrativo assolve a una pluralità di funzioni:


I. Una prima funzione è quella di consentire un controllo sull'esercizio del potere, attraverso una verifica
del potere e del rispetto puntuale della sequenza degli atti e operazioni normativamente predefinite. La le-
galità assume così una dimensione procedurale, oltre che sostanziale.

II. Una seconda funzione è quella di far emergere e dar voce a tutti gli interessi direttamente o indiretta-
mente dal provvedimento. La partecipazione acquista così una dimensione per così dire collaborativa. Que-
sta dimensione è presente sopratutto nei procedimenti di tipo individuale nei quali il provvedimento de-
termina effetti ampliativi nella sfera giuridica del destinatario.
La partecipazione del privato al procedimento è utile infatti sia all’amministrazione in relazione alle esigen-
ze di completezza dell’istruttoria, sia al privato che ha così la possibilità di sottoporre all’amministrazione gli
elementi necessari affinché essa emani il provvedimento favorevole e gli attribuisca il bene della vita al
quale ispira.
La dimensione collaborativa è presente anche nei procedimenti di regolazione, con riguardo agli atti di re-
golazione delle autorità indipendenti. Peraltro l'amministrazione deve appurare che tutti gli interessi coin-
volti siano adeguatamente rappresentati e deve vagliare gli apporti partecipativi dei privati. Inoltre, la voce

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degli interessi più organizzati (le c.d. lobby) tende a sovrastare quella degli altri interessi, con il rischio di
condizionare e influenzare in modo più efficace le valutazione dell’amministrazione (la c.d. cattura dei re-
golatori).

III. Una terza funzione del procedimento è quella del contraddittorio (scritto e talora anche orale) a favore
dei soggetti incisi negativamente dal provvedimento. Essa connota sopratutto i procedimenti di tipo indivi-
duale, nei quali la pubblica amministrazione esercita un potere che determina effetti restrittivi o limitativi
della sfera giuridica del destinatario e il rapporto giuridico si connota in termini di contrapposizione.
Il contraddittorio procedimentale, che connota in senso giustiziale il procedimento può assumere una di-
mensione verticale o orizzontale.
La dimensione verticale si riferisce ai casi in cui il rapporto giuridico ha carattere bilaterale e coinvolge
l'amministrazione titolare del potere e il destinatario diretto dell'effetto giuridico restrittivo. Nel contrad-
dittorio verticale l'amministrazione deve essere “parte imparziale”. Deve cioè a un tempo curare l’interesse
pubblico di cui essa è portatrice e garantire la posizione della parte privata portatrice di un interesse con-
trapposto.
La dimensione orizzontale del contraddittorio riguarda i procedimenti nei quali i privati sono portatori di
interessi contrapposti e pertanto l'organo decidente è chiamato a garantire la “parità delle armi”. In alcuni
casi il contraddittorio è perfettamente paritario, come per esempio nei procedimenti di tipo concorsuale
nei quali gli aspiranti a una medesima utilità o bene hanno una eguale pretesa a conseguirli. In altri casi il
contraddittorio orizzontale non è del tutto paritario, come per esempio nei procedimenti sanzionatori anti-
trust nei quali all'impresa sospetta di aver compiuto un abuso di posizione dominante si contrappone l'im-
presa che ha denunciato ciò all'Autorità garante della concorrenza e del mercato.

IV. Una quarta funzione del procedimento è quella di operare da fattore di legittimazione del potere
dell'amministrazione e di promuovere pertanto la democraticità dell'ordinamento amministrativo. Infatti
la caduta della legalità sostanziale, dovuta all’impossibilità del legislatore di prefigurare in modo preciso
tutte le situazioni che richiedono l’esercizio del potere, si presta a essere compensata con la legalità proce-
durale.
La democrazia procedimentale completa, anche se non soppianta la democrazia rappresentativa (il vincolo
procedimentale integra il comando della norma legislativa).

V. Una quinta funzione del procedimento è quella di attuare il coordinamento tra più amministrazioni, cia-
scuna chiamata a curare un interesse pubblico, nei casi in cui un provvedimento amministrativo vada a in-
cidere su una pluralità di interessi pubblici.
Accanto a modelli di coordinamento debole (il parere obbligatorio, ma non vincolante), la legislazione am-
ministrativa prevede modelli di coordinamento più forte (il parere vincolante, l’intesa..).

In definitiva, il procedimento ha una pluralità di funzioni che sono spesso compresenti nella singola fatti-
specie. Di volta in volta, a seconda del tipo di procedimento, può prevalere l'una o l'altra funzione.

2. Le leggi generali sul procedimento e la l. n. 241/1990


Il procedimento amministrativo è al centro del sistema del diritto amministrativo in molti ordinamenti e ha
trovato una disciplina organica in leggi generali e la l. n. 241/1990.
In una prospettiva di comparizione, conviene accennare sopratutto alle leggi austriaca e statunitense che
hanno avuto un'influenza su molti ordinamenti.
L'esperienza austriaca fu per molti aspetti pionieristica. Già nel 1875 la legge istitutiva del Tribunale ammi-
nistrativo supremo attribuì a quest'ultimo il potere di annullare gli atti dell'amministrazione adottati all'esi-
to di una procedura difettosa. In mancanza di ulteriori specificazioni legislative, la giurisprudenza si fece ca-
rico di stabilire i casi nei quali può essere considerato difettoso un procedimento. Nel 1925 venne emanata
una legge generale sul procedimento, prima del genere nel panorama degli ordinamenti occidentali, che
sviluppava il cosiddetto modello processuale del procedimento. Quest'ultimo venne infatti concepito come
uno strumento per tutelare la posizione del privato, in un'ottica giustiziale, cioè per garantire gli interessi
del cittadino nei confronti di una pubblica amministrazione.

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L’articolazione del procedimento in atti formali volti a garantire la partecipazione e il contradditorio mima-
va le forme processuali e anzi aveva come funzione quella di anticipare la tutela offerta a quest’ultimo.
In generale si può affermare che quanto più completa ed efficacie è la tutela degli interessi dei privati
nell'ambito del procedimento, tanto minore è l'esigenza di un sistema articolato di garanzie giurisdizionali.
Negli Stati Uniti, in un sistema costituzionale improntato a una separazione più rigida dei poteri, l'attribu-
zione massiccia di poteri regolatori e amministrativi alle agenzie federali negli anni Trenta (New Deal) de-
terminò un conflitto istituzionale tra Presidente e Corte Suprema che dichiarò incostituzionali una serie di
leggi interventiste volte a favorire il superamento della crisi economica. Il conflitto si ricompose anche in
seguito all'emanazione nel 1946 dell'Administrative Procedure Act che legittimò il ruolo delle agenzie fede-
rali, ma le sottopose a regole e a controlli stringenti.
La legge configura anzitutto un procedimento amministrativo aperto a un'ampia partecipazione dei soggetti
interessati secondo il modello del public interest representation. Nei procedimenti di regolazione (rulema-
king) la rappresentanza degli interessi viene assicurata attraverso il modello del notice and comment. Nei
procedimenti di tipo individuali (adjucation) per attuare il principio del giusto procedimento (due process of
law) vengono introdotte garanzie del contraddittorio di tipo paraprocessuale (trial type). Sul piano organiz-
zativo la legge prescrive una distinzione netta all'interna delle agenzie tra i funzionari che curano l'istrutto-
ria e l'organo collegiale che assume la decisione.
In definitiva l'Administrative Procedure Act sottopone le agenzie federali a regole procedurali stringenti. Il
rispetto di queste regole, oltre che dei limiti sostanziali del potere attribuito alle agenzie, è assicurato dal
controllo giurisdizionale delle corti ordinarie, le quali devono accertare se l’esercizio del potere sia stato
“arbitrary, capricious, an abuse of discretion”, uno standard non dissimile dall'eccesso di potere.
Altri ordinamenti europei come quello tedesco e quello spagnolo si sono dotati d leggi generali sul proce-
dimento amministrativo molto analitiche. Negli ordinamenti francese e inglese le regole sullo svolgimento
del procedimento continuano a essere di derivazione prevalentemente giurisprudenziale.
In Italia, il primo tentativo di introdurre una legge generale sul procedimento amministrativo risale al se-
condo dopoguerra e in particolare al progetto di legge elaborato tra 1944 e il 1947.
All'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso fu intrapreso un nuovo tentativo ad opera di una commissione
che elaborò un testo che ispirò un decennio dopo la legge del 7 agosto 1990 n.241.
Il testo è stato più volte modificato e integrato siano ai giorni nostri (la più importante è la 15/2005).
La l. n. 241/1990 si caratterizza per il fatto di essere una legge sopratutto di principi, molti dei quali già af-
fermati dalla giurisprudenza amministrativa, che non ha la pretesa di porre una disciplina esaustiva di tutti
gli istituti del procedimento. La legge non contiene alcuna definizione generale di procedimento, né una de-
finizione delle singole fasi in cui esso si articola, fornisce, però, una cornice generale che si sovrappone e
integra tutte le leggi amministrative che disciplinano i singoli procedimenti.
Il campo di applicazione della l. n. 241/1990 è individuato sulla base di un criterio soggettivo e oggettivo.
Sotto il profilo soggettivo le disposizioni in essa contenute si applicano alle amministrazioni statali, agli enti
pubblici nazionali e anche alle società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente alle attività
che si sostanziano nell’esercizio delle funzioni amministrative. Inoltre, le regioni e gli enti locali possono do-
tarsi di una propria disciplina sulla base dei principi stabiliti dalla l. n. 241/1990 ma non possono prevedere
aspetti limitativi rispetto alla legge, ma solo prevedere garanzie maggiori.
Sotto il profilo oggettivo, la l. n. 241/1990 si applica nella sua interezza ai procedimenti di tipo individuale.
Invece le disposizioni sull'obbligo di motivazione, sulla partecipazione al procedimento, e sul diritto di ac-
cesso non si applicano agli atti normativi e agli atti amministrativi generali.

La legge disciplina un nuovo modello di rapporto tra la pubblica amministrazione e cittadini.


1. In primo luogo, la l. n. 241/1990 colma la distanza e la separatezza tradizionale tra amministrazione e
soggetti privati. Per un verso, i soggetti privati fanno per così dire ingresso nel procedimento attra-
verso gli strumenti di partecipazione che consentono così ad essi di esprimere il proprio punto di vi-
sta. Per altro verso, la l. n. 241/1990 favorisce, ricorso a strumenti consensuali in luogo dell'esercizio
unilaterale per così dire dall'alto di poteri autoritativi. Prevede che l'amministrazione possa stipulare
accordi con gli interessati, anche su proposta di questi ultimi, per la determinazione del contenuto
discrezionale del provvedimento.

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2. In secondo luogo, la tradizionale separatezza tra le stesse pubbliche amministrazioni, ciascuna titola-
re di poteri autonomi, con scarsi canali di comunicazione reciproca, viene vista con sfavore. Sono in-
vece privilegiati strumenti consensuali di collaborazione paritaria per lo svolgimento di attività di in-
teresse comune (accordi) e di coordinamento tra procedimenti paralleli (conferenza di servizi). Inol-
tre esse devono collaborare scambiandosi reciprocamente gli atti e i documenti in loro possesso,
sgravando il privato dall’onere di procurarseli autonomamente.
3. In terzo luogo viene attenuata la concezione individualistica e atomistica dei rapporti tra Stato e cit-
tadino propria della concezione liberale ottocentesca. Infatti al “dialogo” procedimentale possono
partecipare non solo i singoli individui incisi dal provvedimento amministrativo, ma anche i portatori
di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati.
4. In quarto luogo la l. n. 241/1990 supera in gran parte il principio del segreto d'ufficio sulle attività in-
terne all'amministrazione che rendeva imperscrutabile l'operato dell'amministrazione. La legge e-
nuncia infatti il principio di pubblicità e trasparenza e pone una disciplina del diritto di accesso ai do-
cumenti amministrativi. L'obbligo in capo ai dipendenti pubblici di mantenere il segreto d'ufficio, cioè
di non divulgare informazioni riguardanti l'attività amministrativa di cui l'impiegato è in possesso,
opera in via residuale, cioè “al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di
accesso”, le quali hanno dunque una priorità. Prevede inoltre l'obbligo di rendere pubblici tutti gli at-
ti organizzativi interni.
5. In quinto luogo la l. n. 241/1990 fa cadere il velo dell'anonimato che si frapponeva tra il cittadino e gli
apparati amministrativi. La figura del responsabile del procedimento personalizza e “umanizza” infat-
ti il rapporto con i soggetti privati e consente di attribuire in modo più certo le responsabilità interne
a ciascun apparato.
In definitiva la legge ha segnato il superamento del modello autoritario dei rapporti tra Stato e cittadino a
favore di un modello che pone l'accento sulle garanzie e sui diritti del cittadino che entra in contatto con
l'amministrazione. Essa può essere considerata come una legge attributiva di “nuovi diritti” di cittadinanza
amministrativa.

3. Le fasi del procedimento


La sequenza degli atti e degli adempimenti nei quali si articola il procedimento può essere suddivisa in fasi
distinte. Le fasi sono essenzialmente: l'iniziativa, l'istruttoria, la conclusione.

4. a) L'iniziativa
La prima fase è quella dell'iniziativa, cioè dell'avvio formale del procedimento destinato a sfociare nel
provvedimento finale produttivo degli effetti giuridici nella sfera giuridica del destinatario. Emerge qui una
prima distinzione tra obbligo di procedere e obbligo di provvedere, entrambi espressione del principio ge-
nerale della doverosità dell'esercizio del potere amministrativo.
In base al primo, l'amministrazione competente è tenuta ad aprire il procedimento e a porre in essere le
attività previste nella sequenza procedimentale propedeutiche alla determinazione finale.
Il secondo pone in capo all'amministrazione il dovere di portarlo a conclusione attraverso l'emanazione di
un provvedimento espresso.
L'obbligo di procedere dunque sorge o in seguito a un atto di impulso di un soggetto esterno all'ammini-
strazione titolare del potere o per iniziativa di quest'ultima.

Nei procedimenti su istanza di parte, l'atto d'iniziativa consiste in una domanda o istanza formale presenta-
ta all'amministrazione da un soggetto privato interessato al rilascio di un provvedimento favorevole. Tutta-
via non ogni istanza del privato fa sorgere l'obbligo di procedere. Infatti quest'ultimo sorge solo in relazione
a sequenze procedimentali tipiche, cioè in relazione ai procedimenti amministrativi disciplinati nelle leggi
amministrative di settore.
Nei procedimenti d'ufficio, l'apertura del procedimento avviene su impulso della stessa amministrazione
competente a emanare il provvedimento finale. I procedimenti d'ufficio riguardano per lo più poteri ammi-
nistrativi il cui esercizio determina un effetto limitativo o restrittivo nella sfera giuridica del soggetto privato
destinatario.

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Nei procedimenti d'ufficio, l'apertura formale del procedimento, in molte situazioni, avviene all'esito di una
serie di attività cosiddette preistruttorie, condotte sempre d'ufficio, dai cui esiti possono emergere situa-
zioni di fatto che rendano necessario l'esercizio di un potere. Tra le attività preistruttorie previste dalle leggi
amministrative va annoverato il potere di ispezione attribuito dalla legge ad autorità di vigilanza (CONSOB,
Banca d’Italia) nei confronti di soggetti allo scopo di verificare il rispetto delle normative di settore. L'ispe-
zione consiste in una serie di operazioni di verifica effettuate presso un soggetto privato, in contraddittorio
con quest'ultimo, delle quali si dà atto in un verbale. Se l’ispezione si conclude con la constatazione di una o
più violazioni, sorge in capo all’amministratore l’obbligo di aprire un procedimento d’ufficio volto a conte-
stare la violazione e che può concludersi con l’adozione di provvedimenti ordinatori o sanzionatori.
Altre attività preistruttorie includono, variamente in base alle singole leggi amministrative, accessi a luoghi,
richieste di documenti, assunzione di informazioni, rilievi segnaletici e fotografici, analisi di campioni e altre
attività tecniche.
L'avvio dei procedimenti d'ufficio di tipo repressivo, inibitorio e sanzionatorio può avvenire anche in seguito
a denunce, istanze o esposti di soggetti privati. Tali atti non fanno sorgere in modo automatico il dovere
dell'amministrazione di aprire il procedimento nei confronti del soggetto denunciato. Rientra infatti nella
discrezionalità dell'amministrazione valutarne la serietà, la fondatezza, al fine di darvi eventualmente segui-
to.
L'amministrazione deve dare comunicazione dell'avvio del procedimento anzitutto al soggetto o ai soggetti
destinatari diretti del provvedimento, cioè a coloro nei confronti dei quali il provvedimento finale è destina-
to a produrre effetti diretti. La comunicazione viene inviata anche a eventuali altri soggetti, individuati o fa-
cilmente individuabili che possono derivare un pregiudizio dal provvedimento. La comunicazione deve con-
tenere l'indicazione dell'amministrazione competente, dell'oggetto del procedimento, del nome del re-
sponsabile del procedimento, del termine di conclusione del procedimento, dell'ufficio in cui si può prende-
re visione degli atti. L'omessa comunicazione di avvio del procedimento rende annullabile il provvedimento
finale, l'art.21-octies, c, 2 l. n. 241/1990 ha ristretto notevolmente i casi in cui ciò può avvenire.

5. b) L'istruttoria
La fase istruttoria del procedimento include le attività poste in essere dall'amministrazione e per essa dal
responsabile del procedimento allo scopo di accertare i fatti e di acquisire gli interessi rilevanti ai fine della
determinazione finale. I fatti da accertare si riferiscono ai presupposti e ai requisiti richiesti dalla norma di
conferimento del potere per l'emanazione del provvedimento. Gli interessi da acquisire entrano in gioco
esclusivamente nei procedimenti correlati a poteri propriamente discrezionali, nei quali, l'interesse pubbli-
co cosiddetto primario, deve essere valutato e ponderato unitamente agli interessi secondari, pubblici e
privati.
La fase istruttoria è retta dal principio inquisitorio. Infatti il responsabile del procedimento accerta di uffi-
cio i fatti, disponendo il compimento degli atti necessari. Quest'ultimo compie dunque di propria iniziativa
tutte le indagini necessarie per ricostruire in modo esatto e completo la situazione di fatto, l'amministra-
zione può compiere tutti gli accertamenti necessari con le modalità ritenute più idonee. Nella scelta dei
mezzi istruttori da utilizzare l'amministrazione deve attenersi a un principio di efficienza e di economicità,
evitando di aggravare il procedimento al di là di quanto necessario.
Alcuni atti istruttori sono previsti talvolta dalle leggi che disciplinano i singoli procedimenti amministrativi, è
il caso dei pareri obbligatori e delle valutazioni tecniche di competenza di amministrazioni diverse da quelle
procedente.
I pareri, espressione della funzione consultiva, possono essere obbligatori o facoltativi. I pareri obbligatori
sono previsti per legge in relazione a specifici procedimenti e l'omessa richiesta determina un vizio proce-
dimentale che rende illegittimo il provvedimento finale (devono essere rilasciati entro 20 gg). I pareri facol-
tativi, invece, sono richiesti ove l'amministrazione procedente ritenga possano essere utili ai fini della deci-
sione.
I pareri possono essere anche vincolanti: l'amministrazione che li riceve non può assumere una decisione
difforme dal contenuto del parere, neppure motivando le regioni in relazione alle quali essa ritiene di disso-
ciarsi. Le valutazioni tecniche richieste a organismi di particolari competenze non giuridiche sono soggette
a un regime che ricalca in parte quello dei pareri.

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La tendenza in tema di adempimenti istruttori è di sgravare il più possibile i soggetti privati da oneri di do-
cumentazione e di certificazione, imponendo all'amministrazione di acquisire d'ufficio i documenti atte-
stanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi necessari per l'istruttoria; ai privati può essere chiesta soltanto
l’autocertificazione.
L'attività istruttoria può essere effettuata anche con modalità informali; ad esempio, per favorire la conclu-
sione di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento può essere predisposto un calendario di incontri
ai quali sono invitati il destinatario del provvedimento ed eventuali controinteressati.
Delle attività istruttorie compiute e delle risultanze delle medesime viene dato conto usualmente attraver-
so la redazione di verbali acquisiti al procedimento (i verbali fanno piena prova fino a querela di falso).
La fase istruttoria è aperta ad apporti dei soggetti che abbiano diritto di intervenire e partecipare al proce-
dimento. Questi ultimi sono i soggetti ai quali l'amministrazione è tenuta a comunicare l'avvio del procedi-
mento, possono intervenire anche soggetti portatori di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di in-
teressi diffusi costituiti in associazioni o comitati, ai quali possa derivare un pregiudizio del provvedimento.
La partecipazione e l'intervento incorporano due diritti. Il primo è quello di prendere visione degli atti del
procedimento (cosiddetto accesso procedimentale). Il secondo consiste nella possibilità di presentare
memorie scritte e documenti. Nel loro insieme essi concorrono a fondare il diritto alla partecipazione in-
formata.
L'amministrazione ha l'obbligo di valutare i documenti e le memorie presentate, ove pertinenti all'oggetto
del procedimento e deve pertanto darne conto nella motivazione del provvedimento.

Sotto il profilo organizzativo l'istruttoria è affidata alla figura del responsabile del procedimento, assegnato
di volta in volta dal dirigente responsabile della struttura subito dopo l'apertura del procedimento. La figura
del responsabile del procedimento costituisce una delle principali novità del nuovo modello di rapporti tra
pubblica amministrazione e cittadino, perché consente a quest'ultimo di avere un interlocutore certo con il
quale confrontarsi e rende meno spersonalizzato il rapporto con gli uffici.
I compiti del responsabile del procedimento includono tutte le attività propedeutiche all'emanazione del
provvedimento finale e l'adozione di ogni misura per l'adeguato e sollecito svolgimento dell'istruttoria. In
aggiunta a quelle relative all'accertamento dei fatti, va richiamato il potere di chiedere la rettifica di dichia-
razioni o istanze erronee o incomplete.
Nei procedimenti a istanza di parte il responsabile del procedimento è tenuto ad attivare una fase supple-
mentare di contraddittorio nei casi in cui l'istruttoria effettuata dà esito negativo e porti all'adozione di un
provvedimento di rigetto dell'istanza. Al soggetto che l’ha proposta, e che dunque ha dato avvio al proce-
dimento, deve essere data comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda. Entro 10
giorni l’interessato può presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da altri documenti, nel
tentativo di superare le obiezioni formulate dall’amministrazione. L'eventuale provvedimento finale negati-
vo che rigetta l'istanza deve dar conto delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni eventual-
mente presentate.
Di regola il responsabile del procedimento non adotta il provvedimento finale, ma trasmette tutti gli atti,
corredati usualmente da una relazione istruttoria, all'organo competente a emanare il provvedimento fina-
le. Quest'ultimo si deve attenere di regola alle risultanze dell'istruttoria. Può discostarsene, ma deve indica-
re le ragioni nel provvedimento finale.

6. c) La conclusione: il termine, il silenzio, gli accordi


Conclusa la fase istruttoria, l'organo competente a emanare il provvedimento finale assume la decisione
all'esito di una valutazione complessiva del materiale acquisito al procedimento.
L’art 2 l 241/1990 pone in capo all’amministrazione l’obbligo di concludere il procedimento mediante
l’adozione di un provvedimento espresso produttivo di effetti nella sfera giuridica dei destinatari.
Il provvedimento finale può essere emanato, a seconda dei casi, dal titolare di un organo individuale (sin-
daco,prefetto) oppure da un organo collegiale (giunta comunale, consiglio di amm.).
Accanto ad atti semplici (o monostrutturati) è frequente nelle leggi amministrative il ricorso ad atti com-
plessi (o pluristrutturati), esempi sono il decreto interministeriale, nel quale convergono la volontà parita-
ria di una pluralità di amministrazione; il concerto nel quale il ministero competente a emanare il provve-

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dimento deve prima inviare al ministero concertante lo schema di provvedimento per ottenerne l’assenso o
indicazioni di modifica; l'intesa che interviene nei rapporti tra Stato e regioni.
La determinazione finale è assunta sulla base delle regole vigenti al momento in cui essa è adottata. Al pro-
cedimento si applica infatti il principio del tempus regit actum, in base al quale le modifiche intervenute a
procedimento avviato trovano immediata applicazione, a meno che non si sia in presenza di situazioni giu-
ridiche ormai consolidate o di fasi procedimentali già del tutto esaurite.

Con riferimento alla fase decisionale, gli aspetti principali sono il termine entro il quale il procedimento de-
ve essere concluso e i rimedi in caso di mancato rispetto del termine; il regime del silenzio della pubblica
amministrazione; l'accordo come modalità consensuale alternativa al provvedimento unilaterale.
c1) Il provvedimento deve essere emanato entro il termine stabilito per lo specifico procedimento. L'art.2
pone una disciplina dei termini di conclusione dei procedimenti che è generale e completa: generale, per-
ché essa si applica là dove manchino disposizioni legislative speciali in tema di termini di conclusione del
procedimento; completa, perché l'applicazione della medesima vale direttamente o indirettamente per
tutte le fattispecie di procedimenti. L'art.2 rimette anzitutto a ciascuna pubblica amministrazione, nei casi
in cui i termini dei procedimenti da essa curati non siano già stabiliti per legge, l'obbligo di individuarli per
ciascun tipo di procedimento con propri atti di regolazione e di renderli pubblici. Di regola la durata massi-
ma non deve superare i 90 giorni, in ragione della natura interessi pubblici coinvolti e della complessità del
procedimento. Se le amministrazioni non provvedono a porre una propria disciplina dei termini, si applica
un termine generale di 30 giorni.
In definitiva, la disciplina del termine del procedimento amministrativo posta dall'art.2 l. n. 241/1990 dà
corpo al principio della certezza del tempo dell'agire amministrativo.
Questo principio risponde sia all’esigenza dell’amministrazione alla cura sollecita dell’interesse pubblico
portatrice, sia a quella dei soggetti privati che devono poter programmare le proprie attività facendo affi-
damento sulla tempestività nell’adozione degli atti amministrativi necessari per intraprenderla.
Accanto ai termini relativi alla conclusione del procedimento, le leggi e i regolamenti che disciplinano i sin-
goli procedimenti prevedono talora termini endoprocedimentali relativi ad adempimenti posti a carico dei
soggetti privati o relativi ad atti attribuiti alla competenza di altre amministrazioni (es= i termini per
l’acquisizione di pareri e valutazioni tecniche =20-90 giorni).
I termini finali ed endoprocedimentali hanno di regola natura ordinatoria, perché la loro scadenza non fa
venir meno il potere di provvedere, né rende illegittimo (o nullo) il provvedimento finale emanato in ritar-
do. Solo nei casi in cui la legge qualifichi in modo espresso il termine come perentorio e a pena di decaden-
za il provvedimento tardivo è considerato viziato.
Ad esempio in materia di espropriazione, la dichiarazione di pubblica autorità, che costituisce il presuppo-
sto del decreto di espropriazione, indica un termine entro il quale quest’ultimo deve essere emanato (in
mancanza di indicazione il termine è di 5 anni): il suo decorso determina l’inefficacia della dichiarazione.
Il mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento può provocare conseguenze di vario tipo:
può far sorgere una responsabilità di tipo disciplinare nei confronti del funzionario o una responsabilità di
tipo dirigenziale nei confronti del vertice della struttura; nei casi più gravi il ritardo può essere fonte di re-
sponsabilità penale.
Il mancato rispetto del termine può costituire anche motivo per l'esercizio del potere sostituivo da parte
del dirigente sovraordinato: l’organo di governo di ciascuna amministrazione individua il soggetto titolare
di tale potere cui si può rivolgere il privato in caso di ritardo; se ciò avviene, il dirigente è tenuto a conclu-
dere il procedimento entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto attraverso le strut-
ture competenti o nominando un commissario ad acta.
L'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento può anche far sorgere l'obbli-
go di risarcire il danno a favore del privato (danno da ritardo). Questo tipo di responsabilità che va fatta va-
lere innanzi al giudice amministrativo, prescinde del tutto dalla legittimità o illegittimità del provvedimento
emanato in ritardo. Ciò significa che il tempo dell'agire amministrativo costituisce un bene dalla vita auto-
nomo da quello correlato all'esercizio del potere.

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c2) Può accadere che l'amministrazione non concluda il procedimento entro il termine fissato per legge o
stabilito dall'amministrazione e la situazione di inerzia si protragga nel tempo. Si pone così la questione del
silenzio della pubblica amministrazione.
Fino ad anni recenti l’inerzia mantenuta dall’amministrazione oltre il termine assume il significato giuridico
di inadempimento dell’obbligo formale di provvedere, cioè di concludere il procedimento vuoi con un
provvedimento di accoglimento dell’istanza, vuoi con un provvedimento di rigetto della medesima.
L’inadempimento di tale obbligo non fa venire meno il potere-dovere di provvedere; ciò significa che
l’amministrazione può emanare il provvedimento anche in ritardo, ferma restando l’eventuale responsabili-
tà per il danno cagionato al privato che aveva confidato nel rispetto del termine.
Nei casi di silenzio-inadempimento il privato interessato può proporre al giudice amministrativo un’azione
avverso il silenzio-inadempimento dell’amministrazione, allo scopo di accertare l’obbligo di quest’ultima di
provvedere ed eventualmente la fondatezza della pretesa, e una azione di adempimento volta a condanna-
re l’amministrazione al rilascio del provvedimento richiesto.
In realtà per reagire ai ritardi e al silenzio dell'amministrazione il privato ha a disposizione, una serie di ri-
medi non giurisdizionali e giurisdizionali. Nella legislazione amministrativa sono stati introdotti per singole
tipologie di procedimenti due regimi di silenzio cosiddetto significativo, ora codificati dalla l. n. 241/1990: il
silenzio-diniego (o rigetto) e il silenzio-assenso (o accoglimento).
Il decorso del termine di conclusione del procedimento produce un effetto giuridico ex lege, nel primo caso
di diniego dell'istanza, nel secondo caso di accadimento della medesima. In entrambi i casi il procedimento
si conclude cioè con un provvedimento tacito.
Le fattispecie di silenzio avente valore di diniego sono tassativamente stabilite dalla legge.
Le ipotesi legislative di silenzio-assenso sono molto più numerose, in linea con la tendenza a rimuovere gli
ostacoli alle attività dei privati. Il campo di applicazione del silenzio-assenso è individuato in base ad alcuni
criteri di tipo negativo.
- Il regime non vale anzitutto nei casi di provvedimenti autorizzatori sostituiti dalla segnalazione certificata
di inizio attività.
- Non vale inoltre per i procedimenti che riguardano un elenco piuttosto lungo di interessi pubblici: patri-
monio culturale e paesaggistico ecc.
- Non vale in terzo luogo neppure nei casi in cui la normativa europea impone l'adozione di un provvedi-
mento formale.
- Non vale in quarto luogo nei casi tassativamente previsti per legge di silenzio-rigetto.
- Non vale infine per i procedimenti individuati con decreto del presidente del consiglio dei ministri.
Il silenzio assenso comporta due conseguenze:
- può essere oggetto di provvedimenti di autotutela sotto forma di revoca e di annullamento d'ufficio;
- può essere oggetto di impugnazione innanzi al giudice amministrativo, es. da un soggetto terzo che vuol
contrastare l'avvio dell'attività da parte del soggetto che ha presentato l'istanza alla p.a.

In conclusione il regime del silenzio-assenso non fa venire meno l'obbligo di provvedere in capo all'ammini-
strazione, non altera la struttura del procedimento, ma incide solo sulla fase decisionale, introducendo un
incentivo al rispetto del termine.
Il regime del silenzio-assenso presenta alcuni difetti strutturali.
In primo luogo, poiché esso può applicarsi anche a provvedimenti discrezionali (quelli vincolati sono sosti-
tuiti di regola dalla segnalazione certificata di inizio attività), la valutazione di interessi pubblici, di fatto, nei
casi di inerzia assoluta dell'amministrazione, non viene operata.
In secondo luogo dal punto di vista del soggetto privato che ha presentato l'istanza, il silenzio-assenso non
soddisfa compiutamente l'esigenza di certezza, dal momento che, formatosi il silenzio, il privato non è in
grado di sapere se dietro questo silenzio dell’amm. si celi un’inerzia assoluta degli uffici, oppure se
l’amministrazione, seppur in ritardo, stia effettuando l’istruttoria.
In definitiva il silenzio-assenso è una scorciatoia che non giova né all’interesse pubblico né a quello privato
e dunque non risolve il problema dei ritardi nella conclusione dei procedimenti amministrativi.

c3) Gli accordi integrativi e sostitutivi Il provvedimento espresso emanato in modo unilaterale dall'organo
competente costituisce l'esito normale e più frequente del procedimento amministrativo. Esiste tuttavia

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una modalità alternativa di conclusione del procedimento, cioè l'accordo integrativo o sostitutivo del
provvedimento. Si tratta di un istituto che privilegia per quanto possibile soluzioni concordate volte a ridur-
re il rischio di possibili contenziosi e che pone l'amministrazione su un piano più paritario nei confronti del
soggetto privato.
L'accordo ha per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento, ed è finalizzato a ricercare una mi-
glior composizione e mediazione tra l'interesse pubblico perseguito dall'amministrazione procedente e l'in-
teresse del privato spesso contrapposto al primo. I poteri vincolati, invece, non si prestano a essere oggetto
di accordi in quanto in essi manca il presupposto per una negoziazione.
L'accordo può essere promosso dal soggetto privato il quale può presentare a questo fine osservazioni e
proposte in sede di partecipazione al procedimento. Il responsabile del procedimento, per favorire l'accor-
do, può organizzare anche incontri informali con i soggetti privati interessati.
L'amministrazione non è tuttavia obbligata a concludere accordi integrativi o sostitutivi con i privati e può
sempre prediligere la via del provvedimento unilaterale non negoziato.
Sotto il profilo formale, gli accordi devono essere stipulati per atto scritto, a pena di nullità, salvo che la
legge disponga altrimenti e devono essere motivati.
Ad essi si applicano, i principi del c.c. in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili; le contro-
versie relative alla loro conclusione ed esecuzione rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice ammi-
nistrativo.
Gli accordi sono di due tipi e cioè integrativi o sostitutivi del provvedimento. Gli accordi integrativi servono
solo a concordare il contenuto del provvedimento finale che viene emanato successivamente alla stipula
dell'accordo e in attuazione di quest'ultimo. Sul piano formale il provvedimento mantiene la sua configura-
zione di atto unilaterale produttivo di effetti. Negli accordi sostitutivi gli effetti giuridici si producono in via
diretta con la conclusione dell'accodo, senza alcuna necessità di un atto formale unilaterale di recepimento.
Tuttavia, a garanzia dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione amministrativa, gli accordi devono
essere preceduti da una determinazione dell'organo competente per l'adozione del provvedimento che au-
torizza e stabilisce i limiti della negoziazione. In questo modo si recupera indirettamente, a monte
dell’accordo, un momento di unilateralità.

Un altro momento di unilateralità può emergere anche dopo la conclusione dell'accordo. Infatti, l'ammini-
strazione, per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, può recedere dall'accordo. Il potere di recesso ha
cioè fonte legale ed è dunque espressione di un potere in senso proprio (≠recesso contratti).
Il potere di recesso è dunque riconducibile alla revoca per sopravvenuti motivi di pubblico interesse. Ad es-
so si accompagna l'obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione a eventuali danni
subiti dal privato. La disciplina degli accordi ha il valore simbolico di proporre l'immagine di un'amministra-
zione più aperta al confronto, al dialogo, ai contributi propositivi dei soggetti privati.

7. Procedimenti semplici, complessi, collegati. Il subprocedimento


I procedimenti possono avere una struttura semplice o complessa a seconda del loro oggetto, del numero e
della natura degli interessi pubblici e privati incisi e dunque della necessità di coinvolgere una pluralità di
amministrazioni.
Si spazia tra due estremi:
- procedimenti autorizzatori semplici nei quali la sequenza procedimentale consiste soltanto in una do-
manda o istanza presentata dall'interessato, in un'istruttoria limitata a poche verifiche documentali e
una decisione affidata a un'unica autorità;
- procedimenti complessi che richiedano accertamenti fattuali, momenti partecipativi, acquisizione di pa-
reri o di valutazioni tecniche con il coinvolgimento anche nella fase decisionale di una molteplicità di
amministrazioni statali, regionali e locali. I procedimenti a struttura complessa sono spesso articolati
all'interno in subprocedimenti sequenziali, ciascuno avente una unità funzionale autonoma. Talvolta i
subprocediementi si concludono con atti suscettibili di incidere in via immediata su situazioni giuridiche
soggettive, in quanto produttivi di effetti esterni diversi e indipendenti rispetto all'effetto giuridico pri-
mario riferibile al provvedimento assunto a conclusione dell'intero procedimento.
In realtà la distinzione tra procedimento e subprocedimento ha carattere relativo. Un punto fermo è che
l'unitarietà del procedimento si ha solo là dove nessuno degli atti endoprocedimentali è suscettibile di pro-

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durre effetti giuridici autonomi esterni. Nel caso in cui il sub procedimento produca effetti giuridici auto-
nomi esterni, in termini generali, si parla di procedimenti collegati; questi si hanno in tutti i casi in cui una
pluralità di procedimenti, da avviare in sequenza o in parallelo, sono funzionali a un risultato unitario. Un
esempio di procedimenti collegati in sequenza è l'espropriazione per pubblica utilità; mentre un esempio di
proc. collegati avviati in parallelo è la realizzazione e la messa in opera di un impianto industriale. Il colle-
gamento tra questo tipo di procedimenti è di tipo funzionale, nel senso che la conclusione positiva di cia-
scuno di essi è necessaria per l'avvio di una determinata attività o l'ottenimento di un certo risultato.

In aggiunta alle distinzioni sin qui fatte che si riferiscono ai profili strutturali, anche per i procedimenti, così
come per i provvedimenti amministrativi, sono state proposte in dottrina varie classificazioni.
Si possono distinguere i procedimenti di primo grado e i procedimenti di secondo grado:
- I primi sono finalizzati all'emanazione di provvedimenti amministrativi con effetti esterni e alla cura di
un interesse pubblico (licenza, autorizzazione, diffida).
- I secondi hanno invece per oggetto provvedimenti amministrativi già emanati e per scopo la verifica
della loro legittimità e compatibilità con l'interesse pubblico. Rientrano tra quest'ultimi i procedimenti
di autotutela, come l'annullamento d'ufficio o la revoca, e i ricorsi amministrativi. Possono essere in-
clusi tra i procedimenti di secondo grado anche i controlli sugli atti amministrativi affidati a organi e-
sterni all'amministrazione.
Un'altra distinzione è tra procedimenti finali e procedimenti strumentali.
Mentre i primi sono funzionali alla cura immediata di interessi pubblici nei rapporti esterni con i soggetti
privati, i secondi hanno una funzione prevalentemente organizzatoria e riguardano principalmente la ge-
stione del personale e delle risorse finanziarie.
Un'ulteriore distinzione è tra procedimento in senso proprio e procedura interna all'amministrazione.
- il primo si riferisce agli atti della sequenza procedimentale che trovano disciplina nella legge o in una
fonte normativa in senso proprio (regolamenti).
- La procedura interna riguarda invece gli atti e adempimenti interni all'amministrazione che sono previ-
sti da regole ti tipo organizzativo.

8. La conferenza di servizi e altre forme di coordinamento


I procedimenti complessi e i procedimenti collegati pongono il problema del coordinamento degli adempi-
menti e delle tempistiche relative all'adozione dei vari atti riferibili a una pluralità di uffici o di amministra-
zioni ciascuna titolare di una propria competenza. La l. n. 241/1990 individua come strumento principale di
coordinamento la conferenza di servizi ; alcune fattispecie di conferenza di servizi, fenomeno emerso nella
legislazione amministrativa già prima del ’90, sono disciplinate anche da leggi speciali.
Da un punto di vista descrittivo la conferenza di servizi consiste in una o più riunioni dei rappresentanti de-
gli uffici o della amministrazioni di volta in volta interessate che sono chiamate a confrontarsi e a esprimere
il proprio punto di vista e, nel caso di conferenza decisoria, anche a deliberare.
Con la conferenza dei servizi viene meno la sequenza lineare degli atti endoprocedimentali attribuiti alla
competenza di ciascuna amministrazione. Si tratta di una modalità operativa volta, oltre che a realizzare il
coordinamento tra le amministrazioni, a semplificare lo svolgimento del procedimento e a ridurre i tempi
dell'emanazione dei provvedimenti.
La l. n. 241/1990 distingue tre tipi di conferenza di servizi: istruttoria, decisoria, preliminare.
1. La conferenza di servizi istruttoria è sempre facoltativa e ha la funzione di promuovere un esame conte-
stuale dei vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento singolo o in più procedimenti amministrativi
connessi riguardanti medesime attività o risultati.
Nel caso di procedimento singolo, la conferenza di servizi istruttoria, che si conclude con la verbalizzazione,
serve a raccogliere in unico contesto gli elementi istruttori utili che saranno posti poi alla base della deci-
sione finale adottata dall'organo competente a emanare il provvedimento finale.
Nel caso di conferenza di servizi interprocedimentale la convocazione è operata di regola dall'amministra-
zione che cura l'interesse pubblico prevalente. Anche questa conferenza funge da sede per un confronto
tra le amministrazioni preliminare all'assunzione da parte di queste ultime delle proprie determinazioni.

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2. La conferenza di servizi decisoria è un modulo procedimentale volto a sostituire i singoli atti volitivi e va-
lutativi delle amministrazioni competenti a emanare “intese, concerti, nulla osta o assensi comunque de-
nominati”, che devono essere acquisiti per legge da parte dell'amministrazione procedente.
Essa deve essere convocata se quest’ultima non riceve i singoli atti entro 30 giorni dalla richiesta oppure
quando una delle amministrazioni esprime il proprio dissenso.
La conferenza è convocata dall'amministrazione competente ad adottare il provvedimento finale, anche su
richiesta del soggetto privato interessato, nei casi in cui la conferenza abbia per oggetto atti di tipo autoriz-
zativo che condizionano l'avvio di un'attività. La conferenza di servizi si conclude con un verbale nel quale
sono riportate le posizioni espresse da ciascuna amministrazione partecipante. Sulla base del verbale (atto
a rilevanza interna, non impugnabile) l’amministrazione procedente assume una determinazione motivata
di conclusione del procedimento che “sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione, nullao-
sta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti”. Sotto il
profilo giuridico ogni atto di assenso mantiene la propria autonomia quanto a imputazione
all’amministrazione di riferimento.
I lavori della conferenza di servizi decisoria sono disciplinati da una serie minuta di regole, modificate ripe-
tutamente nel tempo. Gli aspetti più rilevanti della disciplina sono due.
-Il primo riguarda la partecipazione obbligatoria di tutte le amministrazioni invitate i cui rappresentanti de-
vono essere muniti dei poteri necessari per assumere determinazioni vincolanti. L'assenza alla conferenza
di servizi determina un effetto di silenzio-assenso in relazione all'atto attribuito alla competenza dell'ammi-
nistrazione non partecipante.
-Il secondo attiene al dissenso manifestato da una o più amministrazioni partecipanti alla conferenza di ser-
vizi. In origine valeva il principio dell'unanimità dei consensi e questo causava effetti paralizzanti, in seguito
(L.15/2005) si è optato per la regola attuale in base alla quale la determinazione finale motivata all'esito
della conferenza di servizi adottata dall'amministrazione procedente deve tener conto delle posizioni pre-
valenti espresse in quella sede; espressione che va intesa in senso qualitativo, anziché in quello quantitati-
vo di voto a maggioranza dei partecipanti, e consente dunque di superare il dissenso espresso da singole
amministrazioni. Solo quando il dissenso è espresso dai rappresentanti di amministrazioni che curano inte-
ressi pubblici ritenuti di rango prioritario non vale questa regola; per superare il dissenso la decisione finale
viene rimessa, in ultima analisi, alla sede decisionale di livello più elevato nel nostro ordinamento, vale a
dire al Consiglio dei ministri.
La conferenza di servizi è sopratutto uno strumento di coordinamento tra pubbliche amministrazioni, ma in
alcuni casi anche i soggetti privati possono partecipare, senza peraltro diritto di voto.

3. Il terzo tipo di conferenza di servizi è quella preliminare, che può essere convocata su richiesta motivata
di soggetti privati interessati a realizzare progetti di particolare complessità o di insediamenti produttivi. Il
privato sottopone uno studio di fattibilità alle amministrazioni competenti a rilasciare gli atti autorizzativi, i
pareri e le intese ancor prima di presentare formalmente le istanze necessarie.

Accanto alle conferenze di servizi l'ordinamento prevede altre forme di coordinamento.


a. Il Testo unico sull'ordinamento degli enti locali disciplina uno strumento generale di coordinamento
costituito dall'accordo di programma. L'accordo in questione, è finalizzato alla definizione e attuazione
di opere, di interventi o di programmi di intervento che coinvolgono una pluralità di amministrazioni, è
però retto ancora dal principio del consenso unanime dei partecipanti.
b. La l. n. 241/1990 prevede in termini ancor più generali, come strumenti per disciplinare lo svolgimento
in collaborazione di attività di interesse comune, gli accordi tra pubbliche amministrazioni. L'oggetto
di questo tipo di accordi è definito in modo volutamente generico (attività di interesse comune) e con-
sente dunque di coprire un'amplissima gamma di situazioni nelle quali le amministrazioni si trovino a
interagire. È stato introdotto l’obbligo di sottoscrizione con firma digitale, a pena di nullità. Inoltre
molti tipi di accordi più specifici sono previsti nella legislazione amministrativa come strumento di co-
ordinamento bilaterale o plurilaterale paritario (CONSOB, Banca d’Italia)
c. C'è un altro strumento per attuare un coordinamento tra una pluralità di amministrazioni competenti
a emanare atti di assenso necessari per lo svolgimento di particolari attività. Si tratta del modello della

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cosiddetta autorizzazione unica, nella quale confluiscono i singoli atti di assenso. L'autorizzazione uni-
ca è attribuita alla competenza della regione. L'autorizzazione deve essere rilasciata nel rispetto delle
normative vigenti, essa è rilasciata a seguito di un procedimento unico al quale partecipano tutte le
amministrazioni interessate.
d. Uno strumento organizzativo concepito per rendere più agevole il coordinamento e semplificare i rap-
porti tra amministrazioni e soggetti privati è il cosiddetto sportello unico, cioè un ufficio istituito con
la funzione specifica di far da tramite tra quest'ultimi e i vari uffici e amministrazioni competenti a e-
manare gli atti di assenso, i pareri e le valutazioni di volta in volta necessari.

9. Tipi di procedimento: a) L'espropriazione per pubblica utilità


Riguardo al provvedimento amministrativo è stata posta una distinzione tra provvedimenti amministrativi
produttivi di effetti limitativi della sfera giuridica del destinatario e quelli produttivi di effetti ampliativi
della sfera giuridica del destinatario.
I procedimenti che si concludono con provvedimenti del primo tipo il privato è titolare di un interesse legit-
timo oppositivo e la dinamica del rapporto giuridico amministrativo è di contrapposizione e assume rilievo
preminente la garanzia del contraddittorio; nei procedimenti che si concludono con provvedimenti del se-
condo tipo il privato è titolare di un interesse legittimo pretensivo e la dinamica del rapporto giuridico
amministrativo ha un carattere collaborativo.
Il procedimento espropriativo è oggetto di una disciplina legislativa articolata, attesa la sua incidenza su
uno dei diritti considerati più rilevanti, come quello di proprietà, e la conseguente necessità di circondare
l'esercizio del potere di una serie di garanzie a favore del soggetto privato.
La materia è stata riordinata nel Testo unico del 2001 in materia di espropriazioni prevedendo quattro fasi:
1)l'apposizione del vincolo finalizzato all'esproprio che consegue all'approvazione del piano urbanistico ge-
nerale o a una variante;
2)la dichiarazione di pubblica utilità;
3)l'emanazione del decreto di esproprio;
4)la determinazione dell'indennità di esproprio.
Il Testo unico disciplina anche gli istituti della cessione volontaria del bene, dell'occupazione preordinata
all'esproprio e della retrocessione.
Il Testo unico enuncia anzitutto il principio di legalità precisando che l'espropriazione può essere disposta
nei soli casi previsti dalla legge o dai regolamenti. Il potere espropriativo è attribuito a tutte le amministra-
zioni (stato, regioni, comuni) competenti a realizzare un opera pubblica. Il potere in questione è dunque un
potere per così dire “diffuso” e accessorio (cioè funzionale alla realizzazione dell'opera pubblica).
In alcuni casi l’iniziativa può partire anche da un privato a favore del quale viene emesso il decreto di e-
sproprio e che, per questo, è tenuto al pagamento dell’indennità.
Le 4 fasi:
1. Il vincolo preordinato all'esproprio instaura un collegamento tra l'attività di pianificazione del territorio
e il procedimento espropriativo. Il vincolo può essere posto all'esito delle procedure di pianificazione urba-
nistica ordinarie o speciali o in seguito all'atto di approvazione di un progetto preliminare o definitivo di
un'opera pubblica. L'apposizione del vincolo è circondata da alcune garanzie. È infatti prevista la partecipa-
zione dei proprietari ai quali deve essere inviato con un congruo anticipo un avviso di avvio del procedi-
mento affinché essi possano formulare nei 30 giorni successivi le proprie osservazioni. Il vincolo ha la dura-
ta di 5 anni ed entro questo termine deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità. Esso costituisce un
atto impugnabile innanzi al giudice amministrativo in quanto già produttivo di effetti giuridici nei confronti
dei proprietari.
2. In molti casi, oggi, la dichiarazione di pubblica utilità è implicita, perché costituisce uno degli effetti au-
tomatici prodotti da alcuni atti come l'approvazione del progetto definitivo di un'opera pubblica, oppure
l'approvazione di un piano particolareggiato o di lottizzazione. La dichiarazione di pubblica utilità ha a sua
volta un'efficacia temporalmente limitata (5 anni suscettibili di proroga, oppure il diverso termine apposto
nella dichiarazione), e prima della scadenza del termine deve intervenire il decreto di esproprio. La scaden-
za del termine comporta l'inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità.

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3. Il decreto di esproprio determina il trasferimento del diritto di proprietà dal soggetto espropriato al sog-
getto nel cui interesse il procedimento è stato avviato. A questo effetto si aggiunge anche l'estinzione au-
tomatica di tutti i diritti reali o personali gravanti sul bene espropriato, salvo quelli compatibili con i fini cui
lì espropriazione è preordinata. In base al Testo unico, l'efficacia del provvedimento è subordinata a due
condizioni sospensive. Infatti, l'effetto traslativo si produce in seguito alla ¹notifica e ²all'esecuzione del de-
creto che deve avvenire nel termine perentorio di 2 anni mediante l'immissione in possesso del beneficiario
dell'esproprio.
4. Il decreto di esproprio deve indicare l'importo dell'indennità determinato in via provvisoria. Quest'ulti-
mo è quantificato all'esito di una fase in contraddittorio con gli interessati, infatti, non appena sia divenuta
efficace la dichiarazione di pubblica utilità, il promotore della procedura espropriativa formula ai proprieta-
ri un'offerta. Questi ultimi, assisti eventualmente anche da propri tecnici di fiducia, possono indicare quale
sia il valore da attribuire al bene ai fini della determinazione dell'indennità.
L’autorità procedente, valutate le osservazioni degli interessati, determina in via provvisoria la misura
dell’indennità. I privati nei 30 giorni successivi possono comunicare all’autorità espropriante una dichiara-
zione irrevocabile di assenso rispetto alla proposta; in questa ipotesi il beneficiario dell’espropriazione e il
proprietario possono stipulare la cessione volontaria del bene, con il pagamento immediato dell’indennità
concordata.
Se il privato non accetta la proposta o comunque decorsi inutilmente 30 giorni dalla notifica dell'atto che
determina l'indennità provvisoria, l'autorità espropriante emana il decreto di esproprio e deposita l'inden-
nità provvisoria rifiutata presso la Cassa depositi e prestiti.
Da questo momento in poi il procedimento per la determinazione in via definitiva dell'indennità ha uno
svolgimento autonomo. Il procedimento prevede l'intervento di una Commissione provinciale istituita pres-
so l'ufficio tecnico erariale che procede alla determinazione definitiva dell'indennità. A questo punto il pro-
prietario che intenda contestare quest'ultima può avviare un procedimento innanzi alla Corte d'appello per
ottenere una determinazione in via giudiziale dell'indennità.
Il procedimento di esproprio è espressione di un potere tipicamente unilaterale. L'ordinamento tende a fa-
vorire soluzioni consensuali attraverso l'istituito della cessione volontaria del bene. Quest'ultima è configu-
rata come un diritto soggettivo dell'espropriando nei confronti del beneficiario dell'espropriazione.
I vantaggi per l'espropriando sono essenzialmente di tipo pecuniario, visto che il prezzo di cessione è com-
misurato all'indennità di esproprio con alcune maggiorazioni. L'accordo di cessione produce gli effetti del
decreto di esproprio.
In definitiva, il procedimento di espropriazione si caratterizza per presenza in tutte le sue fasi di garanzie
del contraddittorio particolarmente rigorose.

La vicenda espropriativa può dar luogo al fenomeno dei procedimenti collegati in parallelo, prima della
emanazione del decreto di esproprio (terza fase), l'amministrazione può avviare il procedimento di occupa-
zione d’urgenza al fine di acquisire immediatamente la disponibilità materiale del bene e di intraprendere i
lavori per la realizzazione dell’opera pubblica.
Ciò può avvenire in tre ipotesi: àsi svolge sempre in contraddittorio
-allorché l'amministrazione ritenga che l'avvio dei lavori rivesta carattere di urgenza tale da non consentire
il perfezionamento del procedimento ordinario;
-in relazione ai progetti delle grandi opere pubbliche previste dalla cosiddetta legge obiettivo per le quali
l'urgenza è già accertata per legge;
-allorché la procedura espropriativa riguardi più di 50 proprietari.

La retrocessione dei beni espropriati è un'ulteriore garanzia del diritto di proprietà nei confronti di un uso
inappropriato del potere espropriativo. La retrocessione consiste infatti nel diritto del soggetto espropriato
di riacquistare la proprietà del bene nei casi in cui l'opera pubblica non viene realizzata o non tutto il bene
espropriato viene riutilizzato.
La retrocessione totale può avvenire nei casi in cui l'opera pubblica non sia stata realizzata nel termine di
10 anni dall'esecuzione del decreto di espropriazione o anche prima allorché risulti l'impossibilità della sua
esecuzione; l’espropriato può richiedere anche il pagamento di una somma di denaro a titolo di indennità.

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La retrocessione parziale può essere richiesta per le parti del bene espropriato che non siano state utilizza-
te una volta realizzata l'opera pubblica. Il comune ha tuttavia un diritto di prelazione sull'area inutilizzata
che può essere così acquisita al patrimonio indisponibile dell'ente territoriale.
Il corrispettivo a carico del soggetto che richiede la retrocessione è determinato tra le parti e in caso di
mancato accordo può essere instaurata la stessa procedura prevista per la determinazione dell'indennità di
esproprio innanzi alla Commissione provinciale.
Infine l’istituto della acquisizione sanante consente all’amministrazione che ha occupato sine titulo un be-
ne per scopi di pubblica utilità, che ha visto annullati dal giudice amministrativo o che abbia annullato
d’ufficio in pendenza di giudizio i provvedimenti emanati, di disporne l’acquisizione, non retroattiva, al suo
patrimonio indisponibile.

10. b)Le sanzioni pecuniarie e disciplinari


Tra i provvedimenti restrittivi della sfera giuridica dei destinatari, ci sono i provvedimenti sanzionatori.
Il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni, al pari di quello espropriativo, è strutturato in modo da ga-
rantire il principio del contraddittorio.
Le principali tipologie di sanzioni sono le sanzioni pecuniarie e le sanzioni disciplinari.
Il procedimento per l'irrogazione delle sanzioni di tipo pecuniario, disciplinato dalla L.689/1981, prevede
più fasi: l'accertamento; la contestazione degli addebiti; l'ordinanza-ingiunzione.
1. A monte dell'apertura del procedimento, vi è anzitutto la fase dell'accertamento che consiste in
un'attività di raccolta e di prima valutazione degli elementi di fatto suscettibili di integrare una fat-
tispecie di illecito amministrativo. L'attività preprocedimentale consiste nell'assunzione di infor-
mazioni, rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici e altre operazioni tecniche. Queste attività sono
effettuate dagli agenti accertatori individuati nelle normative di settore, come gli agenti e ufficiali di
polizia giudiziaria e gli organi amministrativi addetti al controllo sull’osservanza delle disposizioni
per la cui violazione è prevista una sanzione pecuniaria.In alcuni casi le attività di accertamento av-
vengono in contraddittorio: così, in particolare, nel caso di analisi tecniche di campioni l’interessato
può chiedere la revisione dell’analisi effettuata dal dirigente del laboratorio indicando anche un
proprio consulente tecnico. Le attività poste in essere e le risultanze delle medesime confluiscono
in un processo verbale redatto dall'agente accertatore e che fa piena prova fino a querela di falso.
2. Sulla base dell'accertamento, ove da esso emerga la violazione di norme amministrative, l'ammini-
strazione procede alla contestazione dell'illecito al trasgressore. La contestazione deve essere no-
tificata nel termine di 90 giorni dall'accertamento. Questo termine ha natura perentoria poiché il
suo decorso determina l'estinzione dell'obbligazione del pagamento della somma dovuta. La conte-
stazione deve indicare con sufficiente precisione gli elementi di fatto suscettibili di essere sussunti
in una fattispecie sanzionatoria. Entro 30 giorni dalla data della contestazione o notificazione della
violazione, gli interessati possono presentare scritti difensivi e documenti. Possono anche chiedere
di essere sentiti personalmente dall'autorità amministrativa. Entro 60 giorni dalla notificazione del-
la contestazione l'interessato può procedere all'oblazione, cioè al pagamento di una somma ridot-
ta, che estingue l'obbligazione pecuniaria senza che si proceda ad un accertamento dell'illecito.
3. L'autorità procedente, ove ritenga provata la violazione all'esito della valutazione di tutti gli ele-
menti istruttori e dell'eventuale audizione orale, emana l'ordinanza-ingiunzione, cioè un provve-
dimento motivato che determina l'ammontare della sanzione pecuniaria e ingiunge al trasgressore
il pagamento della medesima, insieme con le spese, entro il termine di 30 giorni. In caso contrario
l'autorità dispone l'archiviazione con ordinanza motivata comunicata all'organo che ha redatto il
rapporto. L'ordinanza-ingiunzione può irrogare a seconda dei casi, anche sanzioni accessorie, come
la confisca di cose il cui uso costituisce violazione amministrativa, oppure la sospensione di un li-
cenza. Il pagamento deve essere effettuato nel termine di 30 giorni dalla notificazione del provve-
dimento.
Contro l'ordinanza-ingiunzione può essere proposta opposizione innanzi al giudice ordinario entro un ter-
mine di 30 giorni dalla notificazione del provvedimento. L'oggetto del giudizio innanzi al giudice ordinario
non consiste tanto nell'accertamento della legittimità dell'ordinanza-ingiunzione, quanto nell'accertamento
dei presupposti di fatto e di diritto della violazione e, di conseguenza, della sussistenza della pretesa credi-
toria dell'amministrazione e del correlato obbligo al pagamento della somma di danaro in capo al trasgres-
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sore. La l. n. 689/1981 contiene un sistema organico e compiuto di norme sostanziali e procedurali che è
autosufficiente, tale da non richiedere integrazioni esterne da parte della l. n. 241/1990.
La legge 689/1981 costituisce una legge generale in tema di sanzioni amministrative; esso però subisce di
frequente deroghe nelle discipline di settore. Tra le norme speciali contenute nelle discipline di settore
viene richiamata la regola secondo la quale “le funzioni istruttorie devono essere affidate a uffici o organi
distinti dall'organo che assume la determinazione finale”. Questa regole, che costituisce un’ulteriore garan-
zia del contraddittorio, è stata introdotta per le autorità amministrative indipendenti operanti in particolare
nel settore finanziario. Altre norme speciali, riguardano i procedimenti sanzionatori di competenza dell'Au-
torità garante della concorrenza e del mercato e di altra autorità di regolazione, prevedono che il procedi-
mento sanzionatorio possa concludersi, anziché con l'accertamento dell'illecito e l'irrogazione della sanzio-
ne, con l'approvazione di impegni proposti dall'impresa alla quale è stato contestato l'illecito volti a porre
rimedio alle distorsioni concorrenziali.

Una specie di sanzioni amministrative è costituita dalle sanzioni disciplinari previste anzitutto per i dipen-
denti delle pubbliche amministrazioni, ma anche per altri soggetti sottoposti a regimi speciali e poteri di vi-
gilanza attribuiti ad apparati pubblici (es: i promotori finanziari vigilati dalla CONSOB).
Anche i procedimenti per l'irrogazione delle sanzioni disciplinari, ora in gran parte soggette a una disciplina
privatistica, prevedono ampie garanzie del contraddittorio.
Il procedimento si conclude con l'archiviazione o con l'irrogazione della sanzione (sospensione temporanea
dal servizio, licenziamento), entro 60 giorni dalla contestazione dell'addebito. I termini sopra indicati hanno
carattere perentorio, nel senso che il loro superamento determina la decadenza dall'azione disciplinare e
per il dipendente dall'esercizio del diritto di difesa.
Le sanzioni disciplinari possono essere impugnate dal dipendente davanti al giudice ordinario. Nel caso di
sanzioni irrogate a dipendenti esclusi dal regime di privatizzazione, la giurisdizione è del giudice ammini-
strativo.

11. c)Le autorizzazione. Il permesso a costruire


Con riguardo ai procedimenti che si concludono con provvedimenti che producono effetti ampliativi della
sfera giuridica del destinatario, conviene partire dalla disciplina generale prevista per le autorizzazioni che
ricadono nel campo di applicazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno. La
direttiva pone anzitutto il principio secondo il quale le procedure e le formalità per l'accesso a un'attività di
servizi devono essere “sufficientemente semplici”. Gli Stati membri devono istituire sportelli unici presso i
quali gli interessati possono espletare tutte le procedure e acquisire le informazioni.
Le procedure e le formalità devono “essere chiare, rese pubbliche preventivamente e tali da garantire ai ri-
chiedenti che la loro domanda sarà trattata con obiettività e imparzialità”. Gli oneri che possono derivare
per i richiedenti devono essere ragionevoli e commisurati ai costi delle procedure di autorizzazione.
La domanda di autorizzazione deve essere trattata con la massima sollecitudine e comunque entro un
termine di risposta ragionevole prestabilito e reso pubblico preventivamente. La mancata risposta entro il
termine stabilito fa scattare il silenzio-assenso. Solo in presenza di un motivo imperativo di interesse gene-
rale le leggi di settore possono escluderlo introducendo un regime del silenzio-inadempimento.
Un esempio di procedimento autorizzatorio disciplinato dal diritto interno è quello relativo al rilascio del
permesso a costruire disciplinato dal Testo unico in materia edilizia. Le leggi regionali contengono discipli-
ne particolari.
Il procedimento si apre con la presentazione allo sportello unico per l'edilizia del comune di una domanda
sottoscritta, di regola, dal proprietario. La domanda deve essere corredata da un'attestazione concernente
il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali, da altra documentazione tecnica.
Entro 10 giorni lo sportello unico comunica al richiedente il nominativo del responsabile del procedimento.
Quest'ultimo cura l'istruttoria acquisendo i pareri degli uffici comunali ed altri pareri. Se sono richiesti altri
atti di assenso a cura di amministrazioni diverse il responsabile del procedimento convoca una conferenza
di servizi.
All'esito dell'istruttoria, entro 60 giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimen-
to, valutata la conformità del progetto a tutta la normativa applicabile, formula una proposta al dirigente
del servizio il quale nei successivi 15 giorni rilascia il permesso a costruire.

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Decorsi i termini sopra menzionati si intende formato il silenzio-rifiuto. L'interessato può a questo punto
proporre un ricorso in sede giurisdizionale. In alternativa può richiedere, con un’istanza formale avente va-
lore di diffida, che il dirigente si pronunci entro 15 giorni. Decorso inutilmente anche questo termine,
l’interessato può richiedere alla regione di esercitare il potere sostitutivo con la nomina di un commissario
ad acta che provvede nel termine di 60 giorni.
In materia edilizia,molti interventi di minor impatto sono sottoposti a regimi semplificati di segnalazione
certificata di inizio attività.

12. d)I procedimenti concorsuali


Le pubbliche amministrazioni sono sempre più spesso enti erogatori di danaro e di altre utilità che vengono
messe a disposizione dei soggetti privati. Peraltro in molti casi le risorse e i beni attribuibili sono limitati. Si
pone allora per l'amministrazione il problema di come scegliere tra più aspiranti allo stesso bene o utilità.
Alcune indicazioni provengono dalla Costituzione e dal diritto europeo, che pongono rispettivamente il
principio di eguaglianza e il principio del concorso pubblico.
La direttiva 2006/123/CE dispone che gli Stati membri applichino una procedura di selezione tra i candidati
potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e trasparenza e preveda, in particolare, un'adeguata pubbli-
cità dell'avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento.
L’autorizzazione così rilasciata deve avere una durata limitata e deve escludere il rinnovo automatico, ciò
affinché possa essere avviata una nuova procedura selettiva.
In definitiva, i procedimenti di tipo competitivo o concorsuale hanno la funzione specifica di selezionare gli
aspiranti a una risorsa scarsa in base ad alcuni principi generali: il principio di pubblicità che consente a tut-
ti i potenziali interessati di aver notizia della procedura che sta per essere avviata; il principio di parità di
trattamento che mira a porre sullo stesso piano tutti gli aspiranti; il principio di trasparenza della procedu-
ra che consente un controllo sulla corretta applicazione dei criteri di selezione; il principio di oggettività dei
criteri che fa prediligere parametri di riferimento che non lasciano spazi di discrezionalità, o che comunque
tende a promuovere la non arbitrarietà dei giudizi valutativi.
Uno dei principali esempi di questa tipologia di procedimenti è il concorso per l'accesso agli impieghi pub-
blici che costituisce la modalità ordinaria per il reclutamento del personale alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni. Un secondo esempio di procedimenti di tipo concorsuale particolarmente rilevante è quel-
lo dell'affidamento dei contratti pubblici disciplinato dal Codice dei contratti pubblici.

13. e)L’accesso ai documenti amministrativi


Il procedimento di accesso è a iniziativa di parte e si apre con la richiesta presentata dal soggetto interessa-
to. La richiesta va rivolta a una pubblica amministrazione, nozione che include tutti i soggetti di diritto
pubblico ed i soggetti di diritto privato limitatamente all'attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto
nazionale e comunitario.
La richiesta può riferirsi soltanto a documenti ben individuati e già formati: ben individuati, perché il diritto
di accesso non è uno strumento di controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni; già
formati, perché l'amministrazione non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di soddisfare le ri-
chieste.
Si distingue due modalità di accesso, formale e informale:
- L'accesso informale si può avere quando non vi siano soggetti controinteressati per i quali si ponga un
problema di riservatezza e in questo caso la richiesta può essere anche verbale. Essa è esaminata imme-
diatamente e senza formalità ed è accolta senza l'adozione di un particolare atto ma mediante
l’esibizione di un documento.
- L'accesso formale è necessario nei casi in cui l'amministrazione risconti l'esistenza di potenziali controin-
teressati, o quando sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente sotto il profilo dell'interesse o sul-
la accessibilità di un documento in relazione alle norme sull’esclusione e in altre ipotesi che richiedono
una valutazione più approfondita.
La richiesta deve essere presentata per iscritto e deve indicare gli estremi del documento. Essa deve inoltre
essere motivata sotto il profilo dell'interesse diretto, concreto e attuale connesso all'oggetto della richiesta.
Il procedimento prevede anche una fase di contraddittorio con i soggetti controinteressati. Infatti, l'ammi-

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nistrazione è tenuta a dar comunicazione a questi ultimi della richiesta presentata con l'assegnazione di un
termine di 10 giorni per l'eventuale presentazione di una opposizione motivata.
L'accesso è gratuito e consiste nell'esame dei documenti presso l'ufficio con la presenza, ove ritenuta ne-
cessaria, di personale addetto. La copia dei documenti è rilasciata dietro il pagamento di regola, del solo
rimborso del costo di produzione.
Il procedimento di accesso deve concludersi entro 30 giorni dalla richiesta. Decorso il termine la richiesta si
intende respinta, si forma cioè il silenzio-diniego. Il provvedimento che rifiuta, limita o differisce l'accesso
deve essere motivato. L’atto di accoglimento della richiesta indica l’ufficio e il periodo di tempo (almeno 15
gg) concesso per prendere visione o per ottenere copia dei documenti.
Il procedimento può concludersi, oltre che con un provvedimento che concede o nega l'accesso, anche con
un provvedimento che dispone il differimento dell'accesso. Quest'ultimo si giustifica nei casi in cui l'acces-
so possa compromettere, specie il buon andamento dell'azione amministrativa, chiaramente una volta con-
cluso il procedimento non vi è alcuna ragione per non rendere disponibile agli interessati l’intera documen-
tazione. Anche qui nella scelta tra diniego e differimento, sembra esservi uno spazio per una qualche valu-
tazione discrezionale.
Contro il diniego espresso o tacito dell'accesso, può essere proposto un ricorso giurisdizionale entro 30
giorni innanzi al giudice amministrativo. In alternativa al ricorso giurisdizionale, la l. n. 241/1990 prevede,
un ricorso di tipo amministrativo esperibile, a seconda dei casi, innanzi al difensore civico o alla Commis-
sione per l'accesso ai documenti amministrativi istituita presso la presidenza del Consiglio dei ministri. Se
ritengono illegittimi il diniego o il differimento dell'accesso, il difensore civico o la Commissione lo comuni-
cano all'autorità amministrativa. Se quest'ultima non emana un provvedimento confermativo motivato en-
tro 30 giorni, l'accesso è consentito, cioè si forma il silenzio-assenso.

Capitolo 7: La responsabilità

2. Premessa
La responsabilità della p.a., in passato confinata ai comportamenti lesivi di un diritto soggettivo, è stata e-
stesa, in seguito alla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione 500/1990, alla lesione degli in-
teressi legittimi.
Da un punto di vista storico, la responsabilità dello Stato, collegata a comportamenti o ad atti illeciti dei
suoi agenti, costituisce l'esito di un'evoluzione il cui punto iniziale è il principio della immunità del sovrano
sancito in tutti gli ordinamenti in epoca antecedente allo Stato di diritto. Ancora a fine Ottocento la dottri-
na italiana sosteneva che l'idea stessa della responsabilità dello Stato fosse incompatibile con il carattere
etico dello Stato e con il perseguimento di fini pubblici da parte degli apparati pubblici. Con l'affermarsi
dell'ideale dello Stato di diritto l'immunità della pubblica amministrazione venne via via erosa a favore di
un'applicazione più piena del principio di responsabilità. Così, nel nostro ordinamento, si affermò la tesi se-
condo la quale la pubblica amministrazione è responsabile nei confronti di terzi in relazione ai cosiddetti
atti di gestione.
Due sono i modelli prevalenti di responsabilità della pubblica amministrazione affermatisi a livello europeo.
Il primo adottato in Gran Bretagna, si fonda sul principio della responsabilità personale del dipendente
pubblico nei confronti dei terzi danneggiati, responsabilità che entro certo limiti può essere estesa dalla
legge agli apparati al servizio dei quali opera il dipendente. Il secondo modello, adottato in Germania, si
fonda sul principio opposto della responsabilità oggettiva indiretta dell'apparato, nella sua veste di datore
di lavoro del dipendente che ha posto in essere l'illecito.
Quale sia il modello, la responsabilità dell’amministrazione e dei suoi funzionari richiedere un bilanciamen-
to tra esigenze in parte contrapposte:
- rifondere pienamente i privati dei danni subiti;

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- scoraggiare comportamenti illeciti da parte dei dipendenti pubblici ponendo un incentivo per innalzare il
grado di diligenza nei comportamenti degli agenti pubblici e per promuovere rispetto degli standard le-
gali;
- evitare il rischio di un eccesso di deterrenza, nel senso che il timore della responsabilità personale del
dipendente può costruire un freno all’attività delle amministrazioni posta in essere per perseguire inte-
ressi pubblici e ne compromette dunque l’efficacia.

2. L’art. 28 della Costituzione e gli sviluppi successivi


La responsabilità della pubblica amministrazione in Italia trova fondamento dell'art.28Cost. La disposizione
stabilisce che “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili se-
condo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la respon-
sabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.
L'art.28 sembra porre in primo piano la responsabilità personale del dipendente e solo in via subordinata la
responsabilità dell'apparato. Quest'ultima sembra avere carattere sussidiario e parallelo:
- sussidiario perché il danneggiato deve proporre l'azione per danni in prima battuta nei confronti del di-
pendente pubblico e può agire contro l'amministrazione solo nei casi in cui quest'ultimo non abbia un
patrimonio capiente;
- parallelo perché può sorgere se e solo se sussista una responsabilità personale del dipendente.
Già prima della Cost. la responsabilità degli apparati pubblici derivante da comportamenti illeciti venne ri-
costruita come responsabilità diretta che sorge in base al cosiddetto rapporto organico intercorrente tra
l'agente e l'amministrazione di appartenenza. A quest'ultima si imputano direttamente gli effetti dell'attivi-
tà del primo, sia che essa si esprima in provvedimenti amministrativi, sia che essa si esprima in comporta-
menti.
Pertanto, in caso di attività illecita posta in essere dal dipendente nell'ambito delle mansioni alle quali è a-
dibito, la responsabilità sorge esclusivamente in capo alla pubblica amministrazione (tranne in alcuni casi
stabiliti da leggi speciali). Quest'ultima peraltro può rivalersi sul dipendente in base ai principi della respon-
sabilità amministrativa, cioè di una responsabilità di tipo interno.

L'applicazione alla pubblica amministrazione dei principi di diritto comune in tema di responsabilità subì i-
nizialmente numerose deroghe. Da un lato, varie leggi speciali riferite a particolari tipi di attività connesse a
servizi pubblici ponevano limiti alla responsabilità del gestore. Dall'altro lato, interpretazioni giurispruden-
ziali ritennero incompatibile l'applicazione di alcune regole civilistiche alla pubblica amministrazione (art
2050 c.c. “responsabilità per l’esercizio di attività pericolose”).
Tuttavia la giurisprudenza ha via via superato molte interpretazioni volte a riconoscere alla pubblica ammi-
nistrazione aree di immunità: ha per esempio applicato l’art. 2050c.c. all’attività di gestione di linee elettri-
che ad alta tensione. Anche la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale varie leggi che limitavano
la responsabilità dell’amministrazione.
In definitiva, l'evoluzione normativa e giurisprudenziale nel nostro ordinamento è stata nella direzione di
far confluire sempre più le responsabilità della pubblica amministrazione nel diritto comune.

3. La responsabilità civile da comportamento illecito


La responsabilità della pubblica amministrazione e dei suoi agenti riferita a meri comportamenti, cioè a
condotte non ricollegabili all'esercizio di un potere e all'emanazione di un provvedimento, richiede di tene-
re ben distinti tre rapporti fondamentali:
- il rapporto tra terzo danneggiato e il dipendente pubblico che ha posto in essere il comportamento ille-
cito;
- il rapporto tra il terzo danneggiato e la pubblica amministrazione nella quale è incardinato il dipendente
pubblico;
- il rapporto per così dire interno tra dipendente e amministrazione di appartenenza.
Il Testo unico sugli impiegati civili prevede:
- In primo luogo, la responsabilità del funzionario e dell'amministrazione per danni provocati a terzi è una
responsabilità diretta di tipo solidale. Il danneggiato può scegliere liberamente se agire contro il dipen-
dente, contro l'amministrazione o contro entrambi. Si prevede infatti, da un lato, che l'impiegato che
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cagioni ad altri un danno ingiusto “ è personalmente obbligato a risarcirlo”; dall'altro lato che l'azione di
risarcimento nei suoi confronti “può essere esercitata congiuntamente con l'azione diretta nei confronti
dell'amministrazione”.
- In secondo luogo, il perimetro della responsabilità della pubblica amministrazione è più ampio di quello
della responsabilità del dipendente. La responsabilità personale di quest'ultimo per danni provocati
nell'esercizio delle funzioni alle quali è preposto è limitata ai casi di dolo e colpa grave. In caso di colpa
lieve, l'azione risarcitoria può essere proposta solo nei confronti dell'amministrazione e viene dunque
meno il principio del parallelismo. Inoltre, l'impossibilità praticata di identificare il dipendente pubblico
che ha posto in essere il comportamento dannoso non esclude la responsabilità della pubblica ammini-
strazione, purché sia accertato che la condotta sia riferibile a un dipendente di quell'amministrazione.
- In terzo luogo, l'amministrazione che abbia risarcito il terzo del danno cagionato dal dipendente può e-
sercitare un'azione di regresso contro quest'ultimo secondo i principi della responsabilità amministrati-
va. Questa responsabilità ha natura per così dire interna al rapporto tra dipendente e amministrazione e
include tutti i danni derivanti da violazioni di obblighi di servizio.

Va posta una distinzione tra illecito causato da meri comportamenti degli agenti della pubblica ammini-
strazione e illecito conseguente all'emanazione di provvedimenti amministrativi illegittimi.
La responsabilità da meri comportamenti riguarda tipicamente i danni conseguenti a un incidente stradale
causato da un automezzo militare; quelli subiti da uno scolaro non sorvegliato adeguatamente dell'inse-
gnante. In base all’art 2043 c.c., per essere risarcibile il danno deve essere riconducibile a una condotta
colposa o dolosa dell'agente; deve essere qualificato come ingiusto; deve sussistere un nesso di casualità
tra condotta ed evento pregiudizievole.
Per quanto riguarda la condotta, in conformità ai principi generali, la responsabilità del dipendente e della
pubblica amministrazione può sorgere sia quando l'illecito consegua al compimento di atti o operazioni, sia
quando l'illecito consista nell'omissione o nel ritardo ingiustificato di atti od operazioni al cui compimento
l'impiegato è obbligato per legge o per regolamento.
Inoltre nel caso in cui la condotta consista in atti od operazioni compiuti da un organo collegiale, tutti i
membri del collegio sono responsabili in solido (salvo dissenso verbalizzato).
Infine, la condotta illecita deve essere riconducibile all’agente in base all’art 2046, che esclude
l’imputabilità in caso di incapacità di intendere e volere al momento in cui la condotta è stata posta in esse-
re. Deve essere inoltre riferibile all’amministrazione in base al rapporto di immedesimazione organica.
Quest’ultimo può spezzarsi solo nei casi in cui il dipendente agisce per finalità personali ed egoistiche.
Affinché sorga la responsabilità occorre cioè un nesso di “occasionalità necessaria” tra attività illecita e
mansioni del dipendente e a questo fine occorre verificare se il comportamento colposo o anche doloso sia
comunque riconducibile, in ultima analisi, a un interesse dell'amministrazione.
Un aspetto particolare riguarda il rapporto tra colpa e discrezionalità. L'amministrazione nell'operare le
scelte discrezionali è tenuta al rispetto del principio generale neminem laedere.
Su questo tema rileva la distinzione tra scelta discrezionale dei mezzi pubblici più idonei per soddisfare gli
interessi pubblici e realizzazione e messa in opera dei mezzi prescelti. Con riguardo a quest'ultima non sor-
ge tanto un problema di sindacato sulla discrezionalità, quanto un problema di valutazione di un compor-
tamento del dipendente che abbia attuato in modo difettoso, con negligenza, imperizia o imprudenza, la
scelta. Così per esempio il giudice non può censurare la scelta organizzativa del proprietario e gestore della
rete ferroviaria di lasciare incustodito il passaggio a livello; può invece valutare se gli strumenti di segnala-
zione del passaggio a livello incustodito non abbiano funzionato correttamente a causa di una cattiva ma-
nutenzione dei medesimi.
Quanto al requisito dell'ingiustizia del danno, come già più volte accennato, la giurisprudenza costante
prima della svolta operata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n.550/1999 riteneva
che potesse essere definito come ingiusto ai sensi dell'art.2043 c.c il danno conseguente alla lesione di un
diritto soggettivo e non anche quello conseguente alla lesione di un interesse legittimo. Veniva così esclusa
la risarcibilità dei danni conseguenti causati da provvedimenti amministrativi illegittimi, mentre essa era
ammessa con riguardo a tutta l'area dei meri comportamenti degli agenti della pubblica amministrazione.

4. La risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi


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Con la sentenza 500/1999 è emersa in primo piano la responsabilità da provvedimento illegittimo. La Cor-
te di cassazione ha abbattuto la barriera della irrisarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo. La
Corte ha operato una nuova interpretazione della nozione di “danno ingiusto” ex art.2043 c.c.
È ingiusto il danno che lede un interesse giuridicamente rilevante e ciò a prescindere dalla qualificazione di
quest'ultimo in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo.
Bisogna stabilire in quali casi un interesse è giuridicamente rilevante. La Corte precisa che occorre operare
un giudizio di valutazione e comparazione tra interessi in conflitto alla stregua del diritto positivo. In base
a questo criterio non tutti gli interessi legittimi sono risarcibili. Occorre infatti appurare se per effetto del
provvedimento illegittimo risulti leso “l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla”.
Nel caso di interessi legittimi oppositivi la connessione con un bene della vita, cioè la conservazione del
bene o della situazione di vantaggio di fronte a un provvedimento che mira a sacrificarlo o a limitarlo, è per
così dire in re ipsa.

1. Nel caso degli interessi legittimi pretensivi, la cui lesione può derivare sia dal diniego illegittimo del
provvedimento favorevole richiesto, sia dal ritardo ingiustificato nell'adozione di quest'ultimo, il colle-
gamento con il bene della vita è meno automatico e richiede una valutazione più complessa. Quest'ul-
tima implica infatti un giudizio prognostico da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla
fondatezza o meno della istanza per stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspet-
tativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affida-
mento circa la sua conclusione positiva e risultava quindi giuridicamente protetta. Solo in quest'ultimo
caso, che coincide sostanzialmente con i provvedimenti vincolati, negli interessi legittimi pretensivi sus-
siste un collegamento diretto con il bene della vita tale da renderli risarcibili. Il risarcimento è commisu-
rato alla cosiddetta perdita di chance nei casi in cui non sia possibile accertare in termini di certezza as-
soluta, ma soltanto di probabilità, l'acquisizione o la conservazione del bene della vita in capo al titolare
dell'interesse legittimo ove il potere fosse stato esercitato in modo legittimo. La chance, per poter esse-
re risarcibile, pur non richiedendo di essere espressa in percentuali di probabilità, deve tuttavia consi-
stere in una concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato. In
definitiva secondo la Corte di cassazione, la linea di confine tra risarcibilità e irrisarcibilità non è più trac-
ciata dalla distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo, ma è costituita più semplicemente
dall'esistenza o meno della lesione di un bene della vita accertata attraverso il giudizio prognostico.
2. La sentenza n.500/1999 fornisce altri criteri per stabilire se un provvedimento illegittimo della pubblica
amministrazione sia o meno riconducibile allo schema dell'art.2043 c.c. In primo luogo, precisa che l'ac-
certamento dell'illegittimità del provvedimento non integra in modo automatico il requisito della colpa.
È richiesta invece un'indagine ulteriore che verifichi se l'illegittimità riscontrata derivi dalla violazione
delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali deve ispirarsi l'esercizio
della funzione amministrativa e che si pongono come limiti esterni alla discrezionalità. Il giudice deve
cioè valutare le ragioni che hanno determinato l'illegittimità. In secondo luogo, la colpa va riferita, non
già al funzionario agente, bensì all'apparato nel suo complesso, andando a sindacare se vi sia stata una
disfunzione complessiva che ha determinato l'illegittimità. Sul requisito della colpa, la giurisprudenza
amministrativa ha cercato di semplificare l’onere probatorio in capo al danneggiato utilizzando a favore
di quest’ultimo le presunzioni semplici (2727-2729) secondo i quali esse sono rimesse al prudente ap-
prezzamento del giudice e devono essere “gravi,precisi e concordanti”. Per assolvere al proprio onere
probatorio, il danneggiato può invocare la stessa illegittimità come indice presuntivo della colpa e dimo-
strare che si è trattato di un errore inescusabile. A questo punto, per superare la presunzione di colpa,
spetta all'amministrazione allegare elementi indiziari che viceversa consentono di qualificare l'errore
come errore scusabile. In presenza di una illegittimità macroscopica e plateale il danneggiato, per far
scattare la presunzione di colpa, può limitarsi ad allegare l'illegittimità, gravando poi sull'amministrazio-
ne il compito di fornire elementi volti a dimostrare l'assenza di colpa.
3. La sentenza n. 500/1999 e la giurisprudenza amministrativa prevalente inquadrano il fenomeno della re-
sponsabilità per danno da lesione di interessi legittimi all'interno degli schemi della responsabilità extra-
contrattuale ex art. 2043 del c.c. Tuttavia sono emerse in dottrina e in giurisprudenza ricostruzioni del
modello di responsabilità secondo gli schemi della responsabilità precontrattuale o contrattuale. Si è
osservato come il privato non può essere inquadrato come un “soggetto x” con il quale il danneggiante

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non ha alcuna relazione preesistente, che è il contesto tipico della responsabilità extracontrattuale, dal
momento che tale rapporto impone alle parti una serie precisa di obblighi comportamentali di corret-
tezza e buona fede. Tuttavia riconoscere tale natura alla responsabilità per danno da provvedimento il-
legittimo avrebbe come conseguenza l’applicazione del relativo regime. Tale questione ancora oggi risul-
ta aperta.
4. Un'ipotesi particolare di responsabilità dell'amministrazione collegata all'esercizio del potere ammini-
strativo è il cosiddetto danno da ritardo. Si tratta cioè dei casi nei quali l'amministrazione non conclude
il procedimento avviato entro il termine previsto. Si stabilisce che le p.a. sono tenute al risarcimento del
danno ingiusto “in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del pro-
cedimento”. Il tempo costituisce un bene della vita autonomo suscettibile di risarcimento a prescindere
dalla legittimità o illegittimità del provvedimento emanato.
5. Sotto il profilo processuale, l'azione per il risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo rien-
tra ormai nella giurisdizione del giudice amministrativo. Inoltre essa può essere proposta insieme all'a-
zione di annullamento o anche in modo automatico. Il Codice prevede per la proposizione dell'azione ri-
sarcitoria un termine di 120 giorni, molto più breve del termine ordinario di prescrizione quinquennale
delle azioni risarcitorie innanzi al giudice civile.
6. Un ultimo accenno va dedicato alla responsabilità contrattuale della pubblica amministrazione, in base
agli art 1218 c.c. Questa è sempre stata riconosciuta alla pubblica amministrazione nei casi in cui agisca
nella sua capacità di diritto privato nei rapporti con i terzi. Anche i principi della responsabilità precon-
trattuale di cui all'art.1337 c.c. trovano ormai piena applicazione nei confronti delle amministrazioni
pubbliche.

5. La responsabilità nel diritto europeo


La responsabilità della pubblica amministrazione nel diritto europeo può essere analizzata sotto due profili
principali:
- la responsabilità degli organi dell'Unione europea in relazione all'attività giuridica posta in essere in con-
trasto con il diritto europeo;
- la responsabilità degli Stati membri in relazione alla violazione del diritto europeo.
Il primo profilo trova una regolamentazione nel TFUE. Il secondo ha origine essenzialmente giurisprudenzia-
le.

1.La responsabilità degli organi dell’UE


La disposizione fondamentale è l'art.340 TFUE, il comma 1 disciplina la responsabilità contrattuale della
Comunità e si limita ad operare un rinvio alla legge nazionale applicabile al contratto in causa.
Il comma 2 regola invece la responsabilità extracontrattuale della Comunità e prevede che l'unione deve
risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue
istituzioni o dai suoi agenti nell'esercizio delle loro funzioni.
Il comma 4 stabilisce infine che la responsabilità personale dei dipendenti dell'Unione nei confronti di
quest'ultima è regolata dalle disposizioni sul loro stato giuridico.
I presupposti sostanziali della responsabilità delle istituzioni comunitarie deducibili dall'art. 340 TFUE sono
essenzialmente tre:
• un comportamento contra jus riferibile a un'istituzione comunitaria;
• l'esistenza di un danno;
• il nesso di casualità.
Nella nozione di comportamento contra jus imputabile alla Comunità rientra sia quella di comportamento
o fatto materiale (omissivo o commissivo), sia quella di atto giuridico, normativo o amministrativo.
La violazione deve avere un carattere grave e manifesto, ciò può essere ricavato in via sintomatica da al-
cuni indici: il grado di chiarezza e di precisione della norma violata; il carattere intenzionale o involontario
della trasgressione commessa o del danno causato..
Affinché sorga la responsabilità extracontrattuale non è richiesto invece che la violazione della norma derivi
da una condotta dolosa o colposa.
Il danno risarcibile deve essere effettivo, cioè certo e attuale. Può trattarsi di danni presenti o futuri, ma
non meramente ipotetici. Il danno risarcibile include non solo il danno emergente, ma anche il lucro

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cessante. Ai fini della quantificazione del danno, la giurisprudenza applica il principio generale comune agli
ordinamenti giuridici degli Stati membri secondo il quale la persona lesa, deve dimostrare di aver agito con
ragionevole diligenza onde limitare l'entità del danno.

2.La responsabilità degli Stati membri


Passando ora a considerare la responsabilità degli Stati membri la sentenza capostipite è la sentenza Fran-
covich (19 novembre 1991). Il caso riguardava il mancato recepimento da parte della Repubblica italiana di
una direttiva europea entro il termine prescritto. Appurato che la direttiva in questione non era sufficien-
temente precisa e incondizionata e dunque non consentiva agli interessati di far valere i diritti da essa at-
tribuiti ai lavoratori direttamente nei confronti dello Stato membro, la Corte di giustizia ha esaminato la
questione della responsabilità dello Stato per danni derivanti dalla violazione degli obblighi sorti in forza del
diritto comunitario.
La motivazione della sentenza dapprima si sofferma sul fondamento della responsabilità dello Stato, poi
passa a definire le condizioni in presenza delle quali può sorgere una siffatta responsabilità.
Sul primo punto afferma che “il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da vio-
lazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato”.
La sentenza enuncia tre presupposti in presenza dei quali può sorgere una siffatta responsabilità:
- che la direttiva implichi l'attribuzione di diritti a favore dei singoli;
- che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base della direttiva stessa;
- che esista un nesso di casualità tra la violazione dell'obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai
soggetti lesi.
La responsabilità degli Stati membri non è più retta solo da principi del diritto nazionale, ma anche dai prin-
cipi autonomamente formatisi nel diritto europeo. La Corte di giustizia ha ripreso e sviluppato i principi e-
nunciati nella sentenza Francovich.
La sentenza Lomas del 23 maggio 1996, sancisce il principio secondo il quale la responsabilità dello Stato
può sorgere non solo in relazione a un atto normativo, bensì anche a un atto amministrativo adottato in vi-
olazione del diritto europeo. La Corte ha poi precisato che la responsabilità dello Stato membro peri viola-
zione del diritto europeo sorge qualunque sia l'organo di quest'ultimo la cui azione od omissione ha dato
origine alla trasgressione.
Un ulteriore sviluppo è costituito dal principio che la responsabilità dello Stato può sorgere anche in conse-
guenza di pronunce di organi giurisdizionali.

6. La responsabilità amministrativa
La responsabilità amministrativa si ha quando la pubblica amministrazione, condannata a risarcire un terzo
del danno provocato dal comportamento illecito del proprio dipendente, agisce in via di regresso nei con-
fronti di quest'ultimo.
La somma corrisposta al terzo costituisce un danno per l'erario del quale l'amministrazione si rivale sul pro-
prio dipendente (danno erariale cosiddetto indiretto).
Al di là di questo, la responsabilità amministrativa riguarda ogni genere di danno causato all'amministrazio-
ne dal proprio dipendente che determini un decremento patrimoniale o un mancato introito nelle casse
dello Stato (danno erariale diretto).
La responsabilità amministrativa riguarda il rapporto interno tra dipendente pubblico e amministrazione di
appartenenza e in questo senso costituisce una sottospecie della responsabilità del lavoratore subordinato
nei confronti del proprio datore di lavoro che nasce in conseguenza della violazione dei doveri di diligenza.
Tuttavia il regime giuridico della responsabilità amministrativa è molto diverso da quello del diritto comune
e si caratterizza per avere un carattere a metà strada tra la responsabilità contrattuale ed extracontrattua-
le. Essa ha una finalità essenzialmente risarcitoria, ma in alcune fattispecie particolari emerge anche una
finalità sanzionatoria.
Quanto al campo di applicazione, sotto il profilo soggettivo, questo tipo di responsabilità vale per i funzio-
nari, impiegati, agenti pubblici e amministratori delle amministrazioni pubbliche statali e non statali e di en-
ti pubblici (aziende sanitarie locali, enti parastatali). Possono essere chiamati a rispondere anche soggetti
esterni all'amministrazione, ma comunque legati ad essa da un rapporto di servizio. Si è esteso l'ambito del-
la responsabilità amministrativa anche agli amministratori e dirigenti delle società per azioni in mano pub-

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blica, sottoponendo così quest'ultimi a un doppio regime di responsabilità, cioè alla responsabilità in base
al diritto societario (art.2393) e a quella per danno erariale. In linea di principio le società pubbliche non
rientrano nel perimetro della responsabilità amministrativa, ad eccezione di quelle che in virtù delle nume-
rose deroghe legislative all’assetto di diritto comune sono assimilabili a p.a. rientrano pienamente nel re-
gime della responsabilità amministrativa.
La responsabilità ha natura personale. Quando il fatto dannoso è causato da più persone, ciascuna rispon-
de solo per la parte di sua competenza. Tuttavia in caso di dolo o quando le persone coinvolte hanno con-
seguito un illecito arricchimento la responsabilità è solidale. Inoltre, nelle deliberazioni degli organi collegia-
li la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso il voto favorevole.
Sotto il profilo oggettivo, la responsabilità sorge in relazione “ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo e
colpa grave”. Se il danno deriva da un provvedimento, resta ferma comunque “l'insindacabilità nel merito
delle scelte discrezionali”; il sindacato può riguardare tutti i profili di legittimità incluso l’eccesso di potere
nella molteplicità delle sue figure sintomatiche.
In relazione al danno, rileva non soltanto il danno provocato all'amministrazione in cui è incardinato il di-
pendente, ma più in generale il danno cagionato “ad amministrazioni o enti diversi da quelli di appartenen-
za”. In quest'ultimo caso si ha il cosiddetto “danno obliquo” che può sorgere nel caso di un dipendente
pubblico distaccato o comandato presso un'altra amministrazione.
Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in 5 anni dalla data in cui il fatto si è verificato, o, in casa di
occultamento doloso, dalla data della sua scoperta. Ciò avvicina il regime della responsabilità amministrati-
va a quello extracontrattuale per il quale il termine di prescrizione è quinquennale.
Ai fini della quantificazione del danno erariale vanno valutati il decremento patrimoniale o la mancata en-
trata da parte dell'amministrazione. Al danno patrimoniale si aggiunge in alcuni casi il danno all'immagine
dell'amministrazione. Il danno va diminuito tenendo conto dei vantaggi comunque conseguiti dall'ammini-
strazione di provenienza o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata.
Una particolarità del regime della responsabilità amministrativa consiste nel cosiddetto potere riduttivo in
base al quale la Corte può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore del
perduto.

Sotto il profilo processuale, la responsabilità amministrativa viene accertata in giudizio innanzi la Corte dei
conti. L'iniziativa processuale, all’esito delle indagini che prevedono un momento di contraddittorio con
l’interessato, spetta alla Procura regionale della Corte dei conti competente. La Procura agisce d'ufficio o
anche su denunzia dei direttori generali e dei capi di servizio che vengono a conoscenza di fatti suscettibili
di costituire un illecito erariale.

Capitolo 10: Il personale

1. Premessa
Anche le pubbliche amministrazioni per assolvere ai propri compiti hanno necessità di dotarsi di personale.
Il rapporto di servizio (o d’impiego) può essere definito come un rapporto giuridico bilaterale che ha per
contenuto il complesso dei diritti e obblighi del dipendente nei confronti del datore di lavoro.
Storicamente il rapporto di lavoro dei dipendenti delle p.a. ha oscillato tra una concezione privatistica e una
pubblicistica. Fino alla fine del XIX secolo la prima fu di gran lunga prevalente: il rapporto giuridico che si
instaurava era retto dai normali principi del diritto privato, così come le controversie che potevano insorge-
re rientravano nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario. La concezione pubblicistica si fece stra-
da verso la fine del XIX secolo per una pluralità di ragioni.
Attraverso il provvedimento amministrativo unilaterale di nomina, il dipendente pubblico acquista uno sta-
tus che lo differenzia da quello del comune cittadino. L'atto di accettazione della nomina non instaura però
una relazione contrattuale paritaria con l'amministrazione, ma vale come riconoscimento del dovere di pre-
stare il servizio richiesto.
Il dipendente pubblico è sottoposto a un rapporto di supremazia speciale rispetto all'amministrazione di
appartenenza connotato da particolari doveri (fedeltà, segreto d'ufficio) e da limiti all'esercizio di taluni di-

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ritti (appartenenza a organizzazioni politiche e sindacali, limiti alla libertà di espressione). Lo stipendio non
costituisce un corrispettivo, ma un credito di diritto pubblico assimilabile a una prestazione alimentare.
La concezione pubblicistica esclude che il rapporto di impiego possa essere disciplinato con strumenti con-
trattuali (contratto collettivo, contratto individuale). Esso è invece regolato essenzialmente da due tipi di
atti: per gli aspetti generali, da atti normativi; per gli aspetti relativi alla posizione del singolo dipendente,
da provvedimenti amministrativi unilaterali incidenti sia sulla costituzione del rapporto, sia sullo svolgi-
mento del medesimo.
Le controversie nascenti dal rapporto di impiego sono attribuite alla cognizione del giudice amministrativo.
La Costituzione stabilisce anzitutto che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione (art.98).
Sono cioè investiti di una funzione neutrale e non possono essere asserviti agli interessi della politica della
quale sono espressione invece i vertici delle amministrazioni (ministri, sindaci). Essi sono visti come garanti,
oltre che del buon andamento, dell'imparzialità dell'amministrazione (art.97); in funzione di questo obietti-
vo, l’accesso ai pubblici impieghi avviene di regola mediante concorso.
Inoltre l'accesso agli uffici pubblici deve essere garantito a tutti i cittadini in condizione di eguaglian-
za(art.51).
Nel complesso la Costituzione prefigura un assetto del pubblico impiego con caratteri di specialità rispetto
all'impiego privato, ma non impone necessariamente uno statuto integralmente pubblicistico; essa consen-
te un dosaggio equilibrato di fonti regolatrici pubblicistiche unilaterali e di fonti contrattuali.
In epoca successiva alla Costituzione la concezione pubblicistica entrò in crisi per almeno 2 motivi: l'affer-
marsi anche nel pubblico impiego della pretesa a un riconoscimento più pieno di diritti sindacali e all'intro-
duzione di meccanismi di contrattazione collettiva; l'esigenza di rendere meno rigido il sistema in modo da
promuovere flessibilità ed efficienza nella gestione degli apparati amministrativi in coerenza con una visio-
ne più aziendalistica della p.a.
All'inizio degli anni Novanta del secolo scorso venne avviato il processo di riforma legislativa che portò
all’assetto normativo attuale recepito nel d.lgs 165/2001. La riforma si ispirava alla concezione privatistica
e si inseriva all'interno di un disegno più ampio di riassetto della pubblica amministrazione volto ad accre-
scere l'efficienza e a contenere la spesa pubblica. Il processo in questione si è articolato in due fasi.
1) La prima fase operò una privatizzazione parziale del rapporto di impiego dei dipendenti pubblici, e-
scludendo però alcune categorie di essi e in ogni caso tutti i dirigenti generali.
2) La seconda fase, definita di “seconda privatizzazione” superò alcune ambiguità, in particolare inclu-
dendo nel regime privatistico anche i dirigenti generali.

2. Le fonti di disciplina del rapporto di lavoro


In seguito alla riforma attuata nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, il regime privatistico del rap-
porto di lavoro dei dipendenti pubblici vale per la maggior parte dei dipendenti delle pubbliche amministra-
zioni pur con una serie di eccezioni.
In via di deroga, alcune categorie di personale restano sottoposte al regime di diritto pubblico. Esse sono il
personale militare e delle forze di polizia, magistrati, gli avvocati dello Stato, il personale della carriera pre-
fettizia, il personale diplomatico, il personale delle autorità indipendenti, i professori universitari, i vigili del
fuoco, le guardie penitenziarie. Per queste categorie valgono le regole pubblicistiche stabilite nei rispettivi
ordinamenti.
In coerenza con la natura pubblicistica del rapporto e degli atti che lo disciplinano, tutte le controversie so-
no attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Per le categorie di personale ricadenti nel regime privatistico il sistema delle fonti dà origine, in realtà, a un
“diritto privato differenziato”. Infatti, il rapporto di lavoro è disciplinato dalle disposizioni del codice civile
e dalla legge sui rapporti di lavoro subordinato dell'impresa, “fatte salve le disposizioni contenuto nel de-
creto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo”. Poiché il d.lgs 165/2001 contiene molte dispo-
sizioni derogatorie rispetto a quelle del diritto comune, il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici si con-
nota per molteplici profili di specialità.
In aggiunta alle disposizioni legislative generali e speciali di rango primario, il rapporto di lavoro dei dipen-
denti pubblici è regolato da due tipi di strumenti privatistici: i contratti collettivi e i contratti individuali.
La contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro,
nonché le materie relative alle relazioni sindacali.

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I contratti individuali, che instaurano il rapporto di lavoro tra dipendente e amministrazione di regola all'e-
sito di un concorso pubblico, devono garantire la parità di trattamento. I contratti collettivi assumono
un'efficacia sostanzialmente erga omnes, cioè anche nei confronti dei dipendenti non iscritti ai sindacati
che hanno sottoscritto il contratto collettivo.
In tema di contrattazione collettiva occorre approfondire due temi: l'ambito in cui essa opera; le modalità
organizzative e procedurali per la conclusione del contratto collettivo.
1.L’ambito di operatività La contrattazione collettiva è ammessa entro uno spazio delimitato; in particola-
re, sono escluse da esse le materie attinenti l'organizzazione degli uffici che sono disciplinate da ciascuna
amministrazione, sono inoltre escluse le materie afferenti alle prerogative dei dirigenti degli uffici i quali
sono preposti all'organizzazione dei medesimi e alla gestione dei rapporti di lavoro con la capacità e i poteri
del privato datore di lavoro. In pratica, la contrattazione collettiva non può andare a limitare il potere ma-
nageriale della dirigenza, ma può soltanto prevedere, che alcune decisioni siano assunte previa informazio-
ne o esame congiunto con le organizzazioni sindacali. Sono escluse anche le materie relative al conferimen-
to e alla revoca degli incarichi dirigenziali, alla determinazione dei ruoli e dotazioni organiche.
2.Le modalità organizzative e procedurali per la conclusione del contratto collettivo rilevano sopratutto
due aspetti: i livelli della contrattazione collettiva; i soggetti della contrattazione.
2a) i livelli della contrattazione collettiva la legislazione vigente delinea un sistema a cascata flessibile, in
quanto spetta alla contrattazione collettiva disciplinare la struttura contrattuale, i rapporti tra i diversi livelli
e la durata dei contratti collettivi nazionali e integrativi. In particolare si prevedono tre livelli di contratta-
zione. Il primo livello serve a individuare i comparti che includono categorie di personale dipendente da
amministrazioni tendenzialmente omogenee. All'interno di ciascun comparto possono essere costituite se-
zioni contrattuali per specifiche professionalità. A valle degli accordi sui comparti, opera il secondo livello
costituito per ciascun comparto, dai contratti collettivi nazionali. Essi, oltre a disciplinare gli aspetti econo-
mici e giuridici fondamentali del rapporto di lavoro, determinano le materie, i vincoli, i limiti finanziari e le
procedure relative ai contratti collettivi decentrati. A valle dei contratti collettivi nazionali, si collocano i
contratti colletti integrativi che riguardano il personale di una singola amministrazione. Ad essi è attribuita
la finalità di assicurare adeguati livelli di efficienza e produttività e di valorizzazione, sotto il profilo del trat-
tamento economico accessorio della performance individuale.
2b) i soggetti della contrattazione collettivaà per la parte pubblica è stato istituito un organismo tecnico,
cioè l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN). Essa ha la rappre-
sentanza negoziale di queste ultime in sede di negoziazione dei contratti collettivi nazionali e può assistere
le singole amministrazioni in sede di contrattazione integrativa. L'Agenzia ha personalità giuridica di diritto
pubblico e ha come organi un presidente e un collegio di indirizzo e controllo costituito da quattro esperti
in materia di relazioni sindacali designati in modo tale che in esso siano rappresentate le amministrazioni
statali, le regioni e gli enti locali. L'ARAN negozia con le rappresentanze sindacali nel rispetto degli indirizzi
impartiti da tre comitati di settore. Questi sono costituiti rispettivamente nell'ambito della Conferenza del-
le regioni, delle associazioni degli enti locali, delle amministrazioni statali, con riferimento al comparto del
personale regionale, degli enti locali e delle amministrazioni statali.
In sede di contrattazione, l’ARAN deve rispettare il vincolo delle risorse finanziarie stanziate per il rinnovo
dei contratti. Nella prassi l’ARAN non ha potuto svolgere un ruolo di negoziazione “forte” analogo a quello
delle rappresentanze dei datori di lavoro privati e ciò per almeno 2 ragioni:
- la contrattazione è in qualche modo falsata dal fatto che le controparti sindacali sono a conoscenza
dell’ammontare massimo delle risorse finanziarie messe a disposizione;
- l’ARAN è stata talvolta scavalcata da accordi informali raggiunti in sede di concertazione politico-sindacale
a livello governativo.
La controparte dell'ARAN in sede di contrattazione collettiva è costituita dalle organizzazioni sindacali dei
dipendenti pubblici. Quelle ammesse alla negoziazione sono individuate in base a un criterio di rappresen-
tatività che non deve essere inferiore al 5%. L'ARAN può sottoscrivere i contratti collettivi sole se le orga-
nizzazioni sindacali che aderiscono all'ipotesi di accordo rappresentano nel loro complesso almeno il 51%.
Queste regole si giustificano anche per il fatto che, i contratti collettivi nel pubblico impiego hanno efficacia
erga omnes poiché le amministrazioni sono tenute a garantire ai propri dipendenti la parità di trattamento
contrattuale.

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3. La costituzione e lo svolgimento del rapporto di lavoro


I procedimenti di selezione e di avviamento al lavoro nelle pubbliche amministrazioni propedeutici alla co-
stituzione del rapporto sono regolati esclusivamente dalla legge o con atti normativi o amministrativi.
In particolare, il concorso pubblico costituisce la regola generale anche al fine di contrastare il political
patronage, cioè il reclutamento secondo criteri di affiliazione politica e partitica.
Il reclutamento del personale tramite procedure selettive che rispettino i principi di pubblicità, trasparenza,
oggettività, pari opportunità è obbligatorio per tutte le amministrazioni pubbliche e per tutto il personale.
Le sole eccezioni riguardano il personale con le qualifiche più basse (cioè per le quali è richiesto come unico
requisito la scuola dell’obbligo) che può essere assunto mediante avviamento degli iscritti nelle liste di col-
locamento e le assunzioni obbligatorie degli invalidi che avviene per chiamata numerica degli iscritti nelle
apposite liste.
Il concorso pubblico costituisce la regola generale anche per l'accesso alla qualifica di dirigente di prima e di
seconda fascia. Per la selezione dei dirigenti di seconda fascia (livello meno elevato) in alternativa al con-
corso è previsto il corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della pubblica
amministrazione. Quest’ultimo ha durata di 12 mesi, dà diritto a una borsa di studio, si conclude con un e-
same ed è seguito da un semestre di applicazione presso amministrazioni pubbliche o private al termine del
quale i candidati sono sottoposti ad un esame-concorso finale.
L'avvio delle procedure di reclutamento avviene in relazione all'esigenza di copertura dei posti previsti dalle
piante organiche determinate da ciascuna amministrazione con proprie determinazioni unilaterali in rela-
zione ai fabbisogni e in base a una programmazione triennale. Le fasi del procedimento concorsuale sono
essenzialmente quattro: l'avvio della procedura; l'ammissione delle domande di partecipazione; la fase i-
struttoria-valutativa; la fase decisionale. A valle del procedimento vi è l'assunzione in servizio.
1. L'avvio della procedura avviene a cura di ciascuna amministrazione nell'ambito della programmazione
triennale del fabbisogno di personale, attraverso un provvedimento di indizione del concorso e la pubblica-
zione di un bando. Il bando di concorso contiene una serie di informazioni aventi per oggetto i requisiti per
la partecipazione, il termine e le modalità di presentazione delle domande, il calendario delle prove, il pun-
teggio minimo per l’ammissione alle prove orali ecc.
Il bando è pubblicato di regola nella Gazzetta Ufficiale e con altre modalità atte a garantire la massima dif-
fusione.
2. Le domande di partecipazione, redatte di frequente sulla base di semplici moduli allegati al bando, de-
vono essere inviate o presentate entro 30 giorni dalla pubblicazione del bando. Le domande vengono esa-
minate dall'amministrazione che ha indetto il concorso allo scopo di valutarne l'ammissibilità in relazione ai
requisiti generali e speciali richiesti dalla normativa e dal bando.
La mancata ammissione alla procedura costituisce provvedimento impugnabile dal singolo candidato in-
nanzi al giudice amministrativo; ove venga accolta la domanda cautelare, il candidato escluso viene am-
messo alla procedura con riserva.
3. Allo scopo di garantire imparzialità e competenza, l'amministrazione affida la fase istruttoria-valutativa
a una commissione esaminatrice composta da tecnici esperti nelle materie oggetto del concorso, scelti fra
funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime. Non possono farne parte gli organi di
direzione politica dell’amministrazione o chi ricopre cariche politiche o sindacali, ciò a garanzia
dell’imparzialità.
Prima delle prove, essa deve stabilire i criteri e le modalità di valutazione al fine di assegnare i punteggi, ciò
allo scopo di rendere più oggettivo possibile il giudizio valutativo. Le prove si svolgono con modalità atte a
garantirne la regolarità. A conclusione delle proprie attività valutative la commissione procede a formulare
una graduatoria di merito in base ai punti della valutazione complessiva riportata da ciascun candidato.
4. La fase decisionale a cura dell'amministrazione che ha indetto il concorso consiste in un esame della re-
golarità della procedura e nell'approvazione della graduatoria di merito con l'indicazione dei candidati vin-
citori. La graduatoria dei vincitori è pubblicata nel bollettino dell'amministrazione interessata e di essa vie-
ne data notizia nella Gazzetta Ufficiale. Il provvedimento che approva la graduatoria conclude il procedi-
mento concorsuale ed è suscettibile di impugnazione innanzi al giudice amministrativo.
5. Concluso il procedimento i vincitori vengono assunti in servizio con un contratto di lavoro individuale o,
nel caso dei dipendenti pubblici non sottoposti al regime privatistico, con un provvedimento di nomina. Il
contratto individuale non lascia spazio alle parti per modulare ulteriormente il contenuto dei diritti e degli

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obblighi rispetto a quanto previsto nei contratti collettivi. Le regole relative allo svolgimento del rapporto di
lavoro sono dettate in parte da fonti legislative in parte dai contratti collettivi.
Nel momento dell’assunzione viene consegnato al dipendente il Codice di comportamento etico, che speci-
fica e applica gli obblighi di diligenza, lealtà e imparzialità a una molteplicità di situazioni in cui si può trova-
re il dipendente.

Il regime giuridico dei dipendenti pubblici da un lato li sottopone a obblighi speciali, dall'altro prevede ga-
ranzie aggiuntive rispetto a quelle dei lavoratori privati. Un primo profilo riguarda l'obbligo di esclusività
che impegna il dipendente pubblico a dedicare tutte le energie lavorative al proprio datore di lavoro. L'ob-
bligo di esclusività, la cui inosservanza comporta l'applicazione di sanzioni disciplinari e può determinare
anche la risoluzione del rapporto di impiego, si ricollega idealmente al dovere di fedeltà alla nazione previ-
sto dall'art.98Cost. Il regime delle incompatibilità è sottratto alla contrattazione collettiva ed è minuziosa-
mente disciplinato per legge. In via di deroga, per alcune categorie di dipendenti è ammesso, entro certo
limiti, il regime part time.
Non rientrano nel regime dell'incompatibilità alcune attività retribuite, come per esempio, le collaborazioni
a giornali e riviste, la partecipazione a convegni e seminari. Ogni incarico retribuito deve essere autorizzato
dall'amministrazione di appartenenza, inoltre devono essere comunicati annualmente al dipartimento della
Funzione pubblica che poi riferisce al Parlamento.
Un altro profilo riguarda la disciplina delle mansioni. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle man-
sioni per le quali è stato assunto o mansioni equivalenti. I dipendenti sono inquadrati in almeno tre aree
funzionali e le progressioni all'interno della stessa area avvengono secondo principi di selettività e di rispet-
to del principio del merito.
Il trattamento economico è definito nei contratti collettivi. Esso si distingue in trattamento fondamentale
ed accessorio. Quest'ultimo viene attribuito in modo non automatico, ma in base a una valutazione della
performance individuale del dipendente, alla performance organizzativa relativa all'amministrazione nel
suo complesso e alle singole unità organizzative. Per premiare il merito e il miglioramento delle performan-
ce il contratto collettivo nazionale di lavoro può prevedere risorse specifiche e spetta ai dirigenti la respon-
sabilità di stabilire a chi attribuirle.
Sempre al fine di valorizzare il criterio del merito, si è introdotto un sistema di misurazione, valutazione e
trasparenza delle performance che fa capo a un organismo indipendente di valutazione istituito presso cia-
scuna pubblica amministrazione e nominato dall'organo di indirizzo politico-amministrativo.
Il d.lgs 150/2009 pone il divieto di distribuire incentivi e premi in maniera indifferenziata o sulla base di au-
tomatismo e prevede un sistema premiale composto da vari strumenti.
Un istituto sottoposto a regole particolari è quello della mobilità individuale e collettiva; il medesimo d.lgs
ha cercato di favorire superando la rigidità che tradizionalmente hanno reso poco equilibrata la distribuzio-
ne del personale all’interno delle amministrazioni.
In primo luogo, per favorire la mobilità tra i diversi comparti della contrattazione collettiva, viene prevista
l'elaborazione di una tabella di equiparazione tra i livelli di inquadramento previsti dai diversi contratti col-
lettivi.
In secondo luogo, è posta la regola che le amministrazioni prima di procedere all'espletamento di procedu-
re concorsuali finalizzate alla copertura di posti vacanti in organico devono attivare le procedure di mobili-
tà. La procedura di mobilità prevede che le amministrazioni rendano pubbliche le disponibilità di posti in
organico da ricoprire fissando criteri di scelta. La mobilità collettiva in caso di eccedenze di personale av-
viene attraverso un procedimento che prevede un'informazione preventiva alle rappresentanze unitarie del
personale e alle organizzazioni sindacali e favorisce il reimpiego presso altre amministrazioni. Il personale in
eccedenza per il quale non sia possibile un diverso impiego viene collocato in disponibilità, cioè in uno stato
in cui resta sospeso il rapporto di lavoro con riconoscimento al lavoratore di un'indennità pari all'80% della
retribuzione per la durata massima di due anni.
Il personale in disponibilità viene iscritto in elenchi nazionali e regionali ai fini, per quanto possibile, della
ricollocazione anche presso amministrazioni che abbiano necessità di altro personale.
Un aspetto del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici nei quali emergono forti profili di specialità è
quello delle sanzioni disciplinari.

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L'individuazione della tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è ancora rimessa in via di principio
alla contrattazione collettiva. Tuttavia a livello legislativo sono stabilite direttamente alcune fattispecie che
fanno sorgere la responsabilità disciplinare. Altre sanzioni disciplinari specifiche sono state introdotte nella
legge anticorruzione (l.n. 190/2012) la quale stabilisce, in particolare, che la violazione dei doveri contenuti
nel codice di comportamento etico dei dipendenti pubblici è fonte di responsabilità disciplinare.
Molte ipotesi di licenziamento disciplinare sono individuate direttamente per legge: falsa attestazione del-
la presenza in servizio o assenza giustificata da una certificazione medica falsa; rifiuto ingiustificato del tra-
sferimento disposto per motivate esigenze di servizio; reiterate condotte aggressive; condanna penale de-
finitiva per la quale è prevista l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Anche il procedimento per l'irrogazione delle sanzioni è regolato in modo minuzioso per legge.
- Per le sanzioni superiori al rimprovero verbale e inferiori alla sospensione dal servizio per più di 10 gior-
ni, il procedimento è avviato dal dirigente attraverso la contestazione degli addebiti formulata non oltre
venti giorni, prevede una fase di contraddittorio orale o scritto e si conclude con l'archiviazione o l'irro-
gazione della sanzione entro 60 giorni dalla contestazione.
- Per le sanzioni più gravi, il procedimento è promosso da un ufficio competente per i procedimenti disci-
plinari istituito in ciascuna amministrazione e il procedimento prevede termini più lunghi.
- Regole particolari operano in caso di duplice procedimento, disciplinare e penale, aperto in relazione al-
la stessa condotta (proc.autonomi).
In aggiunta alla responsabilità disciplinare, i dipendenti pubblici sono sottoposti anche a un tipo di respon-
sabilità sconosciuta nell'ambito del lavoro privato, cioè la responsabilità amministrativa per danno erariale
accertata dalla Corte dei conti.
Anche la responsabilità penale dei dipendenti pubblici presenta profili di specialità rispetto a quella dei di-
pendenti privati. Il codice infatti individua una serie di reti cosiddetti propri, riferiti cioè a coloro che abbia-
no la qualifica di pubblico ufficiale (concussione) o di incaricato di pubblico servizio.
Le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici che ricadono nel regime di privatizza-
zione sono devolute al giudice ordinario. Restano tuttavia devolute al giudice amministrativo le controver-
sie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti pubblici, perché esse involgono e-
sclusivamente situazioni giuridiche qualificabili come interessi legittimi. Il giudice ordinario può emanare
tutti i tipi di sentenze di accertamento, costitutive e di condanna richieste dai diritti soggettivi tutelati.

4. La dirigenza pubblica
La dirigenza pubblica richiede qualche considerazione a parte.
In origine E per lungo tempo tutti i poteri decisionali erano attribuiti all'organo di vertice, cioè al ministro in
carica, politicamente responsabile di fronte al Parlamento E dunque strettamente ancorato al circuito poli-
tico rappresentativo.
Con l'estendersi E il differenziarsi delle pubbliche amministrazioni E dei loro compiti il modello gerarchico
mostro i suoi limiti, attesa l'impossibilità pratica di accentrare in un unico organo ogni potere decisionale
formale. All'inizio degli anni 70 del secolo scorso, prese forma a livello statale un modello diverso che pre-
vedeva l'istituzione di una nuova categoria di personale professionale costituita dalla dirigenza pubblica ar-
ticolata in tre qualifiche. Essi si trasformarono così in titolari di organi in senso proprio con capacità di e-
sprimere la volontà dell'amministrazione nei rapporti esterni.
La riforma Volta a privatizzare il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici avviata all'inizio degli anni 90 del
secolo scorso aveva tra i suoi capisaldi la valorizzazione della dirigenza pubblica. Ciò nella duplice prospetti-
va, da un lato, di accrescere l'efficienza della pubblica amministrazione, dall’altro, di garantire l’imparzialità
dell'azione amministrativa.
Nella prima prospettiva, infatti, E secondo una concezione manageriale della pubblica amministrazione ispi-
rata all'indirizzo del New Public Management, l'alta burocrazia deve essere dotata di adeguati poteri E ri-
sorse gestite in autonomia E senza vincoli e rigidità eccessive per poter raggiungere gli obiettivi prefissati.
Nella seconda prospettiva, il nuovo modello introduce il principio della separazione tra politica e ammini-
strazione. Esso cerca di conciliare due principi in tensione tra di loro: il principio democratico, in base al
quale nessun potere pubblico può essere sottratto al circuito politico rappresentativo; il principio di impar-
zialità della pubblica amministrazione di cui all'articolo 97 costituzione.

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Nel contesto dell'impresa privata un analogo problema non si pone atteso che il potere gestionale deriva
dalla titolarità dell'azienda E non opera il principio di imparzialità.
Nel decreto legislativo numero 165/ 2001 il punto di equilibrio tra i due principi involge due questioni prin-
cipali: la ripartizione delle competenze; il conferimento degli incarichi dirigenziali.
1. Quanto alla prima questione, il decreto legislativo numero 165/ 2001 attribuisce ai vertici politici delle
amministrazioni soltanto funzioni di indirizzo politico-amministrativo E di controllo ex post e riserva ai
dirigenti, il cui ruolo è articolato in dirigenti di prima fascia e di seconda fascia, la responsabilità della
gestione. Più in particolare, gli organi politici esercitano la funzione di indirizzo politico-amministrativo
definendo gli obiettivi e i programmi da attuare E verificando la rispondenza dei risultati dell'attività
amministrativa E della gestione agli indirizzi politici. Ai dirigenti compete invece l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante auto-
nomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi hanno in
via esclusiva la responsabilità dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati. Le fun-
zioni della dirigenza si differenziano a seconda che si tratti di dirigenti di uffici dirigenziali generali E di-
rigenti preposti a unità organizzative livello inferiore. I primi hanno soprattutto funzioni di impulso ge-
nerale degli uffici, di coordinamento e controllo dei dirigenti. I dirigenti di primo livello cura l'attuazio-
ne dei progetti E degli obiettivi assegnati dai dirigenti generali, svolgono i compiti da questi delegati,
dirigono, coordinano e controllano l' attività degli uffici, adottano provvedimenti amministrativi ed e-
sercitano poteri di spesa, provvedono alla gestione del personale…
2. La seconda questione da analizzare È il conferimento degli incarichi dirigenziali e, a valle, della valuta-
zione dei dirigenti. Prima delle riforme degli anni 90 gli incarichi ai dirigenti non avevano alcun limite
temporale E di fatto i responsabili degli uffici dirigenziali erano pressoché inamovibili. Il nuovo modello
di rapporto tra politica E amministrazione prevede, quasi come compensazione rispetto all'attribuzio-
ne di ampie competenze gestionali alla dirigenza, una durata temporalmente limitata degli incarichi di-
rigenziali che, per quelli di livello più elevato, sono attribuiti al vertice politico dell’amministrazione. Gli
atti di conferimento degli incarichi dirigenziali devono essere resi pubblici insieme ai curricula e agli
emolumenti.
La durata degli incarichi dirigenziali costituisce un aspetto critico.
Se troppo breve, rende i dirigenti maggiormente influenzabili dai vertici politici dai quali dipende la con-
ferma dell’incarico; se troppo lungo, può consentire ai dirigenti comportamenti ostruzionistici nei confronti
degli indirizzi del vertice politico.
L'atto di incarico individua l'oggetto del medesimo, gli obiettivi da conseguire, la durata E a esso è correlato
il contratto individuale che definisce il trattamento economico sulla base dei contratti collettivi nazionali. Il
contratto determina in particolare il trattamento accessorio legato alle funzioni e ai risultati conseguiti che
devono costituire almeno il 30% della retribuzione complessiva.
Gli incarichi di livello più elevato sono conferiti con la massima solennità, cioè con decreto del presidente
della Repubblica, previa delibera del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente. Gli incari-
chi di dirigente generale sono conferiti con decreto del presidente del Consiglio dei Ministri.
Gli incarichi dirigenziali possono essere conferiti in una percentuale limitata a soggetti esterni all'ammini-
strazione di particolare e comprovata qualificazione professionale, che abbiano svolto attività in organismi
ed enti pubblici o privati ovvero in aziende pubbliche o private.
I dirigenti pubblici sono soggetti a verifica della rispondenza di risultati dell'attività amministrativa e della
gestione agli indirizzi impartiti dai vertici politici E possono essere chiamati a rispondere a titolo di respon-
sabilità dirigenziale.
Infatti, in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi, accertato attraverso il sistema di valutazione del-
le performance, può intervenire questa particolare forma di responsabilità aggiuntiva rispetto alla respon-
sabilità disciplinare prevista anche per i dirigenti in caso di violazione di doveri di servizio.
La responsabilità può sorgere, oltre che per il mancato raggiungimento degli obiettivi, anche in altre due
ipotesi: l'inosservanza delle direttive impartite dal vertice politico; la violazione del dovere di vigilanza sul
rispetto da parte del personale sottoposto degli standard quantitativi e qualitativi di performance fissati
dall’amministrazione.

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La responsabilità dirigenziale è accertata in contraddittorio con l’interessato. Essa può comportare, a se-
conda dei casi, il mancato rinnovo dell' incarico dirigenziale, la decurtazione della retribuzione di risultato,
la revoca dell’incarico, il recesso dal rapporto di lavoro.
La cessazione dagli incarichi apicali di segretario generale di ministeri e di direzione delle strutture articola-
te al loro interno in uffici dirigenziali generali opera in modo automatico in occasione dell'insediamento del
nuovo governo E più precisamente al 90º giorno dal voto sulla fiducia.
Si tratta di un meccanismo di spoil system, cioè della prassi invalsa negli Stati Uniti nel 19º secolo secondo
la quale all'esito della contesa elettorale “to the victor belongs the spoil”. Questo sistema accentua il carat-
tere fiduciario dell'alta dirigenza, ma favorisce forme di clientelismo E di scambio politico, incompatibili con
il sistema del merito.
Nel nostro ordinamento il legislatore, sia statale sia regionale, È intervenuto più volte in questi anni ad al-
largare l'ambito di applicazione dello spoil System. Questi tentativi sono stati censurati dalla corte costitu-
zionale che in numerose pronunce ha ribadito come un siffatto sistema comporta una precarizzazione del
ruolo della dirigenza.

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