Brigantaggio Sud
Brigantaggio Sud
Brigantaggio Sud
l'estraneità delle classi contadine meridionali dalla politica del nuovo Stato
La brigantessa
Michelina De Cesare
“Costituire l’Italia, fondere insieme gli elementi diversi di cui si compone, armonizzare il Nord
con il Sud, offre tante difficoltà quante una guerra contro l’Austria e la lotta con Roma”. Così
scriveva Cavour poco prima della sua morte. In effetti, unificare realmente il Sud al Nord costò
di fatto una guerra, il lungo conflitto (1862-64) che oppose l’esercito regolare italiano a bande
di contadini ribelli che erano presenti soprattutto nell’entroterra campano, lucano e pugliese. Il
brigantaggio era la spia di un fenomeno ben più profondo e complesso, che riguardava
l’estraneità delle classi contadine, e quelle meridionali in particolare, al moto risorgimentale.
Nei programmi delle forze politiche e nelle scelte economiche del nuovo Stato, i grandi
bisogni delle masse povere delle campagne non avevano trovato alcuna risposta.
Rispondere, infatti, avrebbe significato, per lo Stato, affrontare la questione della terra, cioè
garantire l’accesso alla proprietà ai ceti contadini. In realtà gli uomini che avevano diretto il
Risorgimento nazionale erano in prevalenza grandi proprietari fondiari, ostili per interessi e
condizione sociale a promuovere quella riforma agraria che avrebbe avvicinato le masse
rurali al nuovo Stato. Ai bisogni delle masse povere meridionali rimasero sostanzialmente
sordi anche i democratici, tra i quali le idee del socialismo risorgimentale di Ferrari e Pisacane
non avevano raccolto molte adesioni. Durante la conquista del Mezzogiorno, i dirigenti
garibaldini, infatti, avevano manifestato il loro disinteresse, quando non la loro ostilità, verso le
rivendicazioni dei contadini meridionali che si erano avvicinati all’esercito di liberazione con
un carico rilevante di aspettative sociali. Di fronte alle proteste contadine volte a ottenere di
nuovo i propri diritti d’uso sulle terre demaniali che i latifondisti avevano usurpato, di fronte
all’occupazione delle terre, l’esercito garibaldino rispose con la fucilazione dei contadini
insorti, come accadde a Bronte; queste azioni e queste scelte si ripercossero a fondo e
lontano nella coscienza dei contadini ricacciandoli dall’iniziale adesione al moto liberale
unitario in una passività fatta di rassegnazione, di sfiducia e anche di ostilità. Infatti, dopo
l’editto di Garibaldi del 2 giugno 1860, le masse rurali si erano illuse che “la rivoluzione
unitaria italiana” portasse con sé la tanto sospirata divisione delle terre, ma si dovettero
ricredere perchè, con l’avvento di Vittorio Emanuele, i comitati liberali, composti da ricchi
borghesi ferventi “unitaristi”, si impossessarono delle amministrazioni comunali e delle relative
casse, misero mano ai documenti relativi al patrimonio demaniale, sul quale i contadini ed i
pastori esercitavano gratuitamente gli usi civici, e lo misero all’asta. In questo modo le terre
non infeudate passarono velocemente in loro possesso ed ai contadini, defraudati dei loro
secolari diritti d’uso (gli usi civici), rimasero due possibilità: “o brigante o emigrante”. I briganti
furono soprattutto espressione della popolazione rurale (contadini, braccianti e pastori) che si
sentì defraudata dal nuovo ordine sociale; scriveva Carlo Dotto de Dauli nel 1877: “Il brigante
è, nella maggior parte dei casi, un povero agricoltore e pastore di tempra meno fiacca e
servile degli altri che si ribella alle ingiustizie ed ai soprusi dei potenti e, perduta ogni fiducia
nella giustizia dello Stato, si getta alla campagna e cimenta la vita, anelando vendicarsi della
Società che lo ridusse a quell’estremo”. Nei paesi si rinnovavano qua e là gli incendi dei
municipi e degli uffici del catasto (“gli eterni nemici nostri”, li chiamava il brigante Carmine
Crocco. Le carte catastali venivano distrutte in quanto simbolo della proprietà e
dell’oppressione), nonché i saccheggi delle case dei “galantuomini”, noti come usurpatori
delle terre demaniali; si abbattevano gli stemmi sabaudi e le immagini di Vittorio Emanuele e
Garibaldi, s’issava il vessillo borbonico e si restauravano nuove effimere amministrazioni che
rendevano obbedienza all’esiliato Francesco II, re delle Due Sicilie. I possidenti scappavano
verso le zone presidiate dall’esercito piemontese e, quando i bersaglieri rioccupavano i paesi
”reazionari”, rientravano con essi; tutto finiva con la restaurazione dei simboli dei Savoia, con
l’incendio dei quartieri più poveri e con la fucilazione in piazza dei briganti presi prigionieri:
uomini dai volti chiusi dalle grandi barbe, da vestiti fatti di pelli. Spesso i loro cadaveri
venivano lasciati insepolti per giorni, come ammonimento. Su questo tronco si innestò la
politica cavouriana volta a rimuovere rapidamente ogni influenza politica dei democratici, che
avevano diretto la guerra antiborbonica, ed a privilegiare l’alleanza con il ceto medio urbano,
in parte favorevole all’unità d’Italia ed in parte legato ancora al vecchio ordine politico.
Seguendo un principio rigidamente censitario, vennero mantenuti in numerosi gangli vitali
dell’amministrazione e dell’esercito elementi legati al passato regime, senza consentire un
ricambio di uomini e di metodi, allontanando ancor di più i contadini dallo Stato unitario. In
questo contesto fece presa la reazione legittimista, cioè di coloro che premevano per un
ritorno al potere della dinastia borbonica, alimentata dallo Stato
Briganti catturati
dai soldati piemontesi
pontificio. La spina dorsale di questo movimento era rappresentata dal clero, capillarmente
diffuso nel territorio, a cui si aggiungevano funzionari pubblici, impiegati e militari, che erano
vissuti all’ombra del passato regime. Essa puntava sul malcontento contadino, accresciuto da
alcune disposizioni del nuovo Stato, come la leva obbligatoria, e dal dissesto che la guerre di
conquista ed il disfacimento delle strutture del Regno delle due Sicilie avevano determinato
nell’economia meridionale. L’agire concentrico di questi fenomeni determinò una tumultuosa
sollevazione del Mezzogiorno rurale che si manifestò nella forma del brigantaggio. Armati di
schioppo, migliaia di braccianti e contadini presero la via delle montagne organizzati nella
forma tradizionale utilizzata per secoli dai poveri per ribellarsi ai ricchi ed ai potenti: la grande
banda di briganti, che calava nei borghi e nei campi saccheggiando ed uccidendo. Alcuni
capibanda erano stati garibaldini ed avevano appoggiato l’impresa dei Mille: ora
combattevano contro i Savoia, contro i “piemuntisi”, come venivano chiamati nel dialetto
locale i funzionari del nuovo Stato. Il brigantaggio era una forma di protesta e di rivolta proprio
contro i governanti di allora. Accorsero ad ingrossarne le file, oltre agli sbandati del disciolto
esercito borbonico, evasi dal carcere renitenti alla leva, sacerdoti apostati, contadini che, in
mancanza di sufficiente reddito dalla campagna, trovavano il brigantaggio più remunerativo,
avventizi, ossia contadini che lasciavano occasionalmente il lavoro dei campi per farvi ritorno
ad impresa banditesca compiuta. Inoltre alcuni rappresentanti della nobiltà lealista europea
accorsero dal re in esilio (“per il trono e l’altare, per la fede e la gloria”), e già durante
l’assedio di Gaeta si erano visti francesi, belgi, austriaci, sassoni ed anche qualche
americano; il loro contributo fu, però, marginale poiché i briganti, contadini e pastori in
massima parte, non avevano una “cultura militare” tale da accettare le direttive di quei soldati
stranieri che non riuscirono ad inquadrarli in formazioni paramilitari né tanto meno a
coordinarne le azioni sotto un comando unico; ben noto è il contrasto tra il brigante Carmine
Crocco e lo spagnolo Borges che, anche per questo motivo, abbandonò la partita, cercò di
raggiungere Roma, ma fu preso dai Piemontesi a pochi chilometri dal confine e fucilato a
Tagliacozzo l’8 dicembre del 1861. Le bande erano organizzate in piccoli gruppi con un capo,
che si imponeva per prestigio personale e per ferocia. Avevano la loro stabile sede sui monti,
in boschi fitti. Il capo distribuiva una paga. Vestivano con panno nero, con cappelli a larghe
tese ornati di nastri rossi, mantelli di lana. Le varie bande comunicavano tra loro con colonne
di fumo durante il giorno o con falò e lampade nella notte. I messaggi venivano trasmessi con
speciali accorgimenti come stracci esposti alle finestre, colpi di fucile intermittenti, imitazione
di richiami di uccelli. Si circondavano di sentinelle e vedette, che davano l’allarme con fucilate,
fischi, squilli di tromba, rumori vari. Quando l’esercito, inviato per sgominare le bande, faceva
il rastrellamento che durava più giorni, i briganti si spostavano continuamente e non
accendevano i fuochi di notte. Era, quindi, una vita dura, che richiedeva pernottamenti
all’addiaccio, veglie, fame, marce forzate, scontri sanguinosi d’estate e d’inverno. I feriti
venivano raccolti sul terreno per evitare delazioni, quelli più gravi e intrasportabili venivano
uccisi e poi cremati per renderli irriconoscibili. Le bande a cavallo avevano grande mobilità e
potevano percorrere circa 50 miglia in una sola notte, per cui le guardie nazionali ben poco
potevano contro di loro. Praticavano contro le forze regolari la guerriglia ed avevano sempre
previste vie di ritirata nei boschi e verso i monti in caso di rovescio. In quest’ultimo caso
abbandonavano sul terreno l’equipaggiamento pesante per avere maggiore scioltezza nella
fuga. Capitanati da ex braccianti, disertori, ex soldati borbonici e garibaldini, decine di migliaia
di ribelli si diedero alla macchia rifugiandosi nelle zone montuose più impervie e inaccessibili
per dare inizio a una guerriglia condotta su un duplice fronte, quello delle incursioni per
razziare e depredare i ricchi proprietari terrieri, e quello sul piano squisitamente militare contro
l’esercito piemontese. Il brigantaggio era il sintomo di una frattura profonda tra Nord e Sud, tra
la grande massa dei contadini poveri del Mezzogiorno e lo Stato unitario: nella compagine del
nuovo regno si delineavano drammaticamente i contorni di due Italie, destinate a comunicare
tra loro in maniera discontinua ed incerta. Il risultato di questa distanza ed incomunicabilità tra
nuovo governo e governati fu una vera e propria guerra civile che imperversò per cinque anni.
La popolazione, ostile ai nuovi governanti “piemontesi”, proteggeva i briganti, ritenuti uomini
vendicatori di ingiustizie e repressioni, di cui si riteneva vittima. I briganti, ovviamente,
godevano dell’incondizionata simpatia delle masse rurali che li identificavano alla stregua di
veri e propri eroi, una specie di ottocenteschi Robin Hood paladini di una Dea Giustizia che
brandiva la spada contro i soprusi dei ricchi ed il pericolo costituito dalle autoritarie
imposizioni del nuovo padrone, il Regno d’Italia. Forti degli appoggi tangibili forniti dalla
corrente reazionaria borbonica e, a volte, addirittura da quegli stessi proprietari terrieri che
essi depredavano, ma che avevano accolto con
BIBLIOGRAFIA