Brigantaggio Sud

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IL BRIGANTAGGIO fu la spia di un fenomeno complesso, che riguardava

l'estraneità delle classi contadine meridionali dalla politica del nuovo Stato

L'UNITÀ D'ITALIA FECE DEL SUD


UNA COLONIA DA DEPREDARE
di STEFANIA
MAFFEO
Un abstract di questo saggio è stato presentato dall’autrice ad un convegno sul
brigantaggio, organizzato dall’Associazione Radici, che si è svolto a Roma lo scorso 5
maggio. Per il programma completo e gli atti della manifestazione si rimanda al sito
www.associazioneradici.it.

BRIGANTAGGIO: TRA LEALISMO E REPRESSIONE

La brigantessa
Michelina De Cesare
“Costituire l’Italia, fondere insieme gli elementi diversi di cui si compone, armonizzare il Nord
con il Sud, offre tante difficoltà quante una guerra contro l’Austria e la lotta con Roma”. Così
scriveva Cavour poco prima della sua morte. In effetti, unificare realmente il Sud al Nord costò
di fatto una guerra, il lungo conflitto (1862-64) che oppose l’esercito regolare italiano a bande
di contadini ribelli che erano presenti soprattutto nell’entroterra campano, lucano e pugliese. Il
brigantaggio era la spia di un fenomeno ben più profondo e complesso, che riguardava
l’estraneità delle classi contadine, e quelle meridionali in particolare, al moto risorgimentale.
Nei programmi delle forze politiche e nelle scelte economiche del nuovo Stato, i grandi
bisogni delle masse povere delle campagne non avevano trovato alcuna risposta.
Rispondere, infatti, avrebbe significato, per lo Stato, affrontare la questione della terra, cioè
garantire l’accesso alla proprietà ai ceti contadini. In realtà gli uomini che avevano diretto il
Risorgimento nazionale erano in prevalenza grandi proprietari fondiari, ostili per interessi e
condizione sociale a promuovere quella riforma agraria che avrebbe avvicinato le masse
rurali al nuovo Stato. Ai bisogni delle masse povere meridionali rimasero sostanzialmente
sordi anche i democratici, tra i quali le idee del socialismo risorgimentale di Ferrari e Pisacane
non avevano raccolto molte adesioni. Durante la conquista del Mezzogiorno, i dirigenti
garibaldini, infatti, avevano manifestato il loro disinteresse, quando non la loro ostilità, verso le
rivendicazioni dei contadini meridionali che si erano avvicinati all’esercito di liberazione con
un carico rilevante di aspettative sociali. Di fronte alle proteste contadine volte a ottenere di
nuovo i propri diritti d’uso sulle terre demaniali che i latifondisti avevano usurpato, di fronte
all’occupazione delle terre, l’esercito garibaldino rispose con la fucilazione dei contadini
insorti, come accadde a Bronte; queste azioni e queste scelte si ripercossero a fondo e
lontano nella coscienza dei contadini ricacciandoli dall’iniziale adesione al moto liberale
unitario in una passività fatta di rassegnazione, di sfiducia e anche di ostilità. Infatti, dopo
l’editto di Garibaldi del 2 giugno 1860, le masse rurali si erano illuse che “la rivoluzione
unitaria italiana” portasse con sé la tanto sospirata divisione delle terre, ma si dovettero
ricredere perchè, con l’avvento di Vittorio Emanuele, i comitati liberali, composti da ricchi
borghesi ferventi “unitaristi”, si impossessarono delle amministrazioni comunali e delle relative
casse, misero mano ai documenti relativi al patrimonio demaniale, sul quale i contadini ed i
pastori esercitavano gratuitamente gli usi civici, e lo misero all’asta. In questo modo le terre
non infeudate passarono velocemente in loro possesso ed ai contadini, defraudati dei loro
secolari diritti d’uso (gli usi civici), rimasero due possibilità: “o brigante o emigrante”. I briganti
furono soprattutto espressione della popolazione rurale (contadini, braccianti e pastori) che si
sentì defraudata dal nuovo ordine sociale; scriveva Carlo Dotto de Dauli nel 1877: “Il brigante
è, nella maggior parte dei casi, un povero agricoltore e pastore di tempra meno fiacca e
servile degli altri che si ribella alle ingiustizie ed ai soprusi dei potenti e, perduta ogni fiducia
nella giustizia dello Stato, si getta alla campagna e cimenta la vita, anelando vendicarsi della
Società che lo ridusse a quell’estremo”. Nei paesi si rinnovavano qua e là gli incendi dei
municipi e degli uffici del catasto (“gli eterni nemici nostri”, li chiamava il brigante Carmine
Crocco. Le carte catastali venivano distrutte in quanto simbolo della proprietà e
dell’oppressione), nonché i saccheggi delle case dei “galantuomini”, noti come usurpatori
delle terre demaniali; si abbattevano gli stemmi sabaudi e le immagini di Vittorio Emanuele e
Garibaldi, s’issava il vessillo borbonico e si restauravano nuove effimere amministrazioni che
rendevano obbedienza all’esiliato Francesco II, re delle Due Sicilie. I possidenti scappavano
verso le zone presidiate dall’esercito piemontese e, quando i bersaglieri rioccupavano i paesi
”reazionari”, rientravano con essi; tutto finiva con la restaurazione dei simboli dei Savoia, con
l’incendio dei quartieri più poveri e con la fucilazione in piazza dei briganti presi prigionieri:
uomini dai volti chiusi dalle grandi barbe, da vestiti fatti di pelli. Spesso i loro cadaveri
venivano lasciati insepolti per giorni, come ammonimento. Su questo tronco si innestò la
politica cavouriana volta a rimuovere rapidamente ogni influenza politica dei democratici, che
avevano diretto la guerra antiborbonica, ed a privilegiare l’alleanza con il ceto medio urbano,
in parte favorevole all’unità d’Italia ed in parte legato ancora al vecchio ordine politico.
Seguendo un principio rigidamente censitario, vennero mantenuti in numerosi gangli vitali
dell’amministrazione e dell’esercito elementi legati al passato regime, senza consentire un
ricambio di uomini e di metodi, allontanando ancor di più i contadini dallo Stato unitario. In
questo contesto fece presa la reazione legittimista, cioè di coloro che premevano per un
ritorno al potere della dinastia borbonica, alimentata dallo Stato

Briganti catturati
dai soldati piemontesi
pontificio. La spina dorsale di questo movimento era rappresentata dal clero, capillarmente
diffuso nel territorio, a cui si aggiungevano funzionari pubblici, impiegati e militari, che erano
vissuti all’ombra del passato regime. Essa puntava sul malcontento contadino, accresciuto da
alcune disposizioni del nuovo Stato, come la leva obbligatoria, e dal dissesto che la guerre di
conquista ed il disfacimento delle strutture del Regno delle due Sicilie avevano determinato
nell’economia meridionale. L’agire concentrico di questi fenomeni determinò una tumultuosa
sollevazione del Mezzogiorno rurale che si manifestò nella forma del brigantaggio. Armati di
schioppo, migliaia di braccianti e contadini presero la via delle montagne organizzati nella
forma tradizionale utilizzata per secoli dai poveri per ribellarsi ai ricchi ed ai potenti: la grande
banda di briganti, che calava nei borghi e nei campi saccheggiando ed uccidendo. Alcuni
capibanda erano stati garibaldini ed avevano appoggiato l’impresa dei Mille: ora
combattevano contro i Savoia, contro i “piemuntisi”, come venivano chiamati nel dialetto
locale i funzionari del nuovo Stato. Il brigantaggio era una forma di protesta e di rivolta proprio
contro i governanti di allora. Accorsero ad ingrossarne le file, oltre agli sbandati del disciolto
esercito borbonico, evasi dal carcere renitenti alla leva, sacerdoti apostati, contadini che, in
mancanza di sufficiente reddito dalla campagna, trovavano il brigantaggio più remunerativo,
avventizi, ossia contadini che lasciavano occasionalmente il lavoro dei campi per farvi ritorno
ad impresa banditesca compiuta. Inoltre alcuni rappresentanti della nobiltà lealista europea
accorsero dal re in esilio (“per il trono e l’altare, per la fede e la gloria”), e già durante
l’assedio di Gaeta si erano visti francesi, belgi, austriaci, sassoni ed anche qualche
americano; il loro contributo fu, però, marginale poiché i briganti, contadini e pastori in
massima parte, non avevano una “cultura militare” tale da accettare le direttive di quei soldati
stranieri che non riuscirono ad inquadrarli in formazioni paramilitari né tanto meno a
coordinarne le azioni sotto un comando unico; ben noto è il contrasto tra il brigante Carmine
Crocco e lo spagnolo Borges che, anche per questo motivo, abbandonò la partita, cercò di
raggiungere Roma, ma fu preso dai Piemontesi a pochi chilometri dal confine e fucilato a
Tagliacozzo l’8 dicembre del 1861. Le bande erano organizzate in piccoli gruppi con un capo,
che si imponeva per prestigio personale e per ferocia. Avevano la loro stabile sede sui monti,
in boschi fitti. Il capo distribuiva una paga. Vestivano con panno nero, con cappelli a larghe
tese ornati di nastri rossi, mantelli di lana. Le varie bande comunicavano tra loro con colonne
di fumo durante il giorno o con falò e lampade nella notte. I messaggi venivano trasmessi con
speciali accorgimenti come stracci esposti alle finestre, colpi di fucile intermittenti, imitazione
di richiami di uccelli. Si circondavano di sentinelle e vedette, che davano l’allarme con fucilate,
fischi, squilli di tromba, rumori vari. Quando l’esercito, inviato per sgominare le bande, faceva
il rastrellamento che durava più giorni, i briganti si spostavano continuamente e non
accendevano i fuochi di notte. Era, quindi, una vita dura, che richiedeva pernottamenti
all’addiaccio, veglie, fame, marce forzate, scontri sanguinosi d’estate e d’inverno. I feriti
venivano raccolti sul terreno per evitare delazioni, quelli più gravi e intrasportabili venivano
uccisi e poi cremati per renderli irriconoscibili. Le bande a cavallo avevano grande mobilità e
potevano percorrere circa 50 miglia in una sola notte, per cui le guardie nazionali ben poco
potevano contro di loro. Praticavano contro le forze regolari la guerriglia ed avevano sempre
previste vie di ritirata nei boschi e verso i monti in caso di rovescio. In quest’ultimo caso
abbandonavano sul terreno l’equipaggiamento pesante per avere maggiore scioltezza nella
fuga. Capitanati da ex braccianti, disertori, ex soldati borbonici e garibaldini, decine di migliaia
di ribelli si diedero alla macchia rifugiandosi nelle zone montuose più impervie e inaccessibili
per dare inizio a una guerriglia condotta su un duplice fronte, quello delle incursioni per
razziare e depredare i ricchi proprietari terrieri, e quello sul piano squisitamente militare contro
l’esercito piemontese. Il brigantaggio era il sintomo di una frattura profonda tra Nord e Sud, tra
la grande massa dei contadini poveri del Mezzogiorno e lo Stato unitario: nella compagine del
nuovo regno si delineavano drammaticamente i contorni di due Italie, destinate a comunicare
tra loro in maniera discontinua ed incerta. Il risultato di questa distanza ed incomunicabilità tra
nuovo governo e governati fu una vera e propria guerra civile che imperversò per cinque anni.
La popolazione, ostile ai nuovi governanti “piemontesi”, proteggeva i briganti, ritenuti uomini
vendicatori di ingiustizie e repressioni, di cui si riteneva vittima. I briganti, ovviamente,
godevano dell’incondizionata simpatia delle masse rurali che li identificavano alla stregua di
veri e propri eroi, una specie di ottocenteschi Robin Hood paladini di una Dea Giustizia che
brandiva la spada contro i soprusi dei ricchi ed il pericolo costituito dalle autoritarie
imposizioni del nuovo padrone, il Regno d’Italia. Forti degli appoggi tangibili forniti dalla
corrente reazionaria borbonica e, a volte, addirittura da quegli stessi proprietari terrieri che
essi depredavano, ma che avevano accolto con

Briganti passati per le armi


sospetto l’arrivo della dominazione sabauda, i fuorilegge potevano contare anche sull’aiuto
della Chiesa, che non aveva digerito la mozione del primo Parlamento italiano nella seduta
del 27 marzo 1861 tenutasi nel salone di Palazzo Carignano a Torino, in cui fu presa la
decisione di dichiarare Roma futura capitale del Regno, mentre la città era ancora
saldamente nelle mani di Papa Pio IX, fermamente intenzionato a non rinunciare al potere
temporale sui territori dello Stato Pontificio. In virtù di quella ufficiosa connivenza i briganti
potevano trovare riparo nei conventi e sfuggire alla cattura nel caso in cui la loro sortita contro
le truppe regolari si fosse risolta in un frettoloso ripiegamento. Ma non solo. Una delle tante
anime del brigantaggio era proprio la componente religiosa: frati e sacerdoti erano presenti in
gran numero nelle schiere degli insorgenti, sebbene fossero passati per le armi in caso di
cattura; i vescovi, benché spesso scacciati dalle loro sedi come avvenne all’arcivescovo di
Napoli, Sisto Riario Sforza, sostennero efficacemente l’insurrezione, promulgando pastorali di
tono antiunitario e ribadendo le proteste provenienti dalla Santa Sede; nel 1861 in 57 su 84
diocesi del Sud i vescovi erano impossibilitati ad esercitare le loro funzioni per l’opposizione
del nuovo regime. L’invasore piemontese era considerato un nemico della religione ed il
popolo ne aveva prova tangibile nelle numerose profanazioni di luoghi sacri effettuate dai
soldati piemontesi, inoltre, il loro re, Vittorio Emanuele, era stato scomunicato da papa Pio IX
(solo tra il febbraio ed il marzo del 1868 fu firmata a Cassino una convenzione tra lo Stato
della Chiesa ed il Regno d’Italia per l’estradizione dei briganti rifugiatisi nello stato pontificio).
Sottolinea, inoltre, De Jaco che “i briganti erano religiosissimi, avevano dei cappellani nelle
bande e dei santi protettori per le bandiere (in generale i santi del loro paese di origine),… si
ornavano il collo ed i polsi di amuleti, di madonne, di corone, ostie consacrate, santini, la sera
recitavano in comune il rosario”. Spesso, prima della morte, invocavano la Madonna, a loro
molto cara, come pure fece, sulla sponda opposta, il milite della guardia nazionale Vitantonio
Donateo che, per questo, ebbe salva la vita. Non meno importante fu la “resistenza non
armata”, la resistenza civile, bollata come “reazionaria”, che si presentò con forme molto
articolate e coinvolse tutta la società meridionale del tempo: l’opposizione condotta a livello
parlamentare, le proteste della Magistratura, che subì nei sui membri più prestigiosi delle vere
e proprie epurazioni e vide cancellate le sue gloriose e secolari tradizioni giuridiche; la
resistenza passiva dei dipendenti pubblici, il malcontento della popolazione cittadina,
l’astensione dai suffragi elettorali (già il 19 maggio del 1861, in occasione delle elezioni
amministrative, votò a Napoli meno di un terzo degli aventi diritto), il rifiuto della coscrizione
obbligatoria, la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori
pubblicisti del regno, fra cui emerse Giacinto de’ Sivo. Le numerose pubblicazioni antiunitarie
avevano generalmente vita breve perché erano sottoposte a sequestro ed i loro autori a
minacce fisiche o al carcere, segno evidente che la “libertà di stampa”, sancita dallo Statuto
Albertino, non valeva per la stampa di opposizione, ma solo per quella di regime; i redattori di
questi giornali passavano di rivista in rivista, a mano a mano che queste chiudevano per forza
maggiore, diventando professionisti di un giornalismo militante, semiclandestino e quasi
avventuroso. Un aspetto interessante del fenomeno del brigantaggio è quello connesso alla
realtà femminile. Lo studioso Valentino Romano ha raccolto numerose testimonianze che
riguardano il dramma delle brigantesse. “Dramma della rottura dell’equilibrio familiare,
dramma di madri senza più figli, di ragazze orfane dei genitori, di vedove: è dramma di donne
disperate che, ribaltando un ruolo stereotipo di rassegnazione e sudditanza, si dimostrano
capaci di affiancare con coraggio i propri uomini e partecipare attivamente alla rivolta
contadina. E’ difficile attribuire una data di nascita al brigantaggio femminile, ma una prima
significativa figura femminile di età moderna può essere individuata in Francesca La Gamba,
nata a Palmi (RC) nel 1768 e attiva nel decennio di occupazione francese (1806-1816).
Francesca, filandiera di professione, madre di tre figli, divenne capobanda, spinta da
un’incontenibile sete di vendetta contro i francesi che l’avevano colpita negli affetti più cari.
Rimasta vedova del primo marito, dal quale aveva avuto due figli, convolò in seconde nozze.
Avvenente d’aspetto ed esuberante nel carattere, attirò le mire di un ufficiale francese che,
invaghitosene, tentò – forte della sua posizione sociale – di sedurla. Respinto dalla fiera
Francesca il militare pensò di vendicarsi in maniera terribile. Nottetempo fece affiggere un
falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l’esercito francese di occupazione ed il
mattino successivo fece arrestare i figli della donna, accusandoli di essere gli autori della
bravata. Alle suppliche di Francesca, l’ufficiale fu irremovibile: i giovani subirono un
Il generale Enrico Cialdini
processo sommario e furono fucilati. Francesca, pazza di dolore, si unì ad una banda di
briganti che operava nella zona, dismise gli abiti femminili ed indossò quelli dei briganti.
In breve fornì prove di ardimento tali da divenire il capo riconosciuto della banda stessa,
seminando ovunque il terrore. I francesi si accanirono nella caccia della donna, fino a quando
un loro drappello cadde in un’imboscata tesa da Francesca. Tra i soldati fatti prigionieri la
sorte volle che ci fosse proprio l’ufficiale suo nemico. Con una coltellata Francesca gli strappò
il cuore e lo divorò ancora palpitante. Nell’orrore di questa vicenda, pure caricata di colore dal
mito, possono leggersi le ragioni che hanno spesso indotto tranquille popolane meridionali a
trasformarsi in Erinni vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti, il loro disprezzo per gli
affetti feriti, l’irrefrenabile ansia di vendetta suscitata nei popoli conquistati. Crollato il mondo
familiare intorno al quale si è costruita a fatica una pur misera esistenza, la vendetta
femminile si dimostra ancor più feroce di quella maschile. Si tratta di fenomeni tuttavia limitati
che fanno da contraltare a tanti episodi di rassegnazione e di pianto: costituiscono
un’eccezione, insomma, non già la regola. Appare dunque azzardato il tentativo di attribuire
autonomia assoluta al brigantaggio femminile preunitario. Forse sarebbe più corretto parlare
di una “questione dentro la questione”. E questo non sminuisce il ruolo delle donne nella
rivolta contadina. Anzi, lo amplia e agevola la comprensione dell’intera questione delle classi
subalterne meridionali. E’ comprovata invece, nelle vicende rivoluzionarie della seconda metà
dell’ottocento la presenza di un considerevole numero di donne nell’organizzazione
brigantesca. Chi può, infatti, legittimamente sostenere che in una banda di briganti, numerosa
e perfettamente organizzata (come tante nel periodo che trattiamo), si potesse fare a meno
della presenza delle donne per motivi logistici, di collegamento, di approvvigionamento e,
perché no, anche per motivi affettivi? Occorre qui introdurre ed operare – semmai – un’altra
distinzione che dall’ottocento ad oggi ha diviso e divide gli studiosi: la distinzione tra “la donna
del brigante” e “la brigantessa”. Numerosi sono gli esempi di “ donne del brigante”, più rari –
ma non meno significativi - quelli di “brigantesse”. Gli uni e gli altri concorrono però in eguale
misura a definire il ruolo della donna nelle classi rurali della seconda metà dell’ottocento
meridionale italiano e contribuiscono certamente all’affermazione del posto che la donna
occupa nella odierna società italiana. La “donna del brigante” è colei che ha dovuto o voluto
seguire il proprio uomo (spesso marito, talora amante, raramente figlio) che si è dato alla
macchia. Nel primo caso, quello della costrizione, il darsi alla macchia del proprio uomo l’ha
confinata in una condizione ancora più disperata. Le è venuta meno ogni forma di
sostentamento: l’opinione pubblica l’ha additata con disprezzo e l’ha isolata, spesso anche
per timore di sospetti di connivenza. Non le è rimasto che il mendicio ed il meretricio. Sola,
senza mezzi, disprezzata dai borghesi benpensanti e dai popolani acquiescenti, controllata a
vista dalle autorità governative, talvolta oggetto di attenzioni inconfessabili dei “galantuomini”,
ha preferito alla fine seguire fino in fondo la scelta di vita del suo uomo. La “donna del
brigante” è anche colei che viene rapita e sedotta dal bandito, ridotta in stato di schiavitù e
costretta - contro il suo volere – a seguirlo nelle sue azioni brigantesche. Spesso finisce però
per innamorarsene, per quella condizione psicologica che oggi è classificata come “sindrome
di Stoccolma”. E’ il caso, ad esempio - sempre nel periodo di occupazione francese - di una
non meglio identificata Margherita. Il brigante Bizzarro, uomo violento e sanguinario,
imperversava nelle Calabrie. Costui, nel corso di una delle sue crudeli scorribande, sterminò
un intera famiglia, trucidò un padre e ne rapì la figlia Margherita. Bizzarro sicuramente stuprò
la donna, la rese sua schiava e la condusse con sé, in groppa al proprio cavallo, nelle
imprese brigantesche alle quali dava continuamente vita. Ci si aspetterebbe che la donna
fosse investita da rabbia, rancore e odio. Invece in Margherita, lentamente, l’odio verso
Bizzarro si trasformò in ammirazione, il sentimento di vendetta fu sostituito dall’amore verso il
boia della sua famiglia. Ne diventò la compagna ed il braccio destro e lo accompagnò nelle
sue scorrerie, gareggiando con lui in audacia e coraggio. Catturata in un’imboscata, non
sopravvisse a lungo ai rigori della prigione che, come vedremo più avanti non erano inferiori a
quelli della latitanza. Per un beffardo gioco del destino una reazione opposta dimostrò invece
– proprio nei confronti dello stesso Bizzarro – la donna che subentrò a Margherita nelle grazie
del bandito: Niccolina Licciardi.

Ribelle messo in posa


dopo la fucilazione
Un giorno erano entrambi braccati dai piemontesi. Bizzarro, in un raptus di follia omicida,
sfracellò contro le pareti di una caverna il neonato avuto dalla compagna, per la sola ragione
che il pianto del bimbo rischiava di rivelarne la presenza agli inseguitori. Niccolina non versò
neppure una lacrima. Con le mani scavò una fossa, vi seppellì il figlioletto e si pose a guardia
della tomba – anche dormendovi sopra – per evitarne lo scempio da parte degli animali
selvatici che infestavano la zona. Profittando poi del sonno di Bizzarro, gli sottrasse il fucile e
gli fece saltare le cervella, sparandogli in un orecchio. Decapitato il bandito, ne avvolse la
testa in un panno, si diresse a casa del governatore di Catanzaro e sul suo desco lanciò il
macabro trofeo. Incassata la taglia, ritornò sui monti e di lei si perse ogni traccia. Alcune volte,
ed è il caso della libera scelta, “la donna del brigante “ segue volontariamente l’uomo di cui è
innamorata. Tale appare la vicenda di Maria Capitanio. La ragazza, nel 1865, a quindici anni
si innamorò di Agostino Luongo, un operaio delle ferrovie. Maria continuò ad amarlo e a
frequentarlo di nascosto anche quando questi si dette alla macchia. Lo seguì nella latitanza,
consumò le “nozze rusticane” e partecipò per pochi giorni alle azioni delittuose della banda,
fungendo da vivandiera e da carceriera di un ricco possidente, tenuto in ostaggio. Catturata
dopo una decina di giorni, in uno scontro a fuoco, grazie ai denari del padre, fu prosciolta
dall’accusa di brigantaggio, essendo riuscita a dimostrare – attraverso false testimonianze –
di essere stata costretta con la forza a seguire il brigante Luongo. Rivelatrice di contraddizioni
è la vicenda di Filomena Pennacchio, una tra le più note “brigantesse”. Figlia di un macellaio,
nata in Irpinia nella provincia borbonica di Principato Ultra, fin dall’infanzia incrementò il
povero bilancio familiare servendo come sguattera presso alcuni notabili del paese. Alcuni
mesi dopo il primo incontro con Giuseppe Schiavone, famoso capobanda lucano, vendette
per alcuni ducati il poco che aveva e lo seguì nella latitanza. La vita brigantesca la rese subito
un’intrepida combattente, evidenziando le sue inclinazioni sanguinarie. Con Schiavone
partecipò a furti di bestiame ed a sequestri di persona, trovando modo di meritarsi il rispetto e
la simpatia di tutta la banda. Non si sottrasse nemmeno all’omicidio, avendo preso attiva parte
all’eccidio di nove soldati del 45° Reggimento di Fanteria nel luglio del 1863 a Sferracavallo.
Era altresì capace di slanci di generosità come è testimoniato dal soccorso che offrì ad alcune
vittime della banda Schiavone e per aver cercato di salvare alcune vite. Di lei si disse anche,
ma senza suffragio di prove, essere stata non solo l’amante di Schiavone ma anche di
Carmine Crocco, il leggendario e riconosciuto capo di tutte le bande lucane e dei suoi
luogotenenti Ninco Nanco e donato Tortora. La presenza di più donne nella banda portava
facilmente ad episodi di gelosia, dei quali si servì largamente l’esercito occupante per
annientare il nemico. E fu proprio la gelosia di Rosa Giuliani, cui Filomena Pennacchio aveva
sottratto i favori di Schiavone a tradire quest’ultimo: la delazione della Giuliani consentì, infatti,
l’arresto di Schiavone e di altri briganti che furono subito condannati a morte. Prima di morire
il feroce Schiavone volle rivedere ancora Filomena, gravida di un suo figlio. Fu un incontro
tenerissimo tra la brigantessa regina di ferocia ed il capobanda terrore delle valli dell’Ofanto
che in ginocchio – chiedendole perdono – le baciava le mani, i piedi ed il ventre pregno.
Filomena Pennacchio però non visse – come altre – nel ricordo del suo uomo. Preferì –
allettata da una promessa di sconto della pena - tradire anch’essa e fece catturare con le sue
rivelazioni un altro luogotenente di Crocco, Agostino Sacchitiello ed altre due famose
“brigantesse”, Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito. Condannata a venti anni di
reclusione, la Pennacchio godette di vari sconti di pena: dopo sette anni di detenzione tornò a
casa ed anche per lei si aprirono le porte di una vita anonima. Nella storia della calabrese
Marianna Olivierio, detta “Ciccilla”, è sempre il sentimento della gelosia il detonatore che fa
esplodere la determinazione criminale della “brigantessa”: Ciccilla era una bellissima ragazza
dalle lunghe e nere chiome e dagli occhi corvini. Sposa di Pietro Monaco, un ex soldato
borbonico ed ex garibaldino, datosi al brigantaggio dopo un omicidio, non lo aveva
inizialmente seguito. Rimase nel proprio paese, accontentandosi di

Il brigante Carmine Crocco


rari, furtivi momenti di intimità con il marito quando questi scendeva dai monti, fino a quando
venne a sapere che Monaco aveva avuto una fugace relazione con la sorella. Ciccilla decise
di vendicarsi. Invitò la sorella in casa e – nel cuore della notte – la trucidò con un pugnale,
martoriandone il corpo con una trentina di colpi d’ascia. Subito dopo – a dorso di mulo –
raggiunse la banda del marito, divenendone addirittura il capo di fatto. Il raccapriccio che
accompagnò le sue gesta si diffuse in tutto il circondario. Perfino i suoi stessi briganti ne
ebbero terrore e disprezzo. Usava, ad esempio, infierire sui cadaveri dei nemici uccisi,
mutilandoli atrocemente con coltelli e rasoi che portava sempre con sé. Catturata dopo la
morte del marito, fu disconosciuta dai suoi stessi familiari. Anche la madre rifiutò di visitarla in
carcere. Il processo, che fu celebrato a Catanzaro con grande partecipazione di gente e che
vide come testimoni a carico anche i parenti suoi e del marito, si concluse con la condanna a
morte. Ed è uno dei rarissimi, se non l’unico, caso di sentenza capitale per una donna. La
sentenza – contrariamente a quanto sostengono taluni frettolosi cronisti - non fu poi eseguita
ma tramutata nell’ergastolo perché il governo italiano non aveva interesse a mostrarsi
all’opinione pubblica internazionale come giustiziere di una donna. Storie brigantesche, come
si vede di inaudita ferocia, ma anche storie di teneri sentimenti che le esasperazioni di una
guerra civile non riescono a sopprimere del tutto. Accanto a donne che uccidono senza pietà
e che spingono la loro ferocia – come affermano le cronache giornalistiche e giudiziarie
dell’epoca – fino ad inzuppare del sangue delle loro vittime il pane che poi addentavano
avidamente, vi sono donne che continuano a mandare messaggi d’amore ricamati su
fazzoletti (Maria Suriani al “capitano Cannone”) o a ricamare per mesi l’immagine dell’amante
(con tanto di fucile a trombone) su una tovaglietta, una delle quali ancora oggi viene
conservata come cimelio. Nemmeno sfugge alla dura legge della guerriglia e della latitanza il
bisogno di sentirsi pienamente donna, di essere madre. Sono molti gli esempi di briganti
catturati in combattimenti che, ad un più attento esame, si rivelano “brigantesse” in stato di
gravidanza. E’ difficile però sostenere che ad indurle alla gravidanza sia solamente il calcolo
previdente di una maggiore clemenza dei giudici in caso di arresto e la prospettiva di un
trattamento carcerario più umano. E’, semmai, più lecito pensare che le gravidanze siano la
dimostrazione della necessità di chi si è dato alla macchia di ricostruirsi una vita normale,
anche attraverso i sentimenti più naturali. Rosa Reginella, della banda di Agostino Sacchitiello
viene catturata con il suo compagno a Bisaccia nel novembre 1864, dopo un accanito
combattimento a cui non si sottrae, nonostante la gravidanza avanzata. Due mesi dopo,
infatti, partorisce in carcere. Gravide al momento della cattura sono anche Serafina Ciminelli -
simile per aspetto e corporatura ad una bambina - compagna del capobanda Antonio Franco
e la bella Generosa Cardamone, amante di Pietro Bianchi. Per le brigantesse catturate si
aprono le vie del carcere. La legislazione dell’epoca non prevede condanne differenziate per i
due sessi ma l’orientamento dei giudici appare quello di comminare condanne più lievi alle
donne, anche in considerazione del fatto che quasi mai è possibile processualmente
accertare la volontarietà nella scelta di delinquere. Normalmente la pena inflitta si aggira sui
quindici anni di carcere, spesso in parte condonati. Si tratta però di una condanna solo in
apparenza più lieve. Infatti, le condizioni di vita all’interno dei vecchi bagni penali borbonici,
trasformati in carceri del Regno d’Italia sono pessime: il rancio è appena sufficiente a
sopravvivere, le condizioni igienico sanitarie sono impossibili. Costrette ad una vita di stenti, a
continui spostamenti, a marce forzate le “brigantesse” accusano – più dei loro uomini - il peso
dei disagi fisici e quando vengono catturate mostrano i segni della debilitazione. La mancanza
di igiene (per coprirsi spesso indossano gli abiti sporchi dei nemici uccisi in combattimento)
produce infezioni, che poco o niente curate in carcere, le portano ad una morte prematura. E’
il caso, ad esempio, della Ciminelli che appena un anno dopo la cattura muore come recita
l’arido atto di morte del comune di Potenza per “setticemia”, provocata da un’infiammazione
del perineo. Il dramma delle donne del

Ferdinando II, re delle Due Sicilie


brigantaggio si consuma nell’indifferenza, quando non nel disprezzo, nel silenzio dell’opinione
pubblica. Gli atti ufficiali dei Carabinieri Reali, quelli delle Prefetture, i fascicoli processuali le
accomunano tutte ai loro uomini, non attribuendo mai alle donne del brigantaggio un ruolo di
soggetto sociale autonomo. Le cronache giornalistiche e gli scrittori coevi le descrivono solo
come manutengole, amanti, concubine, ” ganze”, “drude”, donne di piacere dei briganti. Ciò
ha impedito di prendere in considerazione il fenomeno e non ha consentito uno studio più
approfondito sui risvolti sociali e politici della rivolta delle donne meridionali. Delle
“brigantesse” restano oggi solamente le poco foto che la propaganda di regime ha voluto
tramandare per una distorta lettura iconografica del brigantaggio. Così, accanto a
“brigantesse” che si sono fatte ritrarre - armi in pugno - in abiti maschili, vi sono le foto ufficiali
dopo la cattura e, talora, dopo la morte in una postura innaturale. Come i loro uomini, trucidati
e frettolosamente rivestiti, legati ad un palo o ad una sedia, gli occhi rigidamente spalancati,
con in mano i loro fucili e circondati dai loro giustizieri. Macabro trofeo di una guerra civile
occultata”. Ricordiamo per tutte Michelina De Cesare, che fu catturata e torturata affinché
rivelasse i nomi dei partigiani meridionali e, visto che ella si rifiutava di farlo, fucilata e
fotografata prima e dopo il supplizio (30 agosto 1868). L’insensibilità delle nuove classi
dirigenti nei confronti dei problemi del Sud e l’incapacità di cogliere la distanza che separava
le due parti costitutive del nuovo Stato emersero con chiarezza nel modo con il quale il
governo nazionale decise di piegare la rivolta, di estinguere il fenomeno del brigantaggio. Già
nel novembre del 1860, pochi giorni dopo l’incontro di Teano tra re Vittorio e Garibaldi, sui
muri dei paesi intorno Avezzano era stato affisso un proclama (tra i primi di una lunga e
tragica serie) del generale piemontese Pinelli (decorato dai Savoia, con medaglia d’oro al
valore, per la campagna contro il brigantaggio) che ordinava: “1) chiunque sarà colto con
arma da fuoco, coltello, stili od altra arma qualunque da taglio o da punta e non potrà
giustificare di essere autorizzato dalle autorità costituite sarà fucilato immediatamente; 2)
chiunque verrà riconosciuto di aver con parole o con denari o con altri mezzi eccitato i villici
ad insorgere sarà fucilato immediatamente; 3) eguale pena sarà applicata a coloro che con
parole od atti insultassero lo stemma dei Savoia, il ritratto del Re o la bandiera italiana.
Abitanti dell’Abruzzo Ulteriore, ascoltate chi vi parla da amico. Deponete le armi, rientrate
tranquilli nei vostri focolari, senza di che state certi che tardo o tosto sarete distrutti”. In
seguito, giacché si era sparsa per l’Europa la notizia che nel sud d’Italia stava avvenendo un
massacro, il governo inviò l’ordine di fucilare solo i capi e di mettere in carcere in attesa di
processo gli altri; narrava, in proposito, il generale Enrico Della Rocca (responsabile del
massacro di Scurgola con 117 vittime): “Ma i miei comandanti di distaccamento che avevano
riconosciuta la necessità dei primi provvedimenti, in certe regioni dove non era possibile
governare se non incutendo terrore, volendosi arrivare l’ordine di fucilare soltanto i capi
telegrafavano con questa formula: “Arrestati, armi alle mani, nel luogo tale tre, quattro, cinque
capi di briganti” ed io rispondevo: fucilate!”. Nel luglio 1861 Enrico Cialdini, già a capo di tutte
le forze di repressione ed autore di ordini scritti ai suoi sottoposti che suonavano: “Non usare
misericordia ad alcuno, uccidere tutti quanti se ne avessero tra le mani”, assommò su di sé
anche la carica civile di luogotenente diventando di fatto il responsabile unico delle sorti del
Mezzogiorno. La situazione era veramente preoccupante con i guerriglieri che operavano non
solo sui monti e le pianure, ma persino alle porte di Napoli tanto che Cialdini arrivò a
promettere 25 lire di ricompensa a chi catturava un “ribelle”; lo stesso generale, per sicurezza,
spesso di notte andava a dormire su una fregata e così scrisse al primo ministro Bettino
Ricasoli, succeduto al Cavour: “Il nostro governo in queste province è debolissimo…non ha
altri partigiani sicuri che i battaglioni di cui dispongo”. Abolito l’istituto della luogotenenza, a lui
successe, nell’ottobre 1861, il generale La Marmora, che assommò su di sé la carica di
prefetto di Napoli ed il comando militare della repressione del brigantaggio. Re Vittorio
Emanuele II, nell’agosto del 1862, decretò lo stato d’assedio; in questo modo nel Sud
l’autorità militare veniva ad essere superiore a quella civile (La Marmora ordinò ai procuratori
di “non porre in libertà nessuno dei detenuti senza l'assenso dell' esercito”). Un corpo di
spedizione, che, nel giro di due anni, raggiunse i centomila uomini, la metà dell’esercito
nazionale, occupò militarmente le regioni meridionali e represse la guerriglia con costi umani
altissimi: 5000 morti in azioni di
Il garibaldino Nino Bixio
guerra e più di 7000 condannati alla pena di morte o al carcere a vita. Anche nell’esercito
regolare le perdite furono alte, superiori di parecchio a quelle subite nelle guerre del
Risorgimento. Sull’onda delle proteste interne ed internazionali fu istituita, nel dicembre 1862,
una Commissione Parlamentare di Inchiesta per studiare il fenomeno del brigantaggio nelle
province meridionali e le sue cause politiche e sociali. L’inchiesta, nota come Massari –
Castagnola, già più volte proposta dalla sinistra, avrebbe dovuto anche sollevare il velo di
silenzio steso dal governo sugli errori e sugli abusi compiuti dall’esercito nell’opera di
repressione. Nel maggio 1863 la Commissione d’Inchiesta concluse i lavori. I risultati, raccolti
in una lunga relazione, vennero letti alla Camera in diverse sedute e furono pubblicati in
estate sul giornale “Il Dovere”. La relazione evidenziava numerose ragioni economiche e
sociali del fenomeno del brigantaggio, ma evitava di parlare delle responsabilità del governo,
chiamando, invece, in causa l’attività degli agenti borbonici e clericali. In sostanza,
concludeva la relazione, “Roma è l’officina massima del brigantaggio, in tutti i sensi ed in tutti i
modi, moralmente e materialmente: moralmente perché il brigantaggio indigeno alle province
meridionali ne trae incoraggiamenti continui e efficaci; materialmente perché ivi è il deposito, il
quartier generale del brigantaggio d’importazione”. In essa si insisté sull’interpretazione del
fenomeno del brigantaggio come frutto di delinquenza comune, retaggio del vecchio regime, e
come l’effetto dei tentativi di riconquista delle Due Sicilie, da parte di Francesco II, con la
complicità dei preti meridionali legittimisti. Come conseguenza di questa analisi, venne
approvata, ad agosto, con procedura d’urgenza, la famigerata legge Pica (che rimase
operativa fino al 1865) la quale aboliva qualsiasi garanzia costituzionale; in virtù di essa
furono insediati otto speciali Tribunali militari, i collegi di difesa vennero assegnati agli ufficiali
e si abolirono i tre gradi di giudizio che erano operativi nell’altra parte d’Italia. In pratica le
condanne, che erano inappellabili, variavano dalla fucilazione ai lavori forzati (spesso a vita);
venne stabilito il reato generico di “brigantaggio” in virtù del quale ogni sentenza era legittima;
anche persone non partecipi alla rivolta persero la vita perchè accusate ingiustamente di
brigantaggio da loro nemici personali i quali, in questo modo, saldavano sbrigativamente dei
conti in sospeso. Giuseppe Massari, presidente della commissione, scrisse nel 1863: “La sola
miseria non sarebbe in effetti cotanto perniciosa se non fosse congiunta ad altri mali che la
infausta signoria dei Borboni creò ed ha lasciato nelle province napoletane. Questi mali sono
l’ignoranza gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata, e
segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia”. Egli proponeva
come rimedi la riforma agraria, la diffusione dell’istruzione pubblica, la costruzione di strade,
le bonifiche ecc. Ma, viceversa, si inviarono 120.000 uomini (quasi la metà dell’intero esercito)
per reprimere con la forza il fenomeno e si commisero abusi come fucilazioni di chi era trovato
in possesso di armi, arresto domiciliare degli individui sospetti e così via. I briganti risposero
con non meno ferocia: soldati furono legati agli alberi ed arsi vivi, altri furono crocifissi o
mutilati. Le repressioni piemontesi giunsero anche all’interno delle fabbriche. Per spezzare la
resistenza dei briganti i generali incaricati della repressione arrestavano anche le loro famiglie
promettendone la liberazione a patto che essi si costituissero, dopo di ciò i briganti erano
avviati al plotone di esecuzione o al carcere. Il bilancio totale delle vittime fu drammatico, fu
un vero massacro: le cifre non sono tutte concordi, quelle ufficiali si limitano alle dichiarazioni
di La Marmora alla Commissione di Inchiesta sul Brigantaggio dove affermò che “Dal mese di
maggio 1861 al mese di febbraio 1863 noi abbiamo ucciso o fucilato 7.151 briganti. Non so
niente altro e non posso dire niente altro”. Ad essi vanno aggiunti i caduti dell’esercito italiano:
“I morti dal 1 maggio 1861 al 31 dicembre 1864, l’unico periodo per il quale esistono dati
ufficiali, furono 465, 18 i dispersi e 190 feriti, ai quali sono da aggiungersi i 138 morti ed i 63
feriti della Guardia Nazionale”; in realtà,
"C'è l'Italia, là,
o signori,
e se vorrete
che l'Italia si compia,
bisogna farla
con la giustizia"
come affermò lo storico Denis Mack Smith, le vittime furono più numerose di tutti i soldati
persi dal regno sabaudo nelle guerre di indipendenza contro l’Austria (che erano poco più di
seimila). Quasi tutti i briganti erano giovani e morirono prima dei 30 anni di vita. L’efferatezza
tipica di una guerra civile si palesò anche con gesti disumani come l’esposizione in pubblica
piazza dei cadaveri insepolti dei briganti o delle loro teste mozzate conservate in apposite
teche trasparenti o anche nelle frequentissime macabre fotografie di briganti uccisi; scrive
sempre De Jaco: “Col terrore i generali piemontesi cercavano di spezzare la solidarietà
dei”cafoni” con i briganti. Ma il terrore non è stata mai arma sufficiente e valida per isolare i
combattenti dalla popolazione che li sostiene; così le fucilazioni non liquidarono, ma
aumentarono la solidarietà popolare per le vittime. La leggenda che faceva dei briganti tanti
eroi popolari, paladini ed unica speranza dei miseri contro i prepotenti e ricchi, trovava così
mille riprove e questa fama assumeva subito due volti opposti: il volto del giustiziere
implacabile, per i pastori e le plebi, quello della belva feroce per i benestanti; erano i ricchi,
infatti, ad aver paura dei rapimenti di persona con richiesta di relativo riscatto, dei saccheggi,
dell’incendio delle messi, del taglio delle viti, delle uccisioni, mentre gli zappatori non avevano
niente da perdere, anzi ottenevano dal brigante qualche protezione contro i mille soprusi ed i
patimenti di cui era piena la loro giornata. Non ci voleva comunque molto perché i nomi
dell’uno o dell’altro brigante salissero in fama di grande ferocia, temuti dai viandanti più dei
lupi affamati. I briganti stessi desideravano questa fama, condizione indispensabile per far
riuscire i ricatti con i quali, dalla selva, potevano procurarsi il cibo o il denaro; inoltre la
particolare ferocia e la prontezza, l’ardimento e la forza fisica erano le condizioni per
primeggiare tra gli stessi compagni di ventura, la loro risolutezza finiva con l’esprimersi in una
dura disciplina interna alle bande che prevedeva la morte per ogni viltà o disubbidienza”. Il 18
aprile 1863 il deputato Miceli, che aveva visto i massacri perpetrati dalle truppe in Calabria,
dichiarava che gli uomini erano fucilati senza neppure uno straccio di processo, le sue
dichiarazioni furono messe in dubbio dai sostenitori del governo, ma intervenne il generale
Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi, e, pertanto, fiero nemico della reazione, che si alzò per
confermarle, dichiarando che quanto aveva affermato Miceli era vero e che poteva attestarlo
per cognizione personale. “Un sistema di sangue”, egli esclamò, “è stato stabilito nel
Mez¬zogiorno d'Italia. Ebbene, non è col sangue che i mali esistenti saran¬no eliminati. C'è
del vero in ciò che l'onorevole Miceli ha detto: è evidente che nel Mezzogiorno non si
domanda che sangue, ma il Par¬lamento non può adottare gli stessi sistemi. C'è l'Italia, là, o
signori, e se vorrete che l'Italia si compia, bisogna farla con la giustizia, e non con l'effusione
del sangue”. Nicotera, un altro garibaldino, parlò nel medesimo senso dei suoi colleghi
Ferrari, Miceli e Bixio. “Il governo borbonico”, egli disse, “aveva almeno il gran merito di
preservare le nostre vite e le nostre sostanze, merito che l'attuale governo non può vantare.
Le gesta alle quali assistiamo possono essere paragonate a quelle di Tamerlano, Gengis
Khan e Attila”. Nel dibattito dell’8 maggio 1863, alla Camera dei Comuni britannica, oratori di
varie correnti politiche si dichiararono d’accordo con il Ferrari sul cosiddetto “brigantaggio”,
ossia che si trattava di una vera guerra civile. “Il brigantaggio”, disse Mr. Cavendish Bentinck,
“è una guerra civile, uno spontaneo movimento popolare contro l'occupazione straniera,
simile a quello avvenuto nel regno delle Due Sicilie dal 1799 al 1812, quando il grande
Nelson, sir John Stuart ed altri comandanti inglesi non si vergognarono di allearsi ai briganti di
allora ed il loro capo, il cardinale Ruffo, allo scopo di scacciare gli invasori francesi”. “Desidero
sapere”, rilevò Disraeli nel corso della stessa seduta, “in base a quale principio discutiamo
sulle condizioni della Polonia e non ci è permesso di discutere su quelle del Meridione
italiano. È vero che in un Paese gl'insorti sono chiamati briganti e nell’altro patrioti, ma, al di là
di questo, non ho appreso da questo dibattito nessuna altra differenza fra i due movimenti”.
Citiamo anche le proteste inviate al governo italiano dall’imperatore Napoleone III, che il 21
luglio scriveva da Vichy al generale Fleury: “Ho scritto a Torino le mie ri¬mostranze; i dettagli
di cui veniamo a conoscenza sono tali da far ri¬tenere che essi alieneranno tutti gli onesti
dalla causa italiana. Non solo la miseria e l'anarchia sono al culmine, ma gli atti più colpevoli
ed indegni sono considerati normali espedienti: un generale, di cui non ricordo il nome,
avendo proibito ai contadini di portare scorte di cibo quando si recano al lavoro nei campi, ha
decretato che siano fucilati tutti coloro che sono trovati in possesso di un pezzo di pane. I
Borboni non hanno mai fatto cose simili. Firmato: Napoleone”. In conclusione, l’intervento
dell’8 giugno del 1864 del deputato Minervini: “Si sono condannati alla morte e colla
fucilazione anche nelle spalle (il che è contro la legge) individui volontariamente presentati. Si
sono condannati a morte i minori arrestati non nell’atto dell’azione….si sono passati per le
armi individui non punibili per brigantaggio…si sono condannate per manutengole di briganti
con complicità di primo grado le mogli dei briganti ai ferri a vita, e le figli e minori di 12 anni a
10 a 15 anni di pena”. “Quei poveri cafoni, che avevano combattuto o erano stati simpatizzanti
dei briganti, nei quali riconoscevano le loro idee di lotta e di amore per una patria reale, fatta
di piccole cose, di modeste realizzazioni, di pane e libertà, di vita frugale; che erano contro
tutti quelli che gridavano per una patria costruita a tavolino, astratta, ideata, pensata
appositamente per l’agiografia e per gli alibi dei potenti e dei prepotenti che non intendevano
cedere i privilegi acquisiti da secoli, quei poveri cafoni pagarono da soli il prezzo dell’unità
d’Italia”. Le carceri arrivarono ad ospitare dai 30 ai 40 mila detenuti politici che versavano in
condizioni disastrose. Riferisce Eduardo Spagnuolo: “Anche molti fiancheggiatori (i cosiddetti
manutengoli) pagavano con la vita l’appoggio ai briganti”. Alla fine del 1864 il Sud si poteva
considerare rappacificato, ma non era stato risolto il problema fondamentale che aveva
scatenato la prima grande ribellione della storia dell’Italia unita: la miseria e l’oppressione
sociale dei contadini meridionali.

BIBLIOGRAFIA

 L'altro Risorgimento, di Angela Pellicciari - Piemme, 2000.


 Il brigantaggio meridionale, di Aldo De Jaco - Editori Riuniti, Roma, 2005.
 Brigantaggio meridionale, di Tommaso Pedio - Capone Editore.
 Come il Meridione divenne una Questione, di Marta Petrusewicz - Rubbettino, 1998.
 La rivoluzione italiana, di Michael O' Clery - Edizioni Ares, 2000.
 I lager dei Savoia, di Fulvio Izzo - Controcorrente Editore.
 Il brigante, di Pompeo Onesti - Controcorrente Editore, 2001.
 www.ilportaledelsud.org, con il saggio di Giuseppe Ressa.
 www.adsic.it, con il saggio di Valentino Romano.

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